Scriveva Izet Sarajlić, poeta della Bosnia Erzegovina morto a Sarajevo il 2 maggio 2002: “Solo adesso che la mia testa si è coperta di brina, / che ho paura che il suono della campana possa essere per me, / solo adesso che si allontanano i violini, / so chi è il poeta. Poeta è quello, / quello che sempre ricomincia daccapo”.
Di Chiara Cremonesi (1936-2014) si potrebbe dire che tutta la sua vita (oltre che la sua poesia) è stato un “ricominciare da capo”: dopo la forzata rinuncia alle scuole regolari, è servito ricominciare a studiare per ottenere, con l’aiuto e l’incoraggiamento del nonno, la licenza media; dopo una giovinezza quasi da reclusa (ancora, in quegli anni, l’handicap fisico non era benvisto dalla società), è servito ricominciare a lottare per ottenere un posto di lavoro; dopo il pensionamento è stato bello riscoprire la vena poetica e ricominciare a tessere versi, fino alla pubblicazione del primo volume, Ad ali aperte (2000), splendido libro d’esordio che metteva a nudo l’anima esacerbata e in ricerca della non certo giovane poetessa. Ma anche in poesia per lei si è trattato di “ricominciare” sempre daccapo, di capire l’importanza di allontanarsi da certa retoricità e descrittività eccessiva, per prosciugare e affinare l’espressione, per giungere a pronunciare sentenze perentorie in uno stile sempre più scarno e acuminato. Ecco quindi nel 2006 la prova di maturità, la raccolta Lo zolfo dei giorni, dove l’aspetto ritmico - metrico e quello retorico risultano accuratamente ricercati, ma per nulla sovrabbondanti o superflui, mentre l’arte si satura di parole brucianti, disincantate, spietate nel denunciare le contraddizioni insopportabili dell’esistenza, i drammi nascosti dell’essere umano.
Attraverso il tragitto dentro questo inferno quotidiano (fisico e psicologico) descritto con feroce lucidità, Chiara Cremonesi non ha dunque risparmiato né al lettore né a se stessa il confronto con la realtà, anche la più squallida e opprimente: ma attraverso la poesia ha voluto sempre cogliere la bellezza del mondo e diffondere intorno a sé i valori profondi e immutabili che val la pena ricercare e coltivare.
Nonostante le sofferenze che avevano fin da subito solcato la sua esistenza, infatti, ella ha voluto esprimere in poesia anzitutto l’amore per la vita, l’attenzione ai sentimenti veri e profondi, i ricordi che la tenevano legata alle figure più importanti della sua vita: la madre premurosa e sensibile, il nonno affettuoso e lungimirante, gli amici. E in poesia ha sempre cercato di “ricominciare”, spinta da quella insoddisfazione che ci dà la misura del vero poeta, il quale vorrebbe folgorare il lettore, ma spesso si rende conto di non essere stato in grado di esprimersi con vera efficacia: e dunque ricomincia a correggere e a limare, non rinuncia mai a seguire le vie della poesia, continua a sfiancarsi quotidianamente per illuminare con il verso la vita propria e l’altrui.
Lettura
Amico mio poeta, non temere:
non sono le parole nere
– chiuse
nelle impilate pagine di un libro –
a rispecchiare, fragile, me stessa.
È dentro te che leggo la bellezza
del mondo, inabissata nella mente;
ed il ricordo d'ogni tuo pensiero
si fa memoria dei pensieri miei.
Non sono sola
– non sono più sola –
se tu mi dici d'aver pianto e riso
e che il vivere ti è costato tanto.
2000
Liberty
L’ebbrezza leggera
di un fiore
di ferro
sbocciato - forgiato –
da mani bruciate da fiamma
inesausta di bellezza.
Libellule tese nel volo
rapite da tenui volute
di ferro.
E poi volti fini,
nascenti da miti, lontani
in muto stornello, narranti
le fiabe cullate nei sogni,
nel marmo.
Balconi che occultano visi di donna
e sbuffi di gonna
fra adorne colonne
di marmo.
2003
Fumavano i camini
sui tetti nevicati
e il ghiaccio della notte
scolpiva stalattiti alle grondaie.
Da fessure di tegole sconnesse
il passero volava ai davanzali
a becchettare briciole di pane.
Tra poveri è assai facile l’intesa.
Le fanciulle di maggio
smuovono l’aria in abiti leggeri;
con gesti brevi sbrigliano i capelli
in onde sinuose al vento lieve,
odorano di rose appena in boccio.
Il tempo le percorre in trasparenza,
non hanno scorta di passato, ma
con rosei volti guardano al domani.
2006
La voce si diffonde nella sala,
legge i miei versi.
Si esaurirà indulgente nell’applauso
o busserà, leggera, alla tua fronte
chiedendo di restarti nella mente?
La sentiresti il giorno dell’angoscia
compagna della strada che percorri,
dove tra i sassi rotolanti
sotto il malfermo passo
pungono acute spine.
2007
È stato forse tutto vero
quel che hanno detto su di me
La poesia, che fluisce netta,
è fiamma d’oro che riscalda
o pianto asciutto che raggela
Resta insondabile la fonte
che mi congiunge all’infinito
Squallida sera
accecata di luce;
è tutta verticale, a fil di piombo;
crepe sui muri imbrattati di sfregi
e celle di vetrine taciturne,
anche l’ombra di me si è cancellata.
Ho un brivido di febbre solitaria,
e l’anima mi sfugge, impaurita.
Se varco il foglio bianco che ho davanti,
sconfino spazio e tempo
e il dolore che scrivo è senza data,
come la gioia,
liberi di narrarsi ogni momento.
Il nebuloso velo del futuro
lo tengo, con due dita, largo al vento
che abbia, vivi, i colori del mondo.
Quando lo lascerò
certo un poeta
ne coglierà le tinte sopra il mare.
2008
Non voglio altri cieli ed altra terra,
tornerò qui con la mia gente;
la terra sarà estesa all’infinito
e le radici fisse nell’eterno.
Il primo vento, espirato dal mare,
dissolverà le armi in sabbia fina.
e l’abominio
di sangue sulle strade,
dileguerà in un fulmine turchino.
Andrò, senza le strida dei motori,
gioiosa di bellezza, attorno al globo:
poi Lui mi attirerà nella Sua luce
e l’universo non avrà misteri.
2009
La fine ha fine dentro l’infinito.
Tu che sconfini gli orizzonti e vai
con la suadente luna oltre le stelle,
che sulla terra adduci la bellezza,
narrami l’oltre e l’oltre ancora
ch’io sia me stessa e non un vuoto grigio.
Leggere
Il lume tenue
dissolve le parole nere
in essenza profonda,
sorella al mio sentire
è melodia di sottili arpeggi,
di squilli alti più del sole
di cieco rollare di tamburi
ruminanti il passato.
Lo stanco vivere del giorno
si allevia in fantasmi di sogni,
brividi alati di farfalle
che precorrono il sonno.
2010
Dentro il caustico pozzo dell’oblio
ho stornato da me la tua sembianza.
Le parole consunte che ripeti
sfumano in fiato al gelo del tuo nome.
Solo nel sonno greve mi ritorni,
e a spalla a spalla m’intrecci la mano.
Un ranuncolo giallo ed una foglia
spaccano la saldezza dell’asfalto.
2012
Il pensiero filosofico (in senso lato) ha sempre affascinato Roberto Taioli, poeta, saggista, docente milanese: il suo retroterra culturale si riallaccia alla riflessione greca come a quella biblica e patristica, spazia dai versi lucreziani al karma induista; senza dimenticare l’influenza straordinaria che ha avuto su di lui la cosiddetta “linea lombarda”, da Luciano Erba ad Antonia Pozzi fino a Vittorio Sereni. Ed è a partire da queste fondamentali coordinate culturali che la sua poesia si è snodata, soprattutto nel corso degli ultimi due decenni, prima con Segnavia (1996), raccolta densa di echi montaliani e di riflessioni filosofiche, poi con il trittico dedicato alla Val d’Ayas e all’Alpe Cortot, una montagna aspra e “petrosa” dove il poeta ritorna da molti decenni, evocando e ricostruendo nella memoria la natura atemporale e quasi metafisica dei ruderi, delle pietre, degli edifici superstiti alla devastazione del tempo.
Un ulteriore sviluppo della sua poetica si nota poi nell’ultima plaquette del 2006, Natura naturans, e nei recenti versi inediti, dove è ben visibile l’approdo ad un pensiero mistico intrinsecamente imparentato con la filosofia di Simone Weil, di Edith Stein, di Cristina Campo; questo porta la poesia di Taioli ad assumere un respiro cosmico e lato sensu religioso, senza che mai egli perda di vista le realtà concrete e i rapporti umani significativi. In particolare il poeta non può prescindere da due eventi per lui esistenzialmente cruciali: la morte del padre e i reiterati colloqui con Michele Do, straordinaria figura di prete, amico di Primo Mazzolari, di David Maria Turoldo, di Ernesto Balducci. Da un lato dunque la percezione di aver forse trascurato in vita il dialogo con il padre spinge il poeta a un dialogo con lui sempre più intimo, che conduce il figlio al raggiungimento di una profonda pace interiore e ad un nuovo incontro in absentia con il genitore. Dall’altro lato il lungo e profondo rapporto con il prete piemontese si traduce in pagine di sofferta ricerca negli alpestri luoghi amati, dove la presenza divina è costante e interpellante, mentre il paesaggio (reale o metafisico) si fa occasione di ricordi e rievocazioni, di amarezza e sollievo, di domande senza risposta, di preghiere quasi mute.
Non dire lo sconcerto
nell’ora del crepuscolo:
la nuova primavera assale
di nebbie e squarci di sole
il tuo cammino sull’orlo
del tuo limite. Forse
è questo clinamen
questa devianza delle cose
il solco impreciso
che ti fa stare quaggiù;
o forse il tuo peso
è questo lento radicarsi
del tempo, questa fatica
grigia e impervia che dura
come l’ultima salita.
Cos’altro t’attende?
La curva è cieca
la svolta senza margine
e il tuo nome è scheggia
breve come l’aforisma.
Nel finale si congeda
breve la tua lettera
scritta a sghimbescio
ritrovata gialla
nella pagina tarlata.
Non più ricordavo
che l’avevi mandata.
In nuvole di polvere
passarono quegli anni
senza età
d’un fiato corsi.
Quel discorso allora
di pigrizia quotidiana
di stanchezza a scrivere
per chi appartiene
alla – dicevi – tribù
poetante mi scavava
nel solco d’inchiostro
oggi un poco mi graffia.
Nel ventennio che separa
(forse anche di più)
c’è stata tra l’altro
la tua morte
e tanta altra vita
consumata – Vittorio –
nell’aurora giovanile
in quella scossa a cercarti
al di là della carta.
A me allora
tu esitante forse eri
maestro nascosto
fuggito in quel bianco
posto di vacanza.
E adesso che rileggo
il tuo rapporto,
da laggiù non so se sai
barlume di me
che ritrovo il tuo
esile graffio di penna
il tuo dubbioso porto.
Biciclette volavano
(quando ognuno si rintana)
mangiavano la strada polverosa
fino al paese di sotto.
Calavano come falchi
sospinte dal vento
una davanti all’altra
cavalcata da un ragazzo
a mordere la strada.
Si tornava poi senza ansia
davanti all’albergo
ancora muto
dopo pranzo
quando la gente dormiva.
E tu avevi saltato il sonno quel giorno
volando con me tra terra e cielo.
Challant si piega
nella sua ferita.
Urge andare all’oltre
ove il monte si spezza in altro monte
e un paese insegue l’altro
sul poco fiato della strada.
Vennero e scompigliarono
poi sedarono rivolte
ed eressero mura a ridosso
dei colli, fecero battaglie e paci,
amori e preci
al dio dei venti
al dio dei laghi
alla Madonna delle nevi
e poi restano capitelli
come esili paracarri
sul filo delle acque.
Non vidi il padre
ma il padre nel figlio
lui che lo lasciò
lo infranse nella morte
e l’altro lo raccolse
come pelle e pane
e me lo svelò
ora che non c’è più
più chiaro nelle tenebre.
Lo dissepolse vivendo
per me
lo rese invisibile
e io lo riconobbi
lo rincorsi lo cercai
ma fuggì evaporò
svanì nei folti silenzi
mi parlò senza parole.
Al compianto dei morti
la terra sa l’odore dei fiori spenti
prima d’esser cambiati.
Ma sono fiori e la terra,
non i morti che hanno il respiro
dei vivi . Esseri di mezzo
partecipiamo di qua e di là
anche al compianto di noi stessi,
della parte nostra che è morta in loro.
Da tempo a tempo
come donne senza tempo
Il volto ti rappresenta
avanti al mare tra le foglie.
La stessa casa
un’altra donna seduta
tra scalini d’ardesia.
Eri tu sei tu
in un rimbalzo
ti vedo così
accovacciata
tra il vento fresco
che gonfia le gonne.
Ora che nulla più ti serve di quaggiù
lascia che sia io a custodire
il lungo cappotto verde
che ti segnò la vita
degli ultimi anni
e che riposa afflosciato
per sempre là dove lo lasciasti.
Libera di pesi
senza più freddo e affanni
siamo noi che chiniamo la testa
sulla terra.
Non m’accorgevo ma eri.
Così perso naturalmente mai
la sera fioriva di gelo
e quelle luci di tram in lontananza
bucare a sera il buio della via.
L’umanità non serve
per raccogliere i cascami della vita.
Il tram rigira scuro nel binario morto
vuoto alla fermata.
Quante volte salisti
o discendesti in fretta per tornare
a casa a notte fonda
ove nascondere il domani
che verrà o non verrà
nascosto tra le foglie del viale.
In occasione dei suoi novant’anni così si esprimeva Luzi: “Più siamo prossimi alla morte, più si entra in confidenza con lei. Quando siamo un po’ al di là della ‘siepe’, questa frontiera perde consistenza. Penso che un po’ tutti, con la vecchiaia, acquisiscano questa serenità del passaggio ad un altro livello di presenza nel creato. Senti che c’è questo transito naturale, a cui non puoi opporti e che accetti proprio come fatto di natura”. La morte, dunque, come un passaggio naturale, necessario per accedere a un livello diverso e più intenso di vita. È questo lo spirito che si coglie nei testi postumi pubblicati da Garzanti nel 2009 con un titolo tratto da quella che è forse l’ultima poesia scritta dal grande poeta fiorentino: Lasciami, non trattenermi.
Questi testi esprimono ancora la costante ricerca luziana del senso della vita e la felicità della scoperta che tutto nel mondo è necessario, significativo: ma tocca all’uomo scoprire e intendere “la gioia / e il dolore del creato / di fronte al suo miracolo” (L’aquila, la sua alta richiesta), inseguire il Dio che procede “nella penombra” mentre il poeta al buio inciampa o sbanda, sempre avanzando verso la luce, guidato da quella “fede che smuove le montagne” (Partimmo – rischioso era il cammino). È un Cristo (quello di Luzi) che resta sempre misterioso, anche qui dove “faticosamente disincarna / la sua dolorosa incarnazione” (Frattanto scoscende l’uomo-dio); è un Dio che il poeta interroga sul futuro oltre la morte fisica (“Dove / e come saremo?”, Noetica; “Oh Dio del mondo / quando sarò rinato?”, Nello stormo), rintracciando nell’universo i segni della “molteplicità / dell’unico che è” (È lì, oltre la balaustrata).
Sono testi “petrosi” quelli raccolti in questa silloge postuma, impervi ed enigmatici, ma nitidi e intensi: dove accanto a “stelle, pianeti, angeli” (Astor) Luzi non cessa di ammirare oggetti quotidiani come l’Arno che “prepara il suo settembre” (nella poesia omonima), le colline (Desiderium collium aeternorum), “la via brulla di Siena” (Anche una volta), aironi e germani (Vicino alla sorgente), chiocciole e bruchi (L’aquila, la sua alta richiesta), “le pecore, / gli armenti” (Ecco, c’è movimento), “le antilopi, i mosconi” (Oh, quanti sono); e fiumi, mari, monti, animali, piante, cieli, campagne, ruggine, vetro, metallo, marmo, pietrame, torri, mura, campanili, meridiane, balaustre, caligine ed argento, oro e turchese, “miscuglio d’ogni colore e tinta”, in una fantasmagorica e iridescente summa dove è possibile cogliere “la vita [che] si trasforma in sé perpetuamente” (Noetica), “l’armonia sovrana” del cosmo (Astor), “l’ordine, / la necessità in cui siamo / […] tutti insieme, / noi creature” (L’aquila, la sua alta richiesta).
Veramente un canto senile (come titola uno dei testi più belli della raccolta), che però non si chiude nel pessimismo, nel disincanto, nella rinuncia, ma dilaga con straordinaria felicità.
Scriveva con lena il suo poema
lui, ma l’anima dov’era?
Non c’è in queste sillabe,
respira
appena
nella chiara linearità del tema.
Dov’era la sua celeste vena?
altrove pasceva il suo patema,
il sogno, lo sgomento…
O forse sono io che manco
al misericordioso appuntamento,
non ne colgo l’immanenza
nel deserto
delle lasse, delle stanze,
postero disattento,
ascoltatore inesperto.
È fioca la sua voce
sì, ma non in ogni parte.
Gioca
con la mia ottusità
come allora con lui scriba
lei ubiqua, lei inafferrabile,
canta nell’universo,
risponde da altri lidi
a quella latitanza.
Oh come il senso della vita cangia,
come l’immagine sua danza!
Partimmo – rischioso era il cammino,
finimmo in questa fossa
dove a stento entra un barlume
del giorno che lassù,
sentiamo, raggia cristallino.
Avanza lui nella penombra, io
al buio lo seguo o lo precedo, inciampo,
sbando, ma il corpo ci presidia,
da passi rovinosi ci trattiene,
la memoria degli arti
ci orienta e ci dirige
senonché
lontano è,
se c’è il forame dell’uscita
e lui già smania, anela
la luce, la salvezza.
La pazienza tace, non gli
dice niente la scienza
sua che non sia fallace…
e io: fede che smuovi le montagne: facias.
Alzati a volo fin che puoi, raggiungilo
qualunque sia
il tuo apice d’ascesa
e d’altitudine, discendi
poi nella profondità dell’aria
e nella tenebra del mare
non però a capofitto, attento!
evita i gorghi
d’oscurità
da cui è difficile riemergere
e di essi dire ti è negato –
lo sappiamo.
Sta’ nei limiti tuoi, usa
la calma, la perseveranza,
l’attenzione dei sensi,
della mente – questo dicono
esperti consiglieri alla mia insufficienza
non sapendo che il patto è già concluso
tra ansia e finitudine
e c’è pace terrena e ultraterrena, c’è.
Di te molto, mia terra,
mi è inciso
nell’anima e nel viso,
mi è scritto nelle carni,
ma tu di me rechi pure qualche traccia,
ti prego, non polverizzarla
del tutto, finché tutto sia compiuto.
Frattanto scoscende l’uomo-dio
dentro l’abisso
della sua profondità,
scompare a sé medesimo,
faticosamente disincarna
la sua dolorosa incarnazione,
discrepa con dolore
dalla sua materia
ma non se ne scompagna:
e il tempo, il suo ricordo
brucia tutto di sé
nella luce di un lampo…
È pura analogia
pensata
dal pensiero onnipensante
o accade precisamente?
accade, accade
l’analogia
come accade l’evento,
l’eveniente.
Tutto è compiuto?
oppure ha cominciamento?
L’aquila, la sua alta richiesta
di vita
d’aria
e volo
ci sovrasta
eppure non umilia
il nostro terra terra
di chiocciole e di bruchi,
c’è concordia
con il nostro tardigrado rettare,
col remeggio delle pinne
e delle branchie
dei pesci e dei molluschi
nelle profondità del mare,
l’ordine,
la necessità in cui siamo
ci congiunge tutti insieme,
noi creature.
Nell’aria
al suolo
si incrociano,
si guardano,
si conoscono,
si ignorano
il movimento delle schiere,
le crociere degli stormi,
il turbinare
brulicante degli sciami.
Quieta è questa agitazione
vi si esprime la gioia
e il dolore del creato
di fronte al suo miracolo…
In quella inquietudine è la quiete,
è l’essere anche quando
in un lampo di grazia
giubila e si comprende
negli occhi di una santa adolescente.
Tu gioventù che avanzi
e splendi
e fai apparire opaco
tutto quel che non sei tu…
Ignora non di meno
chiunque
il tempo quando coglierti.
Al principio
a mezzo
all’estremo
del tuo increscere,
quand’è
frutto, che pendi
più luminoso dal tuo ramo?
Non sa nessuna sorte
niente di sé
ma impera…
Oh gioventù, sii vera,
dissolvi le tue remore,
quando è l’ora…
Lasciami, non trattenermi
nella tua memoria
era scritto nel testamento
ed era un golfo
di beatitudine nel nulla
o un paradiso
di luce e vita aperta
senza croce di esistenza
che sorgeva dalle carte
ammuffite nello scrigno.
E lei non ne fu offesa,
le nascevano, né sentì prima rimorso
e poi letizia, impensate latitudini
nella profondità del desiderio,
ecco, la trascinava
una celestiale oltremisura
fuori di quella ministoria, oh grazia.
Si scioglievano
l’uno dall’altro i due
e ogni altro compresente,
si perdevano sì,
però si ritrovavano
perduti nell’infinito della perdita –
era quello il sogno umano
della pura assolutezza.
Nonostante le numerose raccolte edite in vita (si ricordino, tra le più importanti, Le mosche del meriggio, 1958, L’osso, l’anima, 1964, L’aria secca del fuoco, 1972, La discesa al trono, 1975, Marzo e le sue idi, 1977, L’allodola ottobrina, 1979) e l’omaggio postumo resogli da Mondadori nel 1990 con la pubblicazione dell’antologia Poesie 1943-1979, Cattafi resta tuttora quasi ignorato dal grande pubblico e dai critici. Ed è un peccato che questo poeta (e pittore) di grande intensità emotiva non abbia il meritato riconoscimento.
L’entusiasmo comunicativo che lo contraddistingueva attingeva alle sue numerose e variegate letture, che spaziavano da Ungaretti agli ermetici, dalle avanguardie europee al surrealismo, dagli americani di Vittorini ai contemporanei spagnoli, senza dimenticare l’influsso che a lui derivava dalle frequentazioni artistiche cui si dedicò nel corso della non lunga vita (1922 – 1979) e gli incontri milanesi con letterati e critici come Giovanni Raboni, Vittorio Sereni, Vanni Scheiwiller, Carlo Bò, Giansiro Ferrata, Sergio Solmi.
Siciliano “esule” a Milano per vent’anni (1947 – 1967), Bartolomeo Cattafi era sostanzialmente insofferente alla routine quotidiana, per cui, ottenuta una relativa indipendenza economica, alla fine degli anni sessanta abbandonò il poco amato incarico giornalistico e tornò in Sicilia con la moglie, dedicandosi esclusivamente alla poesia e all’attività grafica. Partito da un iniziale descrittivismo, egli giunse via via a “un registro sostanzialmente astratto-speculativo (aperto, con frequenza, a inflessioni oniriche e cadenze ‘oracolari’)” (G. Raboni); in tal modo la realtà descritta, senza mai sparire totalmente, si trasfigura e quasi mitizza, donando al dettato una densità metaforica straordinaria. La scrittura parte ancora sempre dalla terrestrità, dalla concretezza dell’oggetto (come ebbe modo di dire in un’intervista, egli considerava quella del poeta “una pura e semplice condizione umana […] un modo come un altro di essere uomini”), ma attraverso l’attenzione amante del poeta / pittore l’oggetto finisce per rivelare le sue caratteristiche più nascoste e profondamente vere.
L’ultima stagione creativa lo porta infine a una ricerca religiosa intensa e personale: abbandonata l’illusoria speranza di poter comprendere razionalmente il mondo, egli si dedica a tracciare un bilancio della propria esistenza. Ne sono fulgidi esempi La Grazia, testo confluito postumamente nella raccolta Codadigallo, cui il poeta lavorò alacremente negli ultimi mesi di vita dopo che gli era stato diagnosticato un tumore ai polmoni; e Geografo, un autoritratto, quasi un testamento spirituale in minore, che egli scrisse pochi giorni prima del suo ultimo Natale.
Le Eolie le azzurre parole
sono sorte nell’acqua nel mattino di gioia
come vergini calme con un faro
bianco nel cuore
una linda nuvola sopra.
La stagione finisce in questo suono
di eriche e di vento. Va’ amore,
o macchia della mente, rosa triste
desisti dal dominio.
Là in esilio riluce il vagabondo
frammento d'una stella, l’altra sorte
travolta in altri cieli.
(Danza ancora allo specchio
col piede smuovi la cipria
d’un raggio invernale, e piega il collo
piega il collo al solletico
d’un topo impaziente.)
La stagione è finita; ancora vivono
il dente infisso nel centro della mano,
ciò che la spina lentissima ci scrisse.
Una lampada gracile, l’allodola
rientra incerta, s’addentra sull’immoto
colore di brughiera.
Si
parte sempre da Greenwich
dallo zero segnato in ogni carta e in
questo
grigio sereno colore d’Inghilterra.
Armi e
bagagli, belle
speranze a prua,
sprezzando le tavole dei
numeri
i calcoli che scattano scorrevoli
come toppe
addolcite
da un olio armonioso, in un’esatta
prigione.
Troppe
prede s’aggirano tra i fuochi
delle Isole, e navi al
largo,
piene, panciute, buone
per essere abbordate dalla
ciurma
sciamata ai Tropici
votata alla cattura
di
sogni difficili, feroci.
Ed alghe, spume,
il fondo azzurro
in cui
pesca il gabbiano del ricordo
posati accanto al
grigio
disteso colore
degli occhi, del cuore, della
mente,
guano australe ai semi
superstiti del mondo.
L’autunno ha mari teneri, ha colori
che calme navi tagliano; cadranno
foglie e cieli sospesi per un filo.
Andare sino all’albero, sedersi,
entrare in confidenza con l’inizio
di radiche più avide e vive verso il basso.
Abbiamo accanto povere fredde cose,
bucce, bottiglie, frammenti di memoria,
più in là c’è il mare.
«L’ultima domenica», e ci trovi
ancora ansanti, il cuore
un poco stanco per la festa,
branco che più non fugge, prede
colorite dal ferro irto nel mondo
dal vino, dai fuochi solitari.
Ci vinse
questa striscia di fumo sulla terra,
fu sempre obliqua l’ombra
che ci seguì in silenzio.
D’accordo, amore. Espungiamo
dal
testo perle d’acqua
su petali,
le
frange estese,
le bolle della schiuma.
Le cose lietamente
necessarie.
Togliamo anche
l’acqua l’aria il
pane.
Giunti all’osso buttiamo
fuori della
vita
l’osso, l’anima,
per credere alla
tua
tabula che mai
avrà l’icona, l’idolo,
la cara calamita?
Esitò
sul filo della soglia
entrò e fece il giro della
stanza
si posò in un angolo d’ombra
benché
disvelandosi di poco
si vide ch’era
di struggente
bellezza.
Mal me ne incolse quando
un fremito percorse le
sue ali
preda d’un vento interiore
e foglia fiore
vagante farfalla
del mio mondo perduto
volò via.
La
mosca ronza
sulla parola mosca
la stuzzica per farla
volare
dalla carta
la mosca ignora
che quell’altra mosca
–
bisillabo inchiostro sulla carta –
non è più
sua compagna
ma nostra.
Tu che mi scorri accanto
come un’acqua fedele nel cammino
di volta in volta raddrizzi paesaggi
storte visioni
alle cose imponi
una dolce chiarezza
e l’enigma è sciolto
tutto in un filo
il cammino allungato.
Queste
cose terrestri
che scoppiano tra i piedi come rose
le
raccatti ammirato le porti
ai più alti ripiani
e
perdi il lume degli occhi
non vedi
le altissime cose
cadute
in frantumi.
Non è nemmeno un anno
che frigni e sorridi a questo mondo
apertosi per te
inesplicabilmente colorato.
Oggi in partenza da Villa San Giovanni
in braccio a tua madre dietro
un vetro del diretto per Milano
fai ciao con la manina al mondo
(che qui è lo Stretto di Messina
uomini pensiline
un’aria estiva, immondi
rifiuti ferroviari)
saluti forse anche me
al seguito del mondo
ora che il mondo vive
o fa finta di vivere per te.
Sarebbe
dunque in questo lividore
d’aria la grazia
che fa
cadere a fiocchi
gelo candore oblio?
e dove metteresti
l’altra grazia
che c’imbratta la faccia
di
fiamme e fumo
che ci rammenta d’essere
schiatta di
legna da ardere al buon Dio.
(Cimbro, 4 dicembre 1978)
Non ho altro da dirvi
ho detto tutto
quel che dovevo su mari monti selve
tribù amiche-nemiche
non ho altro da dirvi
per mentirvi
tutto ho stravolto mutato adattato
a un diverso disegno
ho parlato di me
ho confessato andando
dal massiccio montuoso all'alga all'erba
spinto dalla bisogna
ad una verità vestita di menzogna.
(Mollerino, 18 dicembre 1978)
In questa notte la grande storia (il decreto di Cesare Augusto, il governo di Quirinio) resta sullo sfondo: è meno importante della piccola storia di un bambino che nasce in povertà e solitudine, nella quotidianità più disarmante, privo di tutto, tenero e inerme. Dio lascia così la sua onnipotenza e viene a piantare la tenda in mezzo agli uomini, nel punto più distante da casa sua, nello spazio feroce di quelli che tradiscono, violentano, uccidono.
Natale è una storia di sconfinamenti: Dio che lascia l’infinito per confinarsi “nell'ultima delle città principali di Giuda” (Mt. 2,6), ai confini del grande impero; Dio che si fa bambino nello sconfinato tremore di una madre e di un padre esuli e respinti; Dio che nasce per amore degli uomini, sapendo che essi lo metteranno al confine del proprio amore, conducendolo al disonore della croce; Dio che è accolto solo da chi è ai confini del giudizio umano, come i pastori, o viene dai confini del mondo, come i Magi.
È una scelta inattesa, folle, assurda. Nasce un Dio bambino che non può risolvere i nostri problemi, ma anzi ne creerà di nuovi con la sua inconsueta predicazione. Nasce da una fanciulla che ha accettato di cambiare i propri progetti per accogliere quelli di Dio. Nasce nel silenzio di una notte che si fa improvvisamente luminosa. Nasce per sconvolgere le certezze: per “portare ai poveri il lieto annunzio" (Lc. 4,18), per colmare di beni gli affamati e rimandare a mani vuote i ricchi (Lc. 1,53). Anche oggi Dio nasce in un mondo che non lo cerca e non lo attende: in un mondo che non ha pace né equità né giustizia. Nasce per richiamarci a non contare sulle nostre forze, ma a fidarci di Lui, anche se questo sembra assurdo. Nasce per cancellare il “grande timore” e darci al suo posto “una grande gioia” (Lc. 2,9-10). A patto che siamo disposti a farci insonni e disponibili come i pastori, impazienti e sognatori come i Magi.
Razionale e insieme passionale, anticonformista e piccolo-borghese, decadente e al tempo stesso realista, Pasolini ha sempre vissuto nel segno della contraddizione, senza mai venir meno ai suoi ideali, proponendosi spesso con la sua «disperata vitalità» come coscienza critica di una società che ha mostrato di non saperlo accettare né capire fino in fondo. Incomprensione e rifiuto di cui in qualche modo la sua morte (1975) è tragica metafora.
Il suo esordio avviene a vent’anni, nel 1942, con la pubblicazione a Bologna, dove era nato nel 1922 e allora viveva, delle Poesie a Casarsa, quattordici componimenti in dialetto casarsese che mostrano già una maturità e una pienezza espressiva straordinarie, all’altezza della grande poesia in dialetto otto/novecentesca dei Tessa - Delio Tessa (1886-1939) poeta dialettale milanese -, dei Giotti - Virgilio Giotti (1885-1957) poeta dialettale triestino -, dei Firpo – Edoardo Firpo (1889-1957) poeta dialettale genovese -. Casarsa è il paese della madre, e Pasolini sceglie il suo dialetto perché lo considera una lingua vergine in grado di evitare il degrado che quella italiana stava subendo, una lingua capace di esprimere sentimenti assoluti, di celebrare realtà e valori ormai persi nella «società dei consumi».
I paesaggi friulani che fanno da sfondo ai testi sono pertanto imbevuti di disperata nostalgia per un mondo arcaico fatalmente destinato a dissolversi, per l’innocenza primigenia che la modernità non salvaguarda. Nel 1954 queste poesie entreranno a far parte di una nuova silloge in friulano, intitolata La meglio gioventù, ripresa vent’anni dopo nella raccolta La nuova gioventù (1974), dove negli ultimi componimenti al friulano si sostituisce l’italiano.
D’altronde sempre negli anni quaranta Pasolini aveva iniziato a comporre testi in lingua, che verranno però raccolti soltanto nel 1958 nella silloge L’usignolo della Chiesa Cattolica: qui al tema del rimpianto per la fine del mondo contadino il poeta accosta le prime rivelazioni sulle proprie scelte sessuali e sul travaglio che lo porta dal cristianesimo al marxismo. Questa scelta di campo risulta ancora più evidente nel volume Le ceneri di Gramsci (1957) che comprende undici poemetti, per lo più in terzine, dove è protagonista il sottoproletariato romano (che avrà ancor più rilievo nei romanzi Ragazzi di vita (1955), Una vita violenta (1959) e nei film coevi Accattone (1961), Mamma Roma (1962), La ricotta (1963).
La produzione poetica prosegue con La religione del mio tempo (1961) e Poesia in forma di rosa (1964), dove con crescente asprezza Pasolini condanna l’ipocrisia e i falsi valori del mondo borghese, cui fu sempre ostile, ma da cui fu anche affascinato e inesorabilmente attratto.
L’ultima raccolta è Trasumanar e organizzar, edita nel 1971, che segna il definitivo rifiuto di ogni convenzione letteraria, nella convinzione che non vi sia ormai più posto per un pensiero che voglia «spiegare il mondo», perché la realtà può solo essere vissuta e mai interpretata razionalmente.
Fantassuta, se i fatu
sblanciada dongia il fòuc,
coma una plantuta
svampida tal tramònt,
"Jo i impiji vecius stecs
e il fun al svuala scur
disínt che tal me mond
il vivi al è sigúr".
Ma a chel fòuc ch'al nulís
a mi mancia il rispír,
e i vorès essi il vint
ch'al mòur tal país.
«Ma
noi predichiamo Cristo crocifisso:
scandalo pe’ Giudei,
stoltezza pe’ Gentili.»
Paolo, Lettera ai
Corinti
Tutte le piaghe sono al sole
ed Egli muore
sotto gli occhi
di tutti: perfino la madre
sotto il petto,
il ventre, i ginocchi,
guarda il Suo corpo patire.
L’alba
e il vespro Gli fanno luce
sulle braccia aperte e
l’Aprile
intenerisce il Suo esibire
la morte a
sguardi che Lo bruciano.
Perché Cristo fu ESPOSTO
in Croce?
Oh scossa del cuore al nudo
corpo del
giovinetto... atroce
offesa al suo pudore crudo...
Il sole
e gli sguardi! La voce
estrema chiese a Dio perdono
con un
singhiozzo di vergogna
rossa nel cielo senza suono,
tra
pupille fresche e annoiate
di Lui: morte, sesso e
gogna.
Bisogna esporsi (questo insegna
il povero
Cristo inchiodato?),
la chiarezza del cuore è degna
di
ogni scherno, di ogni peccato
di ogni più nuda
passione...
(questo vuol dire il Crocifisso?
sacrificare
ogni giorno il dono
rinunciare ogni giorno al perdono
sporgersi
ingenui sull’abisso).
Noi staremo offerti sulla
croce,
alla gogna, tra le pupille
limpide di gioia
feroce,
scoprendo all’ironia le stille
del sangue dal
petto ai ginocchi,
miti, ridicoli, tremando
d’intelletto
e passione nel gioco
del cuore arso dal suo fuoco,
per
testimoniare lo scandalo.
[…
] E in questo triste sguardo d'intesa,
per la prima volta,
dall'inverno
in
cui la sua ventura fu appresa,
e mai creduta, mio fratello mi
sorride,
mi è vicino. Ha dolorosa accesa,
nel
sorriso, la luce con cui vide,
oscuro partigiano, non ventenne
ancora, come era da decidere
con
vera dignità, con furia indenne
d'odio, la nuova storia:
e un'ombra,
in quei poveri occhi, umiliante e solenne...
Egli
chiede pietà, con quel suo modesto,
tremendo sguardo,
non per il suo destino,
ma per il nostro... Ed è lui, il
troppo onesto,
il
troppo puro, che deve andare a capo chino?
Mendicare un po' di
luce per questo
mondo rinato in un oscuro mattino?
È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
d'amore, dell'amore di corpi senza anima.
Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l'unico modo per sentire la vita,
l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
Del mondo antico e del mondo futuro
era rimasta solo la bellezza, e tu,
povera sorellina minore,
quella che corre dietro i fratelli più grandi,
e ride e piange con loro, per imitarli,
tu sorellina più piccola,
quella bellezza l'avevi addosso umilmente,
e la tua anima di figlia di piccola gente,
non ha mai saputo di averla,
perché altrimenti non sarebbe stata bellezza.
Il mondo te l'ha insegnata,
Cosi la tua bellezza divenne sua.
Del pauroso mondo antico e del pauroso mondo futuro
era rimasta sola la bellezza, e tu
te la sei portata dietro come un sorriso obbediente.
L'obbedienza richiede troppe lacrime inghiottite,
il darsi agli altri, troppi allegri sguardi
che chiedono la loro pietà! Cosi
ti sei portata via la tua bellezza.
Sparì come un pulviscolo d'oro.
Dello stupido mondo antico
e del feroce mondo futuro
era rimasta una bellezza che non si vergognava
di alludere ai piccoli seni di sorellina,
al piccolo ventre così facilmente nudo.
E per questo era bellezza, la stessa
che hanno le dolci ragazze del tuo mondo...
le figlie dei commercianti
vincitrici ai concorsi a Miami o a Londra.
Sparì come una colombella d'oro.
Il mondo te l'ha insegnata,
e cosi la tua bellezza non fu più bellezza.
Ma tu continuavi a essere bambina,
sciocca come l'antichità, crudele come il futuro,
e fra te e la tua bellezza posseduta dal Potere
si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente.
La portavi sempre dietro come un sorriso tra le lacrime,
impudica per passività, indecente per obbedienza.
Sparì come una bianca colomba d'oro.
La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico,
richiesta dal mondo futuro, posseduta
dal mondo presente, divenne un male mortale.
Ora i fratelli maggiori, finalmente, si voltano,
smettono per un momento i loro maledetti giochi,
escono dalla loro inesorabile distrazione,
e si chiedono: «È possibile che Marilyn,
la piccola Marilyn, ci abbia indicato la strada?»
Ora sei tu,
quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso,
sei tu la prima oltre le porte del mondo
abbandonato al suo destino di morte.
«Il viaggio non esotico, cioè non evasivo, conduce al proprio centro, all'identità profonda, ed è l'orizzonte che rende possibile la scoperta di sé»: questa affermazione di Roberto Mussapi (Cuneo, 1952) raffigura compiutamente l’idea che egli ha di sé come di un “viaggiatore della parola”, sempre alla ricerca di luoghi da conoscere e far conoscere, fossero essi spazi reali del mondo o luoghi del mito classico, territori della grande tradizione anglosassone o affollate stazioni delle nostre città.
Ciò che caratterizza la sua opera poetica è proprio questa costante ricerca del senso del viaggio (cioè della verità), quel «genere di verità che perdiamo sempre di vista, quella che la poesia ricerca per lo più invano, quella stessa che forse la morte rivela, in modo evidente ma incomunicabile, perché giunta troppo tardi: e cioè che l’amore, il semplice amore tra persone, si rivela all’ultimo momento come la sola verità» (così acutamente Yves Bonnefoy, introducendo la recente raccolta delle Poesie di Mussapi, edita da Ponte alle Grazie).
Nel suo dettato, che potremmo definire epico per la capacità di improvvisi straniamenti, per l’eleganza architettonica e la raffinata sensibilità, Mussapi ci propone tematiche esistenziali rivisitate come nuovi miti, con uno stupore attonito che fa apparire attuali e nello stesso tempo inconsueti luoghi, persone, animali, i più svariati oggetti. È infatti sempre partendo dalla concretezza dell’esperienza che egli sa offrirci parabole esistenziali dense di valori simbolici, mediante una costante tensione magica che fa del quotidiano un’esperienza fuori dall’ordinario.
In questo senso uno dei testi più coinvolgenti e innovativi è il recente Frammenti dall'esistenza di Maria (Raffaelli, Rimini 2012), una raccolta di sette lunghi monologhi che presentano, attraverso la voce narrante dell’arcangelo Gabriele, i momenti cruciali della vita della Vergine: la nascita di Gesù, l’annuncio dell’angelo, il ritrovamento di Gesù tra i dottori nel tempio, il suo lavoro nella bottega di Giuseppe, l’arrivo delle Marie al sepolcro, l’Ascensione, l’Assunzione. Attraverso le stranianti considerazioni dell’arcangelo Gabriele, cui “sfugge il mistero ultimo dell’uomo”, il poeta indaga quelli che potremmo chiamare i retroscena, gli aspetti nascosti e quotidiani degli episodi in cui è coinvolta Maria: i suoi silenzi e le sue incomprensioni, i suoi presagi e le sue angosce, la sua gioia e la sua sofferenza, fino al momento culminante della sua salita al cielo, dove è accolta “regina nel suo regno di silenzio e ombra”. E Gabriele conclude con attonito stupore: “Io non immaginavo che una creatura umana / potesse superare la mia scienza / dicendo sempre sì, sempre, in silenzio”.
Deformate dai riflessi dei vetri
passano barche bianche abiti sciolti
vuoti del corpo, anime trasparenti
afflosciate sull’acqua, con voci acute
e soffi striduli di strega, cortecce
semiliquide di corpi scissi
precipitati immobili nel letto,
nelle stanze di nebbia dei pesci senza gola.
Scorrono le sembianze dei corpi sommersi,
i veli bianchi che si gonfiano al soffio
dei cani molli della foce, fuggono
lacerate dai morsi di donne senza corpo,
cranii spaccati che galleggiano e sono puro suono
e addentano per proferire versi
e hanno occhi d’alga che s’aprono
ad assenze infinite, amori inesorabili
di chi parte sull’acqua.
Appannate dal ghiaccio delle cornee
fuggono terrazze sospese sull’acqua
strascichi di sembianze alate
tormentate da sguardi, da gridi di gabbiano
passano secoli millenni nel gelo di una palpebra
fuochi che riconosciamo specchiandoci
nei vapori d’inverno, passi percorsi
e nuovamente nati prima del proprio corso.
Il pesce che devo amare i canti della
palude che si levano a sera e sono
la mia perdita continua, il mio tributo
al pellicano, qui come un impiccato tra
la terra e il cielo aspetto di disperdere ancora
di espandermi alla voce che mi ha chiamato
la Principessa che ho diritto di amare
il vento che mi allontana e che mi stanca
quello che perdo, quello che mi scompare
passiamo come anime sgusciate dall’immagine
riflessa, chiamate da un suono denso e molle dove
la luna apre lo sguardo al nulla della luce spersa.
Perché rinascere a quest’ora,
perché accendersi ancora in questo vento?
Tutto riposa, adagio,
resta un nucleo disperso
roccia silicea e povera,
tempo forato dal tempo, anni
che abbiamo lambito ognuno perso
nel suo grido, perso a un accenno.
Entra nel buio, acquattati
prendi i miei occhi, le mani, il silenzio
ma soffri più di lui, donati
al buio, non dubitare della tua presenza.
Rimani ferma nel dolore, ferma
per sempre, lasciati solo guardare, muori
se vuoi, purché tu sia visibile, vivente.
E io mi accenderò, quando
lo chiedi, adesso.
Non piangere, Harun, in questa notte d'agosto
quando le stelle cadono e la loro luce si dissolve
nel buio come la sabbia nel sonno:
se fossero sempre fisse e immutabili ti sarebbero estranee,
e il loro splendore immobile offenderebbe la tua carne.
Immagina che scendano per una compassione celeste,
incarnazione d'astri che si disfanno in polvere,
molecole di luce che si compenetrano al buio,
ricorda la storia del beduino Habib che si innamorò di una lucciola
e visse ogni istante della sua luce guardandola,
e disperò vedendola morire in una notte.
Ma dopo anni di pianto nel gelo del deserto
una notte all'improvviso lui la rivide
risplendere alta in una stella fissa:
la lucciola, l'errante, la luce fenomenica,
tornava dal cielo al beduino analfabeta.
Né tu, sultano, né il povero beduino,
avete pianto per una stella o una lucciola,
ma per la sola cosa per cui piange un uomo,
una donna: lì fu il dolore di luce persa,
premonizione astrale del tempo spegnente,
l'estinzione già inclusa nella ferita del miracolo,
e la distanza dal cielo, la morte.
Impara dal beduino, amala come si ama una lucciola,
donati a ogni suo istante di sopravvivenza,
e quando lei ti parrà persa nella notte
tu nei suoi occhi scoprirai di colpo
la luce alta delle stelle fisse,
e in lei che parve dissolversi in una notte di agosto
l'affinità mortale con te che la supplichi.
So che non è istantaneo il distacco,
né breve il sospiro di commiato
là nella troposfera vuota dove s’incontrano
il fiato del morituro e il soffio del trapassante,
lo so perché lo appercepii vivendo
e lo avevo già inciso in me prima di vivere.
E che anche la tua voce non si è spenta all’istante
ma in un tempo di ere da lunedì a mezzogiorno
per qualche ora tremolava nell’aria,
già sfarinata, come da bambino
sentivo la neve scendere, a Natale.
E non è breve la sua scomparsa, s’apprende
a soffi e claudicanti respiri interni
lì tra l’orecchio e la gola, dove ascolti
e dove ebbero origine la voce e il gemito,
e l’alba della vita melmosa e orante.
So che non è incorporea, la memoria,
lo so, tu me l’hai fatto vero, appena morto
ma che incorpora il morto nel corpo vivente,
come quando si spezza un vetro o esplode un singhiozzo
e dalle schegge e lacrime il bacio tra aorta e mondo.
Senti qualcosa spezzarsi, tra le fronde,
ma l’ombra ti consola, prima che finisca il giorno.
Nell’albero si strazia la mia carne
e mentre il ramo si spezza la linfa ascende,
e ora, ora, Mario, la parola s’informa,
disintegrata e infissa alla sua cellula…
È duro Amore staccarsi da Amore, ma all’unisono
si scerpa e si glorifica la carne.
Faceva troppo freddo quella notte,
la folla in viaggio, sparsa, si era ritirata negli alberghi
prima del tramonto, per proteggersi dalla brina nascente
che scintillava sulla sabbia come nevischio.
Mentre il buio scendeva la morsa li strinse,
non avevano trovato alloggio, lei vacillava
sul dorso dell’asino, ma sorrideva a Giuseppe
a cui negli occhi cresceva l’angoscia della notte
con il suo gelo già dal tramonto bruciante.
Fu lei, con la mano destra, che indicò la grotta,
un anfratto poco distante, interrato.
Si intravedeva un’apertura, la raggiunsero.
“Impossibile – disse lui – È troppo fredda.”
“Ci è stata data, sulla strada” rispose la donna
e sorrideva, già nelle doglie.
“Adagiami qui, ora accade.”
Poi tutto fu buio a me quello che avvenne dentro,
la conoscenza astrale e la carne divina
di cui siamo tessuti fibra per fibra
ha zone di buio, isole d’ombra:
il vuoto della caverna, il cuore della roccia…
A noi nutriti di luce siderea
sfugge il mistero ultimo dell’uomo,
che solo lui conosceva, lui nascente,
lo splendore del buio.
Ma io sentivo il respiro nella grotta,
là fuori, sulla soglia, in alto, a fare da scolta
ero nutrito da un respiro profondo
che gonfiava la terra di luce e vento
e rianimava le zolle salendo dagli inferi,
arando per la semina celeste.
Allora quando sentii la sua voce,
simile a un sorriso se il sorriso l’avesse,
confusa col belato di un agnello,
una voce radiante di regina,
sì, di regina nello stesso tempo,
allora fui libero di annunciare al mondo
che in quell’anfratto a bacino nella grotta
simile a una mangiatoia di pietra era nato
il cibo sognato per tutti i viventi
e i morti e i nascituri congiunti per sempre.
Nel mio fiato angelico, nell’abbagliante
luce che sprigionava dalle mie fibre e dagli occhi,
io li vedevo avvicinarsi, timidi,
poi sempre in numero e intensità crescenti,
in un buio che era divenuto di cobalto
sul pavimento di brina che splendeva sotto le stelle,
e mentre di fronte a lei e al bambino scaldati dall’asino
si buttavano in ginocchio per terra
io ora vedevo alle mie spalle, vedevo nel buio della grotta
sfericamente baciante la mia sfera celeste,
e non cessavo più di gridare e splendere
preso da un’euforia che non conoscevo dall’attimo
in cui ero venuto alla luce e all’universo.
Se fossi stato umano, avrei pianto.
«Si dice che all'interno dei quattro vangeli noti è come se ce ne fosse uno ancora sconosciuto. Ma ogni volta che la fede accenna a rifiorire, è segno che qualcuno ha intravisto quel Vangelo»: sono parole forti, quasi irriverenti, quelle che Mario Pomilio (1921-1990) ci rivolge nel suo romanzo più noto, Il quinto evangelio, edito nel febbraio 1975. L’opera suscitò immediatamente discussioni, apprezzamenti e dissensi, ma costituì, soprattutto per i giovani di allora, uno straordinario portolano, fonte di riflessioni profonde, di ripensamenti e riletture, di scelte coraggiose e anticonformiste.
Il romanzo ebbe inizialmente un successo straordinario di critica e di pubblico, tanto che in sei anni se ne realizzarono ben diciotto ristampe, anche se presto dovette subire la sorte di tutti i best-seller: ma se a tutt’oggi non è dimenticato, ciò è dovuto da un lato alla straordinaria forza di novità che ancora dimostra, dall’altro lato alla meritoria scelta della casa editrice L’Orma, che un anno fa ne ha proposto un’edizione rinnovata e accresciuta da una interessante Appendice (Tre scritti di Mario Pomilio), un’accurata Nota ai testi, una meticolosa Nota archivistica di Wanda Santini (che rivela Come lavorava Mario Pomilio) e un corposo saggio di Gabriele Frasca intitolato La verità, la ricerca e la consegna.
La vicenda del Quinto evangelio prende avvio dalle indagini dell’irrequieto protagonista, il giovane ufficiale statunitense Peter Bergin, «quasi agnostico in fatto di religione, e formatosi oltre tutto in area non cattolica» (come egli stesso si definisce nella lettera che apre il romanzo), inviato nel 1945 in una Germania ormai prossima alla disfatta in virtù della sua ottima conoscenza del tedesco. Egli alloggia per parecchi mesi nella canonica di una chiesa bombardata di Colonia, dove ha modo di interessarsi ai libri e soprattutto ai numerosissimi appunti del sacerdote che in quel luogo aveva lungamente abitato: e ben presto si appassiona alla ricerca che lo sconosciuto aveva iniziato di un fantomatico “quinto vangelo”. Diventa così «pellegrino di sogni» e, una volta tornato in America al suo incarico di ricercatore e poi docente universitario, si trova suo malgrado a orientare l’intera sua vita (e in seguito anche quella dei suoi allievi-discepoli) sulle tracce di questo introvabile vangelo, «il libro nascosto il quale soggiace alle Scritture già note e in perpetuo ne modifica e ne amplifica il senso».
La lettera che apre il romanzo è indirizzata al segretario della Pontificia Commissione Biblica, cui il vecchio Bergin, ormai vicino alla morte, vorrebbe affidare la prosecuzione della sua estenuante e infruttuosa ricerca; ma l’ultima lettera inviata al prelato dalla segretaria del professore lascia intendere che tale attesa è mal riposta. Dopo la morte del professore, i suoi discepoli scoprono tra le sue carte un dramma nel quale egli rivive i mille interrogativi suscitatigli dal miraggio del vangelo sconosciuto: è Il quinto evangelista, il testo teatrale che fa da suggello all’opera.
Scrive Pomilio nel colophon: «Occorre appena, credo, avvertire che questa è un'opera d'invenzione e che le stesse fonti che si menzionano o sono immaginarie (e la più parte sono tali), o sono adottate con la massima libertà. Un caso a parte è però rappresentato dalla "Storia di fra Michele minorita”, un effettivo rifacimento (camuffato, come s'è visto, dietro un altro rifacimento) dell'omonima narrazione scoperta e pubblicata per l'appunto nel 1864. Quanto alla "Giustificazione", il lettore avrà già intravisto in controluce qualche prestito dall'autobiografia di Giannone e dalle memorie di Da Ponte». Nonostante questa indicazione dell’autore, che vorrebbe sottolineare il carattere romanzesco dell’intera vicenda, bisogna dire che i riferimenti e le citazioni del fantomatico quinto vangelo non sono pura invenzione: in gran parte essi derivano dalle cospicue letture che Pomilio andava facendo negli anni sessanta, quando aveva cominciato a pensare all’opera. Erano infatti apparsi nel 1969 da Einaudi I Vangeli apocrifi a cura di Marcello Craveri e qualche anno prima una nuova traduzione dei quattro Vangeli curata da grandi scrittori come Lisi, Alvaro, Valeri e Bontempelli, di cui lo scrittore dice: «la lettura m’aveva portato a riflettere su molte cose insieme: sul potere, ad esempio, che ha una traduzione ben fatta di riavvicinarci a un testo e renderlo nuovo e nostro; su come, nel caso specifico [...] tale effetto risultasse misteriosamente raddoppiato; sull’errore che invece s’era commesso in area cattolica, rendendo canonica la Vulgata e scoraggiando così a lungo la diffusione dei Vangeli in lingua fresca, in lingua viva [...]. L’ idea del quinto Vangelo, del Libro dei Libri o dell’Apocrifo degli Apocrifi [...] germinò sicuramente da tutte queste cose insieme, in una certa febbrile mattina dell’agosto 1969».
E ancora non si dimentichi che negli anni sessanta erano finalmente disponibili anche ai non addetti ai lavori i testi gnostici scoperti nel 1945 a Nag-Hammâdi, in Alto Egitto, tra cui il Vangelo di Tommaso e il Vangelo di Filippo, che molto incuriosirono Pomilio; e venivano studiati e divulgati i manoscritti del Mar Morto, trovati fortuitamente nel 1947 nelle grotte di Qumran. Per questo Pomilio può affermare, riferendosi al Quinto evangelio: «ho inventato degli ipotetici documenti che avrebbero dovuto rassomigliare ai possibili documenti delle epoche alle quali mi riferisco [...]; anche se i personaggi sono diversi, il messaggio e l'esigenza rimbalzano dall'uno all'altro e la continuità del libro è stabilita dal fatto che queste persone sono tutte quante dentro una situazione che le raccoglie e le unifica». In sostanza il metodo con il quale Pomilio lavora consiste nel mettere sistematicamente a confronto testi apocrifi (o comunque extra-canonici), testi neotestamentari in rinnovate traduzioni, frammenti di pura invenzione, rifacimenti e interpolazioni di documenti d’ogni genere, generando in tal modo sequenze che mantengono una fondamentale omogeneità di tono rispetto al patrimonio canonico. Ecco dunque che il quinto evangelio, «il Testo immaginato, rincorso e presupposto dalla narrazione romanzesca appare – a chi legga consecutivamente le 153 tessere superstiti – come un’imponente inedita raccolta di detti di Gesù, situati come gli agrapha in posizione eccentrica ma non incompatibile rispetto a quelli conservati dai vangeli canonici» (W. Santini).
Opera polifonica, che assume via via le caratteristiche del romanzo e dell'epistolario, della narrazione e dell’autobiografia, dell'antologia e dell'opera teatrale, del saggio storico-biografico e dell'indagine filosofico-religiosa, del diario e della leggenda, dei verbali di interrogatorio e delle memorie private, questo testo «così fuori di ogni regola, così poco allettante, duro, impegnativo […] è tutto un libro di fantasia, e sembrerebbe tutto preordinato, mentre è nato per caso, secondo una specie di vagabondaggio spirituale, di curiosità nata via via, di continue svolte e imprevisti», come più tardi scrisse Pomilio stesso ad un’amica.
L’attualità dell’opera è riconosciuta dallo stesso autore, che in un’intervista del 1978 affermava: «Dietro le parvenze storiche del mio romanzo c’era … tutto un tessuto di rapporti all’attualità, c’era il brulicare dei fermenti del presente; addirittura, dietro i lineamenti di qualche mio personaggio, si sarebbero potuti riconoscere i tratti morali di certi personaggi d’oggi. A parte il fatto che l’esperienza fatta tra le pieghe delle storia del cristianesimo m’aveva convinto che quello che la Chiesa sta attraversando non è affatto, per essa, uno stato eccezionale. In forma più latente, e per i tempi più lunghi, il suo passato è pieno, a ogni svolta, starei per dire, dei problemi che oggi vediamo affiorare tutti insieme. Per dirla in breve, in virtù del mio “mito” m’accorgevo di star scrivendo un romanzo di piena attualità, col vantaggio di sfuggire ai rischi dell’impatto cronachistico, che ne avrebbero fatto un’opera meccanica, meramente esterna, di polemica scoperta. In definitiva, un libello-mito, se non altro, restaurava il mistero. E dietro le quinte (perché non dirlo?) non c’ero forse io, che utilizzavo una metafora per rispecchiare le mie attese e i miei dilemmi di cristiano passato anch’esso attraverso il fuoco del Concilio?»
Proprio questo riferimento al Concilio Vaticano II ci fa percepire con chiarezza l’attualità del messaggio che il romanzo ci trasmette: anche a noi oggi è chiesto di trovare un nuovo vangelo, non però rintracciando in qualche dimenticata biblioteca un libro ignoto, ma testimoniando con la nostra vita l’attualità delle parole del Cristo che ogni cristiano deve rendere sempre nuove e attuali. È questo il quinto vangelo che può rinnovare il mondo, come si augurava Giovanni XXIII lanciando la sfida del Concilio. Ed oggi, quando tra i cristiani (e non solo tra loro) sembra essersi aperto un sotterraneo ma bruciante confronto/scontro tra sostenitori e detrattori di papa Francesco e delle sue straordinarie aperture, appaiono veramente profetiche le contestazioni di Pomilio nei riguardi di una Chiesa mummificata nei dogmi, di un clero mondanizzato e indifferente all'ingiustizia dilagante. Non è un caso che le vicende che meglio caratterizzano il romanzo siano affreschi di grandi contestatori colti dal vivo nella loro reale vicenda o ricostruiti sul filo di voci leggendarie: il monaco greco, frate Eligio, fra Michele, Pietro da Narbona, Giosue Borgogno, il cavalier Du Breuil, Domenico De Lellis. Ed è proprio attorno a queste figure che Pomilio è riuscito a darci le sue pagine migliori, quelle ancor oggi più vive e attuali.
E perfino il titolo, apparso allora a taluno d’una spregiudicatezza degna degli strali del Sant’Uffizio, deve far riflettere i cristiani d’oggi sulla necessità di rinnovare, attualizzare e concretizzare il messaggio evangelico, perché esso non resti lettera morta o non diventi addirittura causa di “una condanna maggiore” (Lc. 20,47): il quinto vangelo va scritto da ogni uomo di fede con la sua intera vita. Come scrive Pomilio attribuendo il testo agli Itineraria di Eucherio da Lione: «il quinto vangelo è come un libro che il Signore ha lasciato aperto. Lo scriviamo tutti noi con le opere che compiamo, e ciascuna generazione v’aggiunge una parola».
Scriveva recentemente Gian Piero Bona, scrittore e traduttore piemontese ormai quasi novantenne, che la poesia “è vivere verticalmente ciò che gli altri di solito subiscono orizzontalmente”: di Angelo Visigalli si potrebbe proprio dire che ha sempre voluto vivere “verticalmente” sia la sua preziosa missione di insegnante, sia il suo lavoro, discreto e pensoso, di poeta. Egli riserva infatti alla poesia “una docile accoglienza”, la fa depositare nelle sue giornate “come viandante ed ospite / inattesa”, la riceve con disponibilità e gratitudine, per offrirla poi solo a quei lettori disposti a lasciarle spazio nella propria vita.
Visigalli è un poeta che sa essere lieve ed essenziale senza mai scadere nel sentimentalismo o nell’ovvietà: la sua poesia (che egli definisce “non letteraria” perché non fa riferimento a scuole, linguaggi o modelli particolari) ci è offerta come un invito alla riflessione e alla meditazione. D’altronde anche nella sua attività di docente ha voluto educare i giovani a quest’arte, facendosi promotore di numerose iniziative coinvolgenti e talora inconsuete in occasione delle “Giornate mondiali della poesia”, ogni anno il 21 marzo.
In particolare nei testi degli ultimi decenni vediamo il dettato sbriciolarsi in versi brevi ed icastici, come una musica sospesa e incantata, che si chiude però spesso con sentenze feroci, come “tentacoli urticanti / di meduse”. Questo vale per le poesie che potremmo definire d’amore, dove il poeta sa far risuonare i sentimenti più vari, dalla tenerezza alla trepidazione, dal timore al desiderio, dall’esitazione alla gioia, in una tessitura che non diventa mai puro descrittivismo, ma rilettura dei fatti e delle persone in chiave personale ed intima. Questo vale soprattutto in quelle che potremmo definire “poesie d’occasione”, perché nate da un incontro, una visione, un momento della stagione o del giorno, un oggetto visto sotto una luce nuova e così via: Visigalli sa offrirci queste realtà quotidiane (fiori, paesaggi, giardini incantati, animali più o meno comuni, ma anche accadimenti linguistici o comunicativi), tratteggiandoli con mano delicata nella loro recondita essenza, quasi a dirci che la loro vera ragion d’essere può essere colta solo da chi sa osservare con pazienza ed affetto, andando oltre la realtà tangibile, oltre l’apparenza, fino a giungere al nucleo pulsante della vita.
Cinquecento anni fa, il 22 aprile 1516, in un’oscura officina tipografica ferrarese, con una tiratura di un migliaio di esemplari usciva la prima edizione dell’Orlando Furioso: il successo immediato convinse Ariosto a una parziale riscrittura che portò alla seconda edizione del 1521, e poi a un rifacimento molto più radicale, che sfociò nell’edizione definitiva del 1532. Il passaggio dalla prima alla terza stampa implicò ovviamente grandissimi mutamenti di progetto sul piano letterario, linguistico e ideologico, in considerazione anche dei forti e veloci cambiamenti che segnarono la letteratura e la storia in quel pur breve lasso di tempo, durante il quale si determinò un nuovo ordine mondiale, si trasformarono generi e forme, e sulla scorta della proposta di Pietro Bembo esposta nelle sue Prose della volgar lingua (1525) si affermò il toscano letterario come nuova lingua nazionale. Ariosto seppe tener conto di tutto questo e s’adeguò ai rapidissimi mutamenti che si svolgevano sotto i suoi occhi, adattando via via il poema ai nuovi valori e stili di vita; anche se, come sottolinea Segre, si può essere d’accordo sulla bellezza di molte aggiunte del 1532, sulla perfezione dei ritocchi di stile e di struttura; ma nel primo Furioso c’è una libertà, una gioia di esprimersi, una felicità che il totale impegno formale forse sacrificò in parte.
Il bosco uno spazio interiore
Ma lasciando da parte ogni intento comparatistico, addentriamoci nel libro e osserviamo lo scenario che fa da sfondo alle intricate vicende che vi sono narrate: immaginate un bosco, un immenso bosco che copre tutta l’Europa (come realmente era qualche secolo fa) e in questo bosco immaginate dame e cavalieri, paladini e servi, cristiani e mori, uomini e cavalli che si incontrano, si scontrano, si battono, s’inseguono, si perdono e si trovano, si cercano e si sfuggono, si conoscono o s’illudono di conoscersi. Questo è anzitutto l’Orlando furioso: un poema vasto quanto un bosco medievale, ricco di alberi, cespugli, fiori, animali di ogni genere; un bosco come ne esistevano allora, così smisurato che veramente sarebbe stato possibile attraversare l’Europa senza scendere dagli alberi, come (in un certo senso) fa Cosimo Piovasco di Rondò, il Barone rampante di Italo Calvino.
Una foresta (con Bernard Berthet la si potrebbe definire una forêt précieuse per il suo ruolo fondamentale a vantaggio degli uomini medievali) nella quale si svolge la maggior parte delle vicende del poema, in «profonde / selve» (XII, 7) che si aprono però improvvisamente in radure luminose e fiorite, o vengono solcate da acque limpide di fiumi e torrenti (dalle quali però può uscire il fantasma di un guerriero ucciso e vilipeso), e infine si arrampicano sui balzi dei Pirenei percorsi a volo dall’ippogrifo, e si moltiplicano a specchio nelle valli e nelle montagne della Luna su cui approda Astolfo.
In ogni bosco, però, vi sono anche spiazzi e radure, come quella che si presenta agli occhi di Ruggiero in cerca di Bradamante, «un gran prato; e quello / avea nel mezzo un grande e ricco ostello» (XII, 7): si tratta del secondo edificio costruito dal mago Atlante (dopo il castello tutto d’acciaio nei Pirenei), un palazzo più che mai metaforico e simbolico perché rappresenta il luogo nel quale si concentrano tutti i desideri umani. Un palazzo in cui «a tutti par che quella cosa sia / che più ciascun per sé brama e desia» (XII, 20). E, come è giusto, anch’esso infine si scioglie «in fumo e in nebbia» (XXII, 23), perché il desiderio umano è insaziabile e inappagabile, per definizione: come commenta con finezza Calvino, cessa d’essere uno spazio esterno a noi, con porte e scale e mura, per ritornare a celarsi nelle nostre menti, nel labirinto dei pensieri.
Una ricerca lunga tutta la vita
Nel palazzo incantato erano finiti, per volere del mago Atlante, tutti i migliori cavalieri cristiani e mori, persi in una vana ricerca di ciò che stava loro maggiormente a cuore. Ma in effetti ogni personaggio del poema è en quête, in cerca di qualcuno o di qualcosa: Orlando cerca Angelica, la quale cerca un uomo che non sia un eroe (e troverà un umile soldato ferito di cui innamorarsi); Bradamante cerca Ruggiero e lui cerca lei fino in fondo al poema, e Astolfo è mandato a cercare il senno di Orlando fin sulla Luna; Cloridano e Medoro cercano il cadavere del loro signore sul campo di battaglia, mentre Ferraù cerca il suo elmo caduto nel fiume e Rinaldo il suo cavallo Baiardo sfuggitogli con astuzia più umana che equina; Isabella cerca Zerbino e Zerbino cerca Isabella fino a che entrambi vengono uccisi senza pietà. In effetti la ricerca è quasi sempre destinata a fallire, lasciando uomini e donne ad aggirarsi in un bosco che somiglia sempre più a un labirinto: perché in un simile spazio le strade non sono certo quelle ortogonali di un castrum romano, bensì circonvoluzioni strane, intrecci e intrichi di sentieri che possono far tornare un personaggio sui suoi passi (come capita ad esempio a Ferraù: «Pel bosco Ferraù molto s'avvolse, / e ritrovossi al fine onde si tolse») o far incontrare a un guerriero senza macchia e senza paura i fantasmi del suo desiderio inappagabile (è quello che succede a Orlando, capitato per sbaglio nei luoghi dove è deflagrato l’amore tra Angelica e Medoro e per questo destinato a impazzire, diventando, appunto, “furioso”).
Ci siamo tutti
Un bosco, un labirinto, o anche un arazzo intessuto, su cui si stagliano di profilo figure bidimensionali ricamate con abilità, episodi che si intrecciano in una trama e un ordito magistralmente costruiti, in ottave d’oro disegnate con la lingua dei grandi maestri toscani.
O ancora potremmo paragonare il poema a un’immensa partita a scacchi, nella quale ogni pezzo ha la sua mossa, fissa e inderogabile: così Angelica è la donna seducente da tutti concupita, Olimpia la bella donna sventurata e sempre tradita, Bradamante la guerriera totalmente fedele al suo amore; Astolfo si ritrova sempre tra le mani oggetti magici, Rodomonte impazza con la sua forza mostruosa, incapace di fermarsi di fronte alla delicatezza della donna che ingannandolo si fa uccidere; Atlante è il mago intenerito che cerca vanamente di salvare Ruggiero dal suo destino crudele.
Bosco intricato, labirinto inestricabile, arazzo intessuto tortuosamente, partita a scacchi sull’immensa scacchiera del mondo, il «poema dell’armonia» è quindi anche nello stesso tempo il poema magmatico del disordine, la celebrazione dell’incostanza e della precarietà, la manifestazione degli abbagli e degli incanti in cui cade l’umanità. Come dice Calvino, «la giostra delle illusioni è il palazzo, è il poema, è tutto il mondo».
Ma il libro, portolano non solo della Terra, ma perfino della Luna su cui sale Astolfo, nasce per la volontà ariostesca di riorganizzare questo caos, di ricostruire un universo di ordinata misura, nella malinconica nostalgia di un mondo cavalleresco che già ai suoi tempi era tramontato, ma i cui ideali secondo lui non potevano e non dovevano essere stravolti. E allora al protagonista Orlando (l’unico pezzo della scacchiera che non ha un ruolo fisso, ma deve impazzire prima di ritornare il guerriero saggio e gagliardo che evita la disfatta dei suoi) è concesso fin dal titolo di affrontare (e superare) la pazzia senza evitarla né demonizzarla, perché Orlando impazzito per amore è in ogni caso alter ego di Ariosto, come appare fin dalla seconda ottava del primo canto in cui ironicamente l’autore dichiara che potrà scrivere il poema solo se gli sarà permesso ancora di lavorare «da colei che tal (cioè “pazzo”) quasi m’ha fatto / che ‘l poco ingegno ad ora ad or mi lima…».
Sogni, speranze, paure
Diceva Italo Calvino che quest’opera contiene tutto il mondo e che in questo mondo è inscritto a sua volta un libro che vuol essere il mondo. Non per niente la metafora più calzante per definire l’Orlando furioso la troviamo nell’episodio del duello tra la guerriera Bradamante e il mago Atlante, il quale «da la sinistra sol lo scudo avea, / tutto coperto di seta vermiglia; / ne la man destra un libro, onde facea / nascer, leggendo, l'alta maraviglia: / che la lancia talor correr parea, / e fatto avea a più d'un batter le ciglia; / talor parea ferir con mazza o stocco, / e lontano era, e non avea alcun tocco” (IV, 17).
Dunque un libro magico (come ogni vero libro), che sa far nascere «l’alta meraviglia»; un libro denso di illusione e trasfigurazione onirica della realtà; ma anche un libro tutto concretezza e corporeità, perché Ariosto sa costruire con abilità e finezza paragoni arditi tra le vicende clamorose degli eroi e le umili faccende della vita quotidiana. Così per descrivere l’agguato di Cimosco a Orlando parla dei pescatori che nel delta del Po circondano le anguille con le reti, e quando Orlando trafigge i nemici con la sua lancia fa riferimento ai cuochi che infilzano tortellini sul forchettone e ai pescatori che infilzano le rane sullo spiedo.
Un essere straordinario come l’ippogrifo schiva i morsi dell’Orca come una mosca evita il morso del mastino, e a sua volta l’Orca tramortita dallo scudo magico di Ruggiero sembra una trota stordita con la calce; e quando tocca ad Orlando affrontare il mostro marino, la sua tecnica di battaglia ricorda il lavoro dei minatori che puntellano le gallerie dove scavano, mentre l’Orca è ridotta al rango di un toro preso al laccio; Orlando e Mandricardo combattono furiosamente, ma sembrano «duo villan per sdegno fieri» che litigano per un confine di campo o per un diritto d’irrigazione.
Mai più la «machina infernal»
È anche questa «quotidianità sospesa», questo intreccio inscindibile di aulicità e ordinarietà che contribuisce all’armonia dell’opera, un po’ come nei Promessi sposi l’alternanza di personaggi storici e personaggi inventati, di signori e plebei, di grandi scenari e di umili vicende di popolani. E se un solo capitolo, spremendo «il sugo della storia», giunge a compiere con lieto fine il testo manzoniano, ad Ariosto servono molti canti (compresi i sei aggiunti nella terza edizione) per concludere le intricate vicende del poema, fatto in realtà di tre poemi intrecciati e aperti alla libera circolazione dei personaggi: il poema brettone dell’amor cortese si conclude allora con i matrimoni felici e con il buffo ruzzolone di Angelica in fuga verso l’Africa con l’amato Medoro; il poema carolingio della guerra santa si conclude con la morte di Rodomonte e la sconfitta dei saraceni; il poema postmoderno del conflitto tra amore coniugale e libertà si conclude con la rappacificazione di Ruggero e Bradamante e la nascita della stirpe estense (se volete, parliamo pure di tema encomiastico).
«Ultimo dei romanzi cavallereschi e primo dei romanzi moderni», come giustamente lo definisce Chiara Fenoglio in un recente articolo sul Corriere della Sera, il Furioso combina inestricabilmente le vicende mitizzate dell’epoca carolingia e quelle dell’epoca ariostesca, che assiste attonita alla scoperta dell’America e all’elezione papale di Alessandro VI Borgia, alla discesa di Carlo VIII in Italia e alla diffusione delle tesi di Lutero, ai roghi dei presunti eretici e alle guerre tra Francesco I e Carlo V, dove le armi da fuoco mostrano definitivamente la loro terrificante disumana potenza. La speranza di Orlando, che scaglia l’archibugio (la «machina infernal») negli abissi perché non sia mai più usata, è destinata a risultare vana; e profetiche sono le parole di Ariosto a commento: «Per te son giti et anderan sotterra / tanti signori e cavallieri tanti, / prima che sia finita questa guerra, / che ‘l mondo, ma più Italia, ha messo in pianti» (XI ,27).
Aveva novantun anni Maria Luisa Spaziani, una delle più grandi poetesse italiane del Novecento, quando nel 2014 è morta a Roma. Era nata a Torino nel 1922, e a diciannove anni dirigeva una rivista (Il girasole, poi Il dado) dove pubblicava inediti di grandi poeti come Luzi, Sinisgalli, Saba, Penna, Pratolini. L’incontro fondamentale della sua vita avvenne nel gennaio del 1949 con Eugenio Montale: fra i due nacque un sodalizio intellettuale che si trasformò negli anni in affettuosa e sempre più stretta amicizia (a lei si riferirà il poeta ligure con il senhal di “Volpe” nelle poesie della Bufera e in successive raccolte).
Il suo esordio poetico si ha con la silloge ermetizzante Le acque del sabato (1954), «poesie scritte fra i miei venticinque e trentadue anni [come rivela anni dopo] nella mia città natale, Torino, anche se mi capitava sovente di viaggiare con la mia allegrissima e avventurosa famiglia, soprattutto per lontane villeggiature». Nel ‘66 nuove poesie sono raccolte in Utilità della memoria, libro di «violenza esistenziale», come lo definisce l’autrice, nel quale le vicende private si assolutizzano e divengono metafora del difficile periodo storico. Alla fine degli anni settanta esce Transito con catene, una nuova raccolta «ricca di suggestioni diverse e lontane (è lei stessa a definirla così), da quelle della scienza a quelle di una personalissima preistoria, dalla memoria struggente della scomparsa di mia madre a una Parigi ritrovata in altra chiave diciott’anni dopo».
Negli anni ottanta è la volta di due libri che si potrebbero definire gemelli: Geometria del disordine (1981) e La stella del libero arbitrio (1986), dove campeggiano fantasie connesse a paesaggi reali e immaginari, ricordi della madre scomparsa, rinnovate visioni di Parigi, di Milano e dell’amata casa sull’oraziano monte Soratte. Dieci anni dopo la nuova raccolta, I fasti dell’ortica (1996), vede il ventaglio dell’ispirazione aprirsi «dalla musica agli amori alla politica, da un orizzontale narrativo a un verticale simbolico» (è sempre la poetessa a dare queste definizioni). La vera novità del libro sta nell'affiorare di una tematica nuova, che potremmo definire lata-mente politica, ispirata a drammi del XX secolo, dai lager nazisti al mostro di Firenze, dalla guerra in Jugoslavia alla miserevole condizione dell’Italia di fine millennio.
Nei testi successivi forse l’ispirazione della poetessa non è più così limpida, ma continua la sua ricerca spirituale che, interrogando Dio, scandaglia il senso della vita e della poesia, ribadisce il proprio desiderio di avventura, introduce una galleria di personaggi da lei incontrati, da Picasso a Luchino Visconti, da Eugenio Montale a Pablo Neruda, da alcuni grandi musicisti a Padre Pio.
Luna
d’inverno che dal melograno
per i vetri di casa filtri
lenta
sui miei sonni veloci, di ladro,
sempre inseguito e
sempre per partire.
Come un velo di lacrime t’appanna
e
presto l’ora suonerà…
Lontano
oltre le nostre sponde, oltre le magre
stagioni che
con moto di marea
mortalmente stancandoci ci esaltano
e ci
umiliano poi, splenderai lieta
tu, insegna d’oro
all’ultima locanda,
lampada sopra il desco
incorruttibile
al cui chiarore ad uno ad uno
i visi in
cerchio rivedrò che un turbine
vuoto e crudele mi
cancella.
Ti penso in un paese che di vele
e di ulivi fiorisce alla tua ombra,
che risucchia dal cielo una crudele
bellezza di inquietudine profonda,
che ambiguamente un turbine alle rive
scompiglia nelle chiome dolciamare
e i deliranti vortici sprofonda
nel silenzio del mare,
se il tuo sguardo - o la luce? - la saggezza
d’ogni radice beve
(oro, violette, neve).
Sere di inverno al mio paese antico,
dove piomba il falchetto dentro i pozzi
d'aria, tra l'uno e l'altro campanile.
Sere rapite a un'onda di sambuchi
invisibili, ai vetri dei muretti
d'ultimo sole accesi, dove indugia
non so che gusto d'embrici e di neve.
Vorrei cogliervi tutte, o mie nel tempo
ebbre, sfogliate voci lungo l'arida
corona dell'inverno,
e ricomporvi in musica, parole
sopra uno stelo eterno.
Si sfila il treno dalla pensilina
come sangue che svuoti la vena.
Questo viaggio, lo so, non ha ritorno,
non sei rondine da attendere al nido.
E da ieri qui il cielo è di piombo,
la notte è senza zefiro né grido,
questi tetti del nord fra aguzzi spigoli
d’argento mi trafiggono.
Esserti al fianco in quell’acerbo volo
d’allodola gaudiosa nella sera!
Ma resterò a guardarti di lontano,
aquilone impigliato a una ringhiera.
Non so quale inquietudine posandosi
a scialle sopra i rami,
sopra le altane che nel vuoto sporgono
come prue di porti insabbiati,
non so che maleficio o ammonimento
o bilico dell’anima
gridano i corvi al baluardo dei platani.
Oggi è scirocco giallo di coriandoli,
già verzica la scorza, in capriole
vanno nubi arlecchine. Incombe nera
solo l’ambigua sonnolenza sua,
del fusto tutto spine, enigma al buio
che il suo vermiglio liquame trasuda,
che ultimo esploderà, sigillo infausto
di primavera, l’albero di Giuda.
Lunga notte di tigli, le tue dita di miele
raspavano ventose fino a staccare le stelle.
La bella arca amorosa volgeva a oscuri mari
fra smemoranti ondate le sue vele.
Io scavavo nel buio quei regni sublunari
tendevo al mio destino esili ragnatele.
Care ombre placate, relitti di corsari,
non sfiori il vostro fiato queste sere.
Un tempo (già passato?) la sua più azzurra vena
era il leggio segreto di un foglio troppo bianco.
Quest’altra giovinezza ha sguardo di polena,
turba e travolge un timoniere stanco.
Ma tutta quella tristezza che hai vissuto,
(guarda,
che strano), dall'alto del monte
non ti sembra un'azzurra
mascherata?
E
quando vedi i dadi che riposano
sopra il loro responso di
numeri,
giureresti che si trattava di un gioco?
Quando
ti amavo sognavo i tuoi sogni.
Ti guardavo le palpebre
dormire,
le ciglia in lieve tremito.
Talvolta
è
a sipario abbassato che si snoda
con inauditi attori e
luminarie
– la meraviglia.
Troverò in paradiso le parole non dette,
capitelli di colonne rimaste a metà.
Scaglie di stelle esplose, private di ogni luce,
antiche fontane secche che ritrovano il canto.
Troverò in paradiso quel macilento tralcio di rosa
che a Mauthausen fiorì dietro la baracca quattordici.
Avrà i suoi occhi ogni cosa capace di durare,
miracolata, innocente, ostinata e radiosa.
Troverò in paradiso la tua e la mia pazienza.
Ne faremo un collage con rendez-vous mancati,
velieri arenati, e brandelli di scienza,
bandiere intrise di pianto, ostinate a sventolare.
Parigi
dorme. Un enorme silenzio
è sceso ad occupare ogni
interstizio
di tegole e di muri. Gatti e uccelli
tacciono.
Solo io di sentinella.
Agosto senza clacson.
Sopravvivo
unica, forse. Tengo fra le braccia
come Sainte
Geneviève la mia città
che spunta dal mantello, in
fondo al quadro.
Ecco
lo spazio magico in cui niente si è detto
ma il senso
affiora da nebbie di preistoria.
Dormiamo in case lontane
chilometri
ma i nostri sogni si congiungono in alto.
È
così perfetta l'attesa (o l'intesa)
che sarà
peccato trasformarla in parole.
Dovremmo preferire alla vita il
silenzio
anche se questo silenzio è quintessenza della
vita?
A
giorni alterni sono io la luna
e tu l'immensa terra che mi
attira,
e questa notte tu sei la luna
- io ti tengo al
guinzaglio -.
So che mi stai sognando, mi accarezzi,
i
globuli lo sanno del mio sangue,
ogni mio nervo teso come un
arco
o un'arpa eolia che vibra al respiro.
Luna
succosa da mangiare a spicchi,
asprodolce limone,
palla di
neve sulla pelle ardente -
nessun uomo così saprà
baciare -
Non ti amerò di più, non ti amerò
di meno,
sono lassù una luna senza quarti.
Il lume
splende intatto nel sereno,
non ti amerò di meno, non ti
amerò di più.
Lasciatemi
sola con la mia morte.
Deve dirmi parole in re minore
che
non conoscono i vostri dizionari.
Parole d'amore ignote anche a
Petrarca,
dove l'amore è un oro sopraffino
inadatto
a bracciali per polsi umani.
Io e la mia morte parliamo da
vecchie amiche
perché dalla nascita l'ho avuta
vicina.
Siamo state compagne di giochi e di letture
e
abbiamo accarezzato gli stessi uomini.
Come un'aquila ebbra
dall'alto dei cieli,
solo lei mi svelava misure umane.
Ora
m'insegnerà altre misure
che stretta nella gabbia dei sei
sensi
invano interrogavo sbattendo la testa alle sbarre.
È
triste lasciare mia figlia e il libro da finire,
ma lei mi
consola e ridendo mi giura
che quanto è da salvare si
salverà.
Sandro Boccardi è noto soprattutto come musicista e organizzatore di concerti in alcune delle chiese d’arte più importanti di Milano: tra l’altro fondò e curò per trent'anni, dal 1976 al 2006, la straordinaria rassegna Musica e Poesia a San Maurizio, promosse la costruzione dell'organo Ahrend per la Basilica di San Simpliciano e fece eseguire in dieci anni, dal 1994 al 2004, l’intero corpus delle Cantate di Bach in collaborazione con la Società del quartetto di Milano. Per le Edizioni 32 ha diretto la collana di poesia Il bicordo, pubblicandovi testi di Yannis Ritsos, Günter Grass, Albino Pierro e il volume d’esordio di Franco Loi, I cart.
Malgrado questa frenetica attività, non ha però mai trascurato la poesia, scegliendo di recuperare il mondo della Bassa Lodigiana, da cui proviene, con toni vivi e luminosi, senza mai scadere nell’impressionismo bozzettistico. Dopo la raccolta d’esordio, A dispetto delle sentinelle (1963), ha pubblicato quattro volumi presso Scheiwiller: La città (1965), Durezze e ligature (1967), Ricercari (1973), Le tempora (1978). È seguito un lungo periodo di silenzio, interrotto nel 1999 dalle nuove poesie che, apparse prima sulle riviste Kamen (Lodi 2004), Bloc notes (Lugano 2005) e Graphie (Cesena 2006), sono poi confluite nella nuova raccolta del 2006, Sonetti per gioco e rancore. Del 2012 infine è Partiture d’acqua e di terra, dove i riferimenti all’amata terra padana s’intrecciano con le ricorrenti domande esistenziali.
Quella di Boccardi è una poesia densa di rimandi alla musica e ai suoi strumenti, come è ovvio, ma si avvale di una polifonia dissonante che, nell’impasto di dialettalismi e cultismi, forestierismi e arcaismi, porta a esiti di straordinaria raffinatezza, senza che questo diventi sfoggio di bravura, ma rivelando piuttosto una voce meditativa, terragna, nello stesso tempo simbolica e concreta. Più che un poeta, pare quasi che Boccardi sia un direttore d’orchestra capace di armonizzare e assemblare i reperti più inusuali: i suoni e i colori, gli insetti e le pietre, gli animali e le liturgie, le vicende religiose (come nella splendida Annunciazione) e i lavori agricoli che si ripetono immutati da secoli nella terra lombarda. E attraverso queste epifanie egli ha saputo interrogarsi incessantemente sul senso della vita e sul destino dell’uomo, convinto che l’apparente assurdità e disarmonicità della vita debba avere una spiegazione, e che in ogni caso l’esistenza sia troppo interessante per non volerla vivere in pienezza, ricercando costantemente l’armonia sottesa all’apparente disordine.
«Poeta del riserbo» lo definì Guido Oldani, e mai definizione fu più calzante: la sua malinconia lieve, la sua poesia che si fa preghiera intima e sussurrata, i valori che propone, semplici e tenaci, fanno di lui un poeta religioso latu sensu, perché la sincerità che lo caratterizza non prevarica mai sulla realtà, né mai diviene strumento di contrapposizione o ricerca di egemonia. Poesia è per lui un costante duraturo colloquio tra gli uomini, con il mondo e con gli uomini, uno strumento (musicale) che può dare risposte che vanno oltre la razionalità.
Ora per me
per me si completa il passaggio
perché dolore umano non si nutre
di sé se non mutando in fiori
fiori di buio semi della notte
fiori stipati d’acqua mentre inclina
la nube sui tetti di lavagna mentre
con manciate di ghiaccio la tempesta
scivola e grugnisce
contro il tepore oscuro di me
contro il mio nulla di me il fiato
che appanna lo specchio
(quando si vedrà se siamo morti o vivi
o bios o inerzia
o fiori…)
Barbara, sai,
marzo è una rosa di correnti d’aria
che toglie il fiato,
arruffa propositi, anima, consensi,
lungo i sentieri d’erbe mareggiate
qui dove il verde dove il vento insieme
rimescola semi e fioriture
qui nei lombardi chiari appezzamenti.
Barbara, dico: è inutile resistere
la polvere sale come un ventaglio
sopra le aie piccole padane
scricchiola batte alle verdi persiane
la voce genuflessa della primavera.
Estate, verdi ramarri al sole,
trapunta di ricordi come d’erba i prati,
il fieno sente i rebbi della forca,
viene l’odore buono del rigoglio
(erba salina bisiàda dal biss
che la Madona la benediss)
polvere e rovi e sul brusio dei gelsi
smangiati dai bachi sulle stuoie
il primo rintronare da levante.
Anima nostra tessuta come il solco
da grumi di radici nell’incerto
aspettare dell’adolescenza…
ma rimuovendo la pàtina del tempo
velo di fiato sullo specchio, il morso
le cicatrici dell’amore ancora
gridano te.
Quale
terrena rosa luce
grembo di foglie nell’ombrìa di
luce
zolla spezzata dal gelo del sereno
latte frumento
acerbo dondolare
di paglia e spighe verderame mare
capelli
avvolti fra le dita e il vento
e tu garza di rosa che si sbenda
in fumo
da giorni a giorni salendo questa scala
di toni e
semitoni e riprecipiti
piuma soave e tronco che ci curva
le
spalle.
La liturgia dei lutti soffocati
da neri paramenti, lungo strade
di polvere e pioppi fulminati
dove la piena del silenzio sente
la gran pietà degli abiti sciupati
e l’afa, e il senso del disfarsi
si fa più acuto al peso
d’un passero che lasci il ramo e scuota
per avventura un unico suo cuore
di foglia in cima: addio
addio dalla fatica della Bassa.
Già nel breve accomiatarsi
di gente stanca verso il cimitero
al magro asperges di peccati e venie
da fatica e d’artrite mi stordivo
d’un miserere senza lacrime.
Ed ora quasi
nell’ora antelucana delle tempora
anche te accompagnammo
tra il granoturco che matura a groppi
di capelli arruffati e pennacchi di ruggine
come regina longobarda cui il cilicio
di materne ansie e di cure
addolciva il carattere.
E al più lieve stormire sei, ritorna
ora che il grano separato dai tutoli e da pula
nube di polline nel sole cieco
dolce ti oscura, acre ti rischiara.
Per la prima Sonata sui Misteri del Rosario di Heinrich Ignaz Franz Biber
Da un pulviscolo di molecole impazzite
apparve l’angelo e disse ave
e la donna si turbò,
le mani strette al grembo.
Caddero lamine e lapilli,
bagliori come li vedono i morenti
nel cono del risucchio;
fiamme come le soffrono i nascenti
nel grido dello strappo.
Rabbrividiva il Magnificat della donna
nel turbine del sangue
e il gelo salì a scaldarle le guance
d’un rosso acceso di Verità.
Se fosse un mistero di gaudio o dolore,
un cammino fra i gigli o le spine
l’angelo non lo disse, l’ombra gli era attorno
come l’enigma di un’eclisse:
disse soltanto ave
e nel vento sparì.
Se fuoco mette fiamma nella paglia,
se fiamma rade pula e incenerisce
ogni raccolto, maledetta estate.
Prega tu il signore delle messi
che ci risparmi il peso di non essere pronti
prima alla feroce siccità e poi
alle cateratte della grandine.
Buttare
l’ironia, questo vestito
che cela le menzogne.
Scrivere
parole
di pietra e di sudore
dove il mondo si liberi
nella
totale integrità del tempo
come ammasso di cose magma di
materie
che urgono a farsi risultato.
A filo d’acqua i filiformi ragni
scattano avanti e indietro come un pendolo
segnando un centro tra due punti arcani.
Qual è il ghiribizzo di un pensiero
- il silenzio
- la morte?
Pur ogni cosa si muove dall’ombra
anche la nuvola riflessa nella roggia.
*
La
nuova vita
sembra ancora più bella
quando si è
vecchi.
È come se da un vaso
dimenticato sul
balcone
fra i cocci mescolati a terra
sbucasse un croco
giallo.
*
Il
mattino arriva
con cinque monetine
a portare la luce
dai
tetti alle vetrine
inizia la cinciallegra
poi vengono i
passeri
ripassano il latino
sul loro pentagramma
un
merlo scuote la rugiada
dal nero delle piume
così
disputa il vetro nel barlume
di una goccia di giada
la
quinta monetina è il sole
un centesimo di rame
sopra
il cavalcavia.
Poi quando la vita cresce
sono i talenti a
stabilire
i tempi a venire.
“Mi sembrava che una poesia fosse un vetro attraverso il quale si potevano vedere molte cose – forse, tutte le cose […] Di ogni poesia avrei voluto fare un osservatorio difesissimo e trasparente, un osservatorio per guardare la vita – cioè, forse, per non viverla”. Questa autodefinizione di Raboni (1932-2004) mostra come egli abbia sempre voluto cogliere la realtà profonda delle cose e delle persone, usando i registri più vari, da quello onirico a quello cronachistico, da quello colto a quello colloquiale, senza perdere mai di vista la concretezza dei riferimenti a paesaggi, persone, vicende storiche spesso affrontate con sguardo esplicitamente politico (“ho affrontato temi civili semplicemente perché ne sentivo l’urgenza […] o per un moto di indignazione, o di preoccupazione, o di sgomento”). Milanese, laureato in legge, consulente di Garzanti, di Mondadori e infine di Guanda, critico letterario e teatrale, poeta, prosatore, drammaturgo, traduttore (tra gli altri Flaubert, Molière, Apollinaire, Prévert, Racine, Claudel, Proust), Raboni si era formato da autodidatta sulla grande tradizione poetica italiana, ma ancora più su quella dei poeti inglesi e americani, da Dickens a Faulkner, da Ezra Pound a Melville, da Steinbeck ad Hemingway, prendendo in particolare da Eliot la concezione del “correlativo oggettivo”.
Dopo le prime prove degli anni sessanta e settanta, era giunto a riscoprire e rivitalizzare le forme chiuse della tradizione, a partire dai Versi guerrieri e amorosi (1990) e da Ogni terzo pensiero (1993); la ricerca metrica era proseguita poi nelle successive raccolte: Nel libro della mente (1997), Quare tristis (1998), Barlumi di storia (2002) e Ultimi versi (2006, postumi con una postfazione della poetessa Patrizia Valduga, sua compagna dal 1981). Molto suggestive sono anche le poesie per bambini Un gatto più un gatto, edite da Mondadori nel 1991. Poco dopo la sua morte, nel 2004, Einaudi ha pubblicato in un corposo volume Tutte le poesie di oltre cinquant’anni di produzione.
Campeggia nella lirica di Raboni l’amata città di Milano, con le sue strade e piazze, i suoi abitanti e i suoi monumenti, che vengono ritratti in scene vivaci e ricche di pathos. Altro tema da lui affrontato è quello amoroso, visibile soprattutto nelle Canzonette mortali, dove il racconto di sé entra in modo esplicito nella poesia. Ma forse la tematica più affascinante è la riflessione sulla vita e sulla morte, che Raboni vede in stretta contiguità, non come elementi di contrasto ma come facce di una stessa realtà, nella quale vivi e defunti possono dialogare e incontrarsi. Nel corso degli anni questa meditazione si è fatta sempre più intensa ed appassionata, fino alle ultime emozionanti poesie postume.
Queste strade che salgono alle mura
non hanno orizzonte, vedi: urtano un cielo
bianco e netto, senz'alberi, come un fiume che volta.
Da qui alle processioni
dei signori e dei cani
che recano guinzagli, stendardi
reggendosi la coda
ci saranno novanta passi, cento, non di più:
però più giù, nel fondo della città
divisa in quadrati (puoi contarli) e dolce
come un catino... e poco più avanti
la cattedrale, di cinque ordini sovrapposti: e proseguendo
a destra, in diagonale, per altri
trenta o quaranta passi - una spanna: continua a leggere
come in una mappa - imbrocchi in pieno l'asse della piazza
costruita sulle rocciose fondamenta del circo romano
grigia ellisse quieta dove
dormono o si trascinano enormi, obesi, ingrassati
come capponi, rimpinzati a volontà
di carni e borgogna purché non escano dalla piazza! i poveri
della città. A metà tra i due fuochi
lì, tra quattrocento anni
impiantano la ghigliottina.
Siano
con selvaggia compunzione accese
le tre candele.
Saltino
sui coperchi con fragore i due
compari di spada compiuti uno
sei anni e mezzo, l’altro cinque
e io trentaquattro
e la mamma trentadue
e la nonna, se non sbaglio, sessantotto.
Questa scena non verrà ripetuta.
La scena non
viene diversamente effigiata. E chi
si sentisse esule o in
qualche
percentuale risulta ingrugnato
parli prima o
domani.
Accogli, streghina di marzapane, la nostra sospettosa
tenerezza.
Seguano come a caso stridi
di vagoni piombati,
raffiche di mitragliatrice...
Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro
e solo del futuro, di nient’altro
ho qualche volta nostalgia
ricordo adesso con spavento
quando alle mie carezze smetterai di bagnarti,
quando dal mio piacere
sarai divisa e forse per bellezza
d’essere tanto amata o per dolcezza
d’avermi amato
farai finta lo stesso di godere.
Le volte che è con furia
che nel tuo ventre cerco la mia gioia
è perché, amore, so che più di tanto
non avrà tempo il tempo
di scorrere equamente per noi due
e che solo in un sogno o dalla corsa
del tempo buttandomi giù prima
posso fare che un giorno tu non voglia
da un altro amore credere l’amore.
Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno
dopo l’altro ti lascio, anima mia.
Per gelosia di vecchio, per paura
di perderti – o perché
avrò smesso di vivere, soltanto.
Però sto fermo, intanto,
come sta fermo un ramo
su cui sta fermo un passero, m’incanto…
Non questa volta, non ancora.
Quando ci scivoliamo dalle braccia
è solo per cercare un altro abbraccio,
quello del sonno, della calma – e c’è
come fosse per sempre
da pensare al riposo della spalla,
da aver riguardo per I tuoi capelli.
Ho gli anni di mio padre – ho le sue mani,
quasi: le dita specialmente, le unghie,
curve e un po’ spesse, lunate (ma le mie
senza il marrone della nicotina)
quando, gualcito e impeccabile, viaggiava
su mitragliati treni e corriere
portando a noi tranquilli villeggianti
fuori tiro e stagione
nella sua bella borsa leggera
le strane provviste di quegli anni, formaggio fuso, marmellata
senza zucchero, pane senza lievito,
immagini della città oscura, della città sbranata
così dolci, ricordo, al nostro cuore.
Guardavamo ai suoi anni con spavento.
Dal sotto in su, dal basso della mia
secondogenitura, per le sue coronarie
mormoravo ogni tanto una preghiera.
Adesso, dopo tanto
che lui è entrato nel niente e gli divento
giorno dopo giorno fratello, fra non molto
fratello più grande, più sapiente, vorrei tanto sapere
se anche i miei figli, qualche volta, pregano per me.
Ma subito, contraddicendomi, mi dico
che no, che ci mancherebbe altro, che nessuno
meno di me ha viaggiato fra me e loro,
che quello che gli ho dato, che mangiare
era? non c’era cibo nel mio andarmene
come un ladro e tornare a mani vuote…
Una povera guerra, piana e vile,
mi dico, la mia, così povera
d’ostinazione, d’obbedienza. E prego
che lascino perdere, che non per me
gli venga voglia di pregare.
Cerco qualche volta di immaginare
la felicità, mia e dei morti, e mi sembra
che sia la vita. Forse perché chiare
nella luce che già un po’ s’insettembra
sono adesso le cose e a meno amare
vertigini trascina e tanta assembra
più pazienza, più requie il declinare
del tempo è come se da queste membra
arse e dilaniate l’immensa salma
del mondo risorgesse in una calma
radiosa e stesse al cuore assaporare
l’infinito dolcissimo ritardo
del bene, e sentire l’Olona e l’Ardo
per come si chiamano risuonare.
Tanto difficile da immaginare,
davvero, il paradiso? Ma se basta
chiudere gli occhi per vederlo, sta
lì dietro, dietro le palpebre, pare
che aspetti noi, noi e nessun altro, festa
mattutina, gloria crepuscolare
sulla città invulnerata, sul mare
di prima della diaspora – e si desta
allora, non la senti? una lontana
voce, lontana e più vicina come
se non l’orecchio ne vibrasse ma
un altro labirinto, una membrana
segreta, tesa nel buio a metà
fra il niente e il cuore, fra il silenzio e il nome…
Dopo la vita, cosa? ma altra vita,
si capisce, insperata, fioca, uguale,
tremito che non s’arresta, ferita
che non si chiude eppure non fa male
- non più, non tanto. Lentamente come
risucchiati all’indietro da un’immensa
moviola ogni cosa riavrà il suo nome,
ogni cibo apparirà sulla mensa
dov’era, sbiadito, senza profumo…
Bella scoperta. È un pezzo che la mente
sa che dove c’è arrosto non c’è fumo
e viceversa, che fra tutto e niente
c’è un pietoso armistizio. Solo il cuore
resiste, s’ostina, povero untore.
Si farà una gran fatica, qualcuno
direbbe che si muore – ma a quel punto
ogni cosa che poteva succedere
sarà successa e noi
davanti agli occhi non avremo
che la calma distesa del passato
da ripassare senza fretta
fermando ogni tanto l’immagine,
tornando un po’ indietro, ogni tanto,
per capire meglio qualcosa,
per assaporare un volto, un vestito…
Sì, tutto in bianco e nero, se Dio vuole.
E tutto, anche le foglie che crescono,
anche i figli che nascono,
tutto, finalmente, senza futuro.
Li rivedrò, mi rivedranno, loro
forse già si rivedono
dove la ghiaia s’apre a mezzaluna
e nell’ora del viavai delle rondini
si possono tenere d’occhio
le circonvoluzioni della gioia
sperando che arrivi, sperando
che non arrivi, che per sempre
stia lontana di quel tanto, lei sì,
nel suo non fermarsi, immortale
- ma a quale età l’un l’altro, assomigliando
a quale delle immagini che il tempo
ha impresso via via di ciascuno
nella memoria di ciascuno?
Ecco, il thriller dell’eternità…
Quarant’anni fa moriva a Roma Vittoria Guerrini, più nota con il nome d’arte di Cristina Campo: poco apprezzata allora come poetessa, riscoperta in anni recenti, ma forse ancor oggi alquanto sottovalutata. Certo la sua produzione poetica è quantitativamente limitata (una sola raccolta edita, Passo d’addio, nel 1956), ed ha contribuito al misconoscimento anche la sua volontà di eclissarsi, se pensiamo che ella amava dire di sé: "Ha scritto poco e le piacerebbe aver scritto meno”. Ma estremamente interessante è la ricerca che ella attua del senso della vita e la totale identificazione tra vita e opera che si respira nella sua poesia. Scrivere era per lei pregare (“Ma io non ho, davvero, che la poesia come preghiera”), cercare nelle realtà materiali “echi che alludono ad altre cose”, navigare verso la verità essenziale dell’essere.
Hugo von Hofmannsthal e Simone Weil furono le sue “ombre protettrici”, gli autori che più influenzarono il suo pensiero; ma numerose altre frequentazioni risultarono determinanti nel suo cammino culturale, da Scheiwiller a Leone Traverso, da Luzi a Sereni, da Montale alla Spaziani, da Turoldo a Silone, da Pound a Eliot. Ciò non toglie che il suo stile resti personalissimo, caratterizzato da una profonda ricerca della parola esatta e incisiva, della bellezza e purezza assoluta.
Dopo la sua morte sono apparsi pochi altri testi poetici, che non vanno però considerati (come alcuni critici hanno ritenuto) “versi dispersi”, bensì tessere di una raccolta organica, che la Campo avrebbe anche voluto pubblicare con il titolo Le temps revient, a sottolineare le tappe della sua quête spirituale, il “tentativo di capire – e di sopportare” la vita, in un sempre più fitto dialogo con i testi sacri e gli autori amati. Straordinaria è anche l’ultima tappa della sua produzione poetica, i quasi duecento ostici e densi versi del Diario bizantino, che testimoniano la sua convinta adesione alla religione ortodossa, l’unica (ella riteneva) in grado di spalancarle le strade della mistica, alla scoperta della “meravigliosa carnalità della vita divina”, l’unica quindi che avrebbe potuto opporsi alle forze del caos che ella vedeva approssimarsi: “Dio non parla nel tuono: / parla in un piccolo alito / e ci si vela il capo per il terrore”.
Maria Luisa
quante volte
raccoglieremo questa nostra vita
nella pietà
di un verso, come i Santi
nel loro palmo le città
turrite?
La primavera quante volte
turbinerà
i miei grani di tristezza
dentro le piogge, fino alle tue
orme
sconsolate - a Saint Cloud, sulla Giudecca?
Non
basterà tutto un Natale
a scambiarci le favole più
miti:
le tuniche d'ortica, i sette mari,
la danza sulle
spade.
" Mirabilmente il tempo si
dispiega..."
ricondurrà nel tempo questo
minimo
corso, una donna, un atomo di fuoco:
noi che viviamo
senza fine.
Moriremo
lontani. Sarà molto
se
poserò la guancia nel tuo palmo
a
Capodanno; se nel mio la traccia
contemplerai
di un’altra migrazione.
Dell’anima
ben poco
sappiamo.
Berrà forse dai bacini
delle
concave notti senza passi,
poserà
sotto aeree piantagioni
germinate
dai sassi…
O
signore e fratello! ma di noi
sopra
una sola teca di cristallo
popoli
studiosi scriveranno
forse,
tra mille inverni:
«nessun
vincolo univa questi morti
nella
necropoli deserta».
Ora
che capovolta è la clessidra,
che l’avvenire,
questo caldo sole,
già mi sorge alle spalle, con gli
uccelli
ritornerò senza dolore
a Bellosguardo: là
posai la gola
su verdi ghigliottine di cancelli
e di un
eterno rosa
vibravano le mani, denudate di fiori.
Oscillante
tra il fuoco degli uliveti,
brillava
Ottobre antico, nuovo amore.
Muta,
affilavo il cuore
al
taglio di impensabili aquiloni
(già
prossimi, già nostri, già lontani):
aeree
bare, tumuli nevosi
del
mio domani giovane, del sole.
Amore,
oggi il tuo nome
al mio labbro è sfuggito
come al
piede l'ultimo gradino...
ora è sparsa l'acqua
della vita
e tutta la lunga scala
è da
ricominciare.
T'ho barattato, amore, con parole.
Buio
miele che odori
dentro diafani vasi
sotto mille e seicento
anni di lava -
ti riconoscerò
dall'immortale
silenzio.
Devota
come ramo
curvato da molte nevi
allegra come falò
per
colline d’oblio,
su
acutissime làmine
in bianca maglia d’ortiche,
ti
insegnerò, mia anima,
questo passo d’addio…
Un
anno… Tratteneva la sua stella
il cielo dell’Avvento.
Sulla bocca
senza febbre o paura la mia mano
ti disegnava,
oscura, una parola.
E la sfera dell’anima e
dell’anno
vibrava in cima a uno zampillo d’oro
alto
e sottile, il sangue.
Ne
tremavano
sorridenti gli sguardi – all’accostarsi
buio
di quel guardiano incorruttibile
che nei giardini chiude le
fontane.
Troppe cose hanno accolto le tue palpebre
l'attenzione ti ha consumato le ciglia.
Troppe vie t'hanno ripetuta,
stretta, inseguita.
La città da secoli ti divora
ma travede per te, sogno e sfacelo
di luci e piogge, lacrime senili
sulla ragazza che passa
febbrile, indomabile, oltre il tempo, oltre un angolo.
Ritorna! Gridano i vecchi di Santa Maria del Pianto,
la frotta della Piscina di Siloè
con i randagi, gl'ibridi, gli spettri
che non si sanno e tu sai
radicati con te
nel glutine blu dell'asfalto
e credono al tuo fiore che avvampa, bianco –
poiché tutti viviamo di stelle spente.
L’aria di giorno in giorno si addensa intorno a te
di giorno in giorno consuma le mie palpebre.
L’universo s’è coperto il viso
ombre mi dicono: è inverno.
Tu nel vergine spazio dove si cullano
isole negligenti, io nel terrore
dei lillà, in una vampa di tortore,
sulla mite, domestica strada della follia.
Si stivano canapa, olive
mercati e anni... Io non chino le ciglia.
Mezzanotte verrà, il primo grido
del silenzio, il lunghissimo ricadere
del fagiano tra le sue ali.
Cosa proibita, scura la primavera.
Per anni camminai lungo primavere
più scure del mio sangue. Ora tornano sul Tamigi
sul Tevere i bambini trafitti dai lunghi gigli
le piccole madri nei loro covi d’acacia
l’ora eterna sulle eterne metropoli
che già si staccano, tremano come navi
pronte all’addio...
Cosa proibita
scura la primavera.
Io vado sotto le nubi, tra ciliegi
così leggeri che già sono quasi assenti.
Che cosa non è quasi assente tranne me,
da così poco morta, fiamma libera?
(E al centro del roveto riavvampano i vivi
nel riso, nello splendore, come tu li ricordi
come tu ancora li implori).
Due mondi - e io vengo dall'altro.
Dietro e dentro
le strade inzuppate
dietro e dentro
nebbia e lacerazione
oltre caos e ragione
porte minuscole e dure tende di cuoio,
mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo,
inenarrabilmente ignoto al mondo.
dal soffio divino
un attimo suscitato,
dal soffio divino
subito cancellato,
attende il Lume coperto, il sepolto Sole,
il portentoso Fiore.
Due mondi - e io vengo dall'altro.
La soglia, qui, non è tra mondo e mondo
né tra anima e corpo,
è il taglio vivente ed efficace
più affilato della duplice lama
che affonda
sino alla separazione
dell'anima veemente dallo spirito delicato
- finché il nocciolo ben spiccato ruoti dentro la polpa -
e delle giunture degli ossi
e dei tendini delle midolla;
la lama che discerne del cuore
le tremende intenzioni
le rapinose esitazioni. […]
Figlio di un oste, presto orfano di madre, Biagio Marin era nato a Grado (allora territorio austroungarico) nel 1891; a vent’anni si unì a Firenze al gruppo dei triestini attivi allora nell'ambito della "Voce", divenendo amico in particolare di Virgilio Giotti, Giani Stuparich e Scipio Slataper (veniva scherzosamente chiamato "l'ombra di Scipio"). Dopo aver combattuto volontario contro l'Austria, nel dopoguerra si laureò a Roma in filosofia; fu quindi insegnante, ispettore scolastico, impiegato e bibliotecario. Nel 1943 perse in guerra l'amatissimo figlio Falco; ritiratosi nell'isola natale con la moglie Pina, vi rimase fino alla morte, nel 1985.
La sua attività poetica, quasi esclusivamente in dialetto, si è prolungata per oltre settant'anni, da Fiuri de tapo (Fiori di barena, [un isolotto lagunare], 1912) a La vose de la sera (La voce della sera, 1985), rivelando una singolare continuità di temi e maniere; egli stesso afferma in una poesia del 1982: "El canto mio/ l'ha poche note,/ [...] quatro soltanto"). Indubbiamente però si avverte dalle prime alle ultime prove un affinamento di toni e un più intenso equilibrio compositivo, che molto devono da un lato alla lezione del quasi conterraneo Saba, dall’altro alla grande poesia novecentesca spagnola (da Machado a Jimenez) e tedesca (Goethe, Heine, Rilke). Dal punto di vista linguistico, Marin ha reinventato un dialetto gradese arcaico infondendovi la sua vasta cultura mitteleuropea e riversandovi ritmi, timbri e melodie personalissimi.
Costante è in lui la ricerca del senso della vita, cui danno corpo specialmente gli oggetti, gli animali, i personaggi dell'amata Grado: conchiglie, gabbiani, rondini, nuvole, bastimenti, le aggraziate figure femminili che animano calli e campielli dell'amata Grado, sono ritratti con poche linee essenziali, nella convinzione che le umili realtà quotidiane rivelino pienamente il soprannaturale. In un’intervista del 1985 Marin affermava: «L’essenza della poesia consiste nella possibilità di astrarre la quotidianità e convertirla in eternità». Vivere in una piccola isola com’era allora Grado gli permette di cogliere il valore incommensurabile dell’"insularità", condizione umana e poetica di perfetta consonanza con la natura, la quale rivela (a chi sa osservarla) la forza creatrice dell’universo, l’anima divina che pervade ogni elemento del cosmo, perché «la vita è tutta un volo / verso l’eternità».
Tanti mai versi
e duto incora tase, oculto;
tant’ani de culto
del dì e incora i zurni xe roversi.
Cu leserà i silinsi,
tra nota e nota
de l’anema che varda imota
drento i so spassi iminsi?
Cu sintirà cantà
le pagine nel bianco
del margine a fianco
de tanto ingrisà?
I gno libri xe tanti
la gno puisia la speta
l’ora più queta,
quela dei larghi siti canti.
Talmente tanti versi / e tutto ancora tace, occulto; / tanti anni di culto / del giorno e ancora i giorni sono a rovescio. / Chi leggerà i silenzi, / tra nota e nota / dell’anima che guarda immobile / dentro i suoi spazi immensi? / Chi sentirà cantare / le pagine nel bianco / del margine a fianco / di tanto ingrigirsi? / I miei libri sono tanti / ma la mia poesia attende / l’ora più quieta, / quella dei larghi canti silenti.
Quanto
più moro
presenza
al mondo intermitente
e luse
che se spenze, de ponente
tanto più de la vita
m’inamoro.
E del so rîe che fa fiurî l’avril
e
del miel che l’ha in boca,
la prima neve che za fioca
sia
pur lenta e zentil.
Melodioso l’andâ per strà
de
l’anca mola nel menèo
che ondesa comò fa ‘l
canèo
nel maistral disteso de l’istà.
Musica
in ela
e in duta la persona
che duta quanta sona
de
quela zoigia che m’insiela.
Quela musica duta la me
intona
la fa de me corente d’aqua viva
che in mar se
perde senza riva
e solo el perdimento la ragiona.
Quanto più muoio / presenza / nel mondo intermittente / e luce che si spegne, da ponente, / tanto più della vita m’innamoro. / E del suo ridere che fa fiorire l’aprile / e del miele che ha in bocca, / la prima neve che già fiocca / sia pure lenta e gentile. / Melodioso andare per strada / nell’ondulare dell’anca molle / che ondeggia come fa il canneto / nel maestrale disteso dell’estate. / Musica in lei / e in tutta la persona / che tutta quanta suona / di quella gioia che mi inciela. / Quella musica tutta mi intona, / fa di me corrente d’acqua viva / che si perde in un mare senza riva / e solo il perdimento suo ragiona.
Stele
filanti semo
picole scagie che se brusa in svol;
se snoda
‘l fil, cussí se disfa ‘l gemo,
cô ‘l
zuogo ha fin, piú ninte in cuor ne duol.
Stelle filanti siamo / piccole scaglie che si bruciano in volo; / si snoda il filo, così si disfa il gomitolo, / quando il gioco ha fine, più nulla in cuore ci duole.
Preghiera
xe consentimento
al fiurî d'un roser,
dâ-'i
l'ala ad un pensier
al vento fâsse bastimento.
Preghiera
xe tremor
davanti a un viso ciaro
e xe l'amor
per un
radicio amaro.
El
caminâ lisiero
ne l'aria marsulina
e scoltâ, la
mantina,
el canto d'un oselo.
Preghiera è consentimento / al fiorire di un rosaio, / dar l'ala ad un pensiero, / al vento farsi bastimento. / Preghiera è tremore / davanti a un viso chiaro / ed è l'amore / per un radicchio amaro. / È il camminar leggero / nell'aria marzolina / ed ascoltare, la mattina, / il canto di un uccello.
No la voleva i basi
e me ‘i disevo: «Tasi»,
e la svaniva in lontanansa
de ritornâ sensa speransa.
La boca sova
podeva basâ ‘l sielo,
valìa più d’elo,
e senpre viola nova.
Bêvela duta,
no gera mai pecào:
ela la steva muta
fin che ‘l so posso gera consumào.
Non voleva baci / e io le dicevo: «Taci», / e lei svaniva in lontananza / senza speranza di ritorno. // La sua bocca / poteva baciare il cielo, / più tenera di questo, / e sempre viola nuova. // Berla tutta / non era mai peccato: / lei stava muta / finché il suo abbandono era consumato.
La vita xe birbante
cô le pute la infiora
e i puti se inamora
de quel ondâ de l’anche.
Nasse filgiuoli
e canta rusignoli,
el mar el rìe
co’ le restìe.
La vita è birbante / quando le fanciulle la infiorano / e i giovinetti s’innamorano / di quell’ondeggiare delle anche. // Nascono figlioli / e cantano usignoli, / il mare ride / con le sue onde.
Me no sarè più qua,
nel ninte va i vivinti
e cala duti i vinti,
per senpre, de l’imensità.
Cussì va la persona,
l’àlboro, el nuòlo:
la vita duta un svolo
verso l’eternità.
Io non sarò più qui, / nel niente vanno i viventi / e calano tutti i venti / dell’immensità, per sempre, // Così va la persona, / l’albero, la nuvola: la vita è tutta un volo / verso l’eternità.
Me, a la morte vago
al sono ne l’eterna onbrìa,
e vivo l’angunia
e, del murî, son pago.
Ogni alboro se suga,
e pian a pian el more,
i nuòli in sielo passa in fuga,
e passa dute l’ore.
Io vado alla morte / al sonno nell’ombra eterna, / e vivo l’agonia / e del morir son pago. // Ogni albero dissecca, / e piano piano muore, / le nuvole in cielo passano in fuga, / e passano tutte le ore.
No’ importa che se mora
fin che i bei puti albisa,
sini novi s’armisa,
nove spale s’indora.
Lassa che la fiumana scora
e duti porti via,
a refoli de buora,
in bona compagnia.
Ché duti, duti
e veci e puti
solo muminti,
può via ne porta i vinti
comò i antichi bastiminti
ne la note distante.
Non importa che si muoia / finché bambini belli spuntano come l’alba, / nuovi seni si ergono, / nuove spalle s’indorano. / Lascia che la fiumana scorra / e porti via tutti, / a folate di bora, / in buona compagnia. / Perché tutti, tutti / vecchi e bambini / siamo solo momenti, / poi ci portano via i venti / come gli antichi bastimenti / nella notte distante.
Ben dissôlvesse in luse,
no deventâ sinisa
che mai la verdisa
e a Dio no la conduse.
Luse, parola creativa,
realtà senpre viva,
che d’ogni créa
verde e fiuri ricrea.
Luse, moto zogioso,
e dolor mai,
zogia de duti i istài,
tempo miracoloso.
Nasse i fruti, i oseli,
i ómini noveli,
de tanto amor
de luse in fior.
In tu sparî,
musical muvimento,
grassia del firmamento,
in tu vogio sparî.
È bene dissolversi in luce, / non diventare cenere / che mai rinverdisce / e a Dio non conduce. // Luce, parola creativa, / realtà sempre viva, / che da ogni creta / ricrea verde e fiori. // Luce, moto gioioso, / e mai dolore, / gioia di tutte le estati, / tempo miracoloso. // Nascono i frutti, gli uccelli, / gli uomini nuovi, / da tanto amore / di luce in fiore. // In te sparire, / movimento musicale, / grazia del firmamento, / in te voglio sparire.
Donata Berra nasce nel 1947 a Milano, dove studia letteratura e musicologia; oggi vive a Berna, docente di letteratura italiana, e si occupa di traduzioni dal tedesco (Dürrenmatt, Merz, Zweig). Il suo esordio poetico risale al 1992, quando pubblica a Bellinzona Santi quattro coronati, cui segue nel 1997 Tra terra e cielo, e nel 1999 Maria, di sguincio, addossata a un palo. Nel 2010 è apparso A memoria di mare, che riprende le tematiche fondamentali delle prime raccolte e le delicate Vedute bernesi del 2005. Sono poesie che, nate dall’osservazione della più umile quotidianità (il canto di un gallo, un viaggio in tram, un paesaggio lacustre o marino), la trasfigurano in simbolo, talora ermetico, però mai arbitrario, rinviando a domande esistenziali ricorrenti («la domanda / che ci riguarda»). Le frequenti citazioni che valorizzano i testi, una «biblioteca della memoria» che spazia da Petrarca a von Hofmannsthal, dal Folengo a San Tommaso, contribuiscono a ricostruire in unità armonica il «divino disordine», la disorganicità del mondo che ci attornia.
Motivi ricorrenti della poesia di Berra sono le acque e le morbide luci che impreziosiscono i paesaggi naturali, in notturni raffinati o in assolati meriggi: paesaggi amati, richiamati nel ricordo, che si aprono a visioni metafisiche, facendo rinascere continuamente le domande imprescindibili. Il mare, i fiumi (il Magra a Bocca di Magra, l’Aar a Berna), i laghi svizzeri con la loro malinconica azzurrità rivelano da un lato la fugacità della vita, dall’altro lato una possibilità sempre nuova di ricercarne il senso ultimo e più vero.
A volte è il dialogo con un interlocutore nascosto a incrinare l'incomunicabilità di fondo, rendendo accessibile la formula magica che apre al mistero; mentre il gioco elegante tra spazio immaginario e spazio reale conduce alla costruzione di un universo significativo e intellettualmente appagante.
Un'altra ambivalenza costantemente richiamata è quella tra dimensione orizzontale e verticale: il fascino ambiguo di salpare verso lidi sconosciuti e l’aspirazione a salire verso «cime ineguali», i ponti che si innalzano a scavalcare fiumi e le gole in cui questi scorrono, l’onda che si alza e si abbassa seguendo il suo perenne moto. Così anche i sentimenti che illuminano dall’interno le immagini di questa poetessa rivelano una persistente duplicità: amarezza e allegria, fiducia e disillusione, domande e silenzi, effimero e sempiterno non sono altro che le facce di una medesima realtà, osservata con appassionata empatia, nella convinzione che sia essenziale «non cedere / lasciando l’ultima riva /giocarsi tutto rischiare».
Andavan compitando per analogie
il mondo e i suoi effetti, loro inclusi
non meno, ché nel chiostro la dogliosa
fabulatoria dell’origo generis
che palpeggiava intorno alla matrice
si producesse nel contorto collo
del mostro inciso dentro al capitello.
Torcevano le membra pur sapendo
che la scrittura è germe dell’inconscio
eppure si ostinavan con protervia
nel disegnarli sempre a fargli l’ali.
Scrivevano in inchiostri rossi e d'oro
e debolmente rimediavano
al divino disordine.
Il tempo passa, dicevi, resta
l'odore mielato dei rami
al riparo dal sole: l’ombra
delle ortensie azzurre dove
il primo giocare era da te
nascondino, ma qualcuno sempre
si incaricava di svelare me
e che la natura
è refrattaria alla metafisica.
Zolfo ci vuole per il blu dei corimbi:
questo so ora, che non voglio
nessuno mi cerchi:
per quel che vale
restar dentro a pensare.
Non con trombe alte e tese
splende l’annuncio: l’angelo
è meglio raccolga i lembi
della lunga veste,
sieda e riposi.
Sommessamente nasce
la voce, solo, se mai, per sottrazione.
Per rimpiangerlo poi sempre: il luogo
dove tante volte insieme
abbiamo sperato di arrivare
e lì carpire alla voce informe
l’ultima parola. Poi
liberi saremmo
esautorato il cielo: certo
dell’ultima sua parola
più grande e chiara è la finestra
che ben conosco, illuminata
come un cuore nella sera.
Quando ho creduto di sapere, infine
ti ho chiamato, ma tu
avevi un altro volto.
E
andando lasciava la nave sul liscio dell'acqua
un nastro a
ricciolo largo,
allucciolato d'oro,
ricolmo di liquide
stelle
inghiottite dall'onda e sempre riaccese,
e spumiglie
e fiocchi di mare
emblemi di specchi ritorti
sparenti e
riapparsi poi sciolti
in barbagli, in scaglie di luce;
e
lasciava, la nave
il lungo profilo del suo lento passare,
e
del nostro, più incerto,
a memoria di mare scritta
serrata, ma poi
appena stretta la cima alla bitta, la nave
viene
solo richiesta di pronta consegna
del pesce pescato
ai
camion del ghiaccio.
Dopo tante maledizioni
sapersi persi, non cedere
lasciando l’ultima riva
giocarsi tutto rischiare
compromettere la salvezza
esasperati di stare all’oscuro
spingere a fondo la domanda
che ci riguarda
ché di altro non sapremmo chiedere
e prendere atto piano piano
di una nota scura
cupa insistente
come di bordone
era la voce di Dio che diceva
è niente.
Come salvarti, dimmelo, cuor mio,
quando ti aggraffa lei tra grinfie adunche,
quando si svela a te, che ne vacilli,
odorosa di molli ombre muschiate,
come sottrarti alle sue rose nere?
Ma io mi lascio scorrere dal fiume:
ricordi Ofelia? Sposa alla corrente?
Mi lascio risucchiare dalla luna
per sciogliermi, ed entrar nelle tue notti
scendendo a benedirle in raggi d’oro.
E adesso vieni, entriamo insieme in questo inverno,
sarà stagione di abbandoni e reticenze,
guarda: le ombre che credevamo immaginate,
o risospinte ai margini del bosco,
vòltati: avanzano alle spalle.
Vieni, lascia scorrere il tuo corpo
dal vento acre di resina e di muschio,
lascia la scabra pelle rilevarsi
alle carezze mie, come fossi lei,
quella per cui fiorisce, e sa di cielo,
- dove tu solo sai, e mi conduci –
il fioco fiore giallo d’elicriso.
Alba sul Magra, a pelo d’onda
tese tra le maglie del sole ancora sbieco
le reti dei rammarichi notturni.
Tratte a ragione poi, poco
è il pescato: alghe
granchiolini spauriti, e sembra argento
qualche misero pesce: da ributtare in acqua.
O non è meglio restare accanto al fiume,
dove l’acqua del Magra è più terrigna
e sa il dolce dei boschi, dei muschi
qui, non oltre la giostra della foce
che s’incapriccia di sale, ma poi torna,
un giro tra le arselle degli scogli,
un passo d’onda sotto chiglie rosse?
Fuori, dove lo sguardo si slontana,
sul grande mare laminato d’oro,
non c’è nessuno a trattenere il giorno,
questo giorno che ci lascia
al respiro lento dei navigli.
… e c’era felicità tra le onde, ma
alla mia domanda
si stemperava, svaniva, per poi
riapparire uguale, più al largo
un brillìo di specchi, frantumi d’oro,
un’impronta di luce, lontana, sdegnosa…
E scendono i sentieri
tra vasi di gerani rosa
tra giochi di bambini
secchielli palloncini strilli
da ridere giù per le altalene, e proprio ora
calma la voce dice "oggi
hai già dato da mangiare al gatto?"
mentre come allora
scorre sontuoso il fiume verso Köln.
Insomma lèvati se vuoi uscire
a che serve star dentro sonnecchiando
scendi agli umori, ingaggia marinai
salpa ancor oggi e poi
appena il vento infila
il piancito del ponte e incinge
alla vela di rada una gran pancia
esci, anche a sbalzo, e dillo
dillo questo nome.
A lei era nota la grazia
era il suo stato naturale
sole cangiante mobile
nel paesaggio diseguale delle ore.
Portava spavalda le insegne
di un godimento pieno
preesistente e rinnovabile
e sembrava ai nostri occhi riarsi
distrattamente percorrere
le soglie della città celeste.
Nato a Codogno nel 1923, Galluzzi crebbe negli ideali di libertà e democrazia, cominciando fin da giovanissimo a distribuire la stampa clandestina antifascista che usciva dalla tipografia del padre e ricevendo nei boschi di Senna Lodigiana le armi da traghettare al di là del Po. Dopo l’8 settembre salì in montagna, aggregandosi alle formazioni partigiane in Valdossola, e prese parte a vari combattimenti contro i nazifascisti. Tornato a Codogno nell’aprile del ‘45 partecipò attivamente all’insurrezione locale: ma in quegli stessi giorni si ammalò e morì il 2 maggio.
Solo nel 2004 i fogli dattiloscritti contenenti le sue poesie sono stati editi col titolo Se potessi… a cura di Gennaro Carbone, Annalisa Degradi e Isabella Ottobelli per i «Quaderni dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea». Ne emerge il ritratto di un lettore di poesia straordinariamente maturo per l’età, che accanto ai grandi della tradizione conosce e apprezza la poesia nuova di D’Annunzio, Gozzano, Ungaretti, Montale; e che sa distaccarsi anche da questi modelli per proporre uno stile personale, asciutto e incisivo, ricco di improvvisi scarti logici che provocano nel lettore un forte effetto di straniamento. Galluzzi sa investigare in questi suoi testi la profondità della propria inquietudine, nella dolorosa consapevolezza dell’impossibilità di una comunicazione profonda: il che però non lo spinge alla rinuncia o all’afasia, ma fa scaturire sempre nuovi interrogativi e ulteriori percorsi di ricerca.
I temi che egli affronta spaziano dall’amore, vissuto con trepidazione e inquietudine, all’impegno politico, alla riflessione sulla morte, che per lui non ha nulla di tragico o angoscioso, ma è vissuta con la levità del ragazzo che affronta serenamente il suo futuro, consapevole che in tal modo «sembrerà più facile / la morte». Così in un intenso testo egli può affermare: «Fuggo / per diventare finalmente un uomo»: è la fuga dal disimpegno e dalla tranquilla serenità quotidiana, per sfidare con matura consapevolezza l’impegno decisivo.
Qual è il tuo nome?
Io non lo so ancora.
E l’ho cercato tanto in mezzo a quelli
che vengono alla bocca d’improvviso,
quando il cuore ha bisogno
di dare una sua forma,
una sua forma intima ed amica
al fuggente fantasma d’una donna.
Ne vorrei uno che accogliesse
in un alito
la musica di boschi risonanti,
echeggianti nell’ombra,
l’amarezza smisurata e ondosa
del nostro padre il mare,
il profumo del fieno
che nel meriggio è ardente
e nella sera
fresco come le guance tue.
Vorrei un nome che s’attorcigliasse
al tuo corpo,
formando un tutto unico,
un nome breve,
perché io possa dirlo
tante volte di più.
T’ho amata da lontano, tenuamente,
per non rompere il filo che trattiene
il mio sognare al tuo sognare assente,
perduto dietro Quello che non viene.
T’ho seguita pregando sulla porta
chiusa della sua casa abbandonata,
quando guardavi la facciata morta,
prona la dolce testa sconsolata.
Se tu sapessi come anch’io ho vissuto
il tuo amore per Lui, che se n’è andato,
ch’è tornato nell’ombra, sconosciuto,
senza sapere che non l’hai scordato.
Se tu sapessi come anch’io ho creduto
nel tuo sgomento grande, desolato.
Amiamoci dunque per questo:
per potere, domani,
aver la squisita tristezza
d’abbandonarci.
Amiamoci
per saper che significa
dopo,
andare divisi,
conoscer la buia dolcezza
dell’ultima parola.
Addio...
Le mani rivivono sole,
al contatto,
lo strano romanzo.
E noi ci guardiamo:
un attimo, oh! un attimo ancora.
Andarsene, andarsene lontano
e dire a chi c’incontra, a chi ci guarda
senza più riconoscerci: “Io fuggo
per diventare finalmente un uomo.
Fuggo per non amare più il profumo
femmineo della notte ed il notturno
calore della donna. Fuggo infine
perché il mondo soltanto è la mia casa
e l’orizzonte il mio traguardo. Vado
dove mille esistenze stanno ansiose
ad aspettare l’anima mia, vado
dove il coraggio spezza ogni confine
tra la vita e il romanzo. Dico addio
a voi restanti”. E poi tranquillamente
continuare la strada.
Compagno, è già l’alba.
È già l’ora d’un’altra fatica.
E tu maledici ogni giorno
che ancora
rinnova la strada nemica:
e tu
che la vita degli altri
hai vissuto
nel sogno recente,
rivolgi l’estremo saluto
a ciò che per niente
amasti stanotte.
Compagno.
Allaccia le cinghie,
riprendi il tuo sacco.
Ritorna a scordare
le cose negate di ieri,
ritrova i pensieri
irrequieti
che portan lontano.
Compagno, compagno.
Cos’è
che ti fa meno forte:
è forte il sapere che morte
si chiama
la sosta futura?
È forse una nuova paura
che il cuore ti serra
e i passi t’acquieta?
È forse la meta che oggi
più folle ti sembra?
Compagno, rimembra
perché cominciasti
l’andare:
ricorda quel mondo che odiasti,
le immagini amare
che un giorno
ti spinsero fuori
dagli uomini.
Compagno: ricorda e prosegui.
Certo
ci accorgeremo a un tratto
d’esser vecchi.
Sarà come se sfatto
dentro di noi
si fosse qualche cosa
che pareva durevole
perché ancora incompiuto,
qualcosa che pareva
non andasse perduto
perché non si sapeva come, quando
lo si era trovato.
Amica, ti domando
che mai faremo allora.
Ricorderemo? E cosa?
Che momenti saran da ripensare
nel poco tempo
della sosta estrema?
Che ore rivivremo dal groviglio
di un passato fuggente,
faticoso,
che negli occhi
non ci ha lasciato niente,
se non la voglia ansiosa
di poterli serrare?
Guarderemo negli altri
quelli che sorgeranno,
la verdicante, gaia giovinezza
che noi non ci accorgemmo
d’aver avuto in mano,
quando la mano tendevamo aperta
a chiedere di più?
Come certa
sembrerà la disfatta!
E l’inutile strada che per tanto,
amando, disperando,
maledicendo
percorremmo a fianco,
ci parrà così sciocca,
così breve,
da lasciarci capire finalmente
cos’è l’umanità!
Forse non rimarrà
che chiedere un’ultima volta
cos’era
la smania di giungere,
se alla meta
portiamo un cuore stanco,
un’anima scialba che soltanto
desidera tornare.
Davanti alla vecchiezza
forse amara
ci sembrerà più facile
la morte…
“Ma allora cos’è questa morte che tra le crepe della vita ci guarda cogli occhi d’un’amante respinta? Ce la sentiamo nelle pupille, qualche volta; qualche altra nei sensi che la sua terribile inconsistenza affila, scarna. Guardiamo a lei come si guarda al fondo d’un orrido e ci corre per il corpo lo stesso raccapriccio che ci fa ritrarre, lo stesso inverosimile fascino che ci tiene inchiodati a fissare. La morte è la sola verità che l’uomo non può permettersi d’ignorare.”
(Fine aprile 1945)
LETTURE: Dn 7,13-14; Sal 92; Ap 1,5-8; Gv 18,33-37
«Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto»: così il profeta Daniele ci presenta il Figlio dell’uomo, il Messia venturo che tutto Israele attendeva. È un sovrano onnipotente, destinatario di un potere immenso e indistruttibile, re di un regno che non vedrà mai la decadenza.
Ma il re che Gesù incarna è invece uno che «ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno» (Ap 1, 5-6): siamo noi dunque a formare il suo Regno, noi, gli uomini da Lui amati! E questo regno è un regno d’amore e di servizio, non di potere e di sopraffazione.
Può apparire anacronistico il testo del Vangelo odierno in un mondo dove il potere è ricercato con bramosia, con cinismo. E anche gli stessi apostoli evidentemente non se ne rendevano conto, quando discutevano su chi fosse il più grande; ma il richiamo che Gesù fa a loro è chiaro: «per voi non dev'essere così; anzi il più grande tra di voi sia come il più piccolo, e chi governa come colui che serve» (Lc 22,26). È il servizio fraterno il nucleo fondante del regno che Dio vuole attuare nel mondo; è un re che serve quello che oggi celebriamo nella liturgia; un uomo nella sua debolezza estrema, uno che «ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie» (Mt 8,17); un re che ci invita a cambiare i nostri criteri di giudizio; un re che viene a dirci che regnare è in realtà servire, che solo chi si pone al servizio dei fratelli può entrare nel regno del Padre suo. Perché per primo è stato proprio il Re dell’universo a farsi “carne”, cioè povertà assoluta, debolezza, tenerezza di creatura; ha rifiutato lo sfarzo e la ricchezza dei potenti per rivelarsi ai piccoli; ha scelto la fragilità degli uomini perché è lì che vuole abitare; ha deciso di rivelarsi nel nascondimento, perché il suo regno non è di questo mondo.
Paradossalmente però la sua scelta di debolezza diventa per Pilato (e forse per noi) un ostacolo a credere alla vera natura del Cristo. Il dialogo fra i due mostra l’incomprensione totale del governatore, che ubbidisce, senza rendersene nemmeno conto, alle logiche perverse della politica, alle mire violente del Sinedrio, condannando un uomo che pure ritiene innocente. Pilato cerca il dialogo, ma non è disposto ad ascoltare: per questo finisce per non capire niente di Gesù, né del senso profondo del suo essere re. Il senso vero della regalità del Cristo è dare testimonianza alla verità: la verità del Padre, il senso vero della vita e della morte, la verità del male che costituisce sempre per noi un interrogativo irrisolto. Solo accettando la regalità di Cristo come debolezza estrema, sapremo accettare la nostra debolezza che ci tormenta. Solo regnando con lui nel servire, sapremo riscoprire che il servizio è l’unico modo di essere «eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rom 8,17).
Così allora preghiamo, con le parole della Colletta della Messa odierna: «illumina il nostro spirito, Signore, perché comprendiamo che servire è regnare, e con la vita donata ai fratelli confessiamo la nostra fedeltà al Cristo, primogenito dei morti e dominatore di tutti i potenti della terra».
Giusi Quarenghi è nata nel 1951 a Sottochiesa, una piccola frazione del comune di Taleggio; della valle in cui è nata ha detto: «La mia valle era la mia isola». Ma da quest’isola è uscita una straordinaria vocazione di scrittrice per l’infanzia (e non solo): racconti, storielle, filastrocche, testi di divulgazione, sceneggiature, romanzi, fiabe, ma anche cinema, cartoni animati, fumetti. Nel 2016 ha anche proposto i Salmi "per voce di bambino". Ogni sorta di scrittura perché, come lei stessa narra, «la lettura era una chiave che mi permetteva di aprire ogni parola che fosse scritta. Da lì mi sono anche rassegnata alla scrittura. Leggendo, frequentando ed amando le storie degli altri, cominciano a venirti in mente le tue. E l’unico modo per fermarle è quello di scriverle».
Poi nel ‘99 è la volta della prima raccolta di poesie, Ho incontrato l’inverno, seguita nel 2001 da Nota di passaggio, “poesia al femminile”, e nel 2006 da Tiramore. L’ultima silloge è recentissima, del 2017, e si intitola Basuràda. Come spiega l’autrice «Bas-ura è l'ora bassa a ridosso del tramonto, l'allargarsi quasi improvviso del giorno in una luce vasta e stillante, come di rugiada; così nella sera si insinua un sentimento d’aurora, chiasmo non solo temporale, eversivo e struggente. Quanta più luce, e che luce, nell’imminenza della notte». È una luce reale e nello stesso tempo metafisica quella che l’autrice ammira incantata e che ci offre come spunto di meditazione, per farci contemplare il mondo con occhi di bambino e contemporaneamente di adulto. È luce che si alterna serenamente con il buio, in un eterno e tranquillizzante fluire del tempo. E da questo avvicendarsi di luce e oscurità scaturisce una francescana «laus creaturarum» che si reitera e diffrange nella «guancia dell’aria» e nella bocca della luce, nel cielo e negli alberi, nella pioggia e nel tramonto, nel silenzio e nei «respiri trasparenti della neve», nel «piccolo di rapace» e nella «polvere di pietra», nella «bacca rossa» dell’infanzia e nel tiglio che «domani sarà miele», nel gelsomino che vive «in un vuoto del muro di pietre».
Accanto alla meditazione sulla serenità della natura vi è spazio anche per l’agonia e la morte della madre, vissuta però non come un dramma insanabile, ma come un evolversi naturale imprescindibile, un esaurirsi «a goccia a goccia», «fiato / su fiato», «di poco in poco dal meno al niente». E sembra quasi che un’altra madre le si affianchi, nel dialogo muto tra l’angelo e l’annunciata, nella «casa di pane e di pietre» dove «Dio ha scelto / di non sapere», ha scelto di cogliere «il filo del labirinto / di ogni creatura viva». È una «lama d’amore» che si insinua nel «cuore di luce piena», tra il buio e la luce, tra l’ansia e la pace, tra il dolore e la gioia.
Aspetta la notte la luce
che apre al cielo il respiro
Bianca silente soave
cammina gelata sulle punte
dei rami tra i sassi e le stelle
Infante inarcata rotonda
dal basso illumina il cielo
è la neve luce di terra
Lode alla guancia dell’aria alla bocca
di luce ai suoi angoli tondi
che non feriscono mai Lode
al cielo che la guarda agli alberi
che le crescono di fronte alle foglie neonate
e già ragazze segrete Lode
alla pioggia al tormento che il davanzale
sostiene Lode al muro
alle sue frasi di pietra al gatto rosso
muezzin del tramonto Lode
al silenzio che mi lascia il suo
corpo ai respiri trasparenti della neve
appena stata
Questo autunno del bosco è lo svolo
della voce femmina
della terra madre
che non so cosa pensa di notte
e i desideri cela
finché al sole pur poco
li svela
Ci vuole coraggio per essere foglie
e attenzione
al tempo del cominciare
e del finire
quando il vento
pare più forte ma è solo
che è venuto il momento
A goccia a goccia mia madre muore fiato
su fiato sguardo su sguardo mia madre
muore di poco in poco dal meno al niente
mia madre muore in stretta economia
come faceva con ogni cosa buona perché
durasse ancora un po’ solo con l’acqua
si lasciava andare
In piccoli respiri quieti a mano
a mano si sfila dal suo corpo ritrova
l’insieme vuoto e si riconsegna
anche nella morte madre
Amarti figlio mio
è amare il tuo segreto
dove tu sei segreto
segreto persino a te
segreto a me che t’amo
segreto perché ti amo
Posso fare del mio cuore schegge
grumi e polvere di pietra posso
buttarlo ai cani vederlo fare a fette
sul marmo del macello
negarlo sotterrarlo Ma non
sopporterò il solo farsi avanti
dell’ombra del pensiero
che è questo che tu vuoi
uccidermi a patto
che io non muoia mai
L’ho ritrovata la bacca rossa
della mia infanzia mortale
la polpa scarsa il nocciolo
importante insiste a lungo asprigna
e legante Poi di colpo il rosso si fa
scuro il gusto pieno maturo Sulla pelle
ride e brucia la carezza delle foglie
stropicciate di nascosto
L’infanzia non muore giura
la bacca di cornàl mano sul bosco
Non temere Maria
ho arrotolato le ali lasciato
il paradiso Era troppo per me
Voglio fermarmi qui
nella tua casa di pane e di pietre
nella tua voce bianca
come polpa di castagno Non temere
Maria sono
un angelo portoghese
volo senza annunci senza carte d’imbarco Sono angelo
zingaro non temere
Maria le mie impronte sono ali
Me le prenderanno
per sapere chi sono le prenderanno
Non servirà non temere Maria
nemmeno loro sapranno
quello che persino Dio ha scelto
di non sapere
il piccolo infinito
il filo del labirinto
di ogni creatura viva Non temere
Maria Sono l’angelo degli elementi respiro
terra cammino aria bevo fuoco morirò
acqua mio testimone il legno
di cicatrici e fiori
In braccio alla tua ombra
ascolto il tuo respiro
partitura incisa cantata
con lama d’amore
e abbasso gli occhi
a cercare il cielo
Perché un angelo?
Custodisce i sogni
E la spirale?
È impronta del tempo profondo
E le ali chiuse?
Sono arrivato
dove volevo
dove sono voluto
Temo le sere di luce le sento
bussare alla porta sbarrata
già nel pomeriggio hanno provato le nocche
ma il giorno ha altro da fare e poi
muore la veste lucente gli scivola via
dalle spalle dal collo dai fianchi capaci
resta la sera la sento impazzire la sera da sola
annodo le mani raccolgo la pelle le nego
illusione che resti al di qua del mattino
Si tenga a quello che teme di più
alla splendida notte
Ho mandato il tuo corpo a memoria
ripasso le frasi della tua pelle le virgole
delle tue ossa i punti dove si fermano
i piedi si appoggiano i fianchi
faccio scorta della curva delle orecchie
del tondo delle unghie di ogni piega d’odore
del ti tocco e del mi tocchi
Che tu mi manchi
è il mio ultimo amore
Il gelsomino
bianco messo a dimora
con tutte le cure è morto vive
invece in un vuoto del muro di pietre
il seme sfuggito anche al vento
randagio caparbio fratello
capace di farsi bastare ogni
niente Lo nutre il desiderio
quello che gli manca
Non vedo fin là
ma adagio lo so ti ritrovo sull’acqua
distesa nella luce dei sassi in grembo
alla barca leggera Manca poco alla riva
Vorranno pur dire qualcosa queste foglie
così lente a morire che insistono
a stare sui rami d’inverno i viali
in città ricolmi di gialli gloriosi di ruggini
caldi il cielo che non trova dove infilarsi
le chiome compatte che il vento non smaglia
la pioggia non buca vorranno pur dirmi
qualcosa
Lo ripongo con cura ogni sera
a portata di mano ma lo ripongo
non lo porto con me lo ripongo
col suo carico buio
Al mattino ritrovo ogni cosa
l’orologio le fedi gli occhiali
le parole i vólti l’attesa il cuore
no non il cuore
non là dove l’avevo lasciato
con il suo carico buio
Vent’anni fa moriva a Roma all’età di 86 anni Gioconda Paleotti, più nota come Joyce Lussu, moglie in seconde nozze del grande antifascista sardo Emilio Lussu. E forse in questo caso la fama del marito ha in parte danneggiato la donna, nonostante sia stata figura decisamente significativa sia in campo politico (antifascista, partigiana, medaglia d'argento al valor militare, capitano nelle brigate “Giustizia e Libertà”, attiva in organizzazioni internazionali), sia in campo letterario come saggista, scrittrice, poeta, traduttrice. D’altronde lei stessa affermava, con una buona dose di amarezza: “Le donne non hanno un proprio nome. Le donne devono sempre portare il nome di un uomo, o è il padre o è il marito”. Oggi è giunto il momento di restituire a questa donna straordinaria il posto che le compete nel panorama letterario del Novecento.
La poesia è stata per lei un tentativo riuscito di utilizzare questo che lei considerava un linguaggio privilegiato per svelare il senso ultimo della realtà: è stata una chiave di lettura della storia, un modo per vincere la componente di casualità sempre presente nell’esistenza umana. D’altronde il titolo stesso della sua raccolta più importante, Inventario delle cose certe (1998), indica proprio la sua scelta di inventariare, di registrare i fatti per sviscerarne la dimensione profetica, proponendola poi in un linguaggio a tutti comprensibile, come le aveva insegnato il grande poeta turco Nazim Hikmet, da lei tradotto in italiano fin dal 1965.
Nel volume citato troviamo le sue poesie giovanili, già celebrate a suo tempo da Croce, accanto a poesie più recenti, che trattano tematiche d’amore e di genere, politiche e “partigiane”: un caleidoscopio di argomenti unificati dalla sottile vena ironica della Lussu (“la maniera migliore di vivere – diceva – è quella di non prendersi troppo sul serio”), ma anche dalla profondità della riflessione che ne scaturisce. Così la definizione sbarazzina della poesia come semplici “parole tracciate in righe diseguali” nasconde il profondo rispetto per il ruolo della parola poetica; la fantasmagorica visione della luna “rotta in cinque pezzi che galleggiano nel cielo” rinvia agli intricati pensieri delle donne; il mancato successo rinfacciatole da un amico si trasforma in una coraggiosa affermazione di sé, in cammino “verso l’imprevedibile orizzonte”. E ancora si vedano le coraggiose poesie per la liberazione della donna, le trasparenti accuse al maschilismo imperante, l’eroica certezza che la vita sia un viaggio di ricerca che non finisce mai.
Grande pittrice di paesaggi e occasioni, di corpi e di ambienti, Joyce Lussu ha saputo collocare la sua contemplazione nell’ambito di un pensiero forte, che osa dire il bello e il peggio del mondo in cui vive.
Che
cos’è la poesia?
Non
è un problema
difficile da
risolvere.
Basta
andare in giro con un pezzo di carta
su
cui sono tracciate parole
in
righe diseguali
e
chiedere al primo che passa
scusi,
legga, le sembra una poesia?
Se
il primo passante
è
recalcitrante
si
prova con un altro
e
alla fine magari con qualche parente
vicino
o lontano
con
qualche conoscente o amico devoto.
Uno
si trova sempre
che
dice: è una poesia
certo,
che vuoi che sia,
è
bella, non c’è male.
Dopo
questa verifica
si
può andare a riempire un altro foglio
di
righe disuguali
e
cominciare da capo.
La
poesia
è
una bugia
che
sembra più vera del vero
più
vera della politica
della
psicologia
e
anche della matematica
è
una menzogna
detta
con estrema convinzione
e
passione
uno
specchio trasparente
fragilissimo
e deformante
che
appare solido come la tavola
cui
s’aggrappa il naufrago
un
catarifrangente
notturno
che brilla solo se lo illumini coi fari
e
subito sparisce nel buio.
La
luna si è rotta.
Si
è rotta in cinque pezzi che galleggiano nel
cielo
squallidamente
come
cinque cocci di scodella.
Era
una luna piena e luminosa
Che
aveva un’aria abbastanza felice.
Lì
per lì ho creduto che i cosmonauti e i satelliti
artificiali
l’avessero offesa in qualche modo.
Ma
poi ho capito ch’era tutta colpa mia.
La
guardavo fissamente con pensieri tristissimi e scomodi
e
tutt’a un tratto – trac – si è rotta in
cinque pezzi
quasi
senza rumore.
Certo
sono i miei pensieri che l’hanno urtata
in
un momento in cui si sentiva particolarmente fragile.
Questi
pensieri delle donne liberate sono una cosa complicata
e
la luna ch’è tonda e semplice ci si trova male.
Continua
per te la fatica diurna
di
ieri di oggi
pesante
è la brocca che porti dal fonte
pesante
il cammino in salita
dai
ciottoli tondi
pesante
la cesta di gialla farina
che
stacci
pesanti
quei tuoi fratelli aggrappati
ai
tuoi bracci
eppure
ti senti leggera
leggera
i
gesti che compi
son
d’oggi di ieri
le
stesse parole
tu
dici
non
muta la piega del viso abbronzato
dal
sole spietato
nel
cavo del raro sorriso
le
mani tue dure operose
non
hanno mai posa
eppure
sei lieve sei lieve
sei
nuova sei nuova
sei
come una nuvola rosa
sospesa
nel cielo
perché
quel ragazzo ricciuto
ti
ha guardato e sorriso
“Senti,
sia come sia, ti confesso
che
non m’interesso molto al successo
ma
appassionatamente al succede
e
al succederà.
Il
successo è un paracarro
una
pietra miliare
che
segna il cammino già fatto.
Ma
quanto più bello il cammino ancora da fare
la
strada da percorrere, il ponte
da
traversare
verso
l’imprevedibile orizzonte
e
la sorpresa del domani
che
hai costruito anche tu…”
Ricominciamo
l’inventario
senza
farmi mettere in crisi
da
chi mi dimostra che tutto quel che dico
è
scandalosamente approssimativo
e
che faccio del vocabolario
un
uso piatto e abborracciato.
Posso
usare soltanto parole
tra
le quali mi sento a mio agio.
Posso
soltanto parlare.
Perciò
parlo.
Chi
ha detto che la vita è breve?
Non
è vero niente
La
vita è lunga quanto le nostre azioni
generose
quanto
i nostri pensieri
intelligenti
quanto
i nostri sentimenti
disinteressatamente
umani.
La
vita
è
infinita.
C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede
ancora la marca di fabbrica
Schulze Monaco
c’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio
di scarpette infantili
a Buchenwald
più in là c’è un mucchio di riccioli biondi
di ciocche nere e castane
a Buchenwald
servivano a far coperte per i soldati
non si sprecava nulla
e i bimbi li spogliavano e li radevano
prima di spingerli nelle camere a gas
c’è un paio di scarpette rosse
di scarpette rosse per la domenica
a Buchenwald
erano di un bimbo di tre anni
forse di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto
lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini
li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perché i piedini dei bambini morti
non crescono
c’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.
Vorrei sapere quando ti ho perso
in quale data in che momento
forse quel martedì ch’ero triste
o un mese prima d’averti visto
forse quella domenica pomeriggio
ch’ero allegra e parlavo troppo di me
forse in una data remota
inesplicabile e ignota
come il tre marzo del millenovecentotré
Vorrei sapere dove ti ho perso
in che punto preciso della città
forse davanti ad un semaforo
forse in un bar o in una stanza
forse dentro ad un sorriso
forse lungo una lacrima
che colava giù per una guancia
forse tra le aureole gialle dei lampadari
sospese nella nebbia dei viali.
Vorrei sapere perché ti ho perso
il motivo la necessità dell’errore
forse perché non c’è tempo
o perché c’è stato l’inverno
e adesso viene la primavera
ma con tanto poco sole
tra i muri d’acciaio e cemento
che tremano per il rumore
delle macchine, delle fabbriche, degli ascensori.
Ma non voglio sapere che ti ho perso
che ti ho perso e dove e quando e perché.
Chandra Livia Candiani, poetessa milanese di origini russe, ha pubblicato finora le raccolte Io con vestito leggero (2005), La nave di nebbia (2005), La porta (2006), La bambina pugile ovvero la precisione dell'amore (2014), Bevendo il tè con i morti (2015) e Fatti vivo (Einaudi 2017). I riferimenti culturali cui attinge sono per lo più estranei alla tradizione italiana, spaziando dai poeti russi a quelli orientali, da Kabir a Tagore, da John Donne a Emily Emily Dickinson a Rilke. La sua visione del mondo, che indubbiamente risente soprattutto degli insegnamenti buddisti, da un lato la porta a rammaricarsi per l’insensibilità dell’uomo nei confronti della natura e dei suoi simili, dall’altro lato le permette di cogliere gli aspetti più nascosti degli oggetti, che divengono nella sua poesia presenze misteriose quasi umanizzate.
Alla base della sua concezione del mondo sta la capacità di «mantenere il canale della parola libero per altri ascolti, per altre visite, [la capacità] di ascoltare l’essenziale»: fondamentale è infatti per lei salvare la parola in via d’estinzione e offrire agli uomini una lettura del reale che vada oltre il puro dato fisico, perché «poesia è conoscenza e passione» e le parole sono «segni sulla pelle del mondo». Anche il dolore interpella drammaticamente la Candiani («Il dolore degli altri / non mi sta in mano / e nemmeno in gola / più che altro sta nel petto / nella sua memoria / luogo schivo / che fa stazione / che scartavetra le fughe»), portandola a ricercare una comunanza di intenti e una consonanza di sentimenti con l’umanità intera.
La raccolta più significativa è certamente La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore: un canzoniere che, fin dal titolo ossimorico, scandisce le tappe dell’amore in tutte le sue sfumature, dalle più tenere alle più spietate, nella quotidianità e nell’eccezionalità della vita, tra persone umane e oggetti amati, oltre ogni dogma e ideologia precostituita. La “precisione” di cui parla il titolo è in realtà un’utopia, impossibile da raggiungere nella sua pienezza, perché l’amore è sconfinato, «la [sua] misura esatta è l’infinito».
***
La
vita nuova
arriva
taciturna
dentro
la vecchia vita
arriva
come una morte
uno
schianto
qualcuno
che spintona così forte
un
crollo.
È
una scrittura tanto precisa
e
netta da non lasciare dubbi
né
sfumature di senso eppure
non
dà direzioni né mete.
La
vita nuova irrompe
come
un vecchio che cade
sul
ghiaccio, un pensiero
davanti
a un muro, la
sirena
di un’ambulanza.
Non
ci sono feriti
né
annunci di sciagura
solo
noi da convincere
a
lasciar perdere il miraggio
di
una vita rettilinea, di un
orizzonte,
lasciarsi curvare,
piegare
alla tenerezza
delle
anse del destino.
La
vita nuova
è
come un grande tuono
sbriciolato
poi
a poco a poco
l’erba
si china
sotto
la pioggia
la
prende
la
beve.
***
Dunque
c’è la luce
e
ogni foglia è attaccata al ramo
con
esatto amore
e
ogni foglia in orario
lascia
il ramo
con
audace resa
e
ogni uscire dalla soglia
del
corpo è ricevuto
con
unanime benvenuto
da
quella scienza della gioia
che
proprio ora proprio qui
riempie
il foglio di ghirigori
per
dirti che dunque
la
luce c’è.
***
Esiste
la musica.
Esiste
proprio,
come
lenzuolo lampada
orologio
e casa,
come
nuvola,
quel
suo disumano orto
d’intenzione
di
ascoltare l’anima
esiste.
Come domino
di
note che si crollano addosso e fanno
insieme.
Insieme si fanno, e sono fatte
musica.
Qualcosa che abbiamo
perduto
o dimenticato
o
rotto forse
per
mani troppo grevi, qualcosa
di
spezzato. Un silenzio eseguito
un’anima
di ghiaccio
conservata
sotto sale.
Ma
cosa cosa ho perduto
io,
mentre ti ascolto
cara
faccia del nulla
caro
amore senza direzione
care
ossa: grazie grazie
c’è
stato qualcuno
prima
di me. È ora
di
affrontare la musica.
***
Io
aspetto
come
il melo
aspetta
i fiori –
suoi
–
e
non li sa
puntuali
ma
li fa,
simili
non
identici
all’anno
passato.
Li
fa precisi
e
baciati nel legno
da
luce e acqua
da
desiderio
senza
chi.
Sorrido
sotto il noce
ai
suoi occhi tanti
che
mi studino bene
la
tessitura dei capelli
e
ne facciano versi
di
merlo e di vespa
di
acuti
aghi
di pino
e
betulla appena sveglia.
Non
so chi sono
ho
perso senso
e
bussola privata
ma
obbedisco
a
una legge
di
fioritura
a
un comando precipitoso
verso
luce
spalancata.
Come
andare al tempio,
come
un lago tranquillo
le
mani senza offerte
tranne
quello che hai sfamato
diventato
respiro
bruma
tra i capelli
e
preparare parole povere
snocciolate
via
via che la porta
si
avvicina?
Come
andare al tempio,
furiosi
e famelici
con
il sangue che bussa
insieme
agli annegati,
con
le mani zuppe
di
lacrime degli altri senza faccia,
con
i sogni degli animali
che
non sanno di nascere
crescono
schiodati dalla terra
per
sfamare i sazi?
Come
andare al tempio,
saltellando
o strisciando
stanchi,
stanchi
di
pregare silenzio e trovare
solo
nomi abbandonati
voci
scucite?
Come
girare le spalle al tempio
e
tornare lentamente
verso
casa e ogni passo
farlo
santo appropriato
e
insieme incompetente,
ogni
respiro accompagnarlo
precisamente
e
poi cadere a terra come ammainati
e
tenere la propria mano
e
dirsi eccomi qui
piccola
come un pulviscolo
eccomi
spazzata via
alla
domanda schietta:
briciola
che ha paura del pane
è
la morte?
***
L’amore
è diverso
da
quello che credevo,
più
vicino a un’ape operaia
a
un tessitore
che
a un acrobata ubriaco,
più
simile a un mestiere
che
a un sentire.
Io
amavo
un
po’ con la memoria astrale
e
un po’ con giustizia poetica,
ma
l’amore
è
più vicino a una scienza
che
a una poesia,
ha
delle sue regole di risonanza
e
altre di respingenza,
ha
angoli di incidenza
per
profili alari e luce,
ma
non ha regole per il buio
e
l’assenza di ali.
L’amore
è molto simile
all’insonnia,
non
devi soffrirla
solo
ospitarla,
lasciare
che ti squassi
faccia
di te un sistema nervoso
senza
isolamento,
una
corda tesa
di
strumento musicale ignoto.
Essere
temi musicali
non
è una vocazione
ma
una disciplina di spoliazione,
è
farsi ossi
limati
dalle
onde
goccia
che si disfa
nel
galoppante mare.
***
Siamo
nuvole
i
nomi complicano la tessitura
ma
siamo nuvole,
notturne
mattiniere
dipende,
oltraggiose
spaurite
candide
sprezzanti,
cavalieri
e cavalcature
bastimenti
e animali
siamo
pronte
a
dissolverci con fierezza
in
quel tutto pacatissimo
del
cielo ultimo
che
ci affida il mondo.
Siamo
nuvole
cambiamo
vita di frequente
lì,
sopra il disordine della realtà
il
fondo
sereno
delle cose,
la
pioggia
la
sete.
Il 27 ottobre di cinque anni fa moriva Gianmario Lucini. Poeta, saggista, “umanista”, editore, blogger e soprattutto - come amava definirsi - “costruttore di pace”, era nato a Sondrio nel 1953, si era laureato in Scienze dell’Educazione e aveva lavorato come formatore in diverse città, da Roma a Como a Bolzano. Grande merito fu quello di aver organizzato un Premio di poesia intitolato a David Maria Turoldo, il cui ricavato era interamente devoluto a Paesi del Terzo Mondo, cui dedicò energie e attenzione particolare. Vasta la sua produzione, che spazia da racconti brevi ad antologie di poeti, da saggi critici a raccolte poetiche, tra le quali vanno ricordate almeno Allegro moderato (2001), Sapienziali (2011), Krisis (2012) e Istruzioni per la notte (2015).
Le “istruzioni” dell’ultima raccolta sono in realtà mappe di un mondo interiore, tracciati di un difficile itinerario del poeta alla conquista del senso, in un viaggio ascendente che lo porta dalle città di pianura alle vette delle montagne amate. Lucini ritiene che l’uomo per raggiungere la pienezza di vita debba farsi viaggiatore a tempo pieno, senza per questo perdere la capacità di fermarsi a riflettere, a fare memoria del proprio passato: solo così il viaggio può divenire ansia di conoscenza, di sé e dell’altro, desiderio mai appagato, perché immensa è la libertà che si dispiega davanti a chi è perennemente in cammino.
Quella di Lucini è dunque una poesia di testimonianza, di attenzione per l’uomo, per tutto ciò che riguarda l’uomo, anche se questi è spesso “l’essere che fabbrica / il suo inferno ubriaco di luce”, artefice di violenze al fratello e alla Terra stessa che lo nutre: il suo riscatto può nascere allora solo dall’appassionata ricerca di un mondo futuro fatto non di brama di potere e di conquista, ma di povertà e fragilità esibite senza pudore. Un mondo che Lucini vorrebbe ricalcasse le orme della Chiesa primitiva, povera e accogliente. Un mondo dove le presenze animali e inanimate spesso si antepongono a quelle umane, disegnando per l’umanità un cammino di purificazione e di rinascita. Un mondo dove nessuno deve essere lasciato indietro, perché “fino a quando / non arrivi anche l’ultimo in vetta / nessuno può pensare d’esserci arrivato / per davvero”.
Croci sulle alture
Ci sono croci sui monti a proteggere le valli
vincoli di rami che incidono l’azzurro
nell’ocra e nei gialli dell’autunno;
stanno lì a vegliare
il passo di chi risale e d’inverno
non le scalza la bufera.
Sono vecchi anacoreti intenti a meditare
le sorti del mondo.
E soltanto il camoscio quando passa
si ferma a pregare.
***
Hai mai veduto il passero meditare?
se ne sta sul davanzale, proteso
sull’abisso come a contemplare
davanti a sé il mare dei prati, l’inatteso
sole marzolino che a vita lo richiama;
o forse ascolta quell’adagio mozartiano
che da oltre il mistero pare ravvivare
di toni più vivi il giallo e il verde
di fine inverno. Che pensiero
misterioso può essere il pensare d’un passero,
rabbuffate le piume al primo vento
che lo punge; e che strano sentimento
m’incute il vederlo sulla pietra
nuda nell’aria appena stemprata
senza più miche di pane – poi che, avanti, in breve
una famelica truppa tutto ha divorato.
È come la nottola della filosofia
che giunge dopo la festa del giorno,
ristà, dice e non dice
ma non se ne va via...
***
Le parole che scrivo sembrano ammiccare
beffarsi di me, mutare
pelle uscendo dalla penna
strisciare di lato dal foglio troppo angusto
troppo proteso sull’abisso
che tutto inghiotte.
E si dibattono nell’esile infinito
di segno accosto a segno che tradisce
quell’ansia di conformità
che ci rende fratelli nella colpa.
Siamo prede immobili, trafitti
da un veleno che ci paralizza
ma ci commuove l’attimo che fugge
e pagheremmo tesori di lacrime
per ritrovare la notte.
La follia del giorno ci distoglie
squassandoci con una risata, mentre
poco lontano accompagnano un feretro
fra urla di donne e salve di proiettili.
Poesia della rosa
***
Liberami dunque dal tuo pianto:
non ti posso più ascoltare:
è una pena lasciarti sulla soglia
spiegare a me stesso la fuga in avanti
che m'assilla
- già sono col cuore proteso
oltre la morte e nel presente brucio
falena per troppa smania di luce.
Sei come vento che lamenta inconsolabile
vento che si leva e s'addormenta
quando nidiate pigolano a sera;
non ti dai pace e questo mi spaventa
- più del dolore la follia che t'incanta...
***
***
L’impoetico
dorme nella mia scrittura
lo
trovo nei segni di questo paesaggio
nello
scompiglio di mozziconi di palazzi
che
s’affacciano violenti in riva al mare.
I
segni che mi nascono dentro
non
hanno voce né figura.
Trovo
la bellezza appena svolto l’angolo
e
mi appare serena nella luce del mattino
fra
il verde antico di colture abbandonate
la
facciata materna d’una casa contadina;
brillano
al sole aranci maturi
che
nessuno coglierà.
Questo
paese ha bisogno di tornare
al
suo passato e riscriverne il copione
piantare
nuovi alberi di ulivo, confidare
nel
sorriso del mare, nel fresco aspromontano
con
cuore infiammato e nella mano
il
fiore giovane della ribellione
la
bocca salata per lo sdegno e nello sguardo
civili
orizzonti di collera.
(istruzioni per l’ascesa, VI)
Alla sapienza è affidata la salita
al conosci te stesso della vita
che sa ognuno per quanto ne sappia.
S’accorda il passo ma per tanto si salga
alcuno arranca su per la salita
greve il respiro e i muscoli induriti
da poco esercizio e da una vita
fiacca e sedentaria. Uno s’accoda
lo incita lo spinge l’incoraggia
né si cura se già in alto i compagni
scompaiono alla vista e i richiami
si fanno fiochi e lontani. S’inizia
insieme nell’ascesa e fino a quando
non arrivi anche l’ultimo in vetta
nessuno può pensare d’esserci arrivato
per davvero: è come se fossimo
su una grande nave, chi a poppa chi a prora:
dal capitano al mozzo, al clandestino
partito per fuggire più che per partire.
(istruzioni per la città, II)
In mezzo alla città si eleva un ponte
altissimo. Il tempo
vi scorre sotto le campate,
fra argini assolati dove alberi
s’affacciano e case. Uomini
e donne l’attraversano come
seguendo una traccia in cerca di un totem
da qualche parte sepolto trai i vialetti scuri
di un unico mondo diviso dal fiume.
Puoi fingere di credere a questo
eterno rito dell’andare e del venire
per le vie della città, puoi credere
al ponte, al tempo, ai rumori
di un cuore meccanico, ma se
aguzzi bene lo sguardo e l’udito
senti in un grido incarnarsi la città.
Non è un ronzio meccanico il suo rito,
soltanto un altro modo di gridare.
(istruzioni per il viaggio)
Per capire cosa chiede
a lui questo cielo
l’uomo percorre strade e ripercorre
i segreti del mondo senza posa
e s’arresta e riprende
il suo andare come andare di formica,
di volto in volto e di voce
in voce s’insinua in sogni e veglie,
ammassa in scrigni tesori
e mai si ferma a ricordare
il primo volto, la prima voce,
il primo bacio che lo trasse dall’arcano
vagito della sua domanda
-l’uomo, l’essere che fabbrica
il suo inferno ubriaco di luce-.
(istruzioni per un sentimento trascendente)
Questa notte avverto il tuo respiro nell’anima di maggio
mentre dilaga la pianura
e sono in viaggio verso dove
non m’importa, verso
l’alba morta di domani
nel vociare stranito d’una stazione ferroviaria.
Ora intorno mi voli e m’osservi
dai lampioni gialli che corrono nel buio.
Io raccolgo il Tuo silenzio e riconosco
la Tua Voce fra mille
nella ruota che sferraglia
nel parlottio di idiomi sconosciuti
nel lontano tremolare delle stelle.