Ada Negri tra socialismo e religiosità

Il prossimo 3 febbraio cadranno i 150 anni dalla nascita di Ada Negri, la scrittrice lodigiana divenuta famosissima con la prima raccolta poetica, poco più che ventenne, e rimasta sulla cresta dell’onda per oltre cinquant’anni. Il successo di pubblico e di critica accompagnò infatti tutta la sua carriera, che vide la pubblicazione di dieci libri di poesia e nove di prosa. Dopo la sua morte, però, pregiudizi ideologici e malintesi critici l’hanno fatta cadere nell’oblio: ed ora pare finalmente giunto il momento di riabilitarne la memoria e riconoscerne il grande valore.

L’esordio trionfale della Negri (Fatalità, 1892) deve molto al suo pensiero sociale, che scaturisce non solo dalle teorizzazioni in voga a fine secolo, dall’ideologia socialista dei Turati, dei Moneta, del primo Mussolini massimalista, ma soprattutto dall’esperienza personale, dai racconti della madre, operaia al lanificio (el fabricòn), e della nonna, portinaia in una casa nobiliare di Lodi. Fatalità è una raccolta poetica ancora acerba, che però propone un io poetante caparbio e determinato, che con giovanile vitalismo si oppone sia al «grasso mondo di borghesi astuti», sia allo stereotipo che prevedeva allora per il genere femminile solo ruoli subalterni e inferiori.

L’autobiografismo è d’altronde una costante che riaffiora carsicamente nell’opera negriana, come è evidente anche nelle successive raccolte poetiche, da Tempeste (1895) a Maternità (1904), dal Libro di Mara (1919) ai Canti dell'isola (1924), fino a Vespertina (1930), Il dono (1936) e Fons amoris (1946), che viene a ricapitolare l’intero percorso poetico. Costante è l’espressione dell’affetto per gli amati paesaggi lombardi e il ricordo malinconico della gioventù lodigiana, cui si affianca un’amara riflessione “politica” su giustizia e ingiustizia, che trova infine risposta solo nella dimensione religiosa dell’esistenza. Ma non mancano poesie d’amore, legate soprattutto all’infelice rapporto con Ettore Patrizi, testi dedicati alla madre, alla figlia e ai nipotini, poesie e prose nate da esperienze piacevoli nell’isola di Capri e in altri luoghi dell’Italia e della Svizzera.

Nelle prime raccolte Ada Negri intreccia tematiche sociali (che le varranno i soprannomi di “rossa valchiria” o di “vergine rossa”, sul modello dell’anarchica comunarda Louise Michel) e personali: ed è proprio dal calibrato intreccio tra questione sociale e questione femminile, fra empiti tumultuosi e cadenze delicate, che scaturisce il successo della sua prima produzione poetica.

da Fatalità

Senza nome

 Io non ho nome. Io son la rozza figlia
 dell’umida stamberga;
 plebe triste e dannata è mia famiglia,
 ma un’indomita fiamma in me s’alberga.
 Seguono i passi miei maligno un nano
 e un angelo pregante.
 Galoppa il mio pensier per monte e piano,
 come Mazeppa sul caval fumante.
 Un enigma son io d’odio e d’amore,
 di forza e di dolcezza;
 m’attira de l’abisso il tenebrore,
 mi commovo d’un bimbo alla carezza.
 Quando per l’uscio de la mia soffitta
 entra sfortuna, rido;
 rido se combattuta o derelitta,
 senza conforti e senza gioie, rido.
 Ma sui vecchi tremanti e affaticati,
 sui senza pane, piango;
 piango su i bimbi gracili e scarnati,
 su mille ignote sofferenze piango.
 E quando il pianto dal mio cor trabocca,
 nel canto ardito e strano
 che mi freme nel petto e sulla bocca,
 tutta l’anima getto a brano a brano.
 Chi l’ascolta non curo; e se codardo
 livor mi sferza o punge,
 provocando il destin passo e non guardo,
 e il venefico stral non mi raggiunge.

Birichino di strada

 Quando lo vedo per la via fangosa
 passar sucido e bello,
 colla giacchetta tutta in un brandello,
 le scarpe rotte e l’aria capricciosa;
 quando il vedo fra i carri o sul selciato
 coi calzoncini a brani,
 gettare i sassi nelle gambe ai cani,
 già ladro, già corrotto e già sfrontato;
 quando lo vedo ridere e saltare,
 povero fior di spina,
 e penso che sua madre è all’officina,
 vuoto il tugurio e il padre al cellulare,
 un’angoscia per lui dentro mi serra;
 e dico: «Che farai,
 tu che stracciato ed ignorante vai
 senz’appoggio né guida sulla terra?...
 De la capanna garrulo usignuolo,
 che sarai fra vent’anni?
 Vile e perverso spacciator d’inganni,
 operaio solerte, o borsaiuolo?
 L’onesta blusa avrai del manovale,
 o quella del forzato?
 Ti rivedrò bracciante o condannato,
 sul lavoro, in prigione, o all’ospedale?...»
 .... Ed ecco, vorrei scender nella via
 e stringerlo sul core,
 in un supremo abbraccio di dolore,
 di pietà, di tristezza e d’agonia:
 tutti i miei baci dargli in un istante
 sulla bocca e sul petto,
 e singhiozzargli con fraterno affetto
 queste parole soffocate e sante:
 «Anch’io vissi nel lutto e nelle pene.
 Anch’io son fior di spina;
 e l’ebbi anch’io la madre all’officina,
 e anch’io seppi il dolor.... ti voglio bene.»

Sfida

 O grasso mondo di borghesi astuti
 di calcoli nudrito e di polpette,
 mondo di milionari ben pasciuti
 e di bimbe civette;
 o mondo di clorotiche donnine
 che vanno a messa per guardar l’amante,
 o mondo d’adulterî e di rapine
 e di speranze infrante;
 e sei tu dunque, tu, mondo bugiardo,
 che vuoi celarmi il sol de gl’ideali,
 e sei tu dunque, tu, pigmeo codardo.
 che vuoi tarparmi l’ali?...
 Tu strisci, io volo; tu sbadigli, io canto:
 tu menti e pungi e mordi, io ti disprezzo:
 dell’estro arride a me l’aurato incanto,
 tu t’affondi nel lezzo.
 O grasso mondo d’oche e di serpenti,
 mondo vigliacco, che tu sia dannato!
 fiso lo sguardo ne gli astri fulgenti,
 io movo incontro al fato;
 sitibonda di luce, inerme e sola,
 movo. E più tu ristai, scettico e gretto,
 più d’amor la fatidica parola
 mi prorompe dal petto!...
 Va, grasso mondo, va per l’aer perso
 di prostitute e di denari in traccia:
 io, con la frusta del bollente verso,
 ti sferzo in su la faccia.

Hai lavorato?

 Dunque tu m’ami. Hai confessato; or, trepido,
 taci ed attendi, e ti scolora il viso
 un’onda di pallor.
 Vuoi dal mio labbro un bacio ed un sorriso.
 vuoi di mia fresca giovinezza il fior!...
 Ma dimmi: L’ansie, le battaglie e gl’impeti
 sai tu d’un ideal che mai non langue?
 Sai tu che sia soffrir?...
 Che ti val la tua forza ed il tuo sangue,
 l’anima tua, la mente, il tuo respir?...
 Hai lavorato?... Le virili insonnie
 de la notte in severe opre vegliata,
 di’, non conosci tu?...
 A qual fede o vessillo hai consacrata
 la tua florida e bella gioventù?...
 Non mi rispondi.... oh, vattene. Fra gli ozî
 lieti di sonnolente ore perdute
 torna, vitello d’ôr.
 Torna fra balli, carte e prostitute;
 io non vendo i miei baci ed il mio cor.
 Oh, se tu fossi affaticato e lacero,
 ma coll’orgoglio del lavoro in faccia,
 e una scintilla in sen;
 se stanche avessi l’operose braccia,
 ma t’ardesse nel grande occhio un balen;
 se tu fossi plebeo, ma sovra gli uomini
 cui preme e sfibra il vile ozio codardo
 ergessi il capo altier,
 e nel tuo vasto cerebro gagliardo
 avvampasse la febbre del pensier,
 io t’amerei, sì!... T’amerei per l’opre
 tue vigorose e la tua vita onesta.
 pel sacro tuo lavor;
 sovra il tuo petto chinerei la testa.
 forte di stima e pallida d’amor!...
 Ma tu chi sei?... Da me che speri, o debole
 schiavo languente fra dorato lezzo?
 Sgombrami il passo, e va.
 non m’importa di te va’ ti disprezzo,
 fiacco liberto d’una fiacca età!...

da Tempeste

Sgombero forzato

 Miseria. La pigion non fu pagata.
 A rifascio, nel mezzo de la via,
 la scarsa roba squallida è gettata.
 Quello sgombero sembra un’agonia.
 La tenebrosa pioggia insulta e bagna
 il carro, i cenci, i mobili corrosi
 dal tarlo, denudati, vergognosi.
 V’è un’anima là dentro che si lagna;
 e il letto pensa al disgraziato amore
 ch’egli protesse, e che le membra grame
 di due fanciulli procreò a la fame,
 o del tugurio maledetto amore!...
 E scricchiola fra i brividi: Chi il dritto
 diede a la donna schiava e mal nudrita
 di crear per un bacio un’altra vita
 d’angosce?... amor pei poveri è delitto.
 Sotto la pioggia il carro stride. Dietro,
 un operaio scarno, a fronte bassa,
 segue la sua rovina. Ei muto passa,
 ombroso il guardo, e non si volge indietro:
 e a lui presso è la donna, la piangente
 lacera donna, con due figli. E vanno
 senza riposo, e dove essi nol sanno,
 e la pioggia gli sferza orrendamente:
 un austero dolor che par minaccia
 per entro ai cenci ammonticchiati freme,
 freme nel carro che cigola e geme
 nei quattro erranti da l’emunta faccia.
 Quella guasta mobilia denudata
 che in mezzo al fango a l’avvenir s’avvia;
 quella miseria che ingombra la via
 sembra il principio d’una barricata.

Non tornare

 Non ritornar mai più. Resta oltre i mari,
 resta oltre i monti. Il nostro amor, l’ho ucciso. 
Troppo mi torturava. E l’ho calpesto,
 l’ho sfigurato in viso,
 l’ho morso, l’ho ridotto in cento brani,
 l’ho ucciso, ecco! Ora tace, finalmente. 
tace. Più lento per le vene scorre
 il sangue prepotente:
 posso dormir, la notte; e più non piango.
 te chiamando, affannosa. Oh, quanta calma!...
 Ne la penombra senza fine, senza
 moto, riposa l’alma;
 e tesse, tesse le oblïose fila
 d’un sogno di rinuncia. Non tornare. 
io, cieca e fredda, voglio odiarti, come
 ti seppi un giorno amare:
 odiarti pe’ miei freschi anni fiorenti
 che immolai, dolorando, a te lontano;
 povera gioventù senza carezze,
 sacrificata invano!...
 Ma nell’odio si soffre; ma si piange
 nell’odio.... ed io t’avrei sempre davanti
 anche imprecando a te. Non ho più forza
 di lotta o di rimpianti;
 voglio silenzio un gran silenzio!... Fate
 tacer quel fioco gemito, là in fondo.
 C’è qualcuno che lagnasi, un nemico,
 un malato, là in fondo:
 qualcuno oppresso da un immenso male,
 da un peso immenso a cui non può sfuggire;
 qualcuno che agonizza e chiede aiuto.
 E non vuole morire.

L’erede

 (dal quadro di T. Pattini).
 Di fuori è tènebra:
 dentro il tugurio
 freddo e deserto
 trema il lucignolo
 d’una candela
 con guizzo incerto.
 A terra è il rigido
 corpo d’un morto.
 Non sa, non sente;
 riposa. Il copre
 nero un sudario:
 sembra un dormente.
 La salma squallida
 è d’un robusto
 lavoratore,
 strappato al vomero,
 strappato al suolo
 fecondatore;
 ai campi fertili,
 a l’auree vigne,
 ai fieni aulenti;
 a le boscaglie
 folli di sole,
 nel sol fiorenti.
 Prona in un angolo
 giace una donna
 muta nel duolo.
 più lunge, un roseo
 fanciullo gioca
 sul nudo suolo.
 Non sa di triboli,
 non sa d’orrori,
 non sa di morte.
 Ei gioca, ingenuo,
 biondo, ridente,
 tranquillo e forte.
 Su lui la tènebra
 tutta s’affisa
 con occhio strano.
 Ha voci e brividi,
 pensieri e pianti
 l’intento vano.
 Da un rozzo bacio
 dentro una stalla
 venuto al mondo,
 di’, che t’aspetta,
 figlio di plebe,
 pargolo biondo?...
 La zappa ruvida
 corrusca al sole:
 l’aratro lento:
 meriggi torridi,
 furia di piogge,
 furia di vento:
 de la malaria,
 de la risaia
 la febbre impura:
 fatiche innumeri,
 pan bruno e scarso,
 stamberga oscura.
 Chi sarai?... Debole
 corpo impossente
 di mal nudrito,
 in buia, torpida,
 rude ignoranza
 inebetito?...
 Chi sarai?... Libera
 alma selvaggia
 di lottatore,
 de l’imo popolo,
 del solco vergine
 sôrto dal cuore?...
 Tu giochi, ingenuo;
 ma l’aria e l’ombra
 san di tempesta.
 Su l’ala rapida
 te invola il tempo
 che non s’arresta:
 te, forse milite
 d’aspri e bollenti
 conflitti umani:
 forse una vittima,
 forse un ribelle
 de l’indomani.

La fiumana

 .... E sale, e sale. Con sinistro rombo
 s’accavalla nel buio onda sovr’onda:
 qual torrente d’inchiostro urge a la sponda,
 e trema l’aria, pavida, al rimbombo.
 È la fiumana dei pezzenti. E sale,
 son cenci e piaghe, son facce scarnate,
 braccia senza lavor, bocche affamate,
 cuori gonfi d’angoscia. E sale, e sale,
 e con sé porta un greve tanfo umano,
 il tanfo dei tuguri umidi, infetti;
 e un grido erompe dai dolenti petti:
 «Dateci il nostro pane quotidiano.»
 Ma ognuno a la gran voce è sordo e cieco.
 l’immota calma che precede i lampi
 del tonante uragan pesa su i campi,
 e il fiume ingrossa, il fiume avanza, bieco:
 i granitici, immensi argini atterra,
 lordo di sangue, livido di pianto:
 domani, in nome d’un diritto santo,
 mugghiando allagherà tutta la terra....
 .... Ah!... l’ora è sacra. Una virtù d’amore
 infinita, immortal come il Creato,
 o forti, può guarir quel disperato
 cumulo di miserie e di dolore:
 basterebbe che incontro a le diserte
 anime singhiozzanti i vincitori
 movessero fra siepi alte di fiori,
 benedicendo con le braccia aperte.

 

da Maternità

Eliana

 Un’ombra è ne’ suoi strani
 occhi. Il suo petto è scosso
 da un brivido. Sul rosso
 velluto le sue mani
 s’abbandonano, come
 morte. E di morta è il volto,
 fra l’ondeggiar disciolto
 de le scomposte chiome.
 Premerà dunque il greve
 travaglio, il peso enorme,
 le sue scultorie forme,
 la sua beltà di neve?...
 Spasimerà la pura
 marmorea carne anch’essa,
 dilanïata, oppressa
 da l’immortal tortura?...
 No. La superba vuole
 de i balli fra le chiare
 pompe gioir, regnare,
 come rosa nel sole!...
 E le purpuree tende
 quasi regali, e i densi
 tappeti, e i vasi immensi
 ove l’oro s’accende,
 son complici a l’abisso
 perfido che la tenta.
 Oh, come ella diventa
 livida!... oh, come fisso
 si fa il suo sguardo!... come
 arde!... ma condannato
 ha il figlio. È decretato
 l’atto che non ha nome.
 *
 .... Morrai fra poco, umano
 germe che il mondo ignora,
 e che, nel sonno, l’ora
 vital sognasti in vano:
 morrai fra poco, o cuore
 soffocato ne i brevi
 tuoi battiti da lievi
 mani, senza rumore:
 pura alba, che diritto
 avevi a la tua sera!...
 Non teme la galera
 chi osò questo delitto.
 Ne i balli andrà, qual giglio
 immacolato il viso,
 la pallida, che ha ucciso
 se stessa nel suo figlio:
 andrà, come se fosse
 viva. Ma un sordo male
 misterïoso, da le
 viscere che le rosse
 sue mani han profanate
 succhierà il sangue, lene
 lene, fin che le vene
 avrà tutte vuotate;
 e una manina informe
 l’attirerà fra l’onda
 del gorgo senza sponda
 ove il rimorso dorme.

Ritorno a Motta Visconti

 Ella dintorno si guardò, tremando,
 e riconobbe la selvaggia e strana
 terra che a fiume si dirompe e frana
 entro l’acque, che fuggon mormorando.
 Il guado antico riconobbe e il prato
 e le foreste, azzurre in lontananza
 sotto il pallor de i cieli:
 e il passato di lotta e di speranza,
 il suo ribelle e splendido passato
 ricomparve, senz’ombra e senza veli.
 Piegavano gli steli
 in torno, ed ella respirava il vento:
 vento di libertà, di giovinezza,
 soffio di primavere
 sepolte, belle come messaggere
 di gloria, piene d’ali e di bufere
 vïolente e d’immemore dolcezza!...
 Ora, silenzio. Un battere di remi,
 solitario, nel fiume: un lontanare
 di cantilene lungo l’acque chiare,
 e nel suo petto il cozzo de’ supremi
 rimpianti. Oh, prega, anima che t’infrangi
 a l’onda de i ricordi, travolgente
 come tempesta a notte:
 anima stanca in vene quasi spente,
 così giovane ancora, oh, piangi, piangi
 con tutte le tue lacrime dirotte
 qui dove i sogni a frotte
 ti sorrisero un giorno!... Ora è finita.
 .... E strinse fra le mani il capo bruno:
 a lei da la profonda
 coscïenza, com’onda chiama l’onda
 nel plenilunio a fior de l’alta sponda,
 salivano i ricordi ad uno ad uno.
 E rivide la vergine ventenne
 con la fronte segnata dal destino
 sfiorar diritta il ripido cammino,
 baldo aquilotto da le ferme penne.
 La nuda stanza fulgida di larve
 rivide, e il letto da le insonnie piene
 di cantici irrompenti;
 ed il sangue gittato da le vene
 robuste, il sangue di veder le parve,
 ne la febbre de l’arte su gli ardenti
 ritmi a fiotti, a torrenti
 gittato. E i versi andarono pel mondo,
 da la potenza del dolor sospinti;
 e parvero campane
 a martello; e le case senza pane
 e senza fuoco e la miseria inane
 dissero, e l’agonie torve de i vinti.
 Ma la vinta or sei tu, che de la morte
 senti, a trent’anni, il brivido ne l’ossa,
 e ben altro aspettavi da la rossa
 tua giovinezza così salda e forte!...
 Tutto dunque fu vano?... e così fugge
 oscuramente dal tuo cor la vita,
 dal cerebro il fervore
 de i ritmi, come sabbia fra le dita?...
 Ah, niun guarisce il mal che ti distrugge!...
 .... Pur de le sacre tue viscere il fiore,
 la bimba del tuo amore
 torna da i boschi, carica di rose.
 Essa che porta la divina fiamma
 del sogno tuo ne gli occhi,
 lascia cader le rose a’ tuoi ginocchi,
 e dice, e par che l’anima trabocchi
 ne la sua voce: Perché piangi, mamma?...

Sette maggio 1898

 Ho quell’ore ne l’anima inchiodate:
 la via deserta, sotto un ciel di piombo:
 ad un tratto, da lungi, un sordo rombo
 di folla, e un grandinar di fucilate.
 Porte e finestre in un balen serrate
 lugubremente - poi silenzio. Il rombo
 già s’avvicina, sotto il ciel di piombo:
 colpi, fischi di palle, urli, sassate.
 Fin ch’io vivrò mi resterà ne l’ossa
 quell’angoscia, quel soffio d’agonia
 su gente inerme del suo sangue rossa;
 e vedrò quel fanciul, senza soccorso
 morente un bimbo!... in mezzo de la via,
 china e intenta su lui come un rimorso.

da Dal profondo

Aquila reale

 T’ho vista ieri, irta ferrigna immobile
 dietro le sbarre d’una vasta gabbia.
 Non guardavi già tu la gente piccola
 che ti guardava. Ferma sugli artigli
 d’acciaio, gli occhi disperati al torbido
 cielo volgevi, al cielo!... Uno scenario
 t’hanno fatto di rocce, per illuderti:
 perché tu creda ancor d’essere in patria,
 fra pietrami di grotte e di valanghe,
 fra protervie di rupi e di ciclopici
 templi, sospesi in vetta a’ precipizii,
 in faccia al vento che a procella sibila.
 Ma non t’illudi tu. Vedi le sbarre,
 sai che è finita. Io voglio ora una storia
 dirti d’uomini saggi, che le proprie
 mani a foggiar la propria gabbia adoprano,
 d’oro o di ferro - quasi sempre d’oro:
 e bene assai la temprano e la rendono
 inaccessa, e là dentro si rinserrano,
 e si lamentan poi d’essere in carcere,
 guardando il mondo co’ tuoi occhi d’odio
 vano e di vana disperazïone.
 Tu almeno, tu fosti ghermita al laccio,
 fosti ferita, tu, nella battaglia
 feroce, prima d’esser come un cencio
 ignobile fra mano al tuo nemico.
 E stai senza speranza e senza gemito
 vile; e chi passa ti può creder morta
 o sculta in bronzo, così immota e diaccia
 t’irrigidisci, chiusa in un disdegno
 indomito per tutto che non sia
 l’ebbrezza della libertà perduta.
 E, se tu comprendessi, con un colpo
 di rostro lacerar vorresti il volto
 di chi t’offende con la sua pietà.

Capriccio

 Veronetta Longhèna, tu mi piaci.
 Il tuo sorriso è quello delle zingare,
 bianco e rosso, con linee
 sinuose, con fremiti fugaci
 di sarcasmo e d’orgoglio. - Tu mi piaci.
 Dove l’hai preso il tuo bel nome?... È un nome
 di guerra, non è vero?... Qual capriccio
 d’amante allegro e ironico
 te l’appuntò, qual nastro fra le chiome?...
 Veronetta, mi piace il tuo bel nome.
 Raccontami la tua vita randagia.
 Io m’accovaccio presso a te, sul morbido
 tappetino di Persia,
 frugando con le molle fra la bragia.
 Raccontami la tua vita randagia.
 Dimmi i paesi che vedesti, i porti
 donde salpasti, spensierata rondine,
 e il tuo piacer di vivere
 così, padrona delle varie sorti,
 come lo sei de’ tuoi capelli attorti.
 Io t’assomiglio, se mi guardi bene.
 Ma è come fossi chiusa dentro un fodero,
 mentre snudata sfolgori
 tu, fina lama che in sua punta tiene
 il mondo, per gingillo. Guarda bene.
 Quando riparti?... e verso qual ventura?...
 .... Io resterò a frugar dentro la cenere;
 e mirerò lo specchio
 per rivederti in me, nella tua dura
 fronte d’enigma, o Donna di ventura.

  La voce del mare

 Io ti farò morire di dolcezza,
 se tu m’ascolterai quando la luna
 gonfia il mio cuore come un cuore umano.
 Sarà rossa la luna ad orïente,
 e poi, salendo, diverrà di perla.
 Tu immobile starai tra flutto e spiaggia,
 piccola - oh, un punto!... in mezzo all’infinito.
 Io ti dirò l’ore perdute della
 tua dolce infanzia, l’ore che tu credi
 dimenticate; e i sogni in cui vedevi
 fiori simili a bocche aperte al bacio
 fiorir per te lungo rupestri lande
 ove il giorno non era e non la notte
 era, ma Vita somigliava a Morte.
 Io ti dirò ciò che hai sofferto. Ma
 mitemente, così, come di cose
 lontane, e che non possono colpire
 più, tanto nel pensier le trasfigura
 la poesia della possente vita.
 Io ti dirò le cose che tu speri,
 e per incanto le vedrai compiute:
 e la pienezza de’ tuoi sensi tale
 sarà, che ti parrà d’essere eterna,
 fulgida innumerevole leggera
 quale schiuma di queste onde d’argento
 che si gonfian d’amor sotto la luna.
 Io ti farò morire di tristezza
 se tu m’ascolterai quando di piombo
 grava il cielo su gravi acque di piombo.
 Starà sospesa dentro la calura,
 nel silenzio, un’attesa di tempesta:
 l’onde verranno a lacerarsi sulla
 spiaggia, con rauche grida appassionate.
 Allora, allora, o piccola, che hai
 così tenere mani e così grandi
 occhi, io ti canterò la veemente
 poesia della vita che vivesti
 prima d’esser la piccola che sei.
 Una zingara fosti. I tuoi capelli
 battenti il dorso eran color del rame,
 tutti a riccioli, vivi uno per uno:
 e verdastri e mutevoli i tuoi occhi
 di sole e d’onda; e tutto di serpente
 l’agile corpo, in mille avvolgimenti
 esperto, ed arso dall’impuro sangue
 dei nomadi. Tu fosti una regina.
 Passò il tuo carro lungo le mie rive,
 il tuo riso il tuo canto a fior de l’acque.
 I tuoi compagni avean denti ferini,
 rapaci mani, acuti occhi di falco,
 e tu li amavi; ma più d’essi amavi
 la libertà. Tenevi al petto un fiore,
 sotto il fiore nascosto un pugnaletto
 lucentissimo. E fiera sulle piazze
 danzavi le tue danze, le tue danze
 di gitana, ricordi?... Non ricordi
 dunque tu nulla?... Dalla casa errante
 le pallide vedesti albe fiorire,
 e nei tramonti l’acque invermigliarsi,
 e nei meriggi tutto esser di fiamma,
 anche il tuo corpo, anche la vagabonda
 anima tua come l’arena innumere,
 multicolore come l’onda, libera
 come il vento del largo. E delle folle
 ti piacque il gran clamore, e del deserto
 il gran silenzio, e delle vie notturne
 i fanali rossastri, i torvi agguati,
 il pericolo corso ad ogni istante.
 Di desiderio io ti farò morire,
 se vorrai ch’io ti dica il nome tuo
 d’una volta. Ricòrdati. Superbo
 era, ma dolce e pieno d’assonanze
 strane. Non giungi a ricordarti?... China
 sul mare, ascolta il pianto inconsolabile
 dell’acque che s’inseguono s’infrangono
 e muoiono e rinascono e non sanno
 perché. Non ti diran forse quel nome;
 ma in esse sentirai la sua potenza
 dominatrice, o piccola, che hai
 così teneri polsi per catene
 di perle, e così grandi occhi pel sogno.

Con la quinta raccolta (Esilio, 1914), il cui titolo fa esplicito riferimento alla “fuga” in Svizzera, nata dal disgusto per il matrimonio ormai fallito con l’industriale biellese Giovani Garlanda e dalla volontà di stare con l’amata figlia Bianca che era stata inviata a studiare in un collegio zurighese, la poesia di Ada Negri vira decisamente in direzione del versante personale. Sentendosi «sola come in una bara» (lettera a Laura Orvieto del 14 novembre 1914), avvertendo il tempo che svanisce «come la sabbia fra le mani» (XXXI Dicembre), amaramente convinta che «ogni donna è al mondo per servire» (Servire), ella si aggrappa infatti al rapporto con la figlia, su cui proietta se stessa e le proprie ansie di libertà.

da Esilio

Ponte di Lodi

 Ponte di Lodi, i tuoi plumbei pilastri
 abbracciati dall’impeto del fiume
 rivedo, e i freschi spruzzi delle schiume
 candide a fior dei vortici verdastri.
 Come una volta ancor vorrei poggiarmi
 alle tue sbarre, e riaver quel vento
 in faccia; e mirar nuvole d’argento
 specchiate in acqua, e d’esse sazïarmi.
 Ma esser quella d’allora, con quel volto
 e quell’anima, scarna adolescente
 livida di superbia, impazïente
 di vivere, con sensi aspri in ascolto:
 e tutto innanzi a me: lo spumeggiante
 fiume e la vita!... Ma su via trascorsa
 non si ritorna. Il tempo spinge, in corsa:
 altri fiumi, altri ponti, altri miraggi.
 E vado e vado. Finché, un giorno. Addio
 dirà l’anima al corpo. E sarà il fiume
 natal, che, in sogno, sotto il ponte, a lume
 d’astri, mi condurrà verso l’oblio.

La folla

    Fluttuo con te, nel tuo sordo tumulto

    perduta; e tu mi porti e tu mi spingi

    e mi rigetti, e d’ignorarmi fingi,

    ma ben m’abbranca il tuo potere occulto.

 

    Sai di sudore umano, e di sporcizia

    mascherata d’aromi, e del sentore

    d’ogni travaglio: ogni odio ed ogni amore

    per oscuro fermento in te s’inizia.

 

    Mi piaci per l’enorme onda vitale

    che tutta mi ravvoltola, muggente

    e rischiumante, carne e cuore e mente

    impregnando del tuo libero sale.

 

    Ogni volto che a lampi appare e spare

    forse è il mio: ché mio corpo non è questo

    solo ch’io sento e curo e movo e vesto:

    chi vi noma e vi scinde, onde del mare?...

 

    D’essere innumerevole è mia gloria

    e mia superbia; e multiforme, come

    te, folla; e in preda a tutti i venti, come

    te, che a folate scardini la storia;

 

    e, se fremito passi di sommossa,

    ingigantir con te, con te disvellere

    i sassi e i cuori, ed oscurar le stelle

    col divampar della mia furia rossa.

 

Il libro di Mara (1919) apre una nuova stagione lirica, soprattutto per le innovative scelte metriche della Negri, che sulla scorta del poeta americano Walt Whitman abbandona l’amato endecasillabo per sperimentare il verso lungo non rimato. A queste scelte stilistiche rimarrà fedele anche nel successivo volume poetico (I canti dell’isola, 1924) che scaturisce da un’esperienza esaltante che Ada aveva vissuto nel 1923 a Capri, dove si era fermata per alcuni mesi ospite del sindaco dell’isola, Edwin Cerio.

da Il libro di Mara

Il risveglio

Quando il canto del gallo segò il cielo, ed ella ancor nel sonno a te sorrise, o amato.

L’uno dall’altro nasceste allora, in purità di corpo, in purità di spirito.

O voi beati, non espressi da grembo di madre, ma dalla meraviglia del vostro amore!

E vi levaste con atti limpidi, ed il primo mattino del mondo con voi si levò.

E nuovi furono agli occhi vostri i rosei cirri del cielo specchiati nei fiori dei peschi,

nuova l’erba intrisa di guazza, fresca alle mani come un lavacro,

divina in voi la dolcezza di scoprirvi un nell’altro presenti e viventi,

con anima per amare,

labbra per baciare,

voce per benedire.

Domani

Domani è aprile, e tu verrai per condurmi incontro all'ultima primavera.

Donde verrai, come verrai, non so; ma senza soffrire potrò rivederti.

Soave sarà nella tua la mia mano, soave il mio passo al tuo fianco.

Occhi d'infanzia i nostri, a specchio innocente del novo miracolo verde.

Andremo per orti e frutteti, a capo scoperto nel sole, senza far male ai santi germogli.

In punta di piedi, per tèma si stacchin dai rami le rosee farfalle dei pèschi,

e trepidi e senza respiro, per non turbar pur con l'aria i fiori dell'ultimo sogno.

E di quello che fu della carne, nulla verrà ricordato.

E di quello che fu del dolore, nulla verrà ricordato.

E quel che è della vita eterna farà pieno di canti il silenzio.

Non io tua, non tu mio: dello spazio: radendo la terra con ali invisibili,

sempre più lievi nell'aria, sempre più immersi nel cielo,

fino a quando la notte ci assuma ai suoi vasti sepolcri di stelle.

da I canti dell’isola

Lettera a Bianca

Oh, tu, figlia! Oh, tanta terra e tanto mare fra noi!

Quando fu mai, fra noi, tanta terra e tanto mare?

E come puoi vivere senza di me? Dimmi che non puoi!

Saprò forse allora strapparmi all'incanto, lasciare

l’Isola dolce. So, ch’essa è sogno: ch'è vana parvenza

di sogno. Sparire potrebbe, così, all'improvviso,

nei flutti, o nel gorgo solare; e, con essa, la mia demenza…

Serro su gli occhi le mani, per salvarmi; e nel cuor ti ravviso.

 

Sei sulla terrazza, in tunica bianca: allatti la tua Donatella.

Sole velato su lei, su te, attraverso le grappe e le fronde

del glicine. Vien da San Barnaba, ingenuo, un canto di campanella:

letizia materna ti penetra col succhiar della bimba, a grandi onde.

Altro non sai, né chiedi. Ti basta la tua verità.

Ala fanno i capelli sul volto, perduto nel volto che gli somiglia.

Raccolgono gli occhi la luce del cielo sulla diletta, che gode e non sa.

Così, in cuore, ti penso - e mi salvo – giovine madre che sei la mia figlia.

Corale notturno

Quando sarò sepolta nel paese di mia madre,

là dove la bruma confonde i fertili solchi terrestri coi solchi del cielo,

le rane ed i rospi dei fossi mi canteranno la nenia notturna.

Dagli acquitrini melmosi, filtrando fra il bianco umidor della luna,

in soavi cadenze di flauti, in tremolii lunghi di pianto sciogliendomi il cuore,

blandiranno il mio sogno, custodi della perenne malinconia.

Malinconia della patria, con sapore di terra bagnata e di grano maturo,

con quieto pudore di case ove accendon le madri pei figli la lampada al desco,

con fumo di tetti, ansare di fabbriche, radici dei vivi e dei morti,

a me verrà, con me dormirà, portata da canti di rane e di rospi,

quando sarò sepolta nel paese di mia madre.

 

Con Vespertina (1930) e Il dono (1936) la Negri torna a metri più tradizionali e al modello leopardiano particolarmente amato; il rimpianto per la gioventù perduta e il costante pensiero alla morte non vanno però disgiunti dall’ammirazione per il creato e dalla sensazione di poter ancora realizzare un’opera immortale. E all’amico giornalista Federico Binaghi il 3 aprile 1930 scrive: «Ho l’impressione che il mio testamento morale si trovi tutto in questa cinquantina di liriche in endecasillabi sciolti».

da Vespertina

Deserto

Sempre sul cuore il tuo dolor ti preme

più grave che non sia peso di pietra.

 

Pure è per esso che ti senti viva:

s’egli non fosse, vano a te sarebbe

sangue e respiro, vano il mover passi

in quel deserto ch’è a te il mondo: colmo

d’uomini, è vero; ma alla sabbia uguali

ch’or sì or no mulina in groppa al vento.

 

Come hai fatto a restar senza nessuno

sulla terra, cosi: che men solingo

è il cane a cui per via mori il padrone?

Né tu ti lagni d’esserlo. Non gridi

«Son sola» per chiamar chi ti s’accosti

e t’accompagni. Forse uno verrebbe

se lo chiamassi: o, se tu andassi a lui,

nel suo sorriso leggeresti il cuore.

 

Ma non lo vuoi. Non credi più. Non sai

più abbandonarti alla tremante luce

della speranza. Ti bendasti gli occhi

per non mirarla. E pur ne soffri; e più

 

nel tempo inoltri e più t’ostini in questa

tua superba miseria, e più comprendi

che meglio forse era non esser nata.

 

Ricordi, un giorno. Amavi. E se di sole

t’entrava un raggio dal balcone aperto,

eri quel raggio, fra la terra e il cielo:

se veniva improvviso a inebriarti

un effluvio di rose, ecco, e tu eri

fresca rosa olezzante in un giardino:

se a te saliva un canto, eri quel canto.

Trovassi ancora un po’ d’amore sulla

tua strada, pur sapendo che non dura

amore in terra più che in ciel non duri

la nube! Ancora illuderti potessi

d’essere creatura necessaria

ad altra creatura, e quella a te!

 

Posare il capo su la spalla d’uno

che di te tutto sappia, anche le colpe,

e tutto ami, anche il male, anche i crudeli

segni del tempo; e tutta ti raccolga

nelle sue braccia!

 

Ma non son che tardi

vaneggiamenti. Non ritorna il tempo

d’amore. E tu non hai, per te, che il peso

de’ tuoi ricordi, mentre scende l’ombra.

Luna sulla città

Luna, che sorgi di su l’alte case

della città, nell’ora in cui si placa

il tumulto dei traffici, e ai cristalli

splendon luci improvvise, e per le vie

lampade bianche sboccian tonde in fila

a farti specchio mentre in ciel cammini:

sempre sei quella ch’io, fanciulla, un tempo

miravo da’ miei campi e dal mio fiume;

e m’illudea, sì vasto era l’incanto,

essere tu ed io sole nel mondo.

Ora, sulla città greve di folla,

dura d’asfalti, irta d’antenne, inferma

di rumor, di fatica, di travaglio

cupido e vano, ov’io perdei me stessa,

tu la tregua di Dio porti, ed assolvi

col tuo riso celeste ogni peccato.

E mentre guardi a noi, passi vagando

anche sui flutti del profondo mare,

sui sentieri e le vette ardue de’ monti,

e su placidi laghi e lontananze

di foreste e di prati; e ovunque l’uomo

trovi; e l’illudi; ché tu sempre sei

quella; ma per ciascun sola a lui solo.

Sola a me sola, ecco, ritorni, o luna,

e nell’effuso tuo pallor m’oblio

come allora che tu m’eri custode

sull’abbandono del virgineo sonno.

Se ti son cara, questa notte almeno

la fanciulla ch’io fui veglia nel mio

sonno; e dormendo io sogni esserti accanto

fanciulla eterna nell’eterna pace.

da Il dono

I giardini nascosti

Amo la libertà de’ tuoi romiti vicoli e delle tue piazze deserte, rossa Pavia, città della mia pace. Le fontanelle cantano ai crocicchi con chioccolio sommesso: alte le torri sbarran gli sfondi, e, se pesante ho il cuore, me l’avventano su verso le nubi. Guizzan, svelti, i tuoi vicoli, e s’intrecciano a labirinto; ed ai muretti pendono glicini e madreselve; e vi s’affacciano alberi di gran fronda, dai giardini nascosti. Viene da quel verde un fresco pispigliare d’uccelli, una fragranza di fiori e frutti, un senso di rifugio inviolato, ove la vita ignara sia di pianto e di morte. Assai più belli, i bei giardini, se nascosti: tutto mi pare più bello, se lo vedo in sogno. E a me basta passar lungo i muretti caldi di sole; e perdermi ne’ tuoi vicoli che serpeggian come bisce fra verzure d’occulti orti da fiaba, rossa Pavia, città della mia pace.

da Fons Amoris

Padre, se mai questa preghiera giunga

Padre, se mai questa preghiera giunga

al tuo silenzio, accoglila, ché tutta

la mia vita perduta in essa piange:

e s’io degna non son, per la grandezza

del ben che invoco fammi degna, Padre.

 

Quando morta sarò, non darmi pace

né riposo giammai ne le stellate

lontananze dei cieli. Sulla terra

resti l'anima mia. Resti fra gli uomini

curvi alla zolla, grevi di peccato: con essi vegli, in essi operi, ad essi

della tua grazia sia tramite e luce. Lascia ch'io compia dopo morta il bene

che nella vita compiere m'illusi, o me povera povera! e non seppi. Mi valga presso Te questo rimorso

ch'io ti confesso, e il mio soffrire, e il vano

fuoco di carità che mi distrugge. Giorno verrà, dal pianto dei millenni,

che amor vinca sull'odio, amor sol regni

nelle case degli uomini. Non può

non fiorire quell'alba: in ogni goccia

del sangue ond'è la terra intrisa e lorda

sta la virtù che la prepara, all'ombra

dolente del travaglio d'ogni stirpe.

Il dì che sorga, fa’ ch'io sia la fiamma

fraterna accesa in tutti i cuori; e i giorni

la ricevan dai giorni; e in essa io viva

sin che la vita sia vivente, o Padre.

Franco Galluzzi, partigiano e poeta

Nato a Codogno nel 1923, Franco Galluzzi crebbe nutrito degli ideali di libertà e democrazia che si respiravano in famiglia. Cominciò giovanissimo già negli anni trenta a distribuire la stampa clandestina antifascista che usciva dalla tipografia del padre; e nei boschi di Senna Lodigiana andava a recuperare le armi paracadutate dagli Alleati per traghettarle al di là del Po. Dopo l’8 settembre del ’43 salì in montagna, aggregandosi alle formazioni partigiane della Valdossola e prendendo parte a vari combattimenti contro i nazifascisti. Tornato a Codogno nell’aprile del ’45, collaborò attivamente all’insurrezione locale che portò alla liberazione della città: ma in quegli stessi giorni si ammalò e morì il 2 maggio, pochi giorni dopo la Liberazione.

La sua vena poetica rimase ignota per decenni, finché nel 2004 i fogli dattiloscritti contenenti ottantadue sue poesie vennero scoperti e pubblicati a cura di Gennaro Carbone, Annalisa Degradi e Isabella Ottobelli per i «Quaderni dell’Istituto Lodigiano per la Storia della Resistenza e dell’età Contemporanea» (ILSRECO), formando una piccola ma intensa raccolta cui è stato dato il titolo Se potessi…. Riletti oggi, a distanza di molti anni, questi testi mostrano certamente una maturità artistica non ancora pienamente raggiunta (come è ovvio), ma fanno emergere con chiarezza il ritratto di un lettore di poesia straordinariamente maturo per l’età, che accanto ai grandi della tradizione italiana conosce e apprezza la poesia nuova di D’Annunzio, Gozzano, Ungaretti, Montale. Ispirato da questi maestri, Galluzzi sa però distaccarsi dai modelli per proporre uno stile personale, asciutto e incisivo, ricco di improvvisi scarti logici che provocano nel lettore un forte effetto di straniamento. Egli sa investigare in questi suoi testi la profondità della propria inquietudine giovanile e dare voce alla dolorosa consapevolezza dell’impossibilità di una comunicazione profonda tra gli uomini. Ma questo, lungi dal portarlo alla rinuncia o all’afasia, fa piuttosto scaturire sempre nuovi interrogativi e ulteriori percorsi di ricerca.

I temi che egli approfondisce spaziano dall’amore, vissuto con trepidazione e inquietudine, all’impegno politico affrontato con estrema determinazione, fino alla riflessione sulla morte, che per lui non ha nulla di tragico o angoscioso, ma è vissuta con la levità del ragazzo che affronta serenamente il suo futuro, consapevole che in tal modo «sembrerà più facile / la morte». Così in un intenso testo egli può affermare: «Fuggo / per diventare finalmente un uomo»: è la fuga dal disimpegno e dalla tranquilla serenità quotidiana, per sfidare con matura consapevolezza l’impegno decisivo.

 

Il nome

Qual è il tuo nome?

Io non lo so ancora.

E l’ho cercato tanto in mezzo a quelli

che vengono alla bocca d’improvviso,

quando il cuore ha bisogno

di dare una sua forma,

una sua forma intima ed amica

al fuggente fantasma d’una donna.

Ne vorrei uno che accogliesse

in un alito

la musica di boschi risonanti,

echeggianti nell’ombra,

l’amarezza smisurata e ondosa

del nostro padre il mare,

il profumo del fieno

che nel meriggio è ardente

e nella sera

fresco come le guance tue.

Vorrei un nome che s’attorcigliasse

al tuo corpo,

formando un tutto unico,

un nome breve,

perché io possa dirlo

tante volte di più.

 

Se tu sapessi

T’ho amata da lontano, tenuamente,

per non rompere il filo che trattiene

il mio sognare al tuo sognare assente,

perduto dietro Quello che non viene.

 

T’ho seguita pregando sulla porta

chiusa della sua casa abbandonata,

quando guardavi la facciata morta,

prona la dolce testa sconsolata.

 

Se tu sapessi come anch’io ho vissuto

il tuo amore per Lui, che se n’è andato,

ch’è tornato nell’ombra, sconosciuto,

 

senza sapere che non l’hai scordato.

Se tu sapessi come anch’io ho creduto

nel tuo sgomento grande, desolato.

 

Amiamoci dunque per questo:

Amiamoci dunque per questo:

per potere, domani,

aver la squisita tristezza

d’abbandonarci.

 

Amiamoci

per saper che significa

dopo,

andare divisi,

conoscer la buia dolcezza

dell’ultima parola.

 

Addio...

Le mani rivivono sole,

al contatto,

lo strano romanzo.

E noi ci guardiamo:

un attimo, oh! un attimo ancora.

 

Andarsene

Andarsene, andarsene lontano

e dire a chi c’incontra, a chi ci guarda

senza più riconoscerci: “Io fuggo

per diventare finalmente un uomo.

Fuggo per non amare più il profumo

femmineo della notte ed il notturno

calore della donna. Fuggo infine

perché il mondo soltanto è la mia casa

e l’orizzonte il mio traguardo. Vado

dove mille esistenze stanno ansiose

ad aspettare l’anima mia, vado

dove il coraggio spezza ogni confine

tra la vita e il romanzo. Dico addio

a voi restanti”. E poi tranquillamente

continuare la strada.

 

Un’altr’alba

Compagno, è già l’alba.

È già l’ora d’un’altra fatica.

E tu maledici ogni giorno

che ancora

rinnova la strada nemica:

e tu

che la vita degli altri

hai vissuto

nel sogno recente,

rivolgi l’estremo saluto

a ciò che per niente

amasti stanotte.

 

Compagno.

Allaccia le cinghie,

riprendi il tuo sacco.

Ritorna a scordare

le cose negate di ieri,

ritrova i pensieri

irrequieti

che portan lontano.

 

Compagno, compagno.

Cos’è

che ti fa meno forte:

è forte il sapere che morte

si chiama

la sosta futura?

È forse una nuova paura

che il cuore ti serra

e i passi t’acquieta?

È forse la meta che oggi

più folle ti sembra?

 

Compagno, rimembra

perché cominciasti

l’andare:

ricorda quel mondo che odiasti,

le immagini amare

che un giorno

ti spinsero fuori

dagli uomini.

 

Compagno: ricorda e prosegui.

 

Quando saremo vecchi

Certo

ci accorgeremo a un tratto

d’esser vecchi.

Sarà come se sfatto

dentro di noi

si fosse qualche cosa

che pareva durevole

perché ancora incompiuto,

qualcosa che pareva

non andasse perduto

perché non si sapeva come, quando

lo si era trovato.

Amica, ti domando

che mai faremo allora.

Ricorderemo? E cosa?

Che momenti saran da ripensare

nel poco tempo

della sosta estrema?

Che ore rivivremo dal groviglio

di un passato fuggente,

faticoso,

che negli occhi

non ci ha lasciato niente,

se non la voglia ansiosa

di poterli serrare?

Guarderemo negli altri

quelli che sorgeranno,

la verdicante, gaia giovinezza

che noi non ci accorgemmo

d’aver avuto in mano,

quando la mano tendevamo aperta

a chiedere di più?

Come certa

sembrerà la disfatta!

E l’inutile strada che per tanto,

amando, disperando,

maledicendo

percorremmo a fianco,

ci parrà così sciocca,

così breve,

da lasciarci capire finalmente

cos’è l’umanità!

Forse non rimarrà

che chiedere un’ultima volta

cos’era

la smania di giungere,

se alla meta

portiamo un cuore stanco,

un’anima scialba che soltanto

desidera tornare.

Davanti alla vecchiezza

forse amara

ci sembrerà più facile

la morte…

Concludiamo questa breve antologia poetica con un brano riflessivo che Galluzzi scrisse pochi giorni prima di morire:

Ma allora cos’è questa morte che tra le crepe della vita ci guarda cogli occhi d’un’amante respinta? Ce la sentiamo nelle pupille, qualche volta; qualche altra nei sensi che la sua terribile inconsistenza affila, scarna. Guardiamo a lei come si guarda al fondo d’un orrido e ci corre per il corpo lo stesso raccapriccio che ci fa ritrarre, lo stesso inverosimile fascino che ci tiene inchiodati a fissare. La morte è la sola verità che l’uomo non può permettersi d’ignorare.”

(Fine aprile 1945)

Corrado Alvaro e la narrativa meridionalistica

Nato nel 1895 a S. Luca, sull’Aspromonte, Corrado Alvaro combatte nella prima guerra mondiale e da quella drammatica esperienza trae la raccolta lirica Poesie grigioverdi (1917). Nel primo dopo­guerra è giornalista al «Resto del Carlino», al «Corriere della Sera» e alla «Stampa», quindi direttore del «Risorgimento» e del «Popolo di Roma». Nel 1925 è tra i fir­matari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Nel 1940 riceve il Premio dell'Ac­cademia d'Italia per la letteratura. Nel 1945 è il primo direttore del Giornale radio nazio­nale della RAI. Muore a Roma nel 1956.

Il suo testo più noto è la raccolta di racconti Gente in Aspromonte (1930), cui seguono negli anni altri brani narrativi, resoconti di viaggio, saggi critici e testi teatrali, che non hanno però successo presso il pubblico né la critica; ma molto interessante è in particolare il romanzo distopico L'uomo è forte (1938), un libro di dura polemica sull'uomo moderno vittima delle dit­tature, che ovviamente viene visto con sospetto dalla censura fascista.

Tutta la produzione di Corrado Alvaro si può inscrivere sotto il segno della contraddizione, del dissidio insanabile che dall’uomo si trasferisce sui personaggi: infatti sensualità e moralità pro­fonda, razionalità e incanto dei ricordi, amore per la civiltà contadina e richiamo della città, regionalismo ed europeismo, nostalgia dell’infanzia e desiderio di modernità convivono inscin­dibilmente in lui e nei suoi personaggi. Ne scaturisce un pessimismo di fondo, che non porta però mai Alvaro al disincanto e al disimpegno, ma anzi è fonte per lui di consapevolezza e lo spinge alla lotta contro l’ingiustizia; tanto che egli può affermare: “Ho cercato di sopravvivere per i miei doveri sociali e verso me stesso, pensando che un giorno avrei potuto dire una parola utile, se non necessaria, secondo l'eterna illusione che assiste uno scrittore”.

Il rapporto tra letteratura e vita gli è offerto da modelli prestigiosi che egli ha ben presenti, in particolare Verga, D’Annunzio, Pirandello, Grazia Deledda: non a caso scrittori che come lui hanno saputo descrivere il mondo meridionale con lucidità e realismo. Anche se per Alvaro sarebbe meglio parlare di “realismo magico”, perché la Calabria che egli descrive è nello stesso tempo un luogo reale conosciuto, vissuto e amato, ma anche uno spazio mitico sognato e rimpianto, un'oasi di originaria innocenza cui tornare nei momenti di sconforto. L’analisi che egli attua del mondo calabrese è precisa e partecipe: egli lo osserva nostalgicamente ammi­rato, pur consa­pevole della sua atavica arretratezza e barbarie. Non manca nei suoi testi l’im­pegno di denun­cia, ma il tono predominante, soprattutto nei racconti di Gente in Aspromonte, è quello surreale e magico di uno scrittore alla ricerca delle proprie radici. I modi naturalistici sono così riletti alla luce delle esperienze letterarie più moderne, italiane ed europee: e la Calabria che emerge dal libro è un luogo mitico prima che geografico, “paese dell’anima” la cui gente diviene simbolo di una fe­deltà assoluta alla tradizione e ai valori di una civiltà che non vuole sparire.

Questa ambivalenza di giudizio vale anche per la città, che da un lato è vista come realtà di progresso e civiltà, dall’altro lato sembra esprimere violenza e sopraffazione. Anche in que­sto Alvaro si contrappone al fascismo, che demagogicamente celebrava la forza, la violenza, il progresso; mentre lo scrittore calabrese tende a rifugiarsi nella terra natia, nel contatto con gli umili, con le cose e i sentimenti conser­vatisi nella loro naturale verginità e schiettezza, col mondo pa­triarcale dell'infanzia. Il fascismo ai suoi occhi si presentava infatti come il "trionfo del ricco sul po­vero, del po­tente sul debole. della retorica sulla verità, della città sulla campa­gna, di un ordi­namento mili­taresco sulla libertà individuale, della ipocrisia sulla schiettezza”.

La scrittura di Alvaro sembra di primo acchito trascurata e istintiva, ma ha invece una grazia leggiadra, quasi sensuale, esprime una sensibilità a volte amara, ma sempre partecipe, quasi romantica, fatta di chiaroscuri ed evocazioni, di riferimenti sottintesi e di sogni ad occhi aperti.

L’opera sua più famosa, Gente in Aspromonte, è una fantastica trasfigurazione delle con­dizioni di vita dei contadini e dei montanari in questa regione, condotta sul filo della memoria: Alvaro ricostruisce vicende, per­sone, paesaggi da lui amati in gioventù, sentendosi sempre partecipe del dramma della povera gente che da secoli è oppressa e depauperata da latifon­disti spietati. I personaggi dei racconti raccolti in questo volume devono sopravvivere in una terra arida e desolata, subendo ingiustizie e inveterate sopraffa­zioni, come il protagoni­sta del racconto prin­cipale, il pastore Argirò, i cui buoi (avuti in custodia da un ricco proprietario ter­riero, tale Filippo Mezzatesta) precipitano in un bur­rone e devono essere venduti per pochi soldi come carne di bassa macelleria. La sorte poi si accani­sce contro di lui quando il piccolo appezzamento di terra che lavora viene devastato da un tor­rente; e infine quando alcuni con­tadini invidiosi gli bruciano la stalla facendo morire la mula che lo aiutava nel lavoro. L’unica speranza che gli rimane è il figlio minore, Benedetto, che facendosi prete darebbe al padre una bella rivincita. Ma sarà invece l’altro figlio, An­tonello, a vendicarlo, divenendo brigante e bruciando il bosco del ricco possidente Filippo Mezzatesta che aveva sempre angariato suo padre. Antonello infine distri­buisce ai poveri il bestiame del Mezzatesta e ne distrugge i rac­colti; finché, braccato dai cara­binieri, si arrende dicendo: "Finalmente potrò parlare con la Giu­stizia. Che ci è voluto per po­terla incontrare e dirle il fatto mio!"

Ecco l’inizio di Gente in Aspromonte:

«Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d'inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una man­tel­letta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pel­legrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante. Sugli spiazzi le caldaie fumano al fuoco, le grandi caldaie nere sulla bianca neve, le grandi caldaie dove si coagula il latte tra il siero verdastro rinforzato d'erbe selvatiche. Tutti intorno coi neri cappucci, coi vestiti di lana nera, animano i monti cupi e gli alberi stecchiti, mentre la quercia verde gonfia le ghiande pei porci neri. Intorno alla caldaia, ficcano i lunghi cucchiai di legno inciso, e buttano dentro grandi fette di pane. Le tirano su dal siero, fumanti, screziate di bianco purissimo come è il latte sul pane. I pastori cavano fuori i coltelluzzi e lavorano il legno, incidono di cuori fioriti le stecche da busto delle loro promesse spose, cavano dal legno d’ulivo la figurina da mettere sulla conoc­chia, e con lo spiedo arroventato fanno buchi al piffero di canna. Stanno accucciati alle soglie delle tane, davanti al bagliore della terra, e aspettano il giorno della discesa al piano, quando appenderanno la giacca e la fiasca all’albero dolce della pianura. Allora la luna nuova avrà spaz­zata la pioggia, ed essi scenderanno in paese dove stanno le case di muro, grevi delle chiac­chiere dei sospiri delle donne. Il paese è caldo e denso più di una mandra. Nelle giornate chiare i buoi salgono pel sentiero scosceso come per un presepe, e, ben modellati e bianchi come sono, sem­brano più grandi degli alberi, animali preistorici. Arriva di quando in quando la nuova che un bue è precipitato nei burroni, e il paese, come una muta di cani, aspetta l’animale squartato, appeso in piazza al palo del macellaio, tra i cani che ne fiutano il sangue e le donne che com­pe­rano a poco prezzo.

Né le pecore né i buoi, né i porci neri appartengono al pastore. Sono del pigro signore che aspetta il giorno del mercato, e il mercante baffuto che viene dalla marina. Nella solitudine ven­tosa della montagna, il pastore fuma la crosta della pipa, guarda saltare il figlio come un ca­priolo, ode i canti spersi dei più giovani, intramezzati dal rumore dell’acqua nei crepacci, che borbotta come le comari che vanno a far legna. Qualcuno, seduto su un poggio, come su un mondo, dà fiato alla zampogna, e tutti pensano alle donne, al vino, alla casa di muro. Pensano alla domenica nel paese, quando si empiono i vicoli coi loro grossi sospiri, e rispondono a loro, soffiando, i muli nelle stalle e i porci nei covili, e i bambini strillano all’improvviso come pas­se­rotti, e i vecchi che non si possono più muovere fissano l’ultimo filo di luce, e le vecchie rinfre­scano all’aria il ventre gonfio e affaticato, e le spose sono colombe tranquille. Pensano alla visita che faranno alla casa di qualche signore borghese, dove vedranno la bottiglia di vino splendere tra le mani avare del padrone di casa, e il vino calare nel bicchiere che vuoteranno tutto d’un fiato, buttando poi con violenza le ultime gocciole in terra. Quel vino se lo ricordano nelle gior­nate della montagna come un fuoco dissetante, poveri e eterni poppanti di mandra».

Luciano Erba tra ironia e riserbo

Dieci anni fa moriva a ottantasette anni Luciano Erba (1922-2010), traduttore, critico lette­rario, docente uni­versitario e poeta: aveva esordito in questo campo nel 1951 con Linea K, una raccolta nella quale soprattutto rileggeva la tragica esperienza vissuta nei campi di lavoro in Svizzera durante la guer­ra. Dice di questa raccolta l’autore: «La linea K è la linea dell’impossibile, perché è scritta nell’alfabeto dell’impossibile. Alludevo con la lettera K a un fatto fonologico: la K era presente sino all’epoca medievale come gra­fema nell’alfabeto. Poco usata, sì, ma comunque rendeva i suoi servigi per trascrivere suoni che poi in epoca moderna sono stati registrati graficamente da gruppi consonan­tici e semiconsonantici com­plessi. Eppure esisteva! Lo dico nella poesia Tra spazio e tempo, “abbiamo perso anche il kappa”. Mi affascinava l’idea dell’eliminazione grafi­ca di un suono pur esistente. Ma io volevo con­traddire l’eliminazione, e allo stesso tempo dire che l’esperienza, anche registrata attraverso la poesia, è eliminabile, non necessa­ria».

Fin dagli esordi Erba si inserisce a pieno titolo in quella che Luciano Anceschi defi­nisce “linea lom­barda” per le sue scelte stilistiche lontane tanto dall’ermetismo quanto dall’estetismo (così come, in anni più tardi, prenderà le distanze dalla neoavanguardia del Gruppo 63): egli sceglie invece una lingua poetica tersa e lineare, ulteriormente al­leggerita da una profonda ironia (e autoironia) che ren­de il dettato lim­pido ma allo stes­so tempo carico di significato. L’ironia è infatti per lui non un semplice arti­ficio retorico, ma un vero e proprio strumento di conoscenza, in grado di esprimere le perples­sità, il de­siderio di trascendenza, la tensione verso l’assoluto che egli costantemente avverte, senza che questo si trasformi in dogmatismo o fanatismo religioso. Afferma Erba in un’intervista: «a me sembrava che il do­mandarsi da dove nasce il mondo, la bellezza di questo domandarsi, sia cosa legittima anche in un’epoca come la nostra dove tutto è stato più o meno spiegato»; e ancora: «Il cercatore e trovatore di verità sa che in poe­sia la verità non si coglie che per sfuggirci di nuovo».

Allo stesso criterio rispon­de la scelta costante di presentare nelle sue poesie un ca­talogo di oggetti con­sueti, co­muni, quelli che egli definisce «le cose senza prestigio, / gli oggetti senza design [che] meglio di altri / espri­mono una loro tensione» (Un co­smo qualun­que). E in maniera simile anche le persone che appaiono nei suoi testi sono es­seri semplici, comuni, “margi­nali”, uo­mini e donne di scarsa rilevanza sociale, che sono però in grado di rivelare al poeta la vera es­senza del mondo, assai più di quanto po­trebbe fare qualunque teoria filosofica o asserto teologico.

Poeta lombardo è dunque Erba, che però alle immagini della Milano in cui viveva (la Mila­no in realtà meno nota, quella meno “turistica”) affianca scenari parigini e paesaggi lacustri e alpestri: «ho guar­dato altrove – afferma - al paesaggio che va oltre Milano, il paesaggio lombardo dei laghi, del­le col­line che arrivano ai monti. Si guardava alla campagna, alla parte dei laghi, il La­go di Co­mo e il Lago Maggiore». Si tratta di luoghi cari, ai quali il poeta vuole aggrap­parsi per cercare sicurezze, convinto in ogni caso che la verità ultima è sempre oltre la meta che l’uomo può raggiungere. Il compito che si era assegnato Erba era quello di trascrivere in poe­sia ciò che altrimenti avrebbe ri­schiato di passare inosservato: oggetti luoghi e persone di tutti i giorni, che diven­tano però semi e promesse di trascendenza, quasi eliotiani “correlativi oggettivi”, in grado di svela­re, grado per grado, il senso della vita, che pure torna inesorabilmente a sfuggi­re: «La poesia è nulla, la registrazione del nulla, l’eterno invece è ancora l’archetipo di tut­to. Quando mi sfug­ge dalle mani cerco in ogni caso di descriverlo, e di trasmettere a chi mi legge la sensazio­ne che questa vana ricerca mi lascia nelle mani. Cerco di affer­rarlo, l’eterno, ma quello che riesco ad afferrare è questo nulla».

Dopo la raccolta d’esordio le tappe più significative della sua produzione si posso­no ritrac­ciare in Il bel paese (1955), che nel titolo allude ironicamente a una Lombardia perduta, Il ma­le minore (1960), che riassume tutta la prima fase della sua ricerca poeti­ca, Il nastro di Moebius (1980) che raccoglie i testi scritti fino a quella data; Il tranviere metafisico (1987); L’ippopotamo (1989), che contie­ne le due raccolte precedenti con vari inediti; Variar del verde (1993); L’ipotesi circense (1995) e Remi in barca (2006).

È soprat­tutto nel­la fa­se finale della sua produzione che la “caccia spirituale” di Erba assume definiti­vamente i con­notati della ricerca religiosa, grazie alla capacità delle co­se più umili di «riempire il nulla». Si tratta per lui di un cammino senza fine, perché egli è consapevole di non poter da­re rispo­ste a tutte le domande; paradossalmente egli af­ferma: «la poesia è una ricerca, è un po’ come una ri­cerca religiosa, è cercare Dio: c’è, non c’è, chi lo sa? […] Ri­cerca della verità, sa­pendo be­nis­simo di non poterci arrivare, perché è una ricerca mai asser­tiva, sempre dubitati­va, conti­nua. La mia poesia l’ho tro­vata senza mai ottenere una risposta, oppure ho trovato risposte e allora non c’era la domanda».

La nuova generazione

Cominciò incontrando fra la terra

una piccola mano di donna

che scavava patate come me.

Troppo vecchio

Garibaldi badava a non far niente

ma la fila chinata si agitava

nel solco del trattore

a colmare le sporte del padrone.

Lei portava i calzoni del fratello

una borsa alla cinghia

un farsetto come giustacuore:

vidi un paggio

e colsi quella mano.

In cielo correvano le nubi

un contromastro giungeva in decauville:

un santo di legno tra le canne.

Tabula rasa?

È sera qualunque

traversata da tram semivuoti

in corsa a dissetarsi di vento.

Mi vedi avanzare come sai

nei quartieri senza ricordo?

Ho una cravatta crema, un vecchio peso

di desideri

attendo solo la morte

di ogni cosa che doveva toccarmi.

Incompabilità

Sin tanto che don Oldani

e i venticinque esploratori

si rincorrono su queste lastre di piombo

io mi immagino il popolo di donne

della cerchia più antica della città.

Addormentate agli ultimi piani

in un letto di ferro

quante sognano la mia sciarpa di seta?

Guardo la città grigiorossa

domenicale, dal terrazzo del duomo

ma potessi volare

ai bei gerani sulle lunghe ringhiere

varcare porte, e a piedi nudi

camminare sugli esagoni rossi

poi vedermi alle vostre specchiere

brune ninette, che abitate il verziere!

Partono adesso i crociati

io rimango quassù

con una spia albanese

che fotografa torri e ciminiere.

Domenica in Albis

Questo è un regno di pioggia, un mondo vizzo

di fantesche accodate ai music-halls,

di bambini sospesi a un palloncino

color lampone, vicino fuma il padre

ha le guance screziate dal rasoio.

Questo è un giorno di festa che ti esilia

alla soglia d'amore e dell'addio

a due mani di donna che tu hai visto

indugiare un istante tra le perle

di una breve collana

sembravan dire

per noi la vita è sempre mañana.

Terra e mare

Goletta, gentilissimo legno, svelto

prodigio! se il cuore

sapesse veleggiare come sai

tra gli azzurri arcipelaghi!

 

ma tornerò alla casa sulla rada

verso le sei, quando la Lenormant

avanza una poltrona sul terrazzo

e si accinge ai lavori di ricamo

per le mense d'altare.

 

Navigazione blu, estivi giorni

sere dietro una tenda a larghe maglie

come una rete! bottiglie

vascelli tra rocchi di conchiglie

e la lettura di Giordano Bruno

nel salotto di giunco, "nominatim"

De la Causa Principio e Uno!

La piroga

Si passano le stagioni

a scavare il tronco di un albero

per preparare la piroga

su cui c’imbarcheremo in autunno.

Senza risposta

Ti ha portata novembre. Quanti mesi dell’anno durerà la dolceamara vicenda di due sguardi, di due voci?

Se io avessi una leggenda tutta scritta direi che questo tempo che ci sfiora ci appartiene da sempre. Ma non sono che un uomo tra mille e centomila ma non sei che una donna portata da novembre e un mese dona e un altro saccheggia. Sei una donna che oggi tiene un naufrago impaziente dimmi tu sei scoglio o continente?

Un'equazione di primo grado

La tua camicetta nuova, Mercedes

di cotone mercerizzato

ha il respiro dei grandi magazzini

dove ci equipaggiavano di bianchi

larghissimi cappelli per il mare

cara provvista di ombra! per attendervi

in stazioni fiorite di petunie

padri biancovestiti! per amarvi

sulle strade ferrate fiori affranti

dolcemente dai merci decollati!

E domani, Mercedes

sfogliare pagine del tempo perduto

tra meringhe e sorbetti al Biffi Scala.

Gli anni quaranta

Sembrava tutto possibile

lasciarsi dietro le curve

con un supremo colpo di freno

galoppare in piedi sulla sella

altre superbe cose

apparivano all’altezza degli occhi.

Ora gli anni volgono veloci

per cieli senza presagi

ti svegli da azzurre trapunte

in una stanza di mobili a specchiera

studi le coincidenze dei treni

passi una soglia fiorita di salvia rossa

leggi "Salve" sullo zerbino

poi esci in maniche di camicia

ad agitare l’insalata nel tovagliolo.

La linea della vita

deriva tace s’impunta

scavalca sfila

tra i pallidi monti degli dei.

Lontananza da mia madre

Tu anche mi appari agli ultimi sogni e il giorno per te s’inizia con altro cielo. Sul treno delle vacanze cerco il tuo viso e le nostre stature il nostro respiro giovane oltre i larici. Mi ridico per ritrovare la tua voce di allora certi nomi di luoghi che pronunciavi indicandoli al di qua della valle. Amarti è questo, e piangere. Altro non so. La pena è certa è il rimorso.

Quartieri solari

Milano ha tramonti rossi oro. Un punto di vista come un altro erano gli orti di periferia dopo i casoni della «Umanitaria». Tra siepi di sambuco e alcuni uscioli fatti di latta e di imposte sconnesse, l’odore di una fabbrica di caffè si univa al lontano sentore delle fonderie. Per quella ruggine che regnava invisibile per quel sole che scendeva più vasto in Piemonte in Francia chissà dove mi pareva di essere in Europa; mia madre sapeva benissimo che non le sarei stato a lungo vicino eppure sorrideva su uno sfondo di dalie e di viole ciocche.

Senza bussola 

Secondo Darwin avrei dovuto essere eliminato

secondo Malthus neppure essere nato

secondo Lombroso finirò comunque male

e non sto a dire di Marx, io, petit bourgeois

scappare, dunque, scappare

in avanti in indietro di fianco

(così nel quaranta quando tutti) ma

permangono personali perplessità

sono ad est della mia ferita

o a sud della mia morte?

Un cosmo qualunque

Abitano mondi intermedi

spazi di fisica pura

le cose senza prestigio

gli oggetti senza design

la cravatta per il mio compleanno

le Trabant dei paesi dell'est.

Tèrbano, ma che vorrà dire?

Forse meglio di altri

esprimono una loro tensione

un’aura, si diceva una volta

verso quanto ci circonda.

Variar del verde

Quel campanile osservato dal treno

che fa una esse tra sambuchi e robinie

non è forse il miglior osservatorio

su altri verdi, di foreste ercinie?

 

Ecco un tipo di foglie che guadagna

se questo verde di alberi da frutta

lo vedi contro un cielo minaccioso

di un temporale colore di lavagna.

 

Vi è poi un verde selvatico di forre

a mezza costa, sotto i santuari,

che scurisce nel colmo dell’estate:

 

il sole è alto, l'ombra fa miracoli,

serpeggia il verde da Fatima al Carmelo,

salgo in mezzo ai roveti, guardo il cielo. 

Il circo

Un circo è un circo, anche un piccolo circo.

Il mio paese sembrava più leggero

la sera, quando issata l'alta cupola

le bandiere si alzavano nel cielo,

 

quando un drin drin di giochi e carabattole

faceva più spediti il cuore e i passi

i colori apparivano più veri

nell'aria nuova, era marzo, era la sera,

 

soprattutto l'azzurro, la lontana

linea dei monti, il fumo dei camini

e la notte al di là del campanile

che attendeva la fune del funambolo.

 

Partiva il circo la mattina presto.

Furtivo, con trepestio di pecorelle,

io poiché, fatti miei, stavo già desto

vedevo svanire il circo e poi le stelle. 

Un paesaggio docile

L'albero che saliva si piegava

tornava a salire verso il cielo

ma avesse preso questa o quella forma

avesse avuto questo o quel colore

sarebbe stato solo un albero

soltanto un segno su quel dosso di monte

di un paesaggio creato dai miei occhi

per secondare i miei esaltati spirti

la mia fierezza di viandante alpestre

giunto infine poco sotto la vetta. 

Rema in piedi

Rema in piedi controcorrente

per salutare gli amici sopra il ponte

beve con noi un vino spesso e forte

seduti a un lungo tavolo di legno

appare e scompare in mezzo agli alberi

nel più fitto del bosco.

È il monaco che passa su un fiume gelato.

È il Figlio, nell'idea direi incompleta

che provo a farmi della Trinità.

Altrove Padano

II

Viaggiatore che guardi il tuo treno in corsa tra le risaie affacciato da un vagone di coda in curva tra le robinie, sei in fuga lungo un arco di spazio?

o immobile guardi lontano più lontano, da una piega del tempo se il sole che ora declina (il verde è un trionfo di giallo) si arresta ai tuoi occhi pavesi?

Viaggiatore di fine giornata di collo magro, di fronte stempiata.

Ricordando Vittorio Bodini e la Puglia

Dopo la lunga siesta di dicembre

svegliarsi in un paese meridionale

di strette vie, in salita e in discesa.

Salgono odori di cibi affumicati

scendono i ragazzini del doposcuola

vi è una stella nel cielo invernale

Bodini dice: È Natale!

Abito a trenta metri dal suolo

Abito a trenta metri dal suolo

in un casone di periferia

con un terrazzo e doppi ascensori.

Questo era cielo, mi dico

attraversato secoli fa

forse da una fila di aironi

con sotto tutta la falconeria

dei Torriani, magari degli Erba

e bei cavalli in riva agli acquitrini.

Questo mio alloggio e altri alloggi

libri stoviglie inquilini

questo era azzurro, era spazio

luogo di nuvole e uccelli.

L’aria è la stessa: è la stessa?

sopravvivere: vivere sopra?

Non so come mi sento agganciato

la sera ha tempo di farsi più blu

da un pallido re pescatore

o, di passaggio qui in alto,

dal vero barone di Mùnchausen.

Vincenzo Consolo, un siciliano a Milano

Otto anni fa, il 21 gennaio 2012, moriva a Milano Vincenzo Consolo, saggista, giornalista e scrittore raffinato quanto poco noto al grande pubblico. Era nato a Sant’Agata di Militello nel 1933 e si era laureato in Giurisprudenza prima di dedicarsi all’insegnamento nella scuole agrarie del messinese. Nel 1968 si era trasferito a Milano per lavorare alla RAI e dal 1977 è stato consulente editoriale della Casa Editrice Einaudi insieme con Italo Calvino e Natalia Ginzburg.

Oltre a saggi (Di qua dal faro, 1999), testi teatrali (raccolti in Oratorio, 1999) e testi per musica, Consolo ha scritto romanzi e racconti. L’esordio si ha nel 1963 con La ferita dell’aprile, «poemetto narrativo» come lui lo definisce, romanzo di formazione che apre uno spiraglio sulla vita di un paese siciliano durante le lotte politiche dei primi anni del dopoguerra; la narrazione è impostata cronolo­gicamente come diario di un anno scolastico, nell’intreccio tra vicende personali dei protagonisti e storia d’Italia.

Sin da questo esordio si nota nella scrittura di Consolo l’importanza centrale della parola; come conferma lui stesso: «Mi ponevo un po’ consapevolmente, un po’ istintivamente sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’impatto lin­guistico, dal recupero non solo degli stilemi e del glossario popolari e dialet­tali, ma anche, dato l’argomento, di un certo gergo adolescenziale. Gergo quanto mai parodistico, sarcastico, quanto mai oppositivo a un ipotetico codice linguistico nazionale, a una lingua paterna, comunicabile. E orga­nizzavo insieme la scrittura su una scansione metrica, su un ritmo poetico, con il gioco, ad effetto comico, delle rime e delle assonanze. Prendeva così il racconto, nella sua ritra­zione linguistica, nella sua inarticolazione sintattica, nella sua cadenza, la forma di un poemetto narrativo».

Ma il capolavoro di Consolo giunge nel 1976 con Il sorriso dell’ignoto marinaio, romanzo storico ambientato in Sicilia nel periodo di passaggio dal regime borbonico a quello sabaudo, culmi­nato nella sanguinosa rivolta contadina di Alcara Li Fusi del maggio 1860, molto simile alle vicende di Bronte rievocate da Verga nella novella Libertà. Protagonista è il bizzarro barone Enrico Pirajno di Mandralisca, catalogatore di molluschi e collezionista d’arte, che si interroga sul senso della storia nell’isola: «Cosa è stata sin qui la Storia, egregio amico? Una scrittura continua di privilegiati». Per lui il mondo è paragonabile ad una chiocciola: una spirale di ingiustizie e di soprusi, che si manifesta anche nella raffinatezza strutturale, di carattere simbolico, nella «costruzione a chiocciola», concen­trica e labirintica, del romanzo. Come afferma l’autore: «quel simbolo io l'ho preso come il simbolo della storia, per cui i popoli, le popolazioni che si trovano in una infelicità sociale, possono rimanere prigionieri dentro questo labirinto a forma di spirale, oppure, seguendo il labirinto, possono uscire verso la realtà della storia e prendere consapevolezza della loro condizione sociale. Ecco, è questo il simbolo della lumaca». Il romanzo richiama nel titolo il sorriso enigmatico dell’anonimo Ritratto di ignoto di Antonello da Messina, quadro che si finge regalato al barone filantropo Mandralisca il quale, osservandolo, si interroga sul ruolo dell’intellettuale di fronte a episodi come quelli che successero in Sicilia in occa­sione dell’arrivo di Garibaldi.

Nel 1985 è la volta di Lunaria, favola teatrale ambientata nella Palermo settecentesca, ma nello stesso tempo allegoria della solitudine dello scrittore, che si rispecchia nel malinconico Viceré Casi­miro che sogna la caduta della luna, in una visione che si fa presagio che s’invera.

Segue due anni dopo Retablo, un altro romanzo storico che richiama nel titolo l’arte pittorica; pre­senta le vicende di un intellettuale del Settecento in fuga da Milano verso la Sicilia alla ricerca della matrice culturale e umana della donna che ama. E non è chi non veda come anche questo perso­naggio possa consi­derarsi alter ego dell’autore.

La trilogia composta da Nottetempo, casa per casa (1992), L’olivo e l’olivastro (1994) e Lo spasimo di Palermo (1998) è invece posta sotto il segno del definitivo tramonto dell’utopia. Nel primo dei tre romanzi l’autore vuole «far vedere come il fascismo fosse figlio della follia, la follia privata del prota­gonista e quella pubblica della Storia, il ricorso al satanismo che voleva distruggere il cristianesimo di una società malata: tutti segni oscuri e premonitori, come quelli che vediamo oggi con il ritorno a queste ridicole forme di esorcismo, questi fondamentalismi, questi revanscismi». Il secondo, quasi un “an­tiro­manzo”, costituisce probabilmente l’apice della ricerca formale di Consolo, perché struttu­rato in una prosa spiroidale e convulsa, vicina a quello che Roland Barthes chiamava «il grado zero della scrit­tura». Il terzo, che vede ancora una volta la Sicilia al centro della narrazione e che per alcuni versi richiama l’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, è una corrosiva narrazione di viaggio, «un viag­gio in verticale, una discesa negli abissi» attraverso la Sicilia di un presente degradato, che si con­fronta con il pas­sato mitico. Non per nulla il romanzo è ambientato nell’anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio (1992) e si presenta per l’ennesima volta come un nòstos, un ritorno alle origini del protagonista, quel Gioacchino Martinez nel quale lo scrittore si riconosce, specialmente per le amare riflessioni sull’im­possibilità del romanzo in questo nostro tempo e sulla dubbiosa funzione della let­teratura come strumento di opposizione al malcostume dilagante. Il romanzo termina con l’assassi­nio del giudice Borsellino, episodio che costituisce il simbolo di un’epoca, quella dell’ultimo decennio del XX secolo, caratteriz­zata dalla caduta delle grandi ideologie, dello sterminio degli ultimi uomini giusti.

La riflessione che Consolo propone in tutta la sua opera giunge a conclusioni molto amare: i “vi­ceré”, vecchi e nuovi, i “gattopardi” di un tempo e di oggi, i mafiosi e gli arrivisti, i politici corrotti e i borghesi del quieto vivere sono il “colera di Palermo”, la pandemia che distrugge natura e arte di una regione (potremmo dire “di una nazione”) bella e perduta. Domina su tutto il suo lavoro l’amaro senso di fallimento di una gene­razione che non ha saputo costruire dopo la guerra un’Italia civile, moderna e virtuosa: e si ritrova ora a vivere in un paese stravolto, dove si respira «un odore dolcia­stro di sangue e gelsomino». Segno che l’infezione (e non stiamo parlando di Coronavirus…) non è ancora passata e che forse non se ne potrà proprio mai gua­rire…

Si propone, anziché uno stralcio da uno dei romanzi di Consolo (che vale invece la pena leggere per intero), un breve racconto ambientato sullo Stretto di Messina.

Scilla e Cariddi

Ora mi pare d'essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in contemplazione, statico e affisso a un'eterna luce, o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali inter­minati e vani, scale, fra mezzo a chiese, palazzi di nuvole e di raggi. Mi pare (vecchiaia puttana!) ora che ho l'agio e il tempo di lasciarmi andare al vizio antico, antico quanto la mia vita, di distac­carmi dal reale vero e di sognare. Mi pare forse per questi bei nomi dei villaggi, per cui mi muovo tra la mia e la casa dei miei figli. Forse pel mio alzarmi presto, estate e inverno, sereno o brutto tempo, ancora notte, con le lune e le stelle, uscire, portarmi alla spiaggia, sedermi sopra un masso e aspet­tare l'alba, il sole che fuga infine l'ombre, i sogni, le illusioni, riscopre la verità del mondo, la terra, il mare, questo Stretto solcato d'ogni traghetto e nave, d'ogni barca e scafo, sfiorato d'ogni vento, uccello, fragoroso d'ogni rombo, sirena, urlo. Inciso nel suo azzurro, nel luglio, nell'agosto, dalle linee nere, dai ferri degli altissimi tralicci, alti quanto quei delle campate ch'oscillano sul mare, dal Faro a Scilla, che sono ormai l'antenne verticali e quelle oriz­zontali, ritte come spade sui musi delle prore, delle feluche odierne chiamate passerelle. Ferme, in attesa, ciascuna alla sua posta, o erranti, rapide e rombanti, alla cattura del povero animale.

Viene il momento allora, per i vocii e i frastuoni dei motori, sul mare (barbagliano parabrezza d'auto, di camion che lontano corrono lungo i tornanti della costa calabra, sopra Gallico, Catona; barba­gliano vetri e lamiere dei grandi gabbiani, degli aerei aliscafi), sulla strada alle mie spalle, che corre, tra le case e il mare, giù verso Messina, il porto, fino a Gazzi, Mili, Galati, su verso Ganzirri, Raso­colmo, San Saba, viene il momento di rintanarmi.

Mi metto allora a lavorare ai modelli in legno dello spada, azzurro e argento, tonno, alalonga, aguglie, ai modelli dei lontri veri, delle feluche antiche, a riparare reti e ritessere ricordi, miei, della mia vita, qui, sopra questo breve nastro di mare, quest'infinito oceano di fatti, d'avventure, o per il mondo.

Sono nato (e chi lo sa più quando?) a Torre Faro, da rinomato padrone lanzatore, padre Stel­lario Alessi, terzo di cinque figli. I maschi, Nicola, Saro e io, di nome (solo di nome) Placido, ancora quasi lattanti, non lasciavamo in casa a nostra madre forchetta per mangiare, che lega­vamo in cima a una canna a mo' di fiocina per infilzare polipi bollaci costardelle, ogni pesce che per ventura capitava a tiro del nostro occhio e braccio. Era l'istinto che ci portava verso il me­stiere, come aveva portato nostro padre, suo padre indietro, ci portava verso il destino del mare, dello Stretto, del pesce spada, sopra feluche e lontri, ci portava a lance, palamidare, palangresi.

Nicola morì soldato e Saro nel suo letto, di spagnola. E io non mi ricordo più quando salii sul lon­tra e lanciai l'arpione la prima volta. Ho solo negli occhi la vista della draffinera, di quelle preziose del ferraro mastro Nino, che s'inchioda nella pelle lucida, colore dell'acciaio, nel cuore della carne, del pesce che s'impenna, che s'inarca, alta la spada sopra il fior dell'acqua, e s'ina­bissa, sferzando forte con la luna della coda, rapido sparendo con tutto il filo della sàgola, il filo del sangue che dise­gna la sua strada. Strada che finisce nella morte. Ho negli occhi la ciurma che lo tira in barca, grande, pesante, inghiaccato alla coda, la bocca aperta, la spada in basso, come un cavaliere che ha perso la battaglia; negli occhi, l'occhio suo tondo e fisso, che guarda oltre, oltre noi, il mare, ol­tre la vita. Ho nell'orecchio le voci di mio padre, i suoi comandi, le voci della ciurma: «Buittu, viva san Marcu binidittu!». Dopo la femmina, fu la volta del maschio, che s'ag­girava, pesante e rasse­gnato, come in offerta, torno alla barca, a tiro del mio ferro.

Da allora, ho negli occhi e nel ricordo una schiera infinita di pesci indraffinati, di spade a pezzi succhiate nel midollo, di teste, di pinne, di code resecate.

Mio padre, vecchio e privo d'altri maschi, privo ormai di vista e resistenza, fu costretto a scender dall'antenna, ad ingaggiare, per la stagione che arrivava, uno di Calabria, dove sono gli antennieri più acuti dello Stretto, pur se i comandi, in vista dello spada, li fanno in lingua tutta loro. «Appà, maccà, palè, ti fò...» urlano.

Il giovane, Pietro Iannì, che sempre da caruso era stato guida sulle postazioni delle rocche alte di Scilla, di Palmi, di Bagnara, sposò poi Assunta, mia sorella, e se ne tornò al paese. Fu per il loro primo figlio, pel battesimo, ch'io conobbi quella che divenne poi la mia sposa. Figlia di padrone di barche, padre Séstito, era picciotta bella e assennata. Muta e travagliante. Ma non di fora, come le bagnarote libere e spartane che vanno a commerciare pesce, intrallazzare sale, avanti e indietro sempre sui traghetti, ma, di casa, e al più sulla spiaggia, tra le barche dei suoi. Bruna, il fazzoletto in testa, gli occhi sfuggenti che spiavan di traverso, stretta alla vita, i fianchi dentro quel maremoto di pieghe della gonna, il busto che sbocciava in sopra ardito e snello: così m'apparve in prima a quella festa. Il matrimonio, con tutti gli accordi e i sacramenti, si fece nella chiesa bella del Carmelo, e il trattamento, nella casa capace della sposa. Fu quel giorno che mio padre, in presenza dei Sé­stito, pronunciò il testamento, disse che le barche, gli attrezzi per la pesca, tutto passava a me, ch'io sarei stato da quel giorno il padrone nuovo.

Poco durò lo spasso per le nozze. Me la portai, Concetta, la mia sposa, nella casa nostra, lì vicino alla chiesa, davanti al monumento con l'angelo di marmo a cui la guerra tagliò di netto un'ala, in faccia alle barche nostre, al mare, alla rocca di Scilla dall'altra parte. Le feci conoscere Messina, il porto, con tutta la confusione dei bastimenti fermi, delle navi in movimento, dei fer­ribotti, la Madonna lì alla punta della falce, alta sopra la colonna, sopra il forte del Salvatore; il Duomo, dove restò incantata, a mezzogiorno, per il campanile e l'orologio, ch'è una delle mera­viglie di questo nostro mondo: suonano le campane, canta il Gallo, rugge il Leone, la Colomba vola, passa il Giovane, il Vecchio, passa la Morte con la falce; sorge la chiesa di Montalto, passa l'Angelo, San Paolo, torna l'Ambasceria da Gerusalemme, la Madonna benedice... Me la portai per i viali, a Cristo Re, a Din­nammare, su fino a Camaro, a Ritiro, ai colli di San Rizzo. Ma lei, lei, sempre pronta, sottomessa, era però come restasse sempre straniata, come legata con la mente alla terra di là, oltre lo Stretto. E più mi dava figli (tre volte partorì in cinque anni) più sembrava crescere in lei il silenzio e lo scon­tento. C'era fra noi, che dire? come una distanza, uno stretto, una Scilla e Cariddi fra cui non si poteva navigare. Eppure, santissima Madonna! la trattavo con ogni cura e affetto, l'adornavo di vesti, di ori; la portavo alla festa di Ganzirri, alla processione di San Nicola sul Pantano, alla trattoria di don Michele; e a Messina, alla festa dell’Assunta a Mez­zagosto. Una volta tirai anch'io per voto (voto che si capisce quale fosse, d'avere finalmente quella donna, per cui potevo morire, indraffinato come un pescespada), tirai per la corda la gran Vara, scalzo, senza camicia, e lei accanto a me, sciolti i capelli, certo per un voto suo segreto che mai mi rivelò.

Un luglio, ad apertura della pesca, per l'ammalarsi dell'antenniere mio, fu lei a suggerirmi, come per caso, quel nome d'un parente suo lontano, Polistena Rocco, rinomato fra Bagnara e Scilla. E arrivò quest'uomo snello, alto, d'una chioma riccia come quella del gigante Grifone sul cavallo. Tanto che là, in cima, stava per tutte l'ore senza un cappello, solo riparo quel suo casco nero di chiocciole o di cozze. Lo vidi e l'odiai. Non so perché. Forse per il suo portamento, il suo sorriso, la fama per cui ognuno rideva e mormorava, d'una sua dote fuori d'ordinario, la fama, scapolo com'era all'età sua, di grande ladro, d'amatore tenace e senza cuore. Mi parve che Con­cetta, al suo arrivare, mi parve che appena appena mutasse nell'umore, nel modo suo di fare; parlava più frequente, con me, coi figli, sorrideva finanche qualche volta. L'odiai. E quando al­zavo il braccio per colpire il pesce, che lucido e dritto guizzava sotto l'acqua con la spada, mi sembrava di colpire, di piantare in quell'uomo la draffinera. E il mare lo vedevo tutto rosso, poi argento, poi blu, poi nero come la notte.

Pel tempo che durò la sua presenza al Faro (due, tre estati, non ricordo), pur senza un segno, un fatto, un motivo vero, cresceva sempre più la mia pazzia, l'ossessione dell'inganno. E sì che non eravamo più di primo pelo, né io né quello né Concetta. Durò fino a quell'anno in cui comin­ciò il grande mutamento, l'anno vale a dire in cui passarono in disuso remi, lontri, feluche, si mutarono le barche in passerelle. E ci vollero quindi, per i motori, l'antenne, tanti soldi. Decisi per questo (ma forse fu una scusa) di sbarcare, disarmare tutto, licenziar la ciurma, il calabrese.

Per mantenere la famiglia m'imbarcai come marinaio, io padrone, sopra il Luigi Rizzo, il va­poretto che collegava Milazzo a Lipari, Vulcano ... Fuori dal porto, costeggiando la penisola del Capo, oltre il Castello, davanti alla casa di quell'ammiraglio che nella Grande Guerra era stato eroe, assieme a un poeta, per una impresa ardita contro il nemico, il battello che portava il suo nome, lanciava il fischio di saluto. Allora qualcuno, una serva, un parente, rispondeva svento­lando dal terrazzo un panno bianco. Il battello d'estate era sempre pieno di turisti: scoprii così il mondo. Mi feci, per can­cellar l'amore per Concetta, gran traffichiere, facile predatore di straniere. D'inverno, nelle soste a Lipari sotto il Monastero, nelle soste forzate per il brutto tempo, m'in­trecciai con una di là, ché sono, le donne di quell'isola, svelte, calamitose, seducenti.

Tornavo al Faro, a casa, a ogni turno di riposo, tornavo per le feste. E lei, Concetta, era sempre chiusa nel suo mondo, sempre indifferente. In più ora sembrava solo presa dai figli, ch'erano ormai cresciuti e le davano maggior lavoro.

Il colmo della sua freddezza nei confronti miei lo provai un'estate. Forse per sfida o forse nell'in­tento di smuoverla allo scontro, portai una straniera fino a Torre Faro, fino alla punta estrema del Peloro, all'incrocio dei mari, dove la rema forma i gorghi, quelli che la tedesca chia­mava del mostro di Cariddi. Passammo davanti alla mia casa. Lei ci vide, da dietro la finestra, ed ebbe come un riso di sprezzo, di compatimento.

Dopo quel fatto, decisi di sbarcare, di tornare al mio mestiere della pesca. Anch'io, come gli altri, misi da parte remi e lontri, comprai un motore per la mia feluca e cominciai a correre, a inseguire lo spada sullo Stretto. Avevo preso un'antenniere nuovo di Fiumara Guardia, e il mio braccio di vecchio lanzatore era tornato ad essere forte e preciso come nel passato. Fu in uno di questi erraggi, nell'in­seguire il pesce dalla posta mia, che mi scontrai con una passerella che per abuso aveva catturato il pescespada. Lì, sull'antenna della feluca pirata, rividi allora dopo tanto tempo il calabrese. La que­stione della preda fu portata davanti al Consiglio, che sentenziò natu­ralmente a mio favore. Ma al Polistena, che seppi era il padrone della passerella, feci sapere che il giudizio per me, oltre il Con­siglio, era nel riparar lo sfregio col duello: che si facesse trovare sulla spiaggia, proprio sotto il Faro. Fu lì puntuale, come convenuto. Stavamo appressandoci, quando, a un passo l'uno dall'altro, co­minciarono a fischiare sopra le nostre teste le palle dei fucili. Eravamo proprio sotto il campo del tiro al piattello. Ci buttammo per terra, la faccia contro la rena. E restammo così, impediti a muoverci, non so per quanto tempo. Ci spiavamo con la coda dell'occhio. Poi improvviso fu lui a ridere per primo, a ridere forte, e trascinò me nella risata, mentre i piatti in aria venivano dai colpi sbriciolati. Dopo, quando ci fu il silenzio, ed era quasi l'imbrunire, ci alzammo, ci guardammo in faccia. Fu lui, Rocco, a tendermi la mano. Non lo vidi più. Sparì dalla mia vista e dalla mia vita. Anche perché sparì in uno con Concetta tutto il rancore mio e la gelosia.

Mi disse lei, là all'ospedale Margherita, affossata nel letto, gli occhi negli occhi, la mano ser­rata nella mia: «Ah, Placido, come si può passare una vita senza capire!» Da allora, quando mi lasciò la mia Concetta, sentii che cominciavo a farmi vecchio. Donai tutto, passerella e reti ai miei figli, lasciai il Faro e venni qui ad abitare in una nuova casa.

Ora mi pare d'essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come un trapassato... Ma vivo nei ricordi. E vivo finché ho gli occhi nella beata contemplazione dello Stretto, di questo breve mare, di questo oceano grande come la vita, come l'esistenza.

Elsa Morante, il romanzo della Storia

Elsa Morante (1912-1985) è stata autrice di romanzi voluminosi, da Menzogna e sortilegio (edito nel 1948: 700 pagine in ottavo grande) a L’isola di Arturo (1957: quasi 400 pagine), da La Storia (1974: più di 650 pagine) ad Aracoeli (1982: oltre 300 pagine). Non che la quantità debba essere sinonimo di qualità, né viceversa di scarso valore: ma molti critici le hanno con­testato una certa disuguaglianza di risultati artistici dovuti proprio alla mole dei suoi romanzi.

Il suo esordio narrativo avviene nell’immediato dopoguerra con Menzogna e sortilegio: la vicenda è ambien­tata a inizio Novecento in una piccola città del Mezzogiorno, dove la prota­gonista Anna ha vissuto una misera adolescenza, invaghita del ricco e fascinoso cugino Edoardo; a questa coppia se ne affianca un’altra, formata dallo squattrinato studente France­sco e dalla giovane prostituta Rosaria. Poi le coppie si scambiano, Anna sposa Francesco e ne ha una figlia, muoiono in successione Edoardo, Francesco e infine Anna. La figlia di Anna, Elisa, resta affezionata a Rosaria e infine si fa narratrice di tutta la loro vicenda. Questa la trama essen­ziale, su cui si innestano però numerosissimi episodi laterali, che diventano a loro volta altri piccoli romanzi, fino a dare, come si diceva, una dimensione strabordante all’opera.

L’isola di Arturo occupa i dieci anni successivi della scrittura della Morante: è ambientato nell’isola di Procida, dove Arturo, un ragazzetto orfano di madre, vive con il padre tedesco Vilelm Gerace, che sovente parte per viaggi misteriosi. Da uno di questi viaggi torna con la giovane Nunziatina che ha sposato a Napoli: all’iniziale avversione di Arturo si sostituisce gra­datamente un’attrazione fatale per la matrigna, che però ne è disgustata. Alla nascita del fra­tellastro Car­mine, e dopo avere scoperto i loschi traffici a motivo dei quali il padre si assentava, Arturo decide di lasciare l’isola, mentre la guerra sta per scoppiare. E il lungo romanzo si chiude con un finale aperto.

Probabilmente la vetta artistica raggiunta dalla Morante si può identificare ne La Storia, il romanzo che suscitò a partire dal 1974 il più focoso dibattito critico. Ma la scintilla del successo fu extra-letteraria: fu la decisione che l’autrice impose all’editore Einaudi di pubblicare il volume in edi­zione po­polare a un prezzo contenutissimo. La critica si divise tra coloro che considera­vano l’opera un tardivo scialbo omaggio al neorealismo e quelli che lo osannavano come il più bel ro­manzo del Novecento. La scelta dell’autrice è quella di dare un affresco della storia d’Ita­lia durante la seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi (dal 1941 al 1947) intrec­ciandola con le vicende personali della maestra Ida e del figlio Giuseppe, nato dallo stupro da lei subìto nel 1941 a Roma da parte del giovane militare tedesco Günter. Questi poco dopo muore: Ida, Giuseppe e Nino (l’altro figlio avuto dalla donna in precedenza dal com­messo viaggiatore di origine siciliana Alfio Mancuso) devono affrontare varie peri­pezie, anche dopo la fine della guerra. Dopo la morte di Nino sopraggiunge quella di Giuseppe: Ida rimasta solo impaz­zisce e si barrica in casa; viene infine portata in un ospedale psichiatrico, dove morirà nove anni dopo.

Opera assai diseguale, La Storia ha avuto però il merito di rinnovare l’interesse di una vasta platea di lettori per le vicende italiane di quegli anni drammatici. Scrisse Emilio Cecchi: «Come certe antiche carrozze da viaggio, il romanzo ha un aspetto pesante, casalingo e tuttavia av­venturoso […] ha l’intimità d’uno studiolo, d’una camerella dove, così pigramente andando alla deriva, si può appartarsi e fantasticare». In effetti accanto a pagine assimilabili a quelle del neorealismo (pensiamo a Pavese, Calvino, Vittorini, Pratolini, Viganò, Pasolini) se ne trovano altre intimistiche o sognanti: il che può anche essere considerato positivo. Secondo Geno Pampaloni «le prime settanta pagine rimangono folgoranti. Insieme all’allucinata evidenza del racconto c’è in esse un’arcana tenerezza, lo stupore disperato e dolcissimo della vita così com’è, rapida a dissol­versi nel vorticare del tempo, e che tuttavia lascia sulla terra la traccia di una sua inviolabile reminiscenza».

L’ultimo romanzo, Aracoeli, è tutto centrato sul rapporto intenso, quasi magico tra una donna, l’anda­lusa Aracoeli appunto, e suo figlio Manuele: è quest’ultimo, quarantenne fallito e omo­sessuale infelice, a rievocare le vicende di un’infanzia mitizzata, paradisiaca. Egli si reca in Andalusia alla ricerca delle radici della madre, in una sorta di viaggio iniziatico; che però finisce per rivelare soltanto la drammatica miscela di sesso, follia e incomunicabilità che la madre aveva vissuto. Il romanzo esprime la continua mescolanza della dimensione inconscia e del dramma personale della scrittrice, che durò tutta la vita: per trovare sfogo appunto in Aracoeli. Ma la figura di Manuele che ripercorre tragicamente il destino materno senza essere infine capace di uscire dal nido che lei gli ha costruito intorno, rivela in realtà la vera essenza della scrittrice, che in questo romanzo mette definitivamente a nudo se stessa, confessa la sua incapacità di amare. Ella lo definì «il mio povero, ultimo romanzo andaluso […] fabbrica d’om­bre equivoche, per trastullo dei miei giorni vani».

 

Si propone qui un brano de La Storia, dove con profonda amarezza Elsa Morante osserva come le classi sociali che da sempre detengono il potere abbiano angariato le altre classi sociali, nel nome del guadagno ad ogni costo, distruggendo la natura e annientando chi si ribellava.

 

Come già tutti i secoli e millenni che l’hanno preceduto sulla terra, anche il nuovo secolo si regola sul noto principio immobile della dinamica storica: “agli uni il potere, e agli altri la servitù”.

È curioso come certi occhi serbino visibilmente l’ombra di chi sa quali immagini, già im­presse, chi sa quando e dove, nella rètina, a modo di una scrittura incancellabile che gli altri non sanno leggere – e spesso non vogliono.

Il Potere, spiegava a Santina, è degradante per chi lo subisce, per chi lo esercita e per chi lo amministra! Il Potere è la lebbra del mondo! E la faccia umana, che guarda in alto e dovrebbe rispecchiare lo splendore dei cieli, tutte le facce umane invece dalla prima all’ultima sono de­turpate da una simile fisionomia lebbrosa! Una pietra, un chilo di merda saranno sempre più rispettabili di un uomo, finché il genere umano sarà impestato dal Potere…

L’umanità, per propria natura, tende a darsi una spiegazione del mondo, nel quale è nata. E questa è la sua distinzione dalle altre specie. Ogni individuo, pure il meno intelligente e l’infimo dei paria, fino da bambino si dà una qualche spiegazione del mondo. E in quella si adatta a vivere. E senza di quella, cadrebbe nella pazzia.

La natura è di tutti i viventi… era nata libera, aperta, e LORO l’hanno compressa e anchilo­sata per farsela entrare nelle loro tasche. Hanno trasformato il lavoro degli altri in titoli di borsa, e i campi della terra in rendite, e tutti i valori reali della vita umana, l’arte, l’amore, l’amicizia, in merci da comprare e intascare.

Qui dentro, gli uomini (ce n’erano delle centinaia) non si potevano nemmeno contare a anime, come usava ancora ai tempi della gleba. Al servizio delle macchine, le quali, coi propri corpi eccessivi, sequestravano e quasi ingoiavano i loro piccoli corpi, essi si riducevano a fram­menti di una materia a buon mercato, che si distingueva dal ferrame del macchinario solo per la sua povera fragilità e capacità di soffrire.

Lo si sentiva a volte ripeterla fra sé in una sequela monotona: «pecché? pecché pecché pec­ché pecché??». Ma per quanto sapesse d’automatismo, questa piccola domanda aveva un suono testardo e lacerante, piuttosto animalesco che umano. Ricordava difatti le voci dei gattini buttati via, degni asini bendati alla macina, dei caprettini caricati sul carro per la festa di Pasqua. Non si è mai saputo se tutti questi pecché innominati e senza risposta arrivino a una qualche desti­nazione, forse a un orecchio invulnerabile di là dai luoghi.

Solo da quella si riconosce il cristo: dalla parola! che è solo una sempre la stessa: quella là! E lui l’ha detta e ridetta e tornata a ridire, oralmente e per iscritto; e da sopra la montagna e da dentro le gattabuie e… e dai manicomii… e departùt… Il cristo non bada alla località, né all’ora storica, e né alle tecniche del massacro… Già. Siccome lo scandalo era necessario, lui si è fatto massacrare oscenamente, con tutti i mezzi disponibili – quando si tratta di massacrare i cristi non si risparmia sui mezzi… Ma l’offesa suprema, che gli hanno fatta, è stata la parodia del pianto! Generazioni di cristiani e di rivoluzionari – tutti quanti complici! – hanno seguitato a frignare sul suo corpo – e intanto, della sua parola, ne facevano merda!

Erano dei ciechi, guidati da ciechi e alla guida di altri ciechi, e non se ne accorgevano… Si ritenevano dei giusti – in perfetta buona fede! – e nessuno li smentiva in questo loro abbaglio.

I morti, se ne fa un conto approssimativo, e poi vanno in archivio: pratiche estinte! Per le ricorrenze, dei signori in tight portano una corona al milite ignoto…

La camera a gas è l’unico punto di carità, nel campo di concentramento.

La sola rivoluzione autentica è l’ANARCHIA! A-NAR-CHIA, che significa: NESSUN po­tere, di NESSUN tipo, a NESSUNO, su NESSUNO! Chiunque parla di rivoluzione e, insieme, di Potere, è un baro! e un falsario! E chiunque desidera il Potere, per sé o per chiunque altro, è un reazionario.

La Storia, si capisce, è tutta un’oscenità fin dal principio.

Si sa che la fabbrica dei sogni spesso interra le sue fondamenta fra i tritumi della veglia o del passato.

Antonia Pozzi, tra cielo e terra

A ventisei anni, nel dicembre del 1938, Antonia Pozzi decise di togliersi la vita, dichiarando di non aver più forza per lottare: l’ultimo scritto che aveva lasciato fu bruciato dal padre, che già ne aveva ostacolato le scelte di vita, in particolare impedendo la relazione affettiva con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi. Nel 1930 si era iscritta alla facoltà di filologia dell’Università statale di Milano, divenendo amica di suoi coetanei quali Vittorio Sereni, Enzo Paci, Luciano Anceschi, Remo Cantoni; nel 1935 si laureò con una tesi sulla formazione letteraria di Gustave Flaubert. Cercò sempre di essere una donna libera, studiando inglese, francese e te­desco, ef­fettuando numerosi viaggi in Europa, dedicandosi alla fotografia, ma soprattutto scri­vendo: e questo avvenne principalmente nel “buen ritiro” di Pasturo, nel lec­chese, ai piedi della Grigna, dove la famiglia possedeva una villa (oggi visitabile come parte del Parco let­te­rario a lei dedi­cato).

La grande italianista Maria Corti, che la conobbe all'università, affermava di lei che «il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull'orlo degli abissi. Era un'ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma in­sieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda inno­cente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la con­solava certo più dei suoi simili».

Certamente influenzarono la sua poesia prima il crepuscolarismo di Gozzano, poi l’espres­sionismo tedesco: ma personalissimo restò sempre il suo stile, ricco di suggestioni bibliche sfo­cianti in preghiera. Pur nell’amara consapevolezza che il limite dell’umano non potrà mai essere travalicato, la sua poesia è pervasa da una costante ricerca di infinito; come scrisse in una lettera, «la poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci rimbalza nell'anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell'arte, così come sfociano i fiumi nella celeste vastità del mare». E alla poesia Antonia dedicò lo spazio più intimo del suo essere, sempre in bilico tra attaccamento alla terra, alle radici, e indomabile anelito verso l’altezza, sia in senso fisico (l’amore per le montagne, su cui compiva frequenti scalate con la guida alpina Emilio Comici) sia metafisico (la smania di assoluto che la dila­niava). Scalare una montagna equivaleva per lei ad espiare la colpa, trovare nella solitudine l’incontro con il Dio che accoglie e consola. E anche il vento di montagna aveva per lei questa funzione catartica: lo considerava capace di infondere vita e di castigare, ammaestrare e por­tare messaggi di salvezza, rivelare la volontà di Dio e rin­forzare il legame tra terra e cielo.

La montagna fu in effetti per Antonia Pozzi il primo approdo a Dio, sentito in quei luoghi più vicino che altrove: la luce che illumina la vette fu per lei espressione dello splendore divino, che avrebbe potuto forse illuminare anche la sua anima sepolta nelle tenebre. Sulla sommità della montagna le pareva di unirsi panicamente con la natura e con la divinità, in un amore atemporale («Anima, sii come la montagna: / che quando tutta la valle / è un grande lago di viola / e i tocchi delle campane vi affiorano / come bianche ninfee di suono, / lei sola, in alto, si tende / ad un muto colloquio col sole»).

Ma non l’abbandonò mai la paura di essere senza Dio, di non avere «nulla di fermo / ma solo cose vive che sfuggono / essere senza ieri / essere senza domani / ed acciecarsi del nulla». Questa concezione vittimistica si avverte nell’idea che man mano affiora nella sua poesia di una luce sempre più crepuscolare, luce di tramonto che non sarà seguito da nessuna alba, da nessuna rinascita: «scende la notte- / nessun fiore è nato- / è inverno -anima- / è inverno».  L’incontro con la notte è un ritorno verso l’ombra, verso il traguardo odiato e desiderato, verso l’annullamento che attraverso «lunghe scale» la porta a dissolversi: resta la sua poesia a testimoniare un’anima che non ha saputo vincere il peso della vita.

Esempi

Anima, sii come il pino:

che tutto l'inverno distende

nella bianca aria vuota

le sue braccia fiorenti

e non cede, non cede,

nemmeno se il vento,

recandogli da tutti i boschi

il suono di tutte le foglie cadute,

gli sussurra parole d'abbandono;

nemmeno se la neve,

gravandolo con tutto il peso

del suo freddo candore,

immolla le fronde e le trae

violentemente

verso il nero suolo.

Anima, sii come il pino:

e poi arriverà la primavera

e tu la sentirai venire da lontano,

col gemito di tutti i rami nudi

che soffriranno, per rinverdire.

Ma nei tuoi rami vivi

la divina primavera avrà la voce

di tutti i più canori uccelli

ed ai tuoi piedi fiorirà di primule

e di giacinti azzurri

la zolla a cui t'aggrappi

nei giorni della pace

come nei giorni del pianto.

 

Anima, sii come la montagna:

che quando tutta la valle

è un grande lago di viola

e i tocchi delle campane vi affiorano

come bianche ninfee di suono,

lei sola, in alto, si tende

ad un muto colloquio col sole.

La fascia l'ombra

sempre più da presso

e pare, intorno alla nivea fronte,

una capigliatura greve

che la rovesci,

che la trattenga

dal balzare aerea

verso il suo amore.

Ma l'amore del sole

appassionatamente la cinge

d'uno splendore supremo,

appassionatamente bacia

con i suoi raggi le nubi

che salgono da lei.

Salgono libere, lente

svincolate dall'ombra,

sovrane

al di là d'ogni tenebra,

come pensieri dell'anima eterna

verso l'eterna luce.

Pasturo, 10 aprile 1931

Prati

Forse non è nemmeno vero

quel che a volte ti senti urlare in cuore:

che questa vita è,

dentro il tuo essere,

un nulla

e che ciò che chiamavi la luce

è un abbaglio,

l'abbaglio supremo

dei tuoi occhi malati –

e che ciò che fingevi la meta

è un sogno,

il sogno infame

della tua debolezza.

 

Forse la vita è davvero

quale la scopri nei giorni giovani:

un soffio eterno che cerca

di cielo in cielo

chissà che altezza.

 

Ma noi siamo come l'erba dei prati

che sente sopra sé passare il vento

e tutta canta nel vento

e sempre vive nel vento,

eppure non sa così crescere

da fermare quel volo supremo

né balzare su dalla terra

per annegarsi in lui.

Milano, 31 dicembre 1931

Sogno sul colle

Sotto gli ulivi vorrei

in un mattino fresco

salire

e salutare

di là dalle lievi

chiome d'argento

il pallore del sole ed il volo

delle nuvole lente

verso il mare.

 

Vorrei cogliere un mazzo di pervinche

fiorite

nei cavi tronchi

e camminare per il viale oscuro

dei lecci

con il mio dono azzurro presso il cuore.

 

Rasentare così

le antiche mura

ricoperte dall'edera

vorrei

e bussare alla porta del convento.

 

Vorrei essere un frate silenzioso

che va con i suoi sandali di corda

sotto gli archi di un chiostro

e attinge acqua all'antica

vera del pozzo

e disseta

le lavande e le rose.

 

Vorrei

dinnanzi alla mia cella

avere

quattro metri di terra

ed ogni sera

al lume delle prime stelle

scavarmi

lentamente una fossa

pensando al tramonto dolcissimo

in cui verranno

salmodiando

i fratelli

e in mezzo ai cespi delle lavande

mi coricheranno

ponendomi sul cuore

come fiori

morti

queste mie stanche mani

chiuse in croce.

Assisi, 24 gennaio 1933

Il porto

Io vengo da mari lontani –

io sono una nave sferzata

dai flutti

dai venti –

corrosa dal sole –

macerata

dagli uragani –

 

io vengo da mari lontani

e carica d'innumeri cose

disfatte

di frutti strani

corrotti

di sete vermiglie

spaccate –

stremate

le braccia lucenti dei mozzi

e sradicate le antenne

spente le vele

ammollite le corde

fracidi

gli assi dei ponti –

 

io sono una nave

una nave che porta

in sé l'orma di tutti i tramonti

solcati sofferti –

io sono una nave che cerca

per tutte le rive

un approdo.

Risogna la nave ferita

il primissimo porto –

che vale

se sopra la scia

del suo viaggio

ricade

l'ondata sfinita?

 

Oh, il cuore ben sa

la sua scia

ritrovare

dentro tutte le onde!

Oh, il cuore ben sa

ritornare

al suo lido!

 

O tu, lido eterno –

tu, nido

ultimo della mia anima migrante –

o tu, terra –

tu, patria –

tu, radice profonda

del mio cammino sulle acque –

o tu, quiete

della mia errabonda

pena –

oh, accoglimi tu

fra i tuoi moli –

tu, porto –

e in te sia il cadere

d'ogni carico morto –

nel tuo grembo il calare

lento dell'ancora –

nel tuo cuore il sognare

di una sera velata –

quando per troppa vecchiezza

per troppa stanchezza

naufragherà

nelle tue mute

acque

la greve nave

sfasciata.

20 febbraio 1933

Così sia

Poi che anch'io sono caduta

Signore

dinnanzi a una soglia –

 

come il pellegrino

che ha finito il suo pane, la sua acqua, i suoi

sandali

e gli occhi gli si oscurano

e il respiro gli strugge

l'estrema vita

e la strada lo vuole

lì disteso

lì morto

prima che abbia toccato

la pietra del Sepolcro –

 

poi che anch'io sono caduta

Signore

e sto qui infitta

sulla mia strada

come sulla croce

 

oh, concedimi Tu

questa sera

dal fondo della Tua

immensità notturna –

come al cadavere del pellegrino –

la pietà

delle stelle.

9 aprile 1933

Lamentazione

Che cosa mi ha dato

Signore

in cambio

di quel che ti ho offerto?

del cuore aperto

come un frutto –

vuotato

del suo seme più puro –

gettato

sugli scogli

come una conchiglia inutile

poi che la perla è stata

rubata –

 

che cosa mi hai dato

in cambio

della mia perla perfetta

diletta?

quella che scelsi

dal monile più splendente

come sceglievano i pastori

antichi

nel gregge folto

l'agnello più lanoso più robusto più bianco

e l'immolavano

sopra il duro altare?

 

Che cosa hai fatto tu

se non legarmi

a questo altare

come ad una eterna

tortura? –

 

Ed io ti ho dato

la mia creatura

unica

la mia ansia materna

inappagata

il sogno

della mia creatura non creata

il suo piccolo viso senza

fattezze

la sua piccola mano senza

peso –

Sulle rovine della mia casa non nata

ho sparso

cenere e sale –

 

E tu

che cosa mi hai dato

in cambio

della mia dolce casa

immacolata?

se non questo deserto

Signore

e questa sabbia che grava

le mie mani di carne

e m'intorbida gli occhi

e m'insudicia le piaghe

e m'infossa

l'anima –

 

O non ci sono più nembi

nel tuo cielo

Signore

perché si lavi

in uno scroscio

tutta questa

miseria?

Milano, 6 maggio 1933

Minacce

Campani

frane lente di suoni

giù dai pascoli

dentro valli di nebbia.

 

Oh, le montagne,

ombre di giganti,

come opprimono

il mio piccolo cuore.

 

Paura. E la vita che fugge

come un torrente torbido

per cento rivi.

E le corolle dei dolci fiori

insabbiate.

 

Forse nella notte

qualche ponte verrà

sommerso.

 

Solitudine e pianto –

solitudine e pianto

dei làrici.

Breil, 3 agosto 1934

Altura

La glicine sfiorì

lentamente

su noi.

 

E l'ultimo battello

attraversava il lago in fondo ai monti.

 

Petali viola

mi raccoglievi in grembo

a sera:

quando batté il cancello

e fu oscura

la via al ritorno.

11 maggio 1935

Approdo

Fruscìo sordo di legni

sovra il lago

sepolto:

 

ci scompare

alle spalle in un turbine di neve

la pista esile dritta.

 

Ora si leva

la voce di un attacco nel passo.

 

Stride ritmico:

e forse è freddo pianto di bivacchi,

grido di spaventevoli bufere;

o è lamento d'uccelli,

ansito roco

di volpi gracili vedute morire –

 

Non andiamo ai confini di una terra?

E quando in altre vesti

alle calde vetrate sosterò –

(la slitta

m'avrà rapita

nel giro dei suoi campanelli,

avrò alle spalle

lampade volti canti) –

 

la mia ombra

sarà sul lago,

pegno immoto di me

fuori – alla triste

favolosa sera.

Misurina, 12 gennaio 1936

Morte di una stagione

Piovve tutta la notte

sulle memorie dell'estate.

 

A buio uscimmo

entro un tuonare lugubre di pietre,

fermi sull'argine reggemmo lanterne

a esplorare il pericolo dei ponti.

 

All'alba pallidi vedemmo le rondini

sui fili fradice immote

spiare cenni arcani di partenza –

 

e le specchiavano sulla terra

le fontane dai volti disfatti.

Pasturo, 20 settembre 1937

Mariangela Gualtieri fra teatro e poesia

Nata a Cesena nel 1951, laureata in Architettura, la Gualtieri fonda a Cesena nel 1983 con Cesare Ronconi il Teatro Valdoca, tra i più importanti teatri di sperimenta­zione, e con Milo De Angelis vi fa nascere una Scuola di Poesia dove ha modo di confrontarsi con alcune delle più importanti voci poetiche di quel periodo: Roberto Re­bora e Dylan Thomas, Franco Fortini e Mario Luzi, Piero Bigongiari e Franco Loi, Ame­lia Rosselli e Alda Merini. Esordisce tardi in poesia con la silloge Antenata (1992), cui se­guono negli anni Fuoco centrale (1995), Nei leoni e nei lupi (1997), Senza pol­vere senza peso (2006), Bestia di gioia (2010), Le giovani parole (2015), Quando non mo­rivo (2019).

La sua parola, sempre alla ricerca di echi e sugge­stioni che vadano oltre il significato immediato dei termini scelti, si affianca al silenzio degli spazi bianchi, in un rapporto di circolarità che reciprocamente li illumina: «la poesia – afferma - ha proprio questa pe­culiarità: è parola che tiene con sé il silenzio, parola che ha al proprio centro il silen­zio». E ancora: «forse la poesia, forse tutta l’arte nasce da questa insufficienza della lingua corrente, che finge di poter dire ciò di cui davvero ci importa, per poi lasciarci sempre inappagati, delusi. Certo è viva in me l’esigenza di rinominare le cose, di richiamare alla vita o alla vivezza le parole, strappandole dal luogo logoro in cui sono relegate»; o infine: «Non prendere la parola. / Lascia sia lei da sola. Diventa tu / la preda. Sia lei che ti cattura».

Il sentimento che domina ovunque nella sua produzione è lo stupore, l’attesa dello svelamento di ciò che sta dietro la parola, e che solo la poesia è in grado di scoprire e rivelare. Proprio per rag­giungere questo livello profondo del senso, Gualtieri stravolge il linguaggio comune, violando la semantica, trasgredendo le regole grammaticali e sintattiche, incidendo sulla lingua quelle che lei definisce «ferite perfette»: sbagli ap­parenti, lap­sus, deviazioni semantiche, che mirano a un’idea di perfezione che va ben oltre la logica. In questa ricerca di una sempre più perfetta (ma irraggiungibile) comu­nione con tutte le entità dell’universo, hanno cittadinanza nella poesia di Mariangela Gualtieri gli oggetti più svariati: fiumi e porte, aghi e candele, ponti e coltelli, pane e sale, persone e animali, in un caleidoscopio di apparizioni che interpellano la lingua stessa che le nomina, in un continuo rapporto dialogante tra voce corpo e mondo.

Ne scaturisce una scrittura contemplativa che si nutre di osser­vazione, di indagine, ma anche di assenza, di domande che cercano invano risposte soddisfacenti. Fin dalle prime raccolte emerge quello che possiamo considerare un cliché tipico della sua poe­sia: l’apertura al mondo nei suoi innumerevoli aspetti, che a sua volta fa scaturire una continua sorpresa, talvolta anche la perplessità, più spesso la fiducia piena nel futuro, per quanto oscuro possa a prima vista sembrare. Nella sua ultima silloge leggiamo queste parole di speranza traboccante: «C’è nel mattino – sarà / per quella luce – una sottile ebbrezza / sarà per la bellezza / degli inizi – quella promessa / che sempre si nasconde / quando s’avvia un nuovo / qualche cosa».

Il linguaggio

Il linguaggio non segnava vantaggi, ma si scolava via come buccia e sottosopra con feroce spolpo andava vuotamente più del sibilo su tutte le cose. Dal loro fondo liso le parole straccetto hanno un alito amaro, le parole fagotto, le care parole cadute giù. Ho parole stampelle, parole porte parole ali sotto i vestiti, parole strade e fiumi parole barche affilate. Ho solo parole e ali incerte – ali incerte e parole. io sono senza aggettivi, io sono senza predicati, io indebolisco la sintassi, io consumo le parole, io non ho parole pregnanti, io non ho parole cangianti, io non ho parole mutevoli, non ho parole perturbanti, io non ho abbastanza parole, le parole mi si consumano, io non ho parole che svelino, io non ho parole che puliscano, io non ho parole che riposino, io non ho mai parole abbastanza, mai abbastanza parole, mai abbastanza parole…

Io sento il piangere delle cose. Sento il piangere di tutte le cose. Strazio sento delle. Pianto sento delle Io sento Delle. Io pianto pianto. Delle cose. Piangono. Sì. Fatica sento sì. Arrancatura. Sì.

La candela dice La candela dice: io mi consumo senza lamentele che pena, quel tuo chiedere durata la pianura dice: io accolgo, accolgo largamente e l’ago dice: perdermi mi piace, stare dimenticato nelle fessure, essere ignorato. E tu? e il coltello dice io taglio i ponti divido un pezzo dall’intero so dare ferite perfette. E tu.

C'è nel riso dell'uomo C'è nel riso dell'uomo la meraviglia sotto la pelle dei pezzi di pane da mangiare subito si vedono le corde vive nei bracci poi verrà la pioggia a lavare le schiene infilare la tosse nei petti

Euridice Tu senti che vado lontano in zone pericolose. Potrei non fare ritorno – restare sbalzata su quel fuoco con veste incendiata rovinare o perdermi nei deserti del cielo sbandare sui ghiacci stesi spericolarmi nei boschi e nelle radure minacciose. Si è molto soli là tra le alture e le fosse, nelle fermentazioni nel pullulare appena di voci. Slacciata da ciò che mi è noto un po’ squilibrata nel vuoto. Ci debbo ogni tanto tornare – che qui c’è la parte migliore. Di quella mi vesto ogni tanto di rado. Ma tu non girarti a guardare. Lasciami sola. Non farmi di sale.

Se questo è amore, mi dico. Se questo è amore, mi dico. Ma sì, questo è l’amore che conosciamo. Ora. Amore appiccicato, che incolla quel poco di ala modesta sulla schiena. Amore legato. In cui si ripete la solfa del tu e dell’io. Non siamo capaci di essere insieme acqua e moto, sale e onda, unica impresa spettacolare. Come il mare laggiù, lo vedi?

C’è nella tristezza un contagio C’è nella tristezza un contagio amore mio, e da questo si vede che abbiamo fatto comune cuore e siamo uno che appare due. Allora io insemino la gioia in questa cosa che non consiste però esiste e tiene entrambi appesi. La gioia ce la metto io.

Volevo tutte le sbandate. Volevo tutte le sbandate essere viva fino allo scortico essere tavolo pietra bestiale essere bucare la vita coi morsi infilare le mani in suo pulsare di vita scavare la vita scrostarla sfondarla spericolarla battermi con lei fino ai suoi sigilli. Per amore – per amore – tutto per amore.

Se la parola amore è Se la parola amore è uno straccio lurido, se non ho altra lingua per dire cosa amo, se l’anima adesso è un ingombro e il cielo un posto come un altro se dormiamo e dormiamo

se il mio canto è schiacciato nel cantone se il mio canto o il tuo, se il mio canto

se tutte le parole dei savi sono troppo lente per questa corsa sui cocci, se anche le bestie in quel loro morire bastonate neppure si rivelano

se c’è una tosse se c’è una tosse che incrosta il cielo e poi lo sputa

se abbiamo nemici dentro le teste e macchinette rotte

se la mano è scontrosa alla mano scontrosa rompe l’onda e il ramo rompe l’ala e il becco

se abbiamo salmi stonati se le macerie sulle facce stanche fanno il peso di tutta la storia

se poi nessuno viene nessuno s’alza dal fradicio delle tombe a consegnarci un grappolo, una tazza un giuramento alla luce se se se

se c’è una sete che ci ammala se c’è un sorso per chi ha sete se davvero davvero muove il sole se muove il sole e l’altre stelle se la sua gran potenza, sua gran potenza d’antico Amore, se il nostro cuore è immenso se il nostro cuore talvolta è immenso, se le stelle nascono, se è vero che nascono anche adesso, se siamo polverine allo sbaraglio, catenelle smagliate,

benedico ogni centimetro d’Amore ogni minima scheggia d’Amore ogni venatura o mulinello d’Amore ogni tavolo e letto d’Amore

l’Amore benedico che d’ognuno di noi alla catena fa carne che risplende

Amore che sei il mio destino insegnami che tutto fallirà se non mi inchino alla tua benedizione.

Noi tutti non siamo solo

Noi tutti non siamo solo

terrestri. Lo si vede da come

fa il nido la ghiandaia

da come il ragno tesse il suo teorema

da come tu sei triste

e non sai perché. Noi

tutti, noi forse ritornati,

portiamo una mancanza

e ogni voce ha dentro una voce

sepolta, un lamentoso calco di suono

che un po’ si duole anche quando

canta. Te lo dico io

che ascolto

il tonfo della pigna e della ghianda

la lezione del vento

e il lamento della tua pena

col suo respiro ammucchiato sul cuscino

un canto incatenato che non esce.

 

Ascoltare anche ciò che manca.

L’intesa fra tutto ciò che tace.

 

Sii dolce con me. Sii gentile Sii dolce con me. Sii gentile. È breve il tempo che resta. Poi saremo scie luminosissime. E quanta nostalgia avremo dell’umano. Come ora ne abbiamo dell’infinità. Ma non avremo le mani. Non potremo fare carezze con le mani. E nemmeno guance da sfiorare leggere. Una nostalgia d’imperfetto ci gonfierà i fotoni lucenti. Sii dolce con me. Maneggiami con cura. Abbi la cautela dei cristalli con me e anche con te. Quello che siamo è prezioso più dell’opera blindata nei sotterranei e affettivo e fragile. La vita ha bisogno di un corpo per essere e tu sii dolce con ogni corpo. Tocca leggermente leggermente poggia il tuo piede e abbi cura di ogni meccanismo di volo di ogni guizzo e volteggio e maturazione e radice e scorrere d’acqua e scatto e becchettio e schiudersi o svanire di foglie fino al fenomeno della fioritura, fino al pezzo di carne sulla tavola che è corpo mangiabile per il mio ardore d’essere qui. Ringraziamo. Ogni tanto. Sia placido questo nostro esserci - questo essere corpi scelti per l’incastro dei compagni d’amore. nei libri.

 

Febbraio dice

Febbraio dice

parole di tramestio nelle tane

e in ogni radice cresce

un formicolío di valvole accese.

Ascolta. Una cocciutaggine d’intesa

prelude piano piano la ripresa

il perdifiato dei fiori. Saranno qui

fra poco. Di nuovo nuovi. Intatti.

Scandalosi.

 

Meraviglia dello stare bene

Meraviglia dello stare bene

quando le formiche mentali

non partoriscono altre formiche

e si sta leggeri come capre sulla rupe

della gioia.

 

Non angustiarti – cuore

Non angustiarti – cuore – se il tuo

udire si interrompe

e non c’è un giorno intero

per l’innesto dei tuoi tamburi

col battito potente universale.

Non angustiarti

se tutti i fiori in colorate grida

appellano l’arsura tua di fiore

senza fiorita – ora. Aspetta

fermo al centro. Avventurato

d’un silenzio muto. Ci sarà

un tempo largo in cui ti rifarai

di questo digiuno e giovani parole

tufferanno senza spine

fra le tue righe d’oro

i loro verdi rami, i nidi,

le gocce diamantine, i semi

il coro degli uccelli con il sole.

Saranno tue parole per coloro

che nel dolore, dietro i finestrini,

appoggiano la fronte sulla mano

sopra un treno in ritardo

carico di destini, di gonfi piedi

e gambe. Sguardo perso lontano.

Casa lontano. Lontanissimo il cielo.

Farai il tuo canto. Cuore. A squarciagola.

Stai quieto ora. Tornerà.

Tornerà la giovane parola.

 

Ogni granello

Ogni granello. Ogni millimetro di foglia.

Ogni estremità di zampa d’ape

tutto ha siffatto marchio d’una cura

che lo sostiene

come fosse ogni specie prediletta

e prescelta, ognuna, nella fattispecie sua

che a guardarla per bene ogni particella

è centro universale, bella

d’una bellezza unica e abbagliante

commovente per quanto ci è vicina

                                              e somigliante.

 

Io vedo da qui

Io vedo da qui

partenoni di meraviglia

così mirabili fatture e meccanismi

e colori, che il mio respiro trema.

Tutto ha stile ed eleganza.

Una genialità e proporzione

colori e velature – tutto

rivela cura dettagliata

e una dedizione penetrante.

La materia nella sua fattura

porta ovunque un’impronta.

Anche noi siamo fatti di tanta

perfezione. Anche il virus e la cancrena

guardati da vicino hanno l’aria piena

di quel nome.

 

Io non vi credo

Io non vi credo cose che vedo

perché chiudendo gli occhi

una vitalità di costellazioni

d’altro mondo

vi sopravanza

e la supremazia del visibile

s’incrina in felicità.

Non c’è spina

oltre le vostre sponde

niente confina o crolla

niente s’impolvera

in quella luce.

 

Questo giorno che ho perso

Questo giorno che ho perso

ed ero nell’esilio

dentro panni che non erano miei

e scarpe che mi disagiavano

e tasche che non riconoscevo

e correvo correvo puntuale

senza neanche un dono

per nessuno. Solo un vuoto, corto

respirare. A conferma che nel disamore

il fare anche se fai resta non fatto.

 

Nome che stai al centro,

Nome che stai al centro,

il tuo suono ciocca e s’imperla di voci

ma nessuna ti tiene, nessuna ti osa in

suono, in lettera e cifra. Nelle tue solitudini

di mai chiamato. Come tutto è assai strano.

A me sembra. Assai strano.

Ti piantóno, ti indago, mi avvicino in

millimetri. Ti ho nella voce

senza che esca in suono.

Chiedo la forza del tirarsi indietro la forza d’ogni rinunciante, la forza d’ogni digiunante e vegliante la forza somma del non fare del non dire del non avere del non sapere. la forza del non, è quella che chiedo. Non non non : che parola splendida questo non. Sono che quasi viene da sé la mia acqua sigillo, mio fiotto di creatura. Venite in nascita dentro tutte cose dei mondi. Sbalordite questo tutto finito del corpo di un parto perenne, nel rinascere qui che io mi sostanzio andandomi via. Scomparsa di tutte le finte radici Le qualità finte, le bugie mammifere. È solstizio col giorno in allargatura di luce.

Explicit

La gioia si condensa in particelle legate, si fa sfera rotante e firmamento, si getta nella vita danzante senza perire, senza esaurire, immutata, intoccata, seducente. Conduce a sé e il morire dei corpi non è che l'entrare fuori misura. Senza chili, senza metri, senza particelle. Alleluiare.

Franco Loi, “la poesia contro il disincanto”

È morto all’inizio di quest’anno, novantenne, Franco Loi, poeta in dialetto milanese che ha matu­rato nel corso degli anni una religiosità molto personale, anarchica, se vogliamo, ma appassionata e autentica. La sua prima produzione poetica nacque tutta in un decennio cruciale, tra il 1965 e il 1974, ed è così rievocata dal poeta: "Scrivevo versi per quattordici ore filate al giorno [...] Camminavo per la mia stanza ridendo, pian­gendo, re­citando [...] ma nella stanza c'era un sé che dettava, qualcuno che mi det­tava dentro: una pre­senza che av­vertivo sul capo come un calore e che mi osservava indiffe­rente a quanto mi accadeva. Ecco perché mi sono sempre considerato amanuense di Qualcuno".

Da I cart (Le carte, 1973) a Poesie d'amore (1974) a Stròlegh (Astrologo, 1975), “visione in qua­rantadue passaggi”, tappa fondamentale della sua produzione, la sua poesia è stata fin dall’inizio visionaria e allusiva, un sogno ad occhi aperti, una speranza irrazio­nale, una ricerca ininterrotta.

Lo stile potentemente espressionistico che l’ha sempre caratterizzata scaturiva da una violenta combinazione di re­gistri, che spaziavano dal grottesco al sarcastico dall’ironico al satirico; il dialetto usato nella vasta produzione è un milanese “reinven­tato”, mesci­dato di altri dialetti, intriso di forestierismi e latinismi, arcaismi e neologismi: un idioma personalissimo e inimitabile. Temi ricorrenti della sua poesia sono il trauma della guerra e delle vio­lenze nazi-fasciste, la drammatica scoperta della presenza insopprimibile del male nella storia, l’osservazione accorata degli umili trascurati dalla storia: ma da questa dolorosa concezione dell'esistenza scaturisce in Loi un’in­vocazione costante, quasi una preghiera laica alla ricerca del senso della vita.

La fase centrale della sua produzione inizia con L’Angel (1981), romanzo in versi magmatico e potente che traccia il singolare ritratto di “un eroe italiano” (questo avrebbe dovuto esserne il titolo), un uomo che si crede un angelo in esilio dal Paradiso e vive la sua vicenda umana con intensa passione. Su questa stessa linea si collocano le altre raccolte, uscite a ritmo incalzante negli anni ottanta e novanta: Lűnn (Lune, 1982), dalla fascinosa ambientazione notturna; Bach (1986), domi­nata dalla ricerca del dialogo con la morte e dal desiderio di recuperare il valore della vita; Liber (1988: Libro, ma anche Libero/Liberi), dove ricompare l’utopia di una palingenesi rivoluzionaria in grado di liberare l'uomo moderno; Umber (Ombre, 1992), che vede ulteriormente incrinarsi il rap­porto tra società e poeta; Amur del temp (1999), me­moriale della donna amata e del tempo che fugge lasciandoci “furest a nűm, a lur, al so insugnàss (forestieri a noi, a loro, al loro sognarsi)”. Forse meno significativa è stata la produzione poetica dell’ultimo ventennio, durante il quale però Loi ha continuato a essere presente sulla scena culturale italiana con importanti saggi, racconti e tradu­zioni.

Oh quanta gent

Oh quanta gent che morta sü ‘na strada

la storia l’è passada sensa véd,

quèl ref de la speransa generusa

che l’umbra mia de mì sia pü de lé,

oh quanta gent che morta sü ‘na strada

par che la spetta e la spetta pü,

e passa l’aria e la curr luntan

due che la gent s’insogna che la vita

se tègn scundüda, e che la turnarà.

Oh, quanta gente che morta su una strada / la storia è passata senza vedere, / quel filo della speranza generosa / che l’ombra mia di me sia più della storia, / oh quanta gente che morta su una strada / sembra che aspetti e non aspetta più, / e passa l’aria e corre via lontano / dove la gente  sogna che la vita / si tiene nascosta, e che ritornerà.

Se scriv

Se scriv perchè la mort, se scriv 'me sera quan' l'òm el cerca nient nel ciel piuü, se scriv perchè sèm fjö o chi despera, o che 'l miracul vegn, forsi vegnü, se scriv perchè la vita la sia vera, quajcòss che gh'era, gh'è, forsi ch'è pü.

Si scrive perché la morte, si scrive come sera / quando l'uomo cerca niente nel cielo piovuto, / si scrive perché siamo ragazzi o chi dispera, / o che il miracolo venga, forse venuto, / si scrive perché la vita sia più vera, / qual­cosa che c'era, c'è, forse non c'è più.

Puèta

Puèta, disen, d'òm inamurâ, puèta, disen, a chi piang la sera, e la matina s'alsa desperâ. Ma anca al legriusà se dis puèta, a chi sa ben parlà, bev e magnà, e a quel che canta i donn, e amô puèta disen la giuentü che sa encantass. Ma quèj che fan murì cun la puesia ligada sü, ciavada, e fan negà nel liber de la vita... Avemaria! În no puèta, în no òmm de lüstrà. Je ciàmen massa e ciau, e cusì sia.

Poeta, dicono d'uomo innamorato, / poeta, dicono, a chi piange la sera / e la mattina s'alza disperato. / Ma anche al rallegrarsi si dice poeta, / a chi sa ben parlare, bere e mangiare, / e a quello che canta le donne, e ancora poeta / dicono la gioventù che sa meravigliarsi. / Ma quelli che fanno mo­rire con la poesia / legata dentro, chiusa a chiave, e fanno annegare / nel libro della vita... Avemaria! / non sono poeti, non sono uomini da onorare. / Li chiamano massa e ciao, e così sia.

Nient

Ranza de lüna che scunfüsa al piang

va cume dü che mai s’encuntrarà,

quèl veder de fenestra me sluntana

la tua giuinessa trista de lassàm…

Oh ranza del pü nient, blö lüna sfrusa!

bel ültum veder, tas‘d’un respiràm!

Mì t’û vardada, e ’dèss l’è cume tusa

che per la strada va sensa vultàss.

Falce di luna che confusa al piangere / vai come due che mai s’incontre­ranno, / quel vetro di finestra mi allontana / la tua giovinezza triste nel lasciarmi… / Oh falce del più niente, blu luna che fuggi! bell’ultimo vetro, zitta d’un respirarmi! / Io ti ho guardata, e adesso è come una ragazza / che per la strada va, senza voltarsi.

Forsi û tremâ

Forsi û tremâ cume de giass fa i stèll, no per el frègg, no per la pagüra, no del dulur, legriâss o la speransa, ma de quel nient che passa per i ciel e fiada sü la tèra che rengrassia… Forsi l’è stâ cume che trèma el cör, a tí, quan’ne la nott va via la lüna, o vegn matina e par che ‘l ciar se mör e l’è la vita che la returna vita… Forsi l’è stâ cume se trèma insèm, inscí, sensa savèl, cume Diu vör…

Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle, / non per il freddo, non per la paura, / non del dolore, del rallegrarsi o della speranza, / ma di quel niente che passa per i cieli / e fiata sulla terra che ringrazia... / Forse è stato come trema il cuore, / a te, quando nella notte va via la luna, / o viene mattina e pare che il chiarore si muoia / ed è la vita che ritorna vita... / Forse è stato come si trema insieme, / così, senza saperlo, come Dio vuole…

Vòltes

Vòltess, sensa dagh pés, cume se fa  quand ch’i penser ne l’aria slisen via, vòltess per abitüden lenta, sensa sâ, cume quj donn che per la strada i gira la testa per un òm, in câ, o sü la porta, vòltess per simpatia d’un rümur luntan, o d’una rùnden sü nel ciel stravolta, vòltess sensa savè, per vuluntâ d’un quaj penser bislàcch, o per busia, vòltess per returnà, che smentegâ sun mì che dré di spall te rubarìa quel nient del camenà, quel tò ’ndà via.

Vòltati, senza dar peso, come si fa / quando i pensieri nell'aria scivolano via, / voltati per abitudine, lenta, senza senso / come quelle donne che per strada girano / la testa per un uomo, in casa, o sulla porta, / voltati per simpatia d'un rumore lontano, / o d'una rondine su nel cielo stravolta, / voltati senza sapere, per volontà / d'un qualche pensiero bizzarro, o per bugia, / voltati per ritornare, che dimenticato / ci son io dietro le spalle per rubarti / quel niente del camminare, quel tuo andare via.

Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient

Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient, forsi memoria sèm, un buff de l’aria, umbría di òmm che passa, i noster gent, forsi ‘l record d’una quaj vita spersa, un tron che de luntan el ghe reciàma, la furma che sarà d’un’altra gent… Ma cume fèm pietâ, quanta cicoria, e quanta vita se la porta el vent! Andèm sensa savè, cantand i gloria, e a nüm de quèl che serum resta nient.

Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente, / forse memoria siamo, un soffio dell'aria, / ombra degli uomini che passano, i nostri parenti, / forse il ricordo d'una qualche vita perduta, / un tuono che da lontano ci richiama, / la forma che sarà di altra progenie... / Ma come facciamo pietà, quanto do­lore, / e quanta vita se la porta il vento! / Andiamo senza sapere, cantando gli inni, / e a noi di ciò che eravamo non è rimasto niente.

Serum de aria

Serum de aria int un ciel de frasca e da la müra l'erga a ridascià, e l'aria l'era el temp, e lé diseva: "La mia paüra l'è quèl tò tucàm!" Passa 'na nevura e vardi i mè penser, 'n üsèll sifula, e senti 'me 'n tremà. Û tegnü 'l cor, e lé diseva: "Jer la mia giuinessa la te muriva in brass". Nient alter me pareva de scultà. Taseva el temp, e me tegnivi bass.

Eravamo d'aria in un cielo di frasche / e dalla mura l'edera a ridacchiare, / e l'aria era il tempo, e lei diceva: / "La mia paura è quel tuo toccarmi!" / Passa una nuvola e guardo i miei pensieri, / un uccello zufola, e sento come un tremare. / Ho trattenuto il cuore, e lei diceva: "Ieri / La mia giovinezza ti moriva in braccio". / Null'altro mi pareva di ascoltare. / Taceva il tempo, e mi tenevo basso.

Pruà la mort

Pruà la mort sarà cume mè mader:

tremava el ment, la bucca vèrta a pèss,

el fiâ de la caverna tra quj làver

e j öcc vultâ a l’indré sensa pü vèss,

sarà cume mè mader, che vardavi

e la pareva ’n’ altra, e l’era un crèss

de l’ansia che nel spià faseva morta

e pö la biasegava i sò silens,

cume mè mader, da la bucca tòrta,

la flebo al brasc, quèl slentàss del temp,

che l’era lì, la mort, e la spetavi

ma nel rivà i lensö cuàtten el temp.

Provare la morte sarà come mia madre: / tremava il mento, la bocca aperta a pesce, il fiato della caverna tra quelle labbra / e gli occhi rovesciati all’in­dietro senza più essere, / sarà come mia madre, che guardavo / e sem­brava un’altra, ed era un crescere / dell’ansia che nello spiare la credeva morta / e poi biascicava i suoi silenzi, / come mia madre, dalla bocca tòrta, / la flebo al braccio, / quell’allentarsi del tempo, / che era lì, la morte, e l’attendevo / ma nel sopraggiungere le lenzuola coprono il tempo.

 

Me se regordi pü

Me se regordi pü se chí, a Milan,

ghe sia ’na piassa cun l’aria sensa temp,

che dré ’n cantun me sun pruȃ de andà

e i gent ne l’acqua passàven cume ’l vent.

E dré ’l cantun una camisa bianca

pareva lí a spetàm, e gh’era nient.

La piassa sensa temp, ’na dòna stanca,

j òmm che van sarȃ nel sentiment.

Sù no due seri mì. Gh’era ’na panca

e mì che camenavi tra la gent,

e quèl cantun, che mai ghe se rivava,

l’era la vita che de luntan se sent.

Non mi ricordo più se qui, a Milano, / ci sia una piazza con l’aria senza tempo, / che dietro un angolo mi son provato ad andare / e le genti nella pioggia passavano come il vento. / E dietro l’angolo una camicia bianca / sembrava lì ad attendermi, e non c’era niente. / La piazza senza tempo, una donna stanca, / gli uomini che trascorrono chiusi nel sentimento. / Non so dov’ero io. C’era una panca / e io che camminavo tra la gente, / e quell’angolo, cui mai si arrivava, / era la vita che da lontano si avverte.

Tra nüm e Diu

Tra nüm e Diu gh’è cume un vöj de aria,

penser, un nient, un sass surd e luntan…

E möv el sass l’è cume la busia

che quan’ se dìs par nient, ma la sta là,

ferma, ‘n ingumber, cume sta ne l’aria

la nevura che scund la veritâ.

Tra noi e Dio c’è come un vuoto d’aria, / pensieri, un nulla, un sasso sordo e lontano…/ E muovere il sasso è come la bugia / che quando si dice sem­bra niente, ma sta là, / ferma, un ingombro, come sta nell’aria / la nuvola che nasconde la verità.

Leonardo Sciascia poeta

Cent’anni fa, l’8 gennaio 1921, nasceva a Racalmuto Leonardo Sciascia, maestro scomodo che in tutta la sua produzione intese denunciare senza mezzi termini i mali della società italiana e special­mente di quella siciliana. “Mi guidano la ragione – affer­mava -  l'illuministico sentire dell'intelligenza, l'umano e cristiano sentimento della vita, la ricerca della verità e la lotta alle ingiustizie, alle imposture e alle mistificazioni». Pur innamorato della sua terra, egli non accettò mai di chiudere gli occhi sull’il­legalità, sulle menzogne, sugli abusi del potere che in essa scopriva, attirandosi in tal modo anche l’ostilità di molti conterranei, gli stessi che ma­gari oggi lo celebrano e lo esaltano.

La sua figura è ben nota, oltre che per l’impegno politico, per la sua produzione, che spazia in numerosi campi: notevole la sua attività di giornalista e saggista, con studi su Pirandello e Manzoni, e su letterati francesi, da Stendhal a Voltaire, da Diderot a Montaigne; Sciascia fu inoltre commediografo, sceneggiatore e pamphlettista (La corda pazza, La scomparsa di Maiorana, L’af­faire Moro); assai famosa la sua produzione narrativa: Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il mare colore del vino, Todo modo, Morte dell’inquisitore. Ma quasi del tutto sconosciuto è il fatto che egli compose anche una raccolta di ventiquattro poesie intitolata La Sicilia, il suo cuore (1952), che fin dal titolo rivela l’amore che inscindibilmente lo legava a quella terra. “Qui la Sicilia ascolta la sua vita” recita l’ultimo verso del testo eponimo: e Sciascia a sua volta nella sua silloge giovanile si ritrova ad ascoltare e osservare con empatia e di­sincanto la vita di quest’isola, traguardata dall’orizzonte minimo della sua Racalmuto, facendone erompere un ritratto affascinante e malinconico.

La Sicilia che emerge dalle sue pagine è infatti una terra asso­lata e passionale, una terra senza mitologia (“le ninfe inseguite / qui non si nascosero agli dèi”), dove la negatività sembra sempre sul punto di sopraffare il poeta, che trova però ogni volta la forza di ricominciare, di riprendere con caparbia il cammino interrotto. La Sicilia è in queste poesie una terra che si staglia in tutta la sua bellezza seducente, nonostante le innume­re­voli drammatiche contraddizioni che la caratterizzano.

Sciascia utilizza in questi testi una lingua asciutta e compatta, di vago sapore ermetico (che molto deve a Quasimodo e al primo Luzi), capace di colpire il lettore con immagini pregnanti e ricche di emozione. A caratterizzare la raccolta è la co­stante compresenza di termini antitetici, dialetticamente bilanciati: combattono la morte e la vita, mentre il poeta si percepisce “vivo come non mai” presso i suoi morti; il silenzio e l’oscurità predo­minano in una “perpetua stagione di morte”, ma non preval­gono, perché compito del poeta è “mutare il nulla in pa­rola”; il paesaggio “s’incanta di luce” fino all’“ultima notte del mondo”, la “nave di malinconia” ha “vele d’oro”, dalla “rabbia dei lampi” riemerge “un umido sguardo azzurro”, dal silenzio sca­turisce un “cuore di musica”. Un ritratto dell’isola e dei suoi abitanti dipinto alla Chagall (come ci avvisa il primo testo della raccolta), sognante e concreto allo stesso tempo, ricco d’amore e di nostalgia.

La Sicilia, il suo cuore

Come Chagall, vorrei cogliere questa terra
dentro l’immobile occhio del bue.
Non un lento carosello di immagini,
una raggiera di nostalgie: soltanto
queste nuvole accagliate,
i corvi che discendono lenti;
e le stoppie bruciate, i radi alberi,
che s’incidono come filigrane.
Un miope specchio di pena, un greve destino
di piogge: tanto lontana è l’estate
che qui distese la sua calda nudità
squamosa di luce – e tanto diverso
l’annuncio dell’autunno,
senza le voci della vendemmia.
Il silenzio è vorace sulle cose.
S’incrina, se il flauto di canna
tenta vena di suono: e una fonda paura dirama.
Gli antichi a questa luce non risero,
strozzata dalle nuvole, che geme
sui prati stenti, sui greti aspri,
nell’occhio melmoso delle fonti;
le ninfe inseguite
qui non si nascosero agli dèi; gli alberi
non nutrirono frutti agli eroi.
Qui la Sicilia ascolta la sua vita.

In memoria

L’inverno lungo improvviso si estenua
nel maggio sciroccoso: una gelida
nitida favola che ti porta, al suo finire,

la morte – così come i papaveri
accendono ora una fiorita di sangue.
E le prime rose son presso le tue mani esangui,
le prime rose sbocciate in questa valle
di zolfo e d’ulivi, lungo i morti binari,
vicino ad acque gialle di fango
che i greci dissero d’oro. E noi d’oro
diciamo la tua vita, la nostra
che ci rimane – mentre le rondini
tramano coi loro voli la sera,
questa mia triste sera che è tua.

I morti

I morti vanno, dentro il nero carro
incrostato di funebre oro, col passo
lento dei cavalli: e spesso
per loro suona la banda.
Al passaggio, le donne si precipitano
a chiudere le finestre di casa,
le botteghe si chiudono: appena uno spiraglio
per guardare al dolore dei parenti,
al numero degli amici che è dietro,
alla classe del carro, alle corone.
Così vanno via i morti, al mio paese;
finestre e porte chiuse, ad implorarli
di passar oltre, di dimenticare
le donne affaccendate nelle case,
il bottegaio che pesa e ruba,
il bambino che gioca ed odia,
gli occhi vivi che brulicano
dietro l’inganno delle imposte chiuse.

Vivo come non mai

Dal vecchio chiostro entro nel silenzio

dei tuoi viali, tra i marmi

che affiorano come rovine

nel rigoglio verdissimo dell’erba;

e un marcio odore di terra e di foglie

mi chiude nell’autunno che in te stagna,

anche se il sole

folgora sulle lapidi e sui cippi

o inverno abbrividisce nei cipressi.

 

Perpetua stagione di morte: e mi ritrovo

vivo, gremito di parole

come l’istrione sulla fossa d’Ofelia;

vivo come non mai, presso i miei morti.

Ad un paese lasciato

Mi è riposo il ricordo dei tuoi giorni grigi,

delle tue vecchie case che strozzano strade,

della piazza grande piena di silenziosi uomini neri.

 

Tra questi uomini ho appreso grevi leggende

di terra e di zolfo, oscure storie squarciate

dalla tragica luce bianca dell’acetilene.

 

E l’acetilene della luna nelle tue notti calme,

nella piazza le chiese ingramagliate d’ombra;

e cupo il passo degli zolfatari, come se le strade

coprissero cavi sepolcri, profondi luoghi di morte.

 

Nell’alba, il cielo come un freddo timpano d’argento

a lungo vibrante delle prime voci; le case assiderate;

in ogni luogo la pena di una festa disfatta.

 

E i tramonti tra i salici, il fischio lungo dei treni;

il giorno che appassiva come un rosso geranio

nelle donne affacciate alla prora aerea del viale.

 

Una nave di malinconia apriva per me vele d’oro,

pietà ed amore trovavano antiche parole.

Insonnia

Il riso stridulo della Notte

si è aperto nel silenzio

come una vena fatale.

 

E sono stato nascosto in me,

cieca preda spaurita,

senza memoria né speranza di luce.

 

Ora, in quest’alba che hanno le case,

il paese è come un vascello che salpa:

nella sua nitida alberatura

per me s’impiglia una vela di morte.

Aprile

Sto a far camorra sulle cose, seduto
al sole d’aprile che in me torna
a un suo azzardo di risentimenti e di inganni.
Guardo accendersi il gioco dei ragazzi,

una rissa leggera che s’incanta
di luce, cerca un suo cuore di musica;
forse un suo cuore di pena.
Il paese, non lontano, sembra affondare
nel verde: di là da questo gioco
pieno di voci, è solo un paese di silenzio.

Dal treno, giungendo a B***

La casa splende bianca in riva al mare;

e la palma che svetta nell’azzurro,
il verde trapunto dal giallo dei limoni,
la fredda ombra sotto la trama dei rami.
I suoni stridono sul cristallo del giorno,
una barca rossa si allontana piena di voci.
La ragazza che esce sulla spiaggia
ha dimenticato i sussurrati segreti della notte;
saluta con la mano alta i clamori della barca,
l’azzurro giorno marino, il sole già alto;
poi si china armoniosa a slacciare i sandali vivaci.

Pioggia di settembre

Le gru rigano lente il cielo,

più avido è il grido dei corvi;

e il primo tuono rotola improvviso

tra gli scogli lividi delle nuvole,

spaurisce tra gli alberi il vento.

La pioggia avanza come nebbia,

urlante incalza il volo dei passeri.

Ora scroscia sulla vigna, tra gli ulivi;

per la rabbia dei lampi preghiere

cercano le vecchie contadine.

 

Ma ecco un umido sguardo azzurro

aprirsi nel chiuso volto del cielo;

lentamente si allarga fino a trovare

la strabica pupilla del sole.

Una luce radente fa nitido

il solco dell’aratro, le siepi s’ingemmano;

tra le foglie sempre più rade

splende il grappolo niveo dei pistacchi.

Fine dell’estate

Dopo la raccolta, ragazzi scalzi invadono
i mandorleti: scettri di miseria
le lunghe canne tentennanti.
I loro occhi acuti
s’incrunano tra le rame, scoprono
la nuda mandorla lasciata.
Mi giunge il picchio delle canne,

il lieve tonfo sulla zolla: suoni
dell’estate che muore, dell’autunno
delle piogge e dei poveri.

La notte

La notte frana cieca sulle case.

In lei resta della nostra vita

un calco atroce: l’ultimo nostro volto

nell’ultima notte del mondo.

Alda Merini, “la pazza della porta accanto”

Nasceva novant’anni fa Alda Merini (1931 – 2009), la più grande poetessa milanese (e forse italiana) del Novecento, salita alla ribalta della fama a soli quindici anni, quando il critico letterario Giacinto Spagnoletti recensì positivamente una sua poesia: ed è ancora lui a pubblicarne nel 1950 due liriche nell'Antologia della poesia italiana contemporanea 1909-1949, facendola conoscere a un pubblico sempre più vasto e competente; subito dopo è l’indimenticabile editore Giovanni Scheiwiller a riproporre suoi testi nell’antologia Poetesse del Novecento (1951). La fama però non salva Alda dai fantasmi di una mente fragile, tanto che già a sedici anni incontra "le prime ombre della sua mente" e viene internata per un mese nella clinica Villa Turro di Milano, dove le viene diagnosticato un disturbo bipolare. Da questo momento in poi la produzione poetica prosegue a ritmo incalzante, mentre iniziano i ricoveri manicomiali, che proseguiranno fino all’inizio degli anni settanta: nel 1953 è l'editore Schwarz a pubblicare il primo volume di versi intitolato La presenza di Orfeo; nel 1955 esce la seconda raccolta, intitolata Paura di Dio, con le poesie scritte dal 1947 al '53; nel ’55 la terza silloge, Nozze romane. La sua vita privata continua ad essere tormentata, tra matrimoni, amori infelici e la nascita di quattro figlie che è costretta ad abbandonare. Raccontò in un’intervista: «Ho avuto quattro figlie. Allevate poi da altre famiglie. Non so neppure come ho trovato il tempo per farle. Si chiamano Emanuela, Barbara, Flavia e Simonetta. A loro raccomando sempre di non dire che sono figlie della poetessa Alda Merini. Quella pazza. Rispondono che io sono la loro mamma e basta, che non si vergognano di me. Mi commuovono».

In un mio incontro con lei, nell’arruffatissima casa sui Navigli dove abitava, svoltosi in occasione del suo ultimo compleanno, il 21 aprile 2009, mi disse tra l’altro: «Il manicomio mi ha fatto scoprire la profondità del male, ma anche la profondità di me stessa. Il male, dominante nel mondo, è la presenza del diavolo che si contrappone a Dio: ma la nostra lotta con il male è ciò che ci salva dalla ‘noia’, ciò che ci tiene vivi e ci fa sentire in qualche modo utili a questo mondo, a questo universo splendido, inconoscibile; come è inconoscibile Dio, che non possiamo abbracciare, ma che ci abbraccia amorosamente. Il Paradiso per me è la pace. La pace. Null’altro».

È dall’esperienza manicomiale che nascono le sue poesie più intense, raccolte soprattutto nei volumi La Terra Santa (1984), L'altra verità. Diario di una diversa (1986), Vuoto d'amore (1991) e La pazza della porta accanto (1995). Nel 2000 esce nell'edizione Einaudi, Superba è la notte, un volume risultato di un lavoro minuzioso di cernita compiuto su innumerevoli poesie inviate all'editore Einaudi. E inizia quello che è stato definito il periodo mistico, caratterizzato dalla ripresa di motivi e figure religiose, proposte in un’ottica straniante e a volte quasi blasfema: nascono così le poesie raccolte via via in L'anima innamorata (2000), Magnificat, un incontro con Maria (2002), La carne degli Angeli (2003), Corpo d'amore (2004), Poema della Croce (2005), Cantico dei Vangeli (2006), Francesco, canto di una creatura (2007), Mistica d'amore (2008), Padre mio (2009).

Come si può notare, la sua produzione è sempre stata copiosissima (e non sempre – bisogna dirlo – dello stesso livello artistico): ma questo è stato forse il peggior difetto di Alda Merini, quello di non sapere o volere scegliere, ma di “vomitare” ogni sua riflessione, sentimento, suggestione in testi che si affollano esorbitando, quasi un diario quotidiano di una vita certamente fuori dal comune. D’altronde, come diceva un grande poeta, Giovanni Raboni: “Il poeta è l’interprete delle inquietudini”; non solo delle proprie, ma di quelle del mondo intero.

Chi volesse approfondire la conoscenza di questa grande poetessa, può utilmente accedere al sito ufficiale www.aldamerini.it.

Il gobbo

Dalla solita sponda del mattino 
io mi guadagno palmo a palmo il giorno: 
il giorno dalle acque così grigie, 
dall'espressione assente. 
Il giorno io lo guadagno con fatica 
tra le due sponde che non si risolvono, 
insoluta io stessa per la vita 
... e nessuno m'aiuta. 
Ma viene a volte un gobbo sfaccendato, 
un simbolo presagio d'allegrezza 
che ha il dono di una strana profezia. 
E perché vada incontro alla promessa 
lui mi traghetta sulle proprie spalle.

(Poetesse del Novecento – 1951)

Canzone triste

Quando il mattino è desto
tre colombe mi nascono dal cuore
mentre il colore rosso del pensiero
ruota costante intorno alla penombra.
Tre colombe che filano armonia
e non hanno timore ch'io le sfiori...
Nascono all'alba quando le mie mani
sono intrise di sonno e non ancora
alte, levate in gesti di minaccia...

(La presenza di Orfeo – 1953)

Chi sei

Sei il culmine del monte di cui i secoli
sovrapposti determinano i fianchi,
la Vetta irraggiungibile,
il compendio di tutta la natura
per entro cui la nostra indaga.
Sei colui che ha due Volti: uno di luce
pascolo delle anime beate,
ed uno fosco
indefinito, dove son sommerse
la gran parte delle anime,cozzanti
contro la persistente
ombra nemica: e vanno, in quelle tenebre,
protendendo le mani come ciechi…

(Paura di Dio – 1955)

No, non chiudermi ancora

No, non chiudermi ancora nel tuo abbraccio,
atterreresti in me questa alta vena
che mi inebria dall'oggi e mi matura.
Lasciamo alzare le mie forze al sole,
lascia che mi appassioni dei miei frutti,
lasciami lentamente delirare
e poi coglimi solo e primo e sempre
nelle notti invocato e nei tuoi lacci
amorosi tu atterrami sovente
come si prende una sventata agnella.

(Tu sei Pietro – 1961)

Io ero un uccello

 Io ero un uccello
dal bianco ventre gentile,
qualcuno mi ha tagliato la gola
per riderci sopra
non so.
Io ero un albatro grande
e volteggiavo sui mari.
Qualcuno ha fermato il mio viaggio,
senza nessuna carità di suono.
Ma anche distesa per terra
io canto ora per te
le mie canzoni d’amore. 

(La Terra Santa - 1984)

Le più belle poesie

Le più belle poesie  
si scrivono sopra le pietre  
coi ginocchi piagati  
e le mani aguzzate dal mistero.  
Le più belle poesie si scrivono  
davanti a un altare vuoto,  
accerchiati da agenti  
della divina follia.  
Così, pazzo criminale qual sei  
tu detti versi all'umanità,  
i versi della riscossa  
e le bibliche profezie  
e sei fratello a Giona.  
Ma nella Terra Promessa  
dove germinano i pomi d'oro  
e l'albero della conoscenza  
Dio non è mai disceso né ti ha mai maledetto.  
Ma tu sì, maledici  
ora per ora il tuo canto perché  
sei sceso nel limbo,  
dove aspiri l'assenzio  
di una sopravvivenza negata.

(La Terra Santa - 1984)

Viene il mattino azzurro

viene il mattino azzurro
nel nostro padiglione:
sulle panche di sole
e di durissimo legno
siedono gli ammalati
non hanno nulla da dire,
odorano anch’essi di legno,
non hanno ossa né vita,
stan lì con le mani
inchiodate nel grembo
a guardare fissi la terra.

(La Terra Santa - 1984)

Non vedrò mai

Non vedrò mai Taranto bella
non vedrò mai le betulle
né la foresta marina:
l'onda è pietrificata
e le piovre mi pulsano negli occhi.
Sei venuto tu, amore mio,
in una insenatura di fiume,
hai fermato il mio corso
e non vedrò mai Taranto azzurra,
e il mare Ionio suonerà le mie esequie.

(Poesie per Charles – 1982)

Non voglio che tu muoia

Non voglio che tu muoia, no.
Se tu tremassi nella morte,
io cadrei come una foglia al vento,
eppure con le mie grida e i miei sospiri
io ti uccido ogni giorno;
ogni giorno accelero la tua morte,
sperando che anche per me sia la fine
e mi domando dove Dio stia
in tanta collisione di anime,
come permetta questo odio senza rispetto,
e brancolo nel buio della follia
cercando il tentacolo della scienza.

(Per Michele Pierri – 1991)

Non voglio dimenticarti amore

Non voglio dimenticarti, amore, 
né accendere altre poesie: 
ecco, lucciola arguta, dal risguardo dolce, 
la poesia ti domanda 
e bastava una inutile carezza 
a capovolgere il mondo. 
La strega segreta che ci ha guardato 
ha carpito la nudità del terrore, 
quella che prende tutti gli amanti 
raccolti dentro un'ascia di ricordi.

(Titano amori intorno – 1993)

A Dino Campana

Ritorna,  che cantar canzone di voto

dentro l’acqua del Naviglio io voglio

perché tu sia riesumato dal vento.

 

Ritorna a splendere selvaggio

e giusto ed equo come una campana,

riscuoti questa mente innamorata

del suo dolore, seme della gioia,

mia apertura di vento e mio devoto

ragazzo

che amasti la maestra poesia.

(Ballate non pagate – 1995)

Quattro stanze per Roberto Volponi

.

II

Mentre cerco vita nel tuo volto,

dolcissimo Roberto che mi cadi

pesantemente tra le molte braccia,

io sono Diana, forsennata caccia

che trova dentro i rivoli del sogno

grandi cerbiatti dagli occhi di rima.

(La volpe e il sipario – 1997)

La mia poesia

La mia poesia è alacre come il fuoco
trascorre tra le mie dita come un rosario
Non prego perché sono un poeta della sventura
che tace, a volte, le doglie di un parto dentro le ore,
sono il poeta che grida e che gioca con le sue grida,
sono il poeta che canta e non trova parole,
sono la paglia arida sopra cui batte il suono,
sono la ninnananna che fa piangere i figli,
sono la vanagloria che si lascia cadere,
il manto di metallo di una lunga preghiera
del passato cordoglio che non vede la luce.

(La volpe e il sipario – 1997)

Il ladro Giuseppe

C’è un caffè, giù sulla Ripa, gestito da due sorelle dove io mi ritrovo tutti i giorni insieme ad altre compagne di sventura. Sì, perché la vita è una enorme assurda sventura. I nostri discorsi li conosciamo a memoria come conosciamo a memoria la vita l’una dell’altra. Abbiamo tutte un punto debole, un punto doloroso di cui parliamo sempre e questo caffè somiglia o un confessionale o a un luogo di psicoterapia piuttosto che a una birreria. Una volta un tizio mi disse che non davo buono spettacolo facendomi vedere lì dentro mentre le altre massaie rassettavano la casa, ma io mi ero messa a ridere; e dove la trovavo io la forza di andare avanti, se nessuno mi parlava mai? Sì, d’accordo, erano discorsi scuciti di gente molto vicina all’arteriosclerosi, ma in fondo erano discorsi umani accorti, anzi con un certo piglio signorile perché le persone che frequentavano questo bar avevano tutte licenza di credere che sarebbero state persone altolocate se il caso fosse stato benigno. Beh, ecco, il baretto consta di un largo pancone e poche sedie per le persone più anziane, ma ci si trova bene e si addice meravigliosamente al Naviglio che sta di fronte. Fuori la scritta “La Madonina” precisa che ci troviamo proprio a Milano, nel cuore della vecchia città, che non ci possiamo sbagliare e che lì dentro è tutto milanese; le sorelle poi che gestiscono il locale – il quale non ha subito modifiche da oltre un centinaio di anni – sono abilissime e curiose, quel tanto di curiosità che basta a farti dire con piacere le tue cose private come se ti scaricassi di un lungo inveterato peso.“La Madonina”: ecco il mio punto fermo nella vita e alle volte vorrei scrollarmelo di dosso come un piacere che non merito, a volte mi dico che ho cose più urgenti da fare, che non è giusto che una madre di famiglia si sieda a prendere un buon caffè; ma poi mi consolo pensando che sì, in fondo, non vado mai dal parrucchiere, che non ho altri sfoghi e così mi adagio serenamente nella poltrona del piccolo caffè e lì comincio a dipanare ricordi senza fine e senza nome sulla scie dei discorsi degli altri, fumandomi qualche sigaretta, regalata anche quella dall’Alice che è la più giovane delle sorelle. Così, ecco un punto fermo. Credo che tutti nella vita ne abbiano bisogno uno; chi se lo fa al bar, chi in altri posti, chi persino in chiesa. E poi – lo crederesti, lettore? – in questo bar qualche volta si prega: sì, perché, vedete, siamo tutte persone spaurite che andiamo a rifugiarci lì dentro a chiedere una grazia – solo che questa grazia invece di chiederla a Dio la chiediamo a una buona tazza di caffè.

(Alda Merini, Il ladro Giuseppe, Milano, Scheiwiller, 1999)


Davide Puccini, un tuffo nel passato

Chi di noi ha più di sessant’anni non potrà fare a meno di ritrovare, nella nuova silloge di Davide Puccini, gli odori, i sapori, i colori della sua gioventù, di quegli anni del primo dopoguerra e del boom economico che paiono così lontani dalla contemporaneità. Animali diversi ed altri versi (con una corposa prefazione di Giancarlo Pontiggia) è una raccolta scandita in undici sezioni tematicamente unitarie, che tracciano con delicatezza scenari carichi di spensierata nostalgia.

Si inizia con quindici ritratti di Animali diversi: un topolino dal musetto grazioso e un cavalluccio marino, un geco e un piccione, una chiocciolina e una farfalla, un gatto e un riccio di mare, altri animali di piccole dimensioni che portano “un messaggio d’amore” inatteso; destinato subito dopo a riproporsi nella visione di Alberi foglie fiori frutti che rappresentano, secondo il poeta, quasi uno “spreco di bellezza”.

La terza sezione è un elogio del mare, amato da Puccini nella sua “ampiezza infinita” e goduto con fedeltà nelle nuotate di fronte alla sua Piombino; seguono le sezioni dedicate al corpo, alla vita e alla morte, autoritratti (diretti e indiretti) che ci offrono l’immagine di un poeta a suo agio nel “camminare silenziosamente”, nell’attraversare l’esistenza con appartata delicatezza.

La sesta sezione ci riporta Dal passato il racconto di eventi, situazioni, giochi che erano sepolti nella nostra memoria e si riaffacciano gioiosamente con la loro carica di gioventù; altri episodi e situazioni del passato si ritrovano anche nell’ultima sezione, dedicata a Dolci ricordi di vicende e oggetti che probabilmente le nuove generazioni non conoscono: la penitenza che inesorabilmente punteggiava i nostri giochi infantili e la raccolta di francobolli, la scatoletta della liquirizia e il carretto del gelato con i suoi coperchi argentati, i dolci regionali e le carrube sgranocchiate al cinema, le “palline di vetro colorato” che rimandano alle proustiane madeleines e la pastiera napoletana. Si tratta di oggetti e occasioni che ci riportano in un mondo fiabesco, perché secondo il poeta “le cose possiedono un’anima”; sono luoghi, realtà, situazioni di un passato che forma il sapore dolce della nostra infanzia e giovinezza.

Resta da dire della nona sezione, forse la più importante, intitolata Epicedi, dove Puccini rievoca amici e amiche perdute, di cui ricostruisce con intenso affetto e straziante malinconia tessere vitali, situazioni, “occasioni”.

Un’ultima considerazione merita lo stile, sempre curato e raffinato, ma al tempo stesso leggiadro e gioioso, ricco di finezze ineguagliabili quali le rime equivoche, gli enjambement, l’uso costante dell’endecasillabo e del settenario; la grande capacità poietica di Puccini trova infine il culmine della perfezione nella Sestina dei sogni (posta non a caso esattamente al centro della raccolta) dove la canonica retrogradazione incrociata è splendido supporto alla testimonianza di vita del poeta stesso.


La chiocciolina

Una chiocciola con la sua casetta

ancora trasparente

(qualcosa di vivente

dentro si muove e pulsa),

nata da poco eppure all'avventura

sulla grande vetrata del soggiorno

che mi permette comoda visione:

è all'esterno del mondo che conosco,

ma la vedo aderire con tenacia

alla liscia parete tutta uguale;

percorre l'invisibile diaframma

sterminato per lei, quasi infinito,

senza fretta o paura,

solo di quando in quando

cambiando direzione.

E mi viene l'impulso irresistibile

di aiutare la piccola creatura

in cerca della meta,

di poter scavalcare la distanza

(barriera insormontabile dell'essere)

che ci separa in modo irreparabile.


Amore universale

Aliando lieve una farfalla viene

un attimo a posarsi

sulla mia spalla. Cara,

che tu mi abbia scambiato per un fiore

è un tenero segnale

di amore universale.


La libellula

Libera la libellula librata

nel fremito vibratile delle ali;

enormi occhi con vista panoramica

rispetto ai quali l'uomo è quasi cieco,

rosso o smeraldo misto ad oro il corpo:

gioiello senza eguali di un tesoro

di grazia e leggerezza proverbiali

.

È triste questo spreco di bellezza

per un insetto: a cosa può servire?

Ma la bellezza è spreco o non esiste.


Gli amanti del sole

Sopra un folto tappeto

di fogliette carnose

che coprono il pendio e si protendono

come mani che chiedono,

si aprono i pugni che verdi racchiudono

le macchie colorate degli amanti

del sole, la corolla

si allarga allegra nel flagrante viola,

mostra il cuore dorato

che è subito assaltato

da nugoli frementi

che suggono voraci

e ingordi si cospargono di spore

avviando un processo

di furibondo eppure casto sesso.

Fratelli nello spirito,

la vostra breve vita la passate

tutta in omaggio a colui che portate

con coraggio nel nome altisonante;

vi offrite confidenti,

appassite dolenti

di non poter godere ancora un poco

del suo fecondo amplesso.

Nascita del vento

Il mare è calmo sotto il cielo grigio.

Una leggera brezza di grecale

muove blanda corrente che si placa

lentamente nell'aria che ristagna.

Ora nulla disturba questa quiete.

Ma ecco un primo soffio che lieve alita

appena percettibile sul volto.

Ne cerco il segno in acqua: ecco s'increspa

al largo con un brivido che subito

s'affievolisce e posa, ecco riprende

dove non c'è il ridosso delle rocce,

di nuovo perde lena e ammutolisce.

Il sole che s'insinua fra le nubi

solleva ancora un poco di respiro

nell'ampio seno che mai non riposa

e come un fiume placido si sposta

la vasta massa in senso orizzontale:

finché ad un tratto, trionfante forza,

si leva maestoso il maestrale.

Waterman

Io che scrivo con questa stilografica

di segno fine sono - nomen, omen -

un uomo d'acqua. Inconsistente scorro

come l’inchiostro liquido bluastro,

trascorro la mia vita sulla ruga

di una sottile lamina di carta,

pallido astro che rapido declina,

lasciando appena un'orma diluita

che si trasforma in labili parole:

il sole la prosciuga ed è finita.

Sestina dei sogni

Il sentimento che ci spinge a amare

tutto il bello che vive sotto il sole,

portato dall'istinto al proprio fine

di trovare l'oggetto dei suoi sogni,

può diventare amaro come il sale

se gli manca la meta per cui parte.


Tutte le volte che spontaneo parte

alla ricerca del cuore da amare

attraversa deserte e buie sale

prima di risalire verso il sole

che riesca a dorare un poco i sogni,

nella mente dell'uomo unico fine.


Ma se il dolore che segna la fine

di ciò che della vita è tanta parte,

l’iridescente trappola dei sogni,

bagna i nostri occhi di lacrime amare,

lascia libere le sole

parole che ci fanno arido sale.


E mentre la marea schiumando sale,

l’acre soffrire sembra senza fine

persino quando fuori splende il sole

che riscalda la terra in ogni parte,

perché ci sono troppe cose amare

che offuscano la luce alta dei sogni.


Nostri alleati traditori, sogni,

per vostra colpa inanimato sale

diviene ciò che noi potremmo amare

e che sarebbe il nostro solo fine

se non ci distogliesse dalla parte

giusta il vostro mutare ad ogni sole.


Inutile sperare che col sole

del nuovo giorno finalmente i sogni

consunti da vecchiezza faccian parte

di un'esistenza concreta che sale

verso il destino d'avere la fine

che tocca al corpo che è buttato a mare.


E ancora ciò che ci fa amare il sole,

il fine e acuto stimolo dei sogni,

sale in scena a dire la sua parte.

La penitenza

A Stefano Carrai,

in debito di un ricordo

Il gioco era un pretesto

per dare penitenza

a chi ne usciva vinto

soprattutto se nella lieta frotta

qualche bella bambina lievitava

e per incantamento

la lotta si accaniva:

dire fare baciare...


Eravamo in attesa dell'evento,

materiale in fermento,

incuranti di quel che minacciava

l'avvenire in agguato dietro l'angolo.


Ora che invece il gioco

ha perso ogni attrattiva e lo rimpiango,

non mi resta più alcuna alternativa:

lettera testamento.

La coppia galante di Capodimonte

Seduto sopra un ceppo od una roccia,

appoggiato ad un tronco che sta mettendo già

i primi e stranamente troppo folti

ributti verdi di foglie di quercia,

lui tenta una zampogna boschereccia

ma scoprono il suo gioco la bruna giacca ricca

d'alamari dorati, le finissime calze,

le scarpe con le fibbie luccicanti,

le trine al collo e ai polsi, il cappello a tricorno;

lei, un poco più in basso, espande l'ampia gonna

decorata da cespi di viole

e ornata in fondo da fiocchi azzurrini

che sembrano sorreggere la gala

rosa increspata, dalla quale spuntano

i piedini calzati di raso blu: lo ascolta

sognante e accoglie in grembo un innocente agnello

(una pecora bruca mansueta,

ingentilita certo da un nastro rosso al collo).

Intanto ignoti vezzi sfuggono dalla casta

eppure maliziosa scollatura

su cui richiama (inconsapevolmente?)

l'attenzione la piccola manina

sapientemente arcuata al polso che esce

dalla manica a sbuffo, affusolato.


Felicità più grande può darsi nella vita

di queste vostre eterne moine fuori moda?

Le cose e la morte

Le cose sono spietate.


Le cose non conoscono

la discrezione di morire.


Le cose sopravvivono

sempre e comunque, anche malridotte


Le cose stanno immobili

con la loro muta presenza

implacabili come dei rimorsi.

Riccardo

Hai sfidato la morte a viso aperto

sul suo terreno: alle prime avvisaglie

del cancro l'hai virato in arte pura

facendo diventare la sua immagine

terrificante un gioco di colori

affascinante nella sua astrattezza.

Se il fumo era la causa evidente,

non ti sei mai pentito e fino all'ultimo

senza piegare il capo, renitente,

sei rimasto fedele al caro vizio.

Sapevi bene di non poter vincere,

ma con ostinazione hai combattuto

senza paura finché hai potuto.

Non ho memoria dei banchi di scuola

dove insieme sedemmo da ragazzi,

ma ancora vedo un tuo disegno a cera

(una candela illumina la scena:

natura morta con verde bottiglia)

su carta nera a lungo appeso al muro

nel corridoio di casa di allora.

Mi torni a mente nella tua durezza

con affetto dettato da amicizia

che negli anni si perde eppure resta

capace di capirne la dolcezza.

Andrea

Violino di spalla dell’orchestra

che riscaldava di arte il freddo inverno

e solista di vaglia:

a forza di vederci

entrambi in prima fila, tu sul palco

ed io al mio posto in centro alla platea,

si accendeva talvolta al nostro sguardo

la luce di un sorriso silenzioso,

quasi un ceno d’intesa tutto interno.

Della notizia della tua scomparsa

ho saputo in ritardo ed ora luccica

nel ricordo un barlume prezïoso.

Mi sorprendo a pensare che il silenzio

Tra noi non può più essere interrotto,

e mi consolo solo riflettendo

che il silenzio fa parte della musica.

Il gelato

Nei pomeriggi estivi, dopo il mare,

il gelato arrivava in bicicletta

su di un carretto spinto dai pedali

preannunciato da scampanellio

tanto sonoro da chiamare in frotta

i ragazzi del vasto vicinato.

Ad officiare il rito sempre uguale

con in testa un berretto bianco a barca

rovesciata a coprire la pelata

il caro Ponzio col sorriso strano

di chi possiede pochi denti in bocca

e povere parole smozzicate:

sollevando il coperchio di lucente

acciaio apriva l'intimo caveau

da cui traeva con una paletta

il tesoro di crema e cioccolato

murato con due tocchi in cima a un cono

sfilato dalla sfilza un po’ ricurva

impilata alla meglio sul ripiano.

Andava trangugiato senza indugio

per non farlo squagliare sotto il sole.

Il gelato costava dieci lire.

La pastiera napoletana

Per Pasqua trionfava la pastiera

sfornata dalla mamma di un compagno

di scuola e di quartiere in quantità

che consentiva dosi generose,

come da sacrosanta tradizione

per lei di origine meridionale.

Mi conquistava la delicatezza,

la morbidezza al taglio netto e al morso,

la rara sfumatura sinestetica

del suo sapore ricco di profumo:

una felicità all’acqua di rose.

Giancarlo Majorino: la responsabilità della poesia

«Scrivendo mi sento ogni volta portato in salvo»: questa rasserenante affermazione fu fatta a quasi novant’anni da Giancarlo Majorino, uno dei protagonisti della poesia italiana del Novecento, morto nel maggio scorso (1928-2021). Dapprima impiegato di banca, poi rappresentante, bookmaker, infine docente di filosofia, drammaturgo e poeta, Majorino ha avuto anche il merito di fondare nel 1965 la rivista “Il Corpo”, una rivista, come amava definirla lui, “mai vista”, che cercava approcci diversi alla lettera­tura, dando spazio, accanto alla poesia, alla filosofia, alla storia, alla psicanalisi, se­condo uno sguardo nuovo, “europeo”; e il 21 marzo 2004 ha dato vita alla “Casa della poesia” di Milano, spazio di riflessione e condivisione cui hanno collaborato numero­sissimi scrittori negli anni, e che dal 2007 continua ad esistere su FaceBook.

L’esordio poetico non è precoce: avviene nel 1959 con il racconto in versi La capi­tale del nord, “una simbiosi tra il romanzo e la poesia(lo definì l’autore) dove Majo­rino rievoca la sua giovinezza e inizia a sondare in profondità i territori dell’ignoto. Poeta-intellet­tuale, per sessant’anni egli ha dialogato nella sua opera con la propria storia personale e con le vicende della società contemporanea, sempre nella convin­zione che la poesia abbia una responsabilità insostituibile nel mettere in luce e condan­nare tutte le contrad­dizioni dell’esistenza. Si definiva “insofferente di ingiustizie” e quindi “di sinistra”, ma non fu mai iscritto a un Partito, un po’ per sfiducia un po’ per orgoglio: il suo impegno civile doveva trovare voce solo nella scrittura.

E la sua è stata una scrittura che ha espresso fedelmente e instancabilmente l’inquie­tudine, l’insofferenza per ogni forma di sopraffazione, grettezza, ipocrisia; ma è stata anche costantemente una ricerca di strumenti espressivi articolati e poliedrici, capaci di comunicare al meglio la complessità e l’inafferrabilità dell’esistenza. Le sue scelte lessicali e verbali vanno in direzione dell’utilizzo molto forte, quasi ossessivo, del par­ticipio presente e del gerundio, modi verbali che dilatano il presente fino a renderlo “con-temporaneo”, in grado di accogliere tutti i tempi dell’esistenza umana.

Nelle raccolte più tarde, da La solitudine e gli altri (1990) a Le trascurate (1999), da Viaggio nella presenza del tempo (2008) a La gioia di vivere (2018), lo stile si fa ancor più spigoloso e trasgressivo, teso ad interpretare la realtà dell’oggi, che Majorino vede sempre più cupa, caotica, e per questo quasi inconoscibile. Eppure coesistono in questi testi magmatici e problematici da un lato il tentativo di esprimere la disorganicità dell’esistenza, certamente un giudizio negativo sulla realtà contemporanea, ma anche nello stesso tempo la speranza di poterla modificare, di poter incidere in maniera posi­tiva sull’evoluzione del mondo, proprio attraverso la poesia. In tal modo l’apparente impoeticità di certi testi risulta coerente con il tentativo di costruire una scrittura sem­pre più aderente alla metamorfosi continua della vita: la sua poesia, in sostanza, si sforza caparbiamente di cercare un accordo, una difficile sintonia tra arte, espressione e vita quotidiana.

La madre ha insegnato

la madre ha insegnato a Virginia

l’importanza del corpo

ogni sera per molte belle estati

il padre riceveva

                  Virginia allontanata

il suo compenso

                  eravamo felici se ci penso

il mestiere dannato dei denari

                  il piccolo commercio

un gatto in mezzo ai cani

                  faceva il babbo

è strano

                  grande e allegro

com’è dolce serbare un corpo umano

O mia città

O mia città vedo le porte gli archi

che un tempo limitavano il tuo cauto

intrecciarsi di case strade parchi

oggi spezzarti come una frontiera

o come una catena di pontili

congiungere le tue zone più vili

ai box del centro dove grandi banche

rivali o consociate in busta chiusa

dan vita o morte in crediti d'usura

legate col cordone ombelicale

del capitale e in loro trasformate

e quelle in queste ritmica simbiosi

le sedi razionali dell'industria

con l'asino alla mola e i nuovi impianti

la rapida salita - la discesa

più rapida - la sedia dei trent'anni

intorno curve schiene di negozi

la Galleria col tronco fatto a croce

in fondo oltre la Scala la gran piazza

Cavour congestionata la questura

la pietra dell'Angelicum trapassi

violenti e luminosi in via Manzoni

il tufo è ancora base ai grattacieli?

 

contro il centro e soltanto qualche raro

sabato sera in blu nei suoi ritrovi

s'addensa l'altra razza la sicura

nemica della pace dei signori

e topi sul formaggio ogni mattina

dalla Nord da Varese dalle strade

fitte di bici e scooter le tribù

compagne di lavoro o traversanti

le piazze con stendardi per San Siro

o incolonnate per dimostrazioni

"da quanto tempo il tavolo rotondo

della terra è quadrato?"

"per quanto tempo ancora notte e giorno

saranno scarpe al piede dei padroni?"

 

nel mezzo come un uomo tra due fuochi

uno che brucia l'altro che risplende

il ceto medio spirito e materia

all'ombra dei potenti per la pace

per lunga convenienza e religione

contro di loro nella propria essenza

costretto a verità di sottomesso

 

se fedele dev'essere il poeta

al tempo scriveremo di partenze

frenate di ricorsi in cassazione

di lenze che catturano usignoli

gettati in acqua ritornati pesci

con versi che la biro dell'ufficio

(la marca della ditta l'attraversa)

la vespa delle ferie la ragazza

di tutti e rabbia/amore detteranno.

Achtung

O luminosa città,

un doppio petto di gonfi negozi centrali

arrossa guance di donne, bambini con pacchi,

ebbri di ciò che verrà.

Regali, regali, la gente regala e dimentica;

anch'io, città, che cammino e s'è aperta una fossa,

ti regalo qualcosa:

una poesia nuova (m'aiuta l'auto nera di Krupp tornata in cortile)

 

Tozze case scientificamente disposte

quasi filari alveari (non paragoni)

zeppe di scheletri umani prima di notte saranno

sotto le docce nel gas a scavare le fosse terra che poi coprirà

le membra umane aghi pinze fruste caverne paludi tane letame

uomini donne tornati sugli alberi o rane carogne con calzoni giubbe sottane

strappano denti unghie dita mani con denti unghie dita mani vincenti

otto quintali di capelli urgono alla fabbrica Rosch?

questa bambola che acquisti hai guardato i suoi capelli?

l'orsacchiotto ha gli occhi tristi? sono gli occhi di un ebreo

che suo figlio giudica (esagerato) colpevole Eichmann.

 

Poesie che si tradiscono galleggiano

come scatolette, feci, preservativi usati, saliva, macchie sull'acqua.

 

Krupp è tornato: festeggiato da amici e diplomatici

beve lo champagne che per fine anno abbiamo prenotato

anche noi;

anche tu che leggi, e c'è poco da leggere qui,

le donne violentate, è ovvio, in quel momento

sono beate: nessuno le strazia in quel momento.

Ilse netta le zampe nel grembiule della bimba che càpita

"torturerò anche te quando sarai più grande";

penzolano ai ganci quarti d'uomo,

orbita presso l'orbita, come i quarti di bue

che cuochi apprestano per cena a noi che passeggiamo

tra i negozi centrali, brava Milano.


Contorto ritorno ad Itaca, a casa
Gagliardi conti la tua mania tessendo
Penelope cui non torna Ulisse detto Nessuno
rubandoti alla ditta contabile
di sé sparecchiato continua

lungo elenco di cifre dopocena
allegra e circondati come siamo
di figli non nati nell’inquieta
cucina certe inutili poppe che hai
senza i figlioli i fagioli
per giocare con la morte a tombola

ugualmente utili che hai
nel letto mi ricordo che cantavano
certe sirene dal visino aguzzo
che finivano in triangolo laggiù
e trentadue incisivi ora mentre giri
il fianco con i fori delle iniezioni.

Strâca morta

l'Enrica dorme:

posa la faccia

sul cuscino che torna

petto di mamma

nel buio

in quella calma

avvicina il mento all'intestino

le ginocchia al mento

nell'acqua della stanza

nuotano pesciolini.

Caso

Pacata mente sgrano gli occhi dei minuti

e riconosco il Caso: nientetutto:

potresti scomparire sei comparsa

tantopiena, cosìfrutto.

 

potresti scomparire sei comparsa

La Visini

Misurata, carina, scesa - è chiaro -

da un'educazione paleopatrizia.

Prima della classe, non sa

cosa significhi lotta di classe.

Ma lo imparerà! urla la Lòvere;

invece forse no. Comunque

ringrazia, uscendo,

chi glielo spiegherà.

Adora i concerti ed è priva,

per ora (pensa?), di carnalità.

Le sue calzette bianche

inebriano le affaticate, stanche

proff. a mezzo servizio.

La comunista invece le dà quattro:

ringrazia anche la comunista, sa

che lo scrutinio la favorirà;

lo scrutinio di classe generale

non può farle del male.

 

Sit-in
Ma c’era qualcuno, in quella folla di giovani
vibratili e prefiguranti la nuova brughiera,

così usciti dall’ ossessione d’eros, belle e belli,

uniti nel volere e nel recitare la Rivoluzione,
è triste scriverlo, c’era qualcuno, io,
che sbirciava cosce seni labbra, pare incredibile

avanti avanti avanti
proseguono, implacabili, coatti;
rasaerba
mentecatti che siamo, circondati
da flussi di petrolio, urlandoci ti amo

o isole di mota
l’anarchia del globo, gomitoli disfatti,

luride animelle

ripeti gesti liberi tamburo
ripeti gesti liberi ripeti gesti liberi ripeti

luride anirnelle sbatacchianti
tamtamburo motoso tamtamburo

ma tu / Bianca, lo sai / che non ci / vedremo più? / che finiremo remo
io lì tu là / tre metri sotto / tu bocca nera spa / lancata come,
bambola nera / rotta per sempre
na bambola / come nera / rotta per sempre
na bambola / come nera / rotta per sempre
ripeti gesti liberi tamburo
ripeti gesti liberi ripeti gesti liberi ripeti
tu con la bocca nera spalancata
io io coi denti e basta
lo sai Bianca?
tu che sei l’amica dell’Enrica
e ieri parlavamo allegri mangiucchiando la tavola fiorita
sotto la lampada lustra di plurima luce
tavola ferita rima luce

noi siamo qui
io ti penso
sotto la lampada
e sei

ma in una forma leggera
piccolo tondo scavato
con questo aiuto di carta
nella mia mente d’amore

ma in una forma leggera
stella di latte nel vetro

tutti ti guardiamo
ma a me sarai amica, luna, ancora?

sei ancora viva stai ancora male
sei ancora viva stai ancora male
sei ancora viva e mi dimeno
ti getto un ponte continuo riso d’amore
ma sotto trema come l’acqua il cuore

mentre tu lotti senza poterti aiutare
dolci ricordi fanno l’inutile vela
l’inutile stella l’inutile bianco sul mare

Ma, chi sei tu? persona somigliante,
estranea insieme, chiedo un po’ pedante
mentre furiosi conversiamo in tanti.
Fisso lo sconosciuto rovistando
architetture e macerie, balzi e stralci
di un comparabile volto sgrumato.
I suoi occhi mi tengono lontano;
preferirebbe ci legassimo a un gioco:
ci sto e continuo a misurare quel poco

che nega e torna, dentro e fuori, già,
la superficie e la profondità.
Metropolitane e viali colle ali.

[tu che guardi]

tu che guardi

la purezza delle cose

la loro sicurezza

tu che guardi

alterata dall'ignoto

che fa da tuorlo al corpo

pure porgendo il profilo inviti a qualcosa

d'intensamente stabile e fluttuante

quindi con la voce battezzante

nomini dividi esponi l'ombra

sorella misteriosa

persona corporale più ricca di ogni cosa

oh la bella terra dormentata
zurrovelata nel candore Venere
qui si figlian chicchi tinta cenere

tanto togliersi quanto tuffarsi
stampo che va lento in epidemia

noi da ste parti al microfono biasci
è spiccato con un salto su
mamma spaventata torre di controllo

noi voi lì a restituire le bandiere

via uno entra 1’altro via 1’altro subentra
il terzo ha girato il primo e rientra

[***]

andavamo tutti come fosse un’emigrazione
chi per acqua chi per terra, allarmati
notammo che un leone ci oltrepassava
ma era come quando nella tundra incendiata
fuggivamo insieme felini e prede uccelli e serpi
cos’era cosa poteva esser stato nulla ricordo
non fatti precisi non odor di bruciato migravamo
in ratti gusci motorizzati e caschi a piedi scalzi
da chi sa che mossi transitavamo nel piano sembrante discesa
così potevamo saremmo riusciti a scampare a arrivare ansando entro
quando? in tempo e non contavano orario e luogo transitare
occorreva, altro corpo! snello basso e tozzo su quattro sciolte zampe
quasi una lotta di molte zampe gambe
una testa bianca tra colli di giraffe
sandali orme zoccoli nella sabbia
nel suo trotto a zig zag cinghiale irsuto
con famiglia a fianco bimbo su bici
gara di moto cicli chiatte e scafi accanto
una universale processione forte respirante
sbandata ma diretta senza macchine da presa
o per quegli apparecchi occhialuti ritrasmessa
eravamo dentro pure per noi scorreva noi fissi davanti
cosa preoccupava il rinoceronte con intorno il vuoto?
la mandria pelosa che panicata quasi s’ingoiava?
la coppia remante arti e respiro sotto forte ipnosi?
il caduto rischiava tutto ma
capitava e dopo un grido d’aiuto
quasi tranquillizzato si chetava
trafitto schiacciato

trafitto schiacciato, per le mosche
i fastidiosi insetti non v’era tempo
di notarli, né i canterini uccelli
dardeggianti vi saranno stati
non era il momento di ricercarli non era il momento
andava come 1’acqua un’acqua umana
e animale a non si sa che pozzo tentando
abbandonando non si sa che male

e, e le piccole marce
del tuo respiro nella notte di casa
e i grandi gruppi che lottano insieme
grossi animali allo stremo allo stremo
tanto di legno quanto di vetro
vuoi vivi altrove vuoi vivi qua
ancora da un attimo a un attimo ancora
come se avessero bevuto veleno
senza sonno gambe divaricate
testa captante suoni allontanantisi
per tangenziali sino alle aste dell’ erba

l’amore le pose del corpo nudo
il positivo infinito
forse non ha abbastanza slancio la cosa
e fatica a dare ambigua risonanza
quale folata di frecce non si sa verso dove
o perché poco osserva la divaricazione
delle due terre o teste, scrivere vivere

è l’insegnamento del secolo trascorso

l’acqua inquietante, l’acqua che sta sopra
macera mani alghe stracci
in una pirotecnica di fusi ittici e umani

nel torpore chiuse gli occhi e vide
girare lenti dentro il sangue i sosia
nell’orbita di grandi meduse bianche

[***]

alzavamo onde altissime
o piccole onde, secondo l’estro
con l’amico Viviano
ascensore senz’allievi
senz’altro figlio che sé
sere degli anni ’50
lasciandoci stordire dal piacere
in ogni porosprazzo
appiccicando antitesi
quasi ad ogni passo
lacerando unità
era è
dato che sta
entro molte staffette
mai appellate mai chiuse
e in quelle giornate
fatte di notte e di giorno
vampiri buoni si girava il mondo
continuo come posso
finché vivo stando addosso
a tutti a tutto, la nostalgia
è troppo semplice

Primo canto
luna più della luna in cielo stava
sull’intero ma poco guardata poco
in postazione cellule tuttora silenziose
dove confluiscono si flettono e si abbandonano
sinergie svaganti
e si riprendono

macchie interne o vichi foreste o avi bestia

ma la potenza dello spazio tempato
ha la meglio, crèdimi credètemi

luna più della luna in cielo stava
non ci si può togliere da un piangere, non
ci si può togliere da un piangere da un ridere
e i lumi si smagriscono, si spengono
è la città indiretta
dove accucciati sleali si vestono e andiamo

luna più della luna in cielo stava
e sull’intero ma poco mirata poco
e non era bello ma era necessario lasciare l’io
lo sbriciolato incerottato coi cerotti a pezzi
allontanarsi dalle fiammelle grette
e volare a sogno volare introiettando bassi bassi
il cemento, remoto il confine dell’erba

Settantottesimo canto
le vere fiamme, quelle dei corpi trattenuti
il vento ostile proviene da oscurità immense sleali
insieme – si sono coalizzate le massicce forze dell’epoca
accelerativamente adesso, con inarrestabili (pare)
autarchiche autoconnesse mosse mortuarie

anche si tratta di rirendere cruciale la poesia

[***]

È l’immediato che mi sorprende sempre:

ecco il libro che si sta formando

Enrica insegue col bicchierino

altri ultimi Tivù con un po’ di mondo

ecco l’alba di toni che sta riprendendosi

il mondo salvato dagli adulti liberi

lo sforzo della poesia

vari passati tornano presenti

ancor via i santi di potere stupido

il mondo salvato dalle donne libere?

aiutare i politici ne han bisogno

tanto da invecchiare prima di morire

l’ignoranza non cede, è troppo nutrita

permetter anche all’interrogato d’interrogare

e su sé e sugli altri

[***]

Poesia e Conoscenza   gran titolo!

come già ci fosse una vita in comune

sentendomi un singolo-di-molti

progettare scuole di materie nuove

i trascorsi?    da sapere, non sapere

sobbalzi continuanti cervello domina

a tagliar fogli di mondo   un vero dòmino

gioco in cima? forse sì, anche una fratellanza

però da bocc’aperta da occhi aperti da

e di tutto

e stai provando come turno tutto il vivere – scrivere

tastandone vari lati    varietà

parte di equilibrio sgrana Enrì

l’appartamento è grande!?

dodici ore scatteranno una via l’altra.


Piero Bigongiari, tra caso e caos

Poeta, traduttore e critico letterario, Piero Bigongiari (1914-1997) si laurea nel 1936 presso l’Università di Firenze con una tesi su Leopardi discussa con Attilio Momigliano, e qui ha modo di conoscere e frequentare autori fondamentali come Luzi e Macrì, Bo e Gatto, Parronchi e Pratolini, e in seguito Montale, Landolfi, Ungaretti. Lavora dapprima come traduttore e collaboratore della RAI, poi a metà degli anni sessanta inizia a insegnare Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea a Firenze, dove costituisce con Luzi e Parronchi la “triade dei poeti ermetici toscani” (come la definì Carlo Bo). Collabora a numerose riviste tra cui «Campo di Marte», «Il Frontespizio» e «Letteratura». Muore a Firenze nel 1997. Le sue opere principali sono La figlia di Babilonia (poesie, 1942), L’elaborazione della lirica leopardiana (saggio, 1947), Rogo (poesie, 1952), Il senso della lirica italiana e altri studi (saggi, 1952), Testimone in Grecia (prose, 1954) e Testimone in Egitto (prose, 1958), Il corvo bianco (poesie, 1955), Le mura di Pistoia 1955-1958 (poesie, 1958), Il caso e il caos (1960), Vento d’ottobre (traduzioni, 1961), Dove finiscono le tracce 1984-1996 (poesie, 1996).

La sua poesia austera e raffinata è costantemente impregnata di interrogativi esistenziali, che la luce del paradosso contribuisce a illuminare: la ricerca della verità nascosta sotto gli oggetti, divenuti simboli di un altrove che sfugge inesorabilmente, spinge infatti il poeta a scoprire che “il mistero è uno, e solo l’uomo unanime può opporsi ad esso e di esso far poesia”, perché solo la poesia, “come il frutto delizioso del melarancio”, è capace di cogliere la dimensione ‘vera’, ‘essenziale’, che nella quotidianità risulta celata, quasi illeggibile. Si tratta poi di passare dall’oggetto al sentimento, di vincere l’assenza, di superare la contraddittorietà del reale per cogliere il senso più profondo dell’esistenza, oltre il caos apparente.

Il poeta ha raffinato nel corso degli anni il suo linguaggio potentemente allusivo (“il ticchettio delle parole”), giungendo a una limpidezza di dizione che non rinuncia in ogni caso alla profondità della riflessione, alla ricerca del superamento dell’opacità del linguaggio: ne scaturisce un dettato dove le parole hanno un ruolo fondamentale per rendere leggibile la realtà, e la letteratura è un gesto naturale, fatto di passione e disponibilità verso il mondo.

Tra le raccolte poetiche meritano un’attenzione particolare La figlia di Babilonia (1942), romanzo in versi dedicato a un’amata perduta, Il corvo bianco (1955) e Antimateria (1972), dove predominano i temi dell’assenza e del mistero, La legge e la leggenda (1992), fantasmatico poema che rilegge i miti classici, ricco di un’aggettivazione densa e straniante, e infine Dove finiscono le tracce (1996), raccolta poetica uscita pochi mesi prima della sua morte, divenuta quasi un testamento spirituale, compendio della sua particolare concezione della vita.

Più uno, meno uno

La poesia che nasce nella tua stanza
è come il frutto delizioso del melarancio,
odo nel ticchettio delle parole
il carosello perduto e melanconico
un notturno riassorbersi d'aconito,
nel tuo slancio d'amore, queste sere.
Non mancan le parole per godere,
mancan le parole per non soffrire.
La farfalla di luce sul candeliere
sugge l'ultima cera, la più calda,
la più molle e volatile, sul fondo.
Come in miasmi di luce, anch'io m'effondo,
non mancan le parole per soffrire
in questa mia stanza di fantasmi.

Assenza

Non ha il cielo un segreto che ti culmini,

le tue risa s'iridano al vetro

della sera dolcissima di fulmini.

Al cielo sale nel tuo gesto effimero

la riga d'un diamante, lo smeriglio

ricalcola all'assenza una giunchiglia

morta nel sonno e al tenero fermaglio

del tuo dolore che non si può chiudere

geleranno dagli astri luci blu,

luci sorte alla piega delle labbra

che rimormorano arse cielo al cielo.


Dove un rapido greto si distrugge,

dove odorano (al tuo braccio?) gaggie,

segreto faccio

mia la tua pena che non ti raggiunge.

Vetrata

O memoria, la terra è il tuo ritorno

negli occhi, le magnolie

in un torno di gridi dai cortili

traboccano, sui lividi ginocchi

spunta l'età più grande come un'alba.

Una febbre rimuove dagli stipiti

la madre dolcemente: là trasporta

simile a luce le vele dal porto:

afosa muore sulle braccia a chi

non scorda. Mentre un lampo rosa inonda

la finestra, l'attesa: una tempesta

di caldo, un bacio che fa vana ressa.

E i cani spenti di una festa delirano

di viola se grappoli di nulla

pendono già a un oriente

Eco di un’eco

Ti perdo per trovarti, costellato
di passi morti ti cammino accanto
rabbrividendo se il tuo fianco vacuo
nella notte ti finge un po’ rosa.


Quali muri mutevoli, tu sposa
notturna, quale spazio abbandonato
arretri al niveo piede, al collo armato
del silenzio dei cerei paradisi


che in festoni di rose s’allontanano?
Eco in un’eco, mi ricordo il verde
tenero d’uno sguardo che dicevi
doloroso, posato non sai dove


di te, scoccato dentro il misterioso
pianto ch’era il tuo riso. Oh, non io oso
fermarti! non i muri che dissipano
di bocci fatui un’ora inghirlandata.


Odi il tempo precipita: stellata,
non so, ma pure sola Arianna muove
dalla sua fedeltà mortale verso
dove il passo ritrova l’altra danza.

Non so

Nell’umido brillare dei tetti,
nel calare del sole tra scogliere
di strade, non so cos’altro aspetti,
s’altro dichiari con parole rade
ai passanti, ai vetri ciechi del tram,
e a un tratto molto so della speranza,
ma non so neppure cosa si perde
nell’ansimo dell’aria, quasi un battito
accelerato di motore,
quasi tacchi più fitti, una catena
che si tende, gli occhi un poco più desti.
Ma lo sguardo è dentro le cose
a cercarvi la buccia tra la polpa,
e non v’è colpa sufficiente per la nostra gioia,
nemmeno la speranza e la solitudine:
tu sai che non so, tu sai che puoi chiedere.

La tempesta

Forse è questa l'ora di non vedere

se tutto è chiaro, forse questa è l'ora

ch'è solo di sé paga, ed il tuo incanto

divaga nell'inverno della terra,

nell'inferno dei segni da capire.

Ma non farti vedere dimostrare

ancora le tue formule, è finita

l'orgia dei risultati rispondenti

alle cause. Sei sola, batti i denti

accosto ai vetri nevicati, tetri.

Divergono in un morbido riaccendersi

d'altro sangue i destini che ci unirono.

Tu li ricordi come - in queste tarde

ore che riscoccano dalla pendola -

in un fuoco di tocchi, in un orrendo

scatenarsi, dai tuoi armadi, di bambole.

La nostra vita, catturata, vedi,

mentr'era armata solo di silenzio,

come dai parafulmini ridesti

da un lampo, trova il filo da seguire

per non morire restando se stessa.

Appassionata

Il cane si addormenta sulle sedie

spagliate di cucina, il cedro azzurro

fa luce nel cortile, ed il veleno

verde dei colli stempera il diluvio;

ma le uve sono ancora sulle viti,

la terra si sostiene su se stessa

staccandosi dal mallo dell'estate,

fradicia pesa nei suoi arati brividi,

e le argille crettate ricompone

una dura omertà: può udirsi il grido

dei demoni tra i picchi e le calvane.

I torrenti sommuovono un abbaglio

d'estate calcinata entro cui spicca

via dal Mugello l'unica cicogna,

la favola di tutta una stagione.

Rimangono nei forni i fuochi accesi,

araldica speranza, il lieve odore

del fumo a risbiadire tra palvesi

di povertà: passare una paranza

io vedo di dolcezza nei tuoi occhi,

appassionata tu per più passione,

odo il gallo nel chiuso lamentarsi

senza il chicco dell'alba da intaccare.

E ancora lenti lungo lo stradale

mediceo i buoi muggiscono d'inedia,

tu il cristallo di un'alba inventerai

che accendono d'un fuoco che ora è tuo

sempre più tuo altri soli

soli aperti alla morte, soli attesi

Lied

Un'altra rosa oscilla addolorata,

la vite in fumo raspa dietro i vetri,

i ginepri smentiscono la mano

evanescente che li addita amari,

il verde scende a valle avvelenato,

a mulinello il vento te lo porta

presso il cane fedele stilla porta

di casa tra il prillio lungo dei pioppi,

le rondini ritessono la notte

dalle punte solari delle tuie

alle buie pupille che l'attendono,

il pipistrello scava la miniera

dell'ombra come una farfalla nera,

di fiele gronda la sua bocca. Spera!

Fra terra e mare

L'onda che si accavalla

trova in se stessa sponda all'infinito,

ha udito, nel suo orecchio, in una stalla

il muggito più fievole dei secoli

che propone a finito ed infinito

di toccarsi fra loro, trastullarsi

in un piccolo corpo infreddolito.

Se le eriche là al vento rosseggiano

e il mare trova in schiume l'elemento

del suo frangersi in luce, chi, chi attento

al quasi nulla sente quasi tutto

stringersi in sé mentre intorno a sé espande

anche il pianto d'un re. Ande remote

nevano l'orizzonte: è il qui che è grande.

Il qui che non è qui. Se si sgranchiscono

le gambe di chi tanto ha camminato

sul suo qui, è il suo qui, tese le rande,

che ascolta il vento empirgli del profumo

dell'altrove le nari: ancora ballano

sulle maree le navi, ascolta lungo

i travi scricchiolare

nelle murate il soffitto degli avi.

Nessuno in cammino

Eccola, la città in penombra,

la città della tolda e della sclera,

spenta di marmi nella lenta sera

che intorno a lei s'aggira a cercarmi.

O a cercare se stessa nel mio occhio

che vede come cera all'orizzonte

disfarsi un porto, là innalzarsi un ponte

su cui passa un fanciullo, la chimera

tenendo in pugno della propria vita.

Se troppo ho osato, è che non fu Nessuno

che il suo pianto più alato come il grido

che a perdifiato spargono le rondini

sul tetto patrio dove sono stato

insieme un figlio e un padre.

Sono stato

chi sono? Sono quello che sarò?

Fuoco rarningo che cerca la stoppia

dove accendersi della propria storia?

Il dono è da accettare a mani aperte,

ma quanto esse stringono, cos'è?

E dov'è il nido? Non nella memoria...

Le rondini lo sanno. Io lo cerco

nella grigia alternanza della cenere

dove il fuoco nascosto a un tratto sprizza.

Senz'ali ma col vento e la pazienza

delle cose che non cercano di essere

la ripicca della dimenticanza.

È l'istante che è eterno

È l’istante che è eterno: non ha fine

che fuori di sé; esplode nel suo interno

il segno, il sogno, di ciò che non è

il tempo, la cui aureola già si attenua.

Il vento che s’è fatto impetuoso

mescola fuoco e cenere, intriga

nel suo più ingeneroso antiattimo

il suo ormai impossibile riposo.

Sono qui, tu gli gridi, sono qui,

i nidi sono pieni degli implumi

che attendono le ali tra i barlumi

della tempesta. E’ ciò che di me resta

degli istanti fatali di una festa

racchiuso nei suoi numeri immortali.

Il piede già non calpesta le orme

della sua ultima mutazione.

Tutto dorme, anche la felicità

in questo tramutarsi delle forme

nella loro forse ultima realtà

L'ombra della luna

Nulla, più nulla, un suono non ti regge

assetata stasera al plenilunio,

é finita la vita oltre la tua legge,

questo vento s'immischia dentro il bruno

tuo pallore, come vano!

Si voltano le pergole, le azzurre

cenerarie dolorano:

se fuma un'ala lungo la facciata

tu perseguine l'ombra fino a dove

si spegne senza luna.

Nella trasparenza dell'esservi

...è ritrovare il lampo adesivo

dell'universo, passero che spiuma

il suo barlume inverso: il puma si

raggira nella sua elasticità...

ma che è là che rimane, foglia o tremito

di denti, o sia il gemito di assenti

che qui sono, unisono di perle

nel sole che s'ingrigia, quasi a berle...

quasi a berne quel viscido che ostacola

la fluenza del mare. Tu apri, tu

apri invano lo sguardo, non v'è appiglio

nella mano che s'apre alla rapina...

mia prima mia ultima, ma non

vi è in mezzo il mezzo, un suono di cristalli

si perde nella lunga trasparenza...

s'io sono senza, io sono senza suono...

nel sentiero della luce.

Miraggi

Sono io che ho creduto di non averti
mentre mi guardavi nel più profondo del cuore
coi tuoi occhi poco esperti di abissi.
Sono io che non ho reso i tuoi sguardi
alla loro innocenza, li ho tenuti
prigionieri, nascosti, fissi dentro
di me.

Ah! tu capissi quanta luce
spandono in fondo a quei penetrali.
Mentre altri sguardi volano con ali
felici chissà dove, troppo alti,
e si fondono, luce con la luce,
qui nel fondo di me c’è un abisso
scintillante di quanto hai visto in me.

Io ti prego, perdona il carceriere
del tuo notturno splendore. Se è
amore quello che non sa risolversi
a rendere al sole i suoi raggi,
è più tuo l’amore che incoraggi
e che non tutto sia restituito
dei suoi insostenibili miraggi.

È il fondo oscuro in cui il tuo sguardo brilla
come un diamante puro. I ritardi
- o sono io già te, se tu mi guardi?-,
i miei ritardi forse si giustificano
dinanzi alla misura imperscrutabile
della velocità di quella luce.
Ne trattengo le stigmate qui abbasso
perché non so quel raggio ove conduce
in quel suo mirabile stoccaggio
della felicità nell’universo.
Ti ricordi a Patrasso, appena scesi
dal traghetto, come splendeva il sasso
della riva e lo stesso mio andare
alla deriva in un raggio perfetto?
Era il tuo sguardo perso che fioriva
nell’azzurro e sfioriva? Era il sussurro,
quello, non soltanto di una riva.
Solo se all’impossibile tu chiedi
aiuto, forse qualcosa arriva.
Nessuno sguardo su chi è ferito
rimane muto. Per questo ti scrivo
con questo inchiostro intriso nel tuo raggio.
Cerca un viso. Lo trova? È un miraggio?

Tra la legge e la leggenda

Amo perdere qualcosa, più che per ritrovarlo,
per lasciare una traccia a chi m’insegue,
forse perché amo farmi là raggiungere
dove non sono, mentre guardo il mare
che insinua tra le sue macerie il grido
del gabbiano e un nido tra la ruggine
perduto che galleggia tra le schegge,
al contrario del gran depistatore,
perché so che è difficile seguire
chi, indeciso sulla propria meta,
ma forse proprio in essa pesticciando,
si distrae dietro un viso, si nasconde
dietro il dito che indica le onde
che asciugano e bagnano la riva
del paese natale, la deriva
della luce che liquida ne assale
le sponde e nella mente la ravviva.

Amo confondere il cricchio del tarlo
a un andante di Mozart…, mescolare
il passo del viandante per la via
con quello di chi risale le scale
a semicerchio della nostalgia.

Amo dimenticare il profumo della cedrina
su quello della tua pelle. Del tutto
ricordare la parte più obliata,
del frutto il seme ch’entro sé difende
la sua amarezza in duro tegumento.
Ma se mento, non mento che a me stesso
per dirti la verità che nello stesso
errore è celata, difesa, abbandonata
a crescere in se stessa, nelle proprie
contraddizioni elementari – è lì
che ogni due si unifica, nei suoi
seminali abbandoni.

Amo guardarti
mentre riveli in te una dolcezza
che è quella della fata che nascosta
tra gli alberi occheggia che nessuno
la segua andando verso il suo tugurio
arredato come una reggia se tu
ne precorri l’augurio coi tuoi occhi,
scheggia impazzita tra gli altri balocchi
del destino che l’uomo chiama vita.

Cammino dietro a poche cose, quelle
meno necessarie, le più volatili,
le meno rare. Forse in mano ad esse
è il codice per leggere il messaggio
che la legge ha lasciato sul tuo tavolo,
semiaperto, semicancellato,
fra terribilità e dolcezza.
Ma se tengo le mani ad un tempo
sui due telai, è che amo riprendere
dal secondo la tela che Penelope
sta sfacendo: è solo con quel filo
altro non ne ho: l’aspo ne fu rapito –
che sull’altro ritesso la leggenda.
Tu che la leggi strappane la benda
dei segni che l’accertano o la mettono
in forse, perché, vedi, sotto sanguina.

Nella Nobili, la durezza della vita

 Nella Nobili nasce nel 1926 da una famiglia poverissima in un quartiere popolare di Bo­logna e a dodici anni è costretta a lasciare la scuola per iniziare a lavorare, prima in un laboratorio di ceramica e dal 1940 in una fabbrica di vetro: «Le condizioni di lavoro in fab­brica sono spaventose - scrive A. Letournel - ancora di più per una ragazzina di quattordici anni. Il calore che si sprigiona dalle fiamme e dal vetro incandescente, le fumate di monos­sido di carbonio, le polveri, l’odore, la promiscuità, rendono il lavoro molto faticoso». Nella non è che una «ragazzina dagli occhi pieni d’ombra», costretta a lasciare le «biglie» e i «bei libri pieni di promesse» per entrare in fabbrica, un’esperienza durissima, che la segnerà profondamente.

È una lirica di Ada Negri a farle scoprire la poesia, cui si dedica da subito con divorante passione, nelle pause del lavoro e nelle notti insonni: impara da sola il tedesco e l’inglese per poter leggere i poeti che ama, Rilke e la Dickinson in particolare. In poesia (e poi anche in prosa) racconta la sua “vita di dolori, angosce e minacce”, la durezza del lavoro in fab­brica, la sofferenza per le miserie umane, lo sconforto per i pregiudizi di cui cade vit­tima. Nel ’49 si trasferisce a Roma, dove pubblica il suo primo volume dal semplice titolo di Poe­sie: il successo è immediato, ma dovuto più alla sua particolare condizione di poetessa operaia” che a un sincero riconoscimento del suo valore.

Per sfuggire a questo cliché poco gradito (si sentiva esibita "come un piccolo fenomeno da baraccone vestito da poetessa-operaia"), Nella si sposta qualche anno dopo a Parigi, la “città di carne”, dove per sopravvi­vere inventa una tecnica per incollare immagini di opere d’arte su oggetti come gemelli, portasigarette, specchi, scatole. Qui conosce la sceneggia­trice Edith Zha, che diviene sua compagna di vita e con la quale scrive il saggio Les femmes et l’amour homosexuel (Le donne e l’amore omosessuale), che suscita scandalo e riprova­zione nei benpensanti. Pur se delusa dal giudizio negativo di Simone de Beauvoir sui suoi testi in francese (confluiti nella raccolta La jeune fille a l’usine, La ragazza in officina, 1978), continua a scrivere poe­sie, che saranno però in gran parte pubblicate postume, dopo il sui­cidio avvenuto nel 1985.

La sua scrittura è un “miracolo di amore e volontà”, densa di grazia scontrosa, spoglia e asciutta, a volte perfino banale nel suo realismo apparente, ma sempre carica di vitalità e brillantezza, non priva di una vena di surrealismo.

La necessità che Nella Nobili avverte di rompere il verso, di scomporlo e ricomporlo co­stantemente, la porta a costruire testi dialoganti, che si chiudono con clausole di rara acu­tezza e rigore. Versi spogli, brevi e asciutti come il vetro che soffiava, facili all’apparenza, ma ricchi di una vena di surrealismo che rinnova immagini semplici e quotidiane. La sua concezione di un universo “indifferente”, di una vita che le appare “buco nero assoluto”, si trasforma via via nella sua poesia in una ricerca affannata e implacabile “per raggiungere l’essenziale”, perché (come afferma con amarezza) “solo il vero conta”.

Nel 2018 è stato pubblicato per la Casa Editrice Solferino il libro Ho camminato nel mondo con l’anima aperta, che racco poesie scelte di Nella Nobili in italiano e in francese (con traduzione italiana), con una lunga e partecipe prefazione/introduzione di Maria Grazia Ca­landrone, la massima conoscitrice di questa poetessa così poco nota.

Lettera a Rossana

Così cantava la mia perla accesa

nella conchiglia come una lacrima –

 

Rossana, io vengo da un’altra terra

dove il sole ferisce a morte per il suo calore

dove nei campi infuria un’estate perfetta

e l’erba allegra canta come una bionda ragazza

e l’odoroso fieno è sacro come un Dio.

 

Rossana – vuoi venire nella mia terra?

 

Io sola qui piango e mi lamento

e la terra gaia mi allontana da sé –

sul confine dipinto di lacrime

io ti chiamo – ti chiamo – ti chiamo.

 

E nei miei occhi adagio si va spegnendo

la mia estate perfetta, l’estate di fuoco

e sulle mie labbra arse e ancora piene di sete

muoiono le canzoni come vergini colpite nei fianchi.

Un silenzio enorme dal ventre bianco

mi circonda e mi tenta –

Ma la tranquillità non la voglio vedere!

Mandatela via – è una donna pazza

ha ucciso sua madre e suo padre

e ora vuole bere l’estate del mio sangue

 

Rossana – il lungo giorno

sta per morirmi in mano…

My darling sister

Questa notte le campagne

accese di bagliori come vetri

hanno infranto ai miei piedi

l’esistenza millenaria.

 

Si udì la voce di una capra belare –

un ramo di sole nacque tenue come una carezza lunga –

udimmo il silenzio rigarsi di bianchi suoni di flauto –

poi – ad un tratto – come nata da un grido alto –

comparve lei – la sorella diletta.

 

Cantava leggermente

con allegrezza accesa dentro le pupille

dove si muovono fronde

come tante piccole mani.

 

Appena l’ebbi scorta

una primavera mi scoppiò nel petto –

mi fece male al cuore

come se dal mio ramo

si fosse staccata con breve rumore.

 

E la toccai leggera sui capelli.

Con mani trasparenti

la spogliai delle vesti.

Colma di giovinezza

sono stata il suo guanciale per tanto tempo.

Frammenti (del giorno)

Dove sarà la mia casa lontana

chiusa sul poggio incantato

l’acqua del fiume la bagna

e il vento canta sul ramo…

 

Dove sarà la mia ragazza

sempre fuggitiva la vedo

per la discesa del colle

nel lampo d’occhi a mandorla

e di capelli al vento…

 

Sembra una voce che venga

dal limite estremo del nord

questo raggio di luce che avanza

da aurore incredibili…

 

Ma il giorno finisce – la sera

mi piange sul cuore…

Bologna antica

Bologna antica così ti lasciavo
ogni mattina dopo aver toccato
con la punta delle dita le tue albe rose perla
perla per la mia adolescenza austera
tesoro che portavo con me fino all'ingresso
della fabbrica con le sue luci elettriche
accese per l'eternità.

Se rifiuto

Se rifiuto di pensare in poesia

se rompo il verso, se lo scompongo

se ne faccio un’umile riga

descrittiva

e priva del profumo della fantasia

è per raggiungere l’essenziale

per collocarlo nel pensiero

al punto esatto, per fissarlo

ed infine per comunicarlo.

Ormai solo il vero conta.

Penetrare nel vero, affidarsi al senso più concreto

con i mezzi più concreti:

ogni uomo li possiede.

L’uomo è solo

L’uomo è solo. Dove

può andare a morire?

La sua

solitudine lascia

indifferente l’universo. 

Chiedo a mia Madre

Chiedo a mia Madre

delle camicie per cambiare

tre quattro otto, una ogni ora

e ancora non basta

a tamponare il nostro sudore

a cancellare il nostro dolore

non basta. Per un po’ di fresco

è la pelle che dovremmo strappare

nell’inferno dell’officina.

Le bandiere

E portarono le bandiere,
tanto lontano in un luogo segreto
al quale nessuno potesse accedere.

Nel vento
che sbatteva le tele erano pronti
per partire e per morire. E così avvenne
che portati dallo slancio comune
senza sapere dove correvano
uno dietro l’altro perirono
nella fossa comune e giacquero immobili
le braccia aperte verso i punti
cardinali. Crocifissioni
ideali.

Il figlio non nato

Ho avuto un figlio nato prima del tempo.
Forse su questa creta l’alito lieve
degli angeli non si posa. Aveva
una tristezza immensa nel viso, una pena
troppo forte, un dolore maturo
nel viso esperto e chiuso come adulto
segreto nella sua morte incompresa
nudo in una nascita inespressa
simbolo di sventura e di paura
nemico da schiacciare come una serpe.

La ragazza con gli occhi pieni di buio

Qui dove lavoro, proprio di fronte a me

c’è una ragazza con gli occhi pieni d’ombra

che non parla mai e che non ride mai.

I brevi sorrisi forzati li fa per compiacere

e quando noi ridiamo tanto forte.

Sembra una ragazza divisa a metà, in lei c’è solo la parte scura

eppure, è così giovane che porta ancora sulla fronte

sulle labbra, nelle mani, il marchio dell’infanzia.

Ho cercato, abbiamo cercato di farla parlare un po’

di se stessa, del suo dolore della sua assenza.

Fredda e distante lei è altrove e il suo mistero ci intriga

qui dove tutto è semplice senza ombra senza fantasia.

Poi un giorno la ragazza è andata via

nel suo altrove forse in un altro mondo.

Non ricordo più

Non ricordo più se era la neve o il sole

a rendere i nostri cuori così leggeri come se il sole

e la neve ci fossero stati infine concessi

e il vento e la pioggia e il giorno e la notte

fossero beni ai quali potevamo attingere

a piene mani con tutti i sensi

farne scorta

nelle tasche nelle mani nei polmoni

su tutta la superficie della pelle

nella bocca negli occhi

la voce del vento la voce dell’acqua.

Eravamo felici?

Eravamo felici.

Giorno dopo giorno dopo giorno

Giorno dopo giorno dopo giorno

l’eternità dietro di noi

davanti a noi la vita

la vita che va verso l’orizzonte

su una strada bianca

che non ha inizio né fine.

Città di carne

Ti amo città di carne
sofferenza e meraviglia
del mio sangue delle mie mani.

Vorrei essere cieco per
percorrerti con le mie dita
aperte – per entrare
in ogni crepa in ogni graffito
in ogni pietra consumata
da altre mani.

La ballata

Madre - Voglio ballare!

Dammi il vestito rosso.

 

Voglio andare ballando

sulle rotaie del tram

per tutta la città.

 

Campanaro – suona un valzer

dal campanile grande –

Venite tutti in piazza

a cantare e a ballare.

 

Piangeremo domani.

La pianura è troppo grande, non la contengo più.

In tanto silenzio volevo lanciare il mio grido

rompere il quieto mattino, sorgere

con (tutta) la mia superbia, il mio orgoglio

in alto salire, lontano dalla terra –

lontano dalla terra – Silenzio.

Allucinato guardo in faccia al tempo

e non posso sostare – Si dilata

tra le due rive una distanza immane

dove si frantuma il mio chiamare.

[…]

Non cercarmi nell’ombra, ove i cipressi

si curvano al lungo vento.

Io ti direi che sono morta, e dolce

è questa morte come un sentimento

che solo può raggiungerti nel sogno.

Ma se le tue mani attenderanno sempre

chiuse contro la fronte pensosa –

Io ti raggiungerò nel gran silenzio

che mi attraversa e che mi rende luce

e suono – e tempo.

Ed essa passava

Ed essa passava ansiosa attraverso le canne

come per un furto, come una madre

che si reca guardinga sulla riva

e vi depone il figlio ultimo nato-

Che tensione nei giovani rami

e lungo le vene delle sue mani-

Moriva come un’immensa primavera

lo splendore del giorno – Si pativa

questa meraviglia come una pena

quando tu ti staccasti dalla riva.

Dodici poesie di lutto

V

Chi riunirà gli amanti
morti abbracciati se non
l’alchimia della materia
lo sgocciolare del tempo
il segreto delle correnti
sotterranee?

XII

Questo sussurro la morte

questo splendore di luce

bianca? Qui giù

il nero del lutto accompagna

l’ineffabile mistero della

trasfigurazione-risurrezione

della carne. Voi che restate

piangete

il buco nero assoluto

è la vita.

La «vita meravigliosa» di Patrizia Cavalli

È morta il 21 giugno scorso a 75 anni Patrizia Cavalli, nativa di Todi ma vissuta dal 1968 a Roma, dove ha animato i salotti letterari, proponendosi fin dalla sua raccolta d’esordio come una voce as­solutamente nuova e fuori dagli schemi. «La poesia è pren­dere qualcosa e togliere il superfluo per farlo risplendere. Le parole devono avere una potenza intrinseca, il lavoro del poeta è sceglierle tra tante altre»: questa affermazione, data in un’intervista di qualche anno fa, descrive compiutamente la sua idea di poesia, che ella ha cercato di mettere in atto in quella prima silloge, Le mie poesie non cambie­ranno il mondo (1974), che divenne immediatamente un caso letterario e la fece cono­scere al grande pubblico, tanto che due anni dopo Biancamaria Frabotta la inserì nell'an­tologia Donne in poesia - Antologia della poesia femminile in Italia dal dopoguerra ad oggi, insieme ad autrici affer­mate come Maria Luisa Spaziani, Vivian Lamarque, Amelia Rosselli, Anna Maria Ortese. Da allora la sua vena poetica non si è esaurita, fino alla recente silloge Vita meravi­gliosa (2020) che è stato un po’ il suo testamento spirituale. La sua unica prova narrativa fu la raccolta di prose Con passi giapponesi, vincitrice nel 2019 del Premio Campiello.

Sostanzialmente fedele a se stessa, Patrizia Cavalli ha scelto di prosciugare costan­te­mente la sua scrittura, evitando i manierismi e le mode del momento, nella ricerca incessante della felicità, che ha saputo trovare nel quotidiano degli oggetti e delle per­sone, nell’ambivalenza della perdita e del riconoscimento. La finissima ironia che la ca­ratterizza contribuisce a ridurre a misura d’uomo anche i concetti più profondi, che si intrecciano con la contemplazione delle umili realtà di ogni giorno, in un ordito magico e affascinante. Certamente hanno contribuito ad arricchire il suo dettato poetico anche i molteplici registri stilistici utilizzati, i folgoranti aforismi e i monologhi di stampo quasi teatrale, le allego­rie e le invet­tive costantemente presenti; mentre le scelte metriche, che si potreb­bero definire classiche, lasciano comunque trasparire la volontà di rinnovare e nobilitare la scrittura poe­tica. Così un vocabolario di disarmante precisione accompagna lo stupore infan­tile delle imma­gini proposte, e attraverso la sua poesia il lettore può giun­gere a conoscere e capire il mondo in maniera più profonda.

Le realtà minime che troviamo nella poesia di Patrizia Cavalli, gli oggetti che lei inter­pella e di cui si serve per poi abbandonarle alla loro vita autonoma, sono tutte “cose vive”, elementi concreti, al limite del banale: ma sanno rivelare il senso ultimo dell’esi­stenza, la percezione esatta della vita e della morte nel loro costante intrecciarsi e con­fondersi. L’insegnamento che la sua poesia può dare è che l’umanità vera consiste nel cucire con le parole le cose perché non svaniscano, ammirandole con lo stupore di un bambino, riconoscendole elementi fondamentali della propria esistenza. La sua non è poesia astratta, ma concretissimo incontro di oggetti, persone, situazioni che vengono raccolte lungo il cammino, ed entrano a far parte del suo universo poetico, in maniera magari fortuita o pro­blematica, suscitando nostalgia o felicità, desiderio o stupore.

Sempre alla ricerca del mistero “dentro” le cose, sempre in attesa di un’illuminazione improv­visa e imprevedibile, la poesia è per Patrizia Cavalli un ponte che unisce mistero e significato, un movi­mento costante e mai definitivo, un’incessante approssima­zione alla verità che si incontra attraverso la bellezza. Una bellezza che non risiede tanto nell’oggetto nominato, quanto nello sguardo di chi nomina, nel valore che la poesia con­cede ad ogni minimo lacerto del mondo osservato, nella parola che dice più di quello che l’oggetto è, ricreandolo ogni volta come in una nuova creazione del mondo.

 

Qualcuno mi ha detto

Qualcuno mi ha detto

che certo le mie poesie
non cambieranno il mondo.
Io rispondo che certo sì
le mie poesie
non cambieranno il mondo.

Anche quando sembra che la giornata

Anche quando sembra che la giornata

sia passata come un’ala di rondine,

come una manciata di polvere

gettata e che non è possibile

raccogliere, e la descrizione

il racconto non trovano necessità

né ascolto, c’è sempre una parola

una paroletta da dire

magari per dire

che non c’è niente da dire.

E sempre dovrò partire

E sempre dovrò partire

e fare i bagagli

e permettere al mio poco corpo

una corsa che non gli si addice

e prolungare gli inganni e demente

rincorrere tutte le storie anche quelle

che avrebbero preferito un silenzio.

Ma valorose sono le partenze

anche se un imbarazzo spesso le consuma.

Occhi miei aspettate e guardate

Occhi miei aspettate e guardate.

Corpo mio corpo non fuggire

verso casa tra una macchina

e un muro, non rubare mai più

l’ultimo suono dal gruppo di ragazzi

fermi sulla piazza non della prossima

strage stanno parlando

ma del prossimo film che vedranno.

Dolcissimo è rimanere

Dolcissimo è rimanere
e guardare nella immobilità
sovrana la bellezza di una parete
dove il filo della luce e la lampada
esistono da sempre
a garantire la loro permanenza.
Montagna di luce ventaglio,
paesaggi paesaggi! come potrò
sciogliere i miei piedi, come
discendere – regina delle rupi
e degli abissi – al passo involontario,
alla mano che apre una porta, alla voce
che chiede dove andrò a mangiare?

Poco di me ricordo

Poco di me ricordo

io che a me sempre ho pensato.

Mi scompaio come l’oggetto

troppo a lungo guardato.

Ritornerò a dire

la mia luminosa scomparsa.

Ma prima bisogna liberarsi

Ma prima bisogna liberarsi

dall’avarizia esatta che ci produce,

che me produce seduta

nell’angolo di un bar

ad aspettare con passione impiegatizia

il momento preciso nel quale

il focarello azzurro degli occhi

opposti degli occhi acclimatati

al rischio, calcolata la traiettoria,

pretenderà un rossore

dal mio viso. E un rossore otterrà.

Ah sì, per tua disgrazia

Ah sì, per tua disgrazia,
invece di partire
sono rimasta a letto.

Io sola padrona della casa
ho chiuso la porta
ho tirato le tende.
E fuori i quattro canarini
ingabbiati sembravano quattro foreste
e le quattromila voci dei risvegli
confuse dal ritorno della luce.
Ma al di là della porta
nei corridoi bui, nelle stanze
quasi vuote che catturano
i suoni più lontani
i passi miserabili di languidi ritorni
a casa, si accendevano nascite
e pericoli, si consumavano
morti losche e indifferenti.

E cosa credi che io non t’abbia visto
morire dietro un angolo
con il bicchiere che ti cadeva dalle mani
il collo rosso e gonfio
vergognandoti un poco
per essere stata sorpresa
ancora una volta
dopo tanto tempo
nella stessa posizione nella stessa condizione
pallida tremante piena di scuse?

Ma se poi penso veramente alla tua morte
in quale letto d’ospedale o casa o albergo,
in quale strada, magari in aria
o in una galleria; ai tuoi che cedono
sotto l’invasione, all’estrema terribile bugia
con la quale vorrai respingere l’attacco
o l’infiltrazione, al tuo sangue pulsare indeciso
e forsennato nell’ultima immensa visione
di un insetto di passaggio, di una piega di lenzuolo,
di un sasso o di una ruota
che ti sopravvivranno,
allora come faccio a lasciarti andar via?

Guardate come lei si lascia catturare

Guardate come lei si lascia catturare
dal bastone che si muove, dalla minuscola mossa
d’ala di ogni mosca, dal rumore
di ogni porta che si apre.

E quando si mette sulle mia ginocchia
sembrerebbe per sempre, le unghie
quasi conficcate nella carne. Ma se passa
un uccello alla finestra, addio baci
addio carezze, lei vola via.
E poi, forse, ritorna.

Essere testimoni di se stessi
Essere testimoni di se stessi
sempre in propria compagnia
mai lasciati soli in leggerezza
doversi ascoltare sempre
in ogni avvenimento fisico chimico
mentale, è questa la grande prova
l’espiazione, è questo il male.

Adesso che il tempo

Adesso che il tempo sembra tutto mio
e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena,
adesso che posso rimanere a guardare
come si scioglie una nuvola e come si scolora,
come cammina un gatto per il tetto
nel lusso immenso di una esplorazione, adesso
che ogni giorno mi aspetta
la sconfinata lunghezza di una notte
dove non c’è richiamo e non c’è più ragione
di spogliarsi in fretta per riposare dentro
l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta,
adesso che il mattino non ha mai principio
e silenzioso mi lascia ai miei progetti
a tutte le cadenze della voce, adesso
vorrei improvvisamente la prigione.

Nella febbretta cuposa dei risvegli
Nella febbretta cuposa dei risvegli
il sudore del sonno si ingiallisce
e cola addosso alle finestre, al cielo
anche se è azzurro. E quando esco
dal sibilo dei sogni
che ha lasciato le mie orecchie ottuse
intossicate dalla ripetizione e riconquisto
lentamente i gesti
che mi portino a un’altra posizione
(forse se metto una camicia a righe
e i pantaloni bianchi, camminerò più in fretta,
avrò un’andatura eretta) dove io non sia
il recinto inerme dei terrori,
l’impresario di scontri clandestini
che alla fine si innamora dei suoi attori,
trovo una mimosa oro antico
il suo turno di splendore ormai finito,
il gregge come una nuvola piatta e mobile
sul prato senza più la frangetta degli agnelli
e il caprone capo col campanaccio al collo
abituato ormai a credere
che muoversi sia il suono.

Sarebbe certo andato tutto bene

Sarebbe certo andato tutto bene,
una passeggiata un caffè, al cinema
qualche volta insieme, le cene
a casa o al ristorante; sarebbe stato
insomma tutto regolare
se all’improvviso togliendosi gli occhiali
non si fosse seduta sorridendo
con un’aria leggermente impaurita
e i capelli un po’ spettinati
che la facevano sembrare appena uscita
da un sonno o da una corsa.

Per questo sono nata

Per questo sono nata, per scendere
da una macchina dopo una corsa
in una strada qualunque e trafficata
e guidata dagli angeli piegarmi
attraverso il finestrino
sopra quei capelli e in silenzio
sentire l’odore di quel viso
dove poco prima avevo visto
come la bocca e gli occhi
si passavano un sorriso che non si apriva mai
e correndo veloce scompariva
in un attimo e tornava.

Gatti (e altro)

Guardate come lei si lascia catturare
dal bastone che si muove, dalla minuscola mossa
d’ala di ogni mosca, dal rumore
di ogni porta che si apre. E quando si mette sulle mia ginocchia
sembrerebbe per sempre, le unghie
quasi conficcate nella carne. Ma se passa
un uccello alla finestra, addio baci
addio carezze, lei vola via.
E poi, forse, ritorna.

Nuvole

Arrivano, lentamente e pesanti da lontano
premendo contro il sole, spinte dal silenzio,
mammone tettone; ma se resta anche solo un pezzo
azzurro io, gelosa del vuoto, mi agito e le chiamo
alla conquista e corro da una finestra
all’altra a spiare dietro le cupole finché
un’antenna che trema mi promette la tempesta

Addosso al viso mi cadono le notti

Addosso al viso mi cadono le notti
e anche i giorni mi cadono sul viso.
Io li vedo come si accavallano
formando geografie disordinate:
il loro peso non è sempre uguale,
a volte cadono dall’alto e fanno buche,
altre volte si appoggiano soltanto
lasciando un ricordo un po’ in penombra.
Geometra perito io li misuro
li conto e li divido
in anni e stagioni, in mesi e settimane.
Ma veramente aspetto
in segretezza di distrarmi
nella confusione perdere i calcoli,
uscire di prigione
ricevere la grazia di una nuova faccia.

Io scientificamente mi domando

Io scientificamente mi domando
com’è stato creato il mio cervello,
cosa ci faccio io con questo sbaglio.
Fingo di avere anima e pensieri
per circolare meglio in mezzo agli altri,
qualche volta mi sembra anche di amare
facce e parole di persone, rare;
esser toccata vorrei poter toccare,
ma scopro sempre che ogni mia emozione
dipende da un vicino temporale.

Ponti

Nascono i bei pensieri sopra i ponti
e sempre ci si ferma sopra i ponti
per contenere quell’atomo di grazia
sospeso in equilibrio
tra gravità di sponde e cieca corsa d’acqua.
Ti darò appuntamento sopra un ponte,
in questa mezza terra di nessuno.

Le chiavi

(…) Sì, ma dov’era il sontuoso caldo,
la luce ardente che mozza lo sguardo,
la lenta cerimonia che solenne accoglie
il tempestoso viaggiatore stanco?
Dov’erano le offerte di cuscini
su cui assorbire in silenzio il cibo santo?
Qual era quella porta? Se c’era io l’avrei aperta. (…)

Mi ero tagliata i capelli

Mi ero tagliata i capelli, scurite le sopracciglia,
aggiustata la piega destra della bocca, assottigliato
il corpo, alzata la statura. Avevo anche regalato
alle spalle un ammiccamento trionfante. Ecco ragazza
ragazzo
di nuovo, per le strade, il passo del lavoratore,
niente abbellimenti superflui. Ma non avevo dimenticato
il languore della sedia, la nuvola della vista.
E spargevo carezze, senza accorgermene. Il mio corpo
segreto intoccabile. Nelle reni
si condensava l’attesa senza soddisfazione; nei giardini
le passeggiate, la ripetizione dei consigli,
il cielo qualche volta azzurro
e qualche volta no.

Prendimi adesso tra le tue braccia

Prendimi adesso tra le tue braccia

adesso sciolta da me raccoglimi

non per ridarmi forza

ma perché io possa arrendermi.

Bene, vediamo un po' come fiorisci

Bene, vediamo un po' come fiorisci,
come ti apri, di che colore hai i petali,
quanti pistilli hai, che trucchi usi
per spargere il tuo polline e ripeterti,
se hai fioritura languida o violenta,
che portamento prendi, dove inclini,
se nel morire infradici o insecchisci,
avanti su, io guardo, tu fiorisci.

La strada

Andando dritti si va da qualche parte,
andare dritti dunque non conviene.
Nel cerchio circolando generavo
la mia costituzione senza verso,
ero lì ripetuta e ripetente
che mi centellinavo, il tempo
era un profumo sparso che annusavo
svogliatamente.

Ma prima di morire

Ma prima di morire

forse potrò capire

la mia incerta e oscura condizione.

 

Forse per non morire

continuo a non capire

sicura in questa chiara confusione.


 Nico Naldini e la cultura friulana

Domenico (Nico) Naldini (1929-2020) era cugino (molto meno noto) di Pier Paolo Pasolini; friulano come lui (era nato a Casarsa) fu da lui fatto conoscere già nel ’48 con un gruppetto di versi giovanili editi sotto il titolo Seris par un frut (Sere per un fan­ciullo). Li accomunava la passione per la poesia e per il dialetto friulano usato “di cà da l’aga” (“al di qua dell’acqua”, cioè sulla riva destra del Taglia­mento), tanto che insieme ave­vano fondato nel ’45 l’Academiuta di lenga furlana (Piccola ac­cademia di lingua friu­lana), «una specie di Arca­dia, o con più gioia, una specie molto rustica invero, di salotto letterario», come scriverà in seguito Pasolini. A questa straordinaria esperienza si ispi­reranno importanti poeti friulani come Amedeo Giacomini, Um­berto Valentinis, Novella Cantarutti, Leonardo Zanier.

La cultura di Naldini non fu peraltro provinciale e arretrata, ma si arricchì attraverso l’amicizia di uo­mini di cultura quali Giovanni Comisso, Sandro Penna, Goffredo Parise, Ma­rio Soldati, Elsa Morante, Andrea Zanzotto, Biagio Marin: e le sue letture spazia­vano nella letteratura italiana ed europea, da Machado a Rilke, da Marin a Dante, da Leopardi a Montale. E quando nel ’62 raggiunse il cugino a Roma, ebbe modo di fre­quentare altri importanti uomini di cultura come Federico Fellini, Carlo Emilio Gadda, Alberto Moravia.

I testi della prima raccolta confluirono, insieme a poesie in chioggiotto e in ita­liano, nel volume La curva di San Floreano (1988), cui seguirono a cadenze dilatate; la silloge di prose e poesie Meglio gli antichi castighi (1997), il poema Piccolo romanzo magrebino (2002), legato alla sua lunga esperienza nor­dafri­cana, I confini del paradiso (2004) e Una stri­scia lunga come la vita (2009), antologia di tutta la sua produzione poetica, caratteriz­zata dall’insi­stenza sul tema dell’omosessualità.

Al centro della produzione di Naldini si pone la raccolta Meglio gli antichi castighi (1997), un canzo­niere in quattro sezioni dove prevale la tematica dell’amicizia con uomini di cultura; e dove ha particolare rilievo l’affetto per la madre e per quelli che Pasolini aveva definito “ra­gazzi di vita”.

Naldini è poeta spontaneo al limite della brutalità, ma anche ironico e leggero, ricco di gentilezza e altruismo, anche quando contesta la mentalità retriva dell’Italia d’allora: «Quando mi smarrisco dentro di me –affermava- trovo un po’ di gentilezza nella com­prensione del mondo». Oltre che poeta fu scrittore, biografo (fondamentali le biografie di Pasolini, Leopardi, Comisso, De Pisis e Parise), consulente editoriale, giornalista per il «Corriere della Sera», «Il Ma­nifesto», «Il Piccolo», memorialista: un uomo piena­mente realizzato, che ha saputo attraversare la cultura del ‘900 senza mai cercare facile consenso o celebrità.

da Piccolo romanzo magrebino

I

È arrivata la vecchiaia.

Dio mio, cosa ne farò?

La terrò al caldo, ma dove?

Andrò in giro a chiacchierare,

ma con chi?

Un ritaglio di natura serena,

un piccolo altare?

Non scherziamo!

Incidermi le vene?

È cerimoniale d’altri tempi.

Neanche la morte per gelo

in un giardino pubblico

va ora più bene;

con tante siringhe in giro

si è già tra larve.

Altri programmi per la vecchiaia?

I viaggi, una bella barba.

Ma forse mi farò trascinare

su e giù per il Mediterraneo

dalla motonave Habib.

Questo è più allettante.

Ma una volta in altomare

avrò lo sguardo fisso sul vuoto

oppure farò l’occhiolino ai marinai?

Sono così di bocca buona

che me lo permetteranno.

Già oggi sono sceso dalla rupe

di Cap Blanc

con passo artritico.

Come si adatta il piede

a strisciare sugli accidenti del terreno

le mani protese a un equilibrio

che è una vittoria.

Mahres ridendo

da una balza all’altra

in una luce

che di per sé era una ferita

mi offriva il suo sostegno.

Ma rideva troppo

benché non ce ne fosse la necessità.

E nel fondo

(ha diciannove anni

e una vita da affermare)

gli piaceva.


I RAGAZZI DEL PARCHEGGIO

 Preambolo

Esco di casa, a quest’ora le strade

si riempiono di gioventù.

Alla stazione del trenino ne scendono grappoli

si disperdono qua e là

e come negli assembramenti delle formiche

non si esauriscono mai nell’andirivieni serale

festoso e senza scopo.

Mi aggancio le mani dietro la schiena

e avanzo posando qua e là il fuoco degli sguardi

a tratti tuttavia nascondendomi

dietro uno scudo di indifferenza

per lasciarmi assorbire dallo spettacolo.

C’è bisogno di metodo per osservare,

suddividere il mondo per categorie, ecco il punto.

La prima è quella dei ragazzi laboriosi.

Vengono poi quelli sempre seduti al caffè

e infine quelli che gironzolano

tra un treno e l’altro.

 

In quelli affaccendati la ricca capigliatura

di ricci crespi oppure ondulati

si è impastata con polvere grigia

da confondere ogni lustro di gioventù.

Ai piedi nudi anche d’inverno

hanno dei vecchi sandali di mare

e strascicandoli se ne vanno per le strade

diretti a una casa in costruzione.

Sono infatti i garzoni dei muratori.

Accanto a quella che sarà la nuova casa

una villa bianca e celeste con delle grate

per far scorrere il vento e festoni di buganvillea

che forniranno la musica del suo passaggio,

in un angolo appartato i ragazzi

hanno costruito un loro riparo.

Una casetta effimera di pochi mattoni

ma con tanto di porta che se rimasta aperta

lascia intravvedere un fornello per il mangiare

e dei vecchi drappi per dormire.

Da subito in quell’antro oscuro

cresciuto in una notte tra fioriti cespugli

ha cominciato a circolare aria di promiscuità

ma anch’essa così polverosa e improvvisata

da togliere ogni sospetto di piaceri nascosti.

Ai quali però, i nostri muratorini

non vogliono rinunciare.

In un angolo ancora più appartato

hanno fatto arrivare una canna d’acqua

per le abluzioni rituali

quando arriva il buio

sia pure con la pelle abrasa dalla calce

e le labbra inaridite dall’aria aperta

anch’essi agognano a qualche carezza.

 

Escono di soppiatto

ma non si mescolano agli altri ragazzi.

Sono infatti dei giovani stranieri

venuti dal Sud a cercare il soldo del Nord.

Ma come hanno saputo affrontare la vita

scambiando il mare col deserto

così non si lasciano sfuggire le sorprese

che sorgono nel buio.

La lunga astinenza scuote i loro corpi

quando si approssima una carezza

con brividi che diventano fremiti

e sintomi di ebbrezza,

ma poi il loro piacere è così breve

da corrispondere alla loro umiltà,

e poiché non se ne aspettano dell’altro

tornano nella loro capanna a dormire.

 

Ridah è il più intraprendente e ora

che una parete della villa è stata eretta

di sera se ne sta affacciato a un balconcino.

Che ne sa lui delle novelle orientali

eppure è là, con sorrisi e sussurri,

a rifarne un pezzo.

E come nelle novelle arabe

le rivelazioni salaci sono il clou del racconto,

così la fama di Ridah si è sparsa

dello spettacolo che può dare

con la nudità dell’inguine

al quale invia sorrisi di gratitudine

mentre lo trattiene per sé solo quel tanto

che serve ad offrirlo agli altri.

 

I suoi compagni se ne stanno rannicchiati

nel loro giaciglio.

Un falò acceso nel centro

getta l’ombra delle loro nuche sulle pareti

rivelandole più nobili dei tratti reali

troppo docili e dimessi

amalgamati ai loro stracci,

che per scuoterli e far sì che anch’essi

abbiano una parte di carezze,

bisogna essere dei santi intrepidi.

Ma lasciamoli dormire gli stanchi muratorini

domani il lavoro comincia presto.

Ma prima di addormentarsi ridono di qualcosa,

forse di un signore e di come li guarda

mentre sotto il getto della canna si inzuppano

le mutande che arrotolandosi sui fianchi

formano un panneggio squisito.

 

Abbiamo detto dei ragazzi seduti al caffè.

Sono quelli nati qui e padri e madri

più un nugolo di devota parentela

li tengono come sospesi nel calore

di una lunga gioventù.

Chiacchiere interminabili

saluti a chi sopraggiunge

come per un festoso ritrovamento,

si svolgono attorno a una fila

di bicchierini di tè alla menta.

Nessuno sa quale sia il domani

di questa gioventù.

Guarda l’ora che scorre

sotto le chiome degli aranci

che fanno da riparo al sole

in tutte le stagioni eccetto quando piove

e allora i ragazzi si ritirano all’interno

a fumare e giocare a carte.

Le loro chiacchiere volano come chimere

e i meandri dei loro racconti

si moltiplicano fino all’apparire

di uno spiritello che qui si chiama jin

e in ciascuno di loro annuncia

qualche nuova trovata del destino.

È arrivato il momento in cui le parole

cedono al linguaggio degli sguardi

scaturiti da quella forgia di intuizioni

che ciascun ragazzo segretamente tiene per sé

per seguire le trame inosservate del mondo.

D’estate tra quei tavoli

sale il vento fresco del mare,

d’inverno le ombre si stampano

nitide nel fulgore raddoppiato di quel mare

che lo si ritrova a ogni lato.

Di notte le chiacchiere si fanno più rade

ma l’istinto è tanto più rapace.

Nelle strade e nei sentieri

sempre più solitari risuonano passi

cui seguono altri passi finché congiunti

si confondono in una sola eco della notte.

Restano da raccontare

i grappoli di gioventù che scendono dal treno,

spettacolo gremito, intercambiabile

come le nuvole, un puzzle che si risolve

quando si risolve –

con il guizzo di un corpo sconosciuto

che scarta il flusso ordinario

e si isola con un sorriso.

 

A una cert’ora della mattina

quando annunciato dallo scampanellio

si ferma il treno, ne scendono alcuni ragazzi

con un’aria un po’ speciale

per il passo svelto che sa dove andare.

Sono i lavoratori del parcheggio

addetti alle bancarelle dei souvenir.

Mescolati ogni giorno ai turisti

parlano gli idiomi di tutto il mondo.

Nel giorno di mancanza di turisti

offrono al passante ozioso

tanti e così ornati sottintesi

da farlo cadere in un groviglio delizioso.

 I

Da qualsiasi parte lo si guardi

è un fiore della vita.

Anche quando si spoglia e gli è rimasta

solo una canottiera di colore indefinibile

che scendendo a metà coscia si solleva

senza che una mano si sia protesa a sollevarla.

Haykel. Quando lo incontro al parcheggio

ha negli occhi un cruccio lontano.

Me ne vado un poco offeso

ma non mi risparmio un’ultima occhiata

e dalla fessura dei suoi occhi

un bagliore mi raggiunge.

Sa di selva e se è un fiore

devo distinguere le sue parti

e non dire solo: gambe, braccia, ventre.

Ma dire: questo è il frutto del melograno maturo

che solo ad aprirlo rivela la sua dolcezza

e questa è un’oasi di montagna

dove le vergini vanno a sognare

e questo è un minareto piantato su due sfere gemelle

fin troppo pronto a donarsi in linfa.

Ha negli occhi un cruccio lontano

I ragazzi, gli amici notturni, di giorno evitano ogni segnale di riconoscimento, tutt’al più accen­nano un sorriso, mormorano un saluto. Perché al cospetto degli amici – ciascuno dei quali è coinvolto nella medesima situazione – obbediscono al codice dell’occulta­mento, pena lo scadi­mento della loro personalità. Un comportamento così coatto non può dipendere che da un tabù; che però può essere infranto con l’impiego di qualche cautela. L’ipocrisia borghese in ogni caso non c’entra.

Choukri sottoposto allo stress del bac arriva con un fascio di libri sotto il braccio. Ha la faccia del bravo scolaro ma che peso quei libri, e infatti prendono subito il volo.

Il giovane che questa mattina faceva pascolare due pecore al limite di un prato per immolarle alla festa dell’Aid, ha dovuto anch’egli occultarsi trascorrendo tutto il prato fin dentro un bo­schetto di magnolie dove ha trovato assieme a chi lo seguiva, il più effervescente climax del mattino.

Molto bene accetti e qualche volta sollecitati sono i doni di corteggiamento che non consi­stono più come nell’antichità di galletti, lepri, cervi, ma jeans Levi’s, quelli originali americani con la targhetta Made in USA altrimenti è un dono svalutato, accolto con malumore.

II

Walid è scontento di tutto

anche delle molte cose che si concentrano

nella sua bellezza di denti, occhi e portamento.

Con andatura alata

balza da un gradino all’altro

perché è conformato alla souplesse degli stadi

dove per qualche stagione è stato un divo.

Ha ventun anni ma si sente sorpassato

e benché i suoi tratti siano inalterabili

egli stesso sta togliendo loro un poco alla volta

la felice fusione di un tempo.

«Voglio vedere come farai a diventare brutto»

gli ho detto e lui ha sorriso.

Poi il filo della scontentezza si è dipanato.

Domani arriva la sua fidanzata dalla Francia

e lui non ha i soldi per il benvenuto.

Ho risolto i suoi problèmes

ma addio per sempre, Walid.

Ma addio per sempre, Walid

Infatti è emigrato poco dopo in Francia, chissà in quale squallido ghetto, con quali discrimina­zioni, con documenti d’identità sempre suscettibili di controlli e contestazioni. Lui che era uno splendore quando usciva dalla sua casetta bianca immersa in un orto di ulivi. Si intravvedeva anche il burnùs bianco del padre. Le sue Nike cavalcavano lo spazio e veniva spontaneo farsi da parte per vedere verso quali mete procedeva la sua gioventù, che ora forse è rimasta viva solo nei miei ricordi.

III

Alle otto del mattino

sto riassettando la mia stanza e

raccogliendo la sabbia caduta sulla terrazza.

Scacciate le ultime nuvole

presto il carro del sole

salendo dietro il melograno

scalderà il sentiero

quello per il quale ieri sera

sono arrivati coloro che aspettavo

attraversando la foresta di mimose

con passo così cauto

che sembravano sospinti dagli aliti della notte.

Haykel è apparso

tra due quinte di cactus

ed è scomparso per la stessa strada

lasciando dietro di sé solo il rumore

di un ramo secco calpestato.

Rijad molto più bruno

si è confuso a lungo con la siepe

finché ha rivelato prima i colori

del maglione e poi del suo viso.

Ogni sentiero tracciato nella foresta

ha molteplici varianti

e a tentarle a caso c’è da perdersi

cento volte prima di ritrovarsi.

Rischio del tutto fuori luogo

per questi ragazzi

che non temono né trappole né labirinti.

 

IV

Un rombo copre il cielo notturno

fino ai margini prossimi a incendiarsi.

Ogni notte e fino all’alba

c’è questo faticoso allacciarsi

dell’Oriente all’Occidente e gli aerei

giunti riarsi dall’aria del deserto

ora si tuffano nell’occhio tempestoso

del Mediterraneo. Sono i miei compagni notturni.

Ora sulla mia terrazza

la pallida aurora sta cadendo

di un giorno qualsiasi

nei fluidi delicati di un autunno

cui l’estate è rimasta avvinta distrattamente.

Roberto Rebora, il poeta più puro

Nipote del più noto Clemente, Roberto Rebora (1910-1992) comincia a scrivere negli anni trenta, ma resta appartato e quasi sconosciuto al grande pubblico, fino a morire in estrema povertà. Due sono i dram­matici eventi che segnano la sua visione del mondo: la morte pre­coce del padre, in seguito alla quale deve abbando­nare gli studi e iniziare a lavorare come magazziniere alla Bovisa, e l’esperienza delle guerre, prima quella d’Etiopia, poi quella mon­diale (con la conseguente prigionia in Germania), che lasciano tracce profonde sulle sue prime due raccolte poetiche, Misure (1940) e Dieci anni (1950).

Narratore (Prose disperse), traduttore e critico teatrale (Alfieri, Eliot, Brecht, Pirandello, Molière, Shakespeare, Goldoni, Artaud, Jonesco, Rosso di San Secondo) oltre che poeta, Rebora ha saputo attraversare il clima culturale del Novecento senza lasciarsi imprigionare in nessuna corrente letteraria, libero di spaziare tra piccole realtà quotidiane e grandi temi esistenziali. Ora un corposo volume raccoglie l’intera sua opera poetica edita più alcune poesie inedite in volume (Editore Mimesis, 2021).

La sua poesia è spesso legata alla quotidianità, ma l’apoditticità del dettato e la costante scarni­ficazione della parola la allontanano dal realismo, quasi sublimando i dati di partenza. Via via la ricerca di senso si fa in lui sempre più intensa: e questo setacciare la vita, questo ten­tativo di penetrare nei misteri della vita d’ogni giorno, riesce a donare al poeta almeno un barlume di serenità, poiché egli è ­zione «che la poesia, quando esista, è la sola arma per respingere l’infame armata della de­solazione e della disperazione». Nella concezione di Rebora la sto­ria è «sempre / sorprendente», e vale quindi la pena scrutarla per scoprirvi «ciò che non si perde», i colori e le sillabe che si richiamano recipro­camente, «gli scatti del pensiero» che indagano e scandagliano. E se anche al poeta non è dato tro­vare risposte definitive, gli resta pur sempre «il silenzio che ascolta», la pagina «furibonda di vita […] e di muta gioia».

Indubbiamente non giungono dalla poesia di Rebora certezze rasserenanti, risposte ras­sicuranti, perché è sempre solo l’«ombra / delle cose» a mostrarsi, l’ombra «che va e viene / e poi sparisce», la «luce indecisa» che non ce la fa ad illuminare compiutamente la realtà ultima delle cose; ma la vita, che il poeta indaga tenacemente e descrive con la parola e con il silenzio, riesce in ogni caso a rischiarare (anche se parzialmente e precariamente), la realtà: è «l’al­bero verde / lasciato dove / correrà la vita / per finire viva», è «l’amore impre­visto», è «una gioia repente», è «una voce sola / che accarezza e non cede». Perché la poesia (afferma Rebora) esiste per cercare degli obiettivi: e non è poi così impor­tante che questi siano veramente raggiunti: spesso è la ricerca stessa che appaga la mente e il cuore.

Nella corsa del cielo

Lasciami gridare, compagno,

verso chimerici segni.

 

Stride una linea nel tuo volto

abbandonando la luce

sopra i tetti morenti.

È inerte in te la notte.

Hai mani cieche

che ignorano l’amore

e non consentono paura di forme.

Non hai dolore nel mondo.

 

Pure è inflessibile la scia

che il giorno incide

nelle sue volte.

Un grido intatto

dalle prime sorgenti.

 

L’antica misura sopravvive

nella corsa del cielo.

Tschenstochau, ottobre 1943

Di sera

Non forte il vento ha nascite lontane.

Lento il suo volto tocca la guancia

con amore imprevisto.

Un ramo spezzato

dentro il cuore mollemente casca

tra immagini apparse

suscitando parole concitate

e invisibili corse. Impietrisce la luna

sovrastando l’avanzare notturno.

Poco fa una voce avvertiva

dai tronchi remoti.

Sanbostel, giugno 1944

Verità?

È una vita di pochi giorni

l’ho incontrata sul filo dell’aria

svoltando da una piazza solitaria

in un vicolo di misteri.

 

Misterioso semplicemente

mentre l’aria lo stava pulendo

lungo le pietre risalendo

con una gioia repente.

 

Non c’era nessuno nel vicolo

la gente si era dispersa

ma quell’aria non era persa

che nasceva con tanto impeto.

 

Era un vicolo misterioso

perché la vita vi appariva

era deserto e non moriva

accanto al mondo furioso.

 

Su quelle pietre voglio passare

e godere l’aria fina

non c’è bisogno di scrutare

il nero specchio dell’indovina.

 

L’indovina non vede nulla

solo un’immagine indecorosa

la sua bocca polverosa

definitivamente murata.

Quattro note

Ricordate il mio amico Giuseppe

che suona qualche volta la tromba

camminando verso la campagna?

 

Oggi un suono nuovo

accompagna il suo andare

e le sue soste dove tra le erbe

del campo mezzo cittadino

qualcuno tocca la terra.

 

Ha aggiunto alla sua vita

quattro note

che da tanto tempo

lo ferivano mute.

 

Conosce qualcosa che non so…

indugia per le strade secondarie

percorse dai ciclisti verso sera

poi se ne va come sempre.

Appunto 2

Un nome che si avventura
tra le foglie e si districa
via nello spazio

una storia di verbi
di qualche aggettivo
di attese

una voce sola
che accarezza e non cede.

Se mi chiedono

Se mi chiedono perché
ho molte parole per la risposta
ma di suono affaticato
o sono parole isolate
che non trovano l’altra…

Come chi improvvisamente
spalanca la porta e non riconosce nulla
se non l’invito ad avanzare
su un terreno troppo silenzioso…

oggi è così
come sempre del resto
e allora raccolgo l’invito
del vecchio e vedo una strada
la vedo proprio con il suo carico
di lontananze e con le tracce
di chi è passato.

Testamento

Lascio l’albero nel campo

costantemente verde

tentato dalla luce

allarmato dai tuoni

attorcigliato alle radici

segnato dal furore e dalla gioia

 

forse è un fantasma

che porterò con me

lungo una strada improvvisa

accompagnato

da ciò che non si perde

 

pochi nomi

nel silenzio colmo di sé

parole staccate dallo spazio

da raccogliere nell’erba

e passi che si allontanano

 

l’albero verde

lasciato dove

correrà la vita

per finire viva.

Primo dell’anno

Gelo sereno pioggia

sussulto dell’estate

dimenticata

brivido di stagioni

afa e vento

forse neve

tempo che scorre

e si divide

tormentosamente

 

una proposta bianca

da aiutare con urti

scoperte rivelate

futuri silenzi

se dopo la svolta

troverò orme

e segnali.

Se la malinconia

Se la malinconia ti culla

come un bambino spaventato

ed ora che sei con te stesso

fuggi anche il sonno

e non vuoi sentire altro

che sia diverso

dal suono di un mandolino

nascosto nella luce del giorno…

allora aspetta che ritorni quanto

non vuol cedere all’inganno che sfibra

 

la malinconia è un dolce veleno

se la cerchi e la vuoi

per non patire…

ma se la penetri camminando

come una volta nella piana ventosa

è qualcosa che ti avverte

incessantemente ripetuta

e non ti lascia privo

di te che aspetti

 

il suono del mandolino

non chiede nulla

ti accompagna a volte

e poi si apparta

dimenticato nel silenzio

dove ciò che manca

sarà la parola impronunciata.

Un suono

Un suono passa

e sembra un segno

verso una luce indecisa

 

è il forse che subito tace

fermo tra l’inganno e la gioia

lunga attesa

con sussurri remoti

salvati dal frastuono del giorno

 

attesa che non chiede

e non sa

oppure non deve essere altro

che il dopo

dei giorni che s’inseguono

il segreto racchiuso

nella limpida luce

e nei lampi.

Colori sillabe

L’orizzonte suggerisce

lontanissime distese colorate

e due case bianche

 

c’è del rosso e del giallo

e sillabe da ascoltare

nascono dai cenni della luce

 

la storia di sempre

sorprendente.

Fra qualche tempo

Fra qualche tempo

ore anni minuti

non sarò neppure

capace di invecchiare

ma quanto

rimarrà di me

non vorrà avere età

per svanire

con qualche vanto

o pianto

di propositi perduti

 

vorrà forse mostrarsi

con il male ed il bene

da mettere a confronto

e un rimpianto solo

là in fondo

un puntino luminoso

che continuerà a brillare

dietro le ombre.

Dalla finestra

Dalla finestra

guardo

nell’aria bianca

dove cerco di seguire

gli scatti del pensiero

qualcosa in ombra

che va e viene

e poi sparisce

nella luce

che non vuole cancellarsi

 

un invisibile

uccello migratore

è come quell’ombra

che accenna e se ne va

torna e non c’è

ed ha lasciato

il muto

avvenimento delle cose.

Fra poco

Fra poco basta

e sarà allora

come lo spazio

inseguito per anni

con una parola

nascosta nella foglia

che si stacca

all’improvviso

e gira nell’aria

incerta ancora

nei suoi movimenti

contrari.

Non credo di dove rispondere

Non credo di dove rispondere

c’è il silenzio per questo

e ancora tace l’ombra

delle cose che si aggiungono

ad altre ombre in movimenti

svanenti ed in attese

 

non amo le suggestioni

del nulla e le parole

che non aspettano risposte

ma il silenzio che ascolta

il fragore della lontananza

l’impercettibile ronzio del tempo

nell’aria bianca

la pagina appena toccata

sempre immobile e pronta

 

furibonda di vita ancora

e di muta gioia

di aggrovigliati silenzi.


Sandro Penna: la poesia è un brillante

Alle volte la poesia si fa riconoscere come un brillante: un gioielliere lo guarda e dice: è o non è vero”: questa definizione spiega molto della concezione che Sandro Penna (1906-1977) ha della scrittura poetica, che egli concepisce come una realtà la cui bellezza è evidente di per sé, la cui verità si impone indiscutibilmente, con assoluta limpidezza.

Poeta apparentemente facile, con i suoi versi regolari spesso rimati e un lessico piano e ordinato, Penna ha saputo rimanere fedele al suo dettato lineare e nitido mentre le mode rapidamente cam­biavano. In vita pubblicò pochissime raccolte, da Poesie del 1939 a Una strana gioia di vivere (1956) e Croce e delizia (1958), fino a che l’intera sua opera, qualche anno prima della morte, venne raccolta in Tutte le poesie (1970), un corpus straordinariamente compatto, che da un lato delinea la figura di un poeta controcorrente (discorsivo e spontaneo, nell’epoca dell’ermetismo domi­nante); e dall’altro lato riesce ad offrire al lettore un intenso spaccato dell’Italia subur­bana a cavallo della guerra, ricca di personaggi genuini e di situazioni apparentemente banali. Pur prendendo spunto da un dato realistico, però, in ogni sua lirica Penna apre all’eco di riflessioni più profonde, che tendono ad interrogare la varietà infinita della vita.

Cantore dell’amore omosessuale venne definito: ma in realtà lo sguardo con cui egli os­servava fanciulli e giovinetti era completamente scevro di lussuria, si potrebbe definire piuttosto uno sguardo di contem­plazione della bellezza in tutti i suoi aspetti (“il vento qui sull’erba ed i rumori / della città lontana / non sono anch’essi amore?). La bellezza della natura affascina il poeta, che ammirato e incantato la ripropone al lettore con totale innocenza. Che siano i collegiali nella loro nera divisa o il “romantico amico fiume lento”, le rondini a primavera o i “passi / incerti” di un fan­ciullo, “la luna di dicembre” o un “dolce animale / […] silenzioso”: quel che il poeta coglie è “un tumulto / di vita” che “ripete antica vita”, una intensa e affascinante realtà che si moltiplica all’infinito davanti ai suoi occhi. Spesso quella di Penna è una poesia del ricordo: ma nel ricordo estasi e sofferenza restano inscindibilmente presenti. Poeta eccentrico e perfettamente consapevole della sua “diversità”, egli ci parla col “realismo lirico” dei suoi versi, con la delicata dolcezza dei suoi brevi epigrammi.

Il suo linguaggio inizialmente colloquiale e piano (si potrebbe definire “post ermetico”, sulla linea che porta da Saba a Caproni) si è negli anni via via arricchito di figure re­to­riche utiliz­zate con arte sopraffina, dove l’aulicità si mescola alla quotidianità, men­tre l’amarezza ri­mane nascosta tra le pieghe dei paesaggi e degli incontri, e la solitudine sfocia in pacata rivolta verso un mondo sentito come ostile e crudele. “Poeta di lacrime e sogni” lo definì Enzo Siciliano: sono però lacrime di un uomo che non si piange mai addosso, ma che sogna ad occhi aperti, pur restando del tutto convinto dell’irrealizzabilità delle sue speranze.

La grazia epigrammatica dei suoi testi può richiamare ariette settecentesche, idilli di raf­finata delicatezza, dove si accampano sempre gli stessi, memorabili luoghi: le strade e le piazze di Roma, le sale dei cinematografi, i bar anonimi di periferia, i tram affollati, i «neri treni», la verde campagna, i bianchi marmi dei ponti, mentre il respiro del mare o il mormo­rio del fiume si spengono insieme con le luci tremolanti della sera. 

Scuola

Negli azzurri mattini
le file svelte e nere
dei collegiali. Chini
su libri poi. Bandiere
di nostalgia campestre
gli alberi alle finestre.

Mi nasconda la notte

Mi nasconda la notte e il dolce vento.

Da casa mia cacciato e a te venuto

mio romantico amico fiume lento.

Guardo il cielo e le nuvole e le luci

degli uomini laggiù così lontani

sempre da me. Ed io non so chi voglio

amare ormai se non il mio dolore.


La luna si nasconde e poi riappare

-lenta vicenda inutilmente mossa

sovra il mio capo stanco di guardare.

Ride su me la primavera

Ride su me la primavera. Tornano
le rondini, si sa. Volano via
via le parole degli amici stolti.
Ritornano, per me, ora le antiche
parole dell’amore. In te, fanciullo,
splendono. Giuocano nei tuoi passi
incerti. Ma certa in me cammina
solitaria e tranquilla la felicità.

Una strana gioia di vivere

XXVII

Come è bella la luna di dicembre
che guarda calma tramontare l’anno.
Mentre i treni si affannano si affannano
a quei fuochi stranissimi ella sorride.

XXIX

Come è forte il rumore dell’alba!
Fatto di cose più che di persone.
Lo precede talvolta un fischio breve,
una voce che lieta sfida il giorno.
Ma poi nella città tutto è sommerso.
E la mia stella è quella stella scialba
mia lenta morte senza disperazione.

Lasciami andare

«Lasciami andare se già spunta l’alba.»

Ed io mi ritrovai solo fra i vuoti

capanni interminabili sul mare.

Fra gli anonimi e muti cubi anch’io

cercavo una dimora? Il mare, il chiaro

mare non mi voltò con la sua luce? Salva

era soltanto la malinconia?

L’alba mi riportò, stanca, una via.

La luna di settembre

La luna di settembre su la buia

valle addormenta ai contadini il canto.

 

Una cadenza insiste: quasi lento

respiro di animale, nel silenzio,

salpa la valle se la luna sale.

 

Altro respira qui, dolce animale

anch’egli silenzioso. Ma un tumulto

di vita in me ripete antica vita.

 

Più vivo di così non sarò mai.

Malinconia d'amore

Malinconia d'amore, dove resta
bianco il sorriso del fanciullo come
un ultimo gabbiano alla tempesta.

Ditemi, grandi alberi sognanti

Ditemi, grandi alberi sognanti,

a voi non batte il cuore quando amore

fa cantar la cicala, quando il sole

sorprende e lascia immobile nel tempo

il batticuore alla tenera lucertola

perduta fra due mani in un dolce far niente ?

Anche a me batte il cuore, e pur non sono

io del fanciullo vittima innocente.

Sul molo il vento

Sul molo il vento soffia forte. Gli occhi

hanno un calmo spettacolo di luce.

Va una vela piegata, e nel silenzio

la guida un uomo quasi orizzontale.

Silenzioso vola dalla testa

di un ragazzo un berretto, e tocca il mare

come un pallone il cielo. Fiamma resta

entro il freddo spettacolo di luce

la sua testa arruffata.

«Poeta esclusivo d’amore»

«Poeta esclusivo d’amore»

m’hanno chiamato. E forse era vero.

Ma il vento qui sull’erba ed i rumori

della città lontana

non sono anch’essi amore?

Sotto nuvole calde

non sono ancora i suoni

di un amore che arde

e più non si allontana?

La mia poesia

La mia poesia non sarà

un giuoco leggero

fatto con parole delicate

e malate

(sole chiaro di marzo

su foglie rabbrividenti

di platani di un verde troppo chiaro).

La mia poesia lancerà la sua forza

a perdersi nell’infinito

(giuochi di un atleta bello

nel vespero lungo d’estate).

Imbruna l'aria, e il lume

Imbruna l'aria, e il lume
del giorno a lui dintorno
lentissimo si chiude.

Ma su l'umido fiume
cadono lente voci
di uccelli. Su la via
dilagano festosi
saluti sconosciuti
nei fischi dei ciclisti.

Gli invisibili treni
entro lucidi appelli 
stasera non avranno
la sua malinconia.

Donna in tram

Vuoi baciare il tuo bimbo che non vuole:

ama guardare la vita, di fuori.

Tu sei delusa allora, ma sorridi:

non è l'angoscia della gelosia

anche se già somiglia egli all'altr'uomo

che per "guardar la vita, di fuori"

ti ha lasciata così...

Di febbraio a Milano

Di febbraio a Milano

non c’erano le nebbie.

Ma numerosi sciami di ciclisti

andavano nel sole silenziosi.

E li fermava come in una gara

sospesa il suonatore siciliano.

Com'ero lieto

Com'ero lieto sotto un albero in fiore.
Credevo di soffrire ed ascoltavo
i fanciulli voler baciare un cane.
Rispondeva un guaito, - e una risata

spavalda mi faceva ancor più triste.
Tutto poi si perdeva nella luce
ed il bacio mi stava ad ascoltare.

Lumi del cimitero

Lumi del cimitero, non mi dite

che la sera d’estate non è bella.

E belli sono i bevitori dentro

le lontane osterie.

 

Muovonsi come fregi
antichi sotto il cielo
nuovo di stelle. 

Lumi del cimitero, calmi diti 
contano lente sere. Non mi dite 
che la notte d'estate non è bella.

Torna un pensier d'amore 
Torna un pensier d'amore 
nel cuore stanco, come 
nel tramonto invernale 
ritorna contro il sole 
il fanciullo alla casa.

Forse la giovinezza è solo questo

Forse la giovinezza è solo questo
perenne amare i sensi e non pentirsi.

Forse l'ispirazione è solo un urlo
confuso. Ma entro le colonne della
legge, ridendo si masturba ogni fanciullo.

Appoggio la mia fronte alla ringhiera
gelida del cancello. La mia notte
ascolta dileguare ogni fanciullo.

Arso completamente dalla vita
io vivo in essa felice e dissolto.
La mia pena d'amore non ascolto
più di quanto non curi la ferita.

Forse è meglio soffrire che godere.
O forse tutto è uguale. Anche la neve
è più bella del sole. Ma l'amore...

Forse invecchio

Forse invecchio, se ho fatto un lungo viaggio

sempre seduto, se nulla ho veduto

fuor che la pioggia, se uno stanco raggio

di vita silenziosa... (gli operai

pigliavano e lasciavano il mio treno,

portavano da un borgo a un dolce lago

il loro sonno coi loro utensili).

Quando giunsi nel letto anch’io gridai:

uomini siamo, più stanchi che vili.

Mario Tobino, psichiatra e scrittore

La produzione di Mario Tobino (Viareggio 1910 - Agrigento 1991) inizia in campo poetico negli anni trenta con le sillogi Poesie (1934), Amicizia (1939), Veleno e amore (1942); ma l’ambito più noto e significativo della sua opera è quello in prosa, che si articola in tre filoni principali in base ai temi trattati: narrazioni autobiografiche (sugli anni giovanili e sulle espe­rienze di guerra e resistenziali); romanzi e racconti incentrati sul tema della pazzia; scritti di viaggio.

L’esordio narrativo si ha con 1942 con il romanzo Il figlio del farmacista e i racconti La gelosia del marinaio, che già rivelano la forte vena autobiografica dell’autore. Ma la prima prova ragguardevole è Bandiera nera (1950), romanzo ambientato a metà degli anni trenta, che costituisce una feroce satira sull’inettitudine di un gerarca fascista, e finisce per coinvol­gere in un giudizio fortemente negativo tutto il regime mussoliniano. L’anno seguente escono i racconti L’angelo di Liponard, che narrano la fantastica vicenda di marinai viareg­gini; e Il deserto della Libia, diario dei diciotto mesi vissuti da Tobino in Libia come ufficiale medico durante quella che egli definisce una «guerra ingiusta […] tra oasi, deserti, fuoco, sole, visioni del dolore». «È il primo mio libro libero», commenta l’autore nel diario: «il primo romanzo che esce in un paese libero».

Rientrato in Italia nell’ottobre1941 in seguito alle ferite riportate, Tobino aveva iniziato nel luglio 1942 a lavorare nell’Ospedale psichiatrico di Maggiano, presso Lucca, dove sarebbe rima­sto per oltre quarant’anni. È proprio vivendo a stretto contatto con i ricoverati che l’autore matura una consapevolezza nuova, rendendosi conto dei grandi valori di umanità che pos­sono albergare anche in quelli che allora con disprezzo erano semplicemente chiamati «matti».

Dalla primavera all’autunno del 1944 partecipa alla guerra di liberazione nazionale come partigiano: si tratta di un’esperienza che lo fa crescere come uomo e come scrittore, e sarà rievocata nel romanzo Il clandestino (1962), con il quale Tobino vincerà la XVI edizione del «Premio Strega». «Il periodo più bello della mia vita -confesserà un giorno- fu nel clandestino, nella lotta di liberazione nazionale, dove finalmente avevo la mia bandiera».

È del 1953 invece il romanzo Le libere donne di Magliano, incentrato sull’esperienza di psichiatra nel manicomio di Maggiano presso Lucca, dove Tobino realizza appieno la sua vocazione a metà strada tra professione medica e letteratura: «Avevo fin da ragazzo -di­chiarerà- predilezione e interesse a capire i pensieri altrui. Così per poter vivere e fare lo scrittore sono divenuto psichiatra». Il romanzo è steso in un registro a cavallo tra diaristico e lirico: come afferma l’autore, «la mia vita è qui. Qui si snodano i miei sentimenti. Qui sincero mi manifesto. Qui vedo albe, tramonti, e il tempo scorre nella mia attenzione. Dentro una stanza del manicomio studio gli uomini e li amo. Qui attendo: gloria e morte. Di qui parto per le vacanze. Qui, fino a questo momento, sono ritornato. Ed il mio desiderio è di fare di ogni grano di questo territorio un tranquillo, ordinato, universale parlare».

Tobino descrive in que­sto romanzo la vita in manicomio del dottor Anselmo, personaggio chiaramente autobiografico, nel periodo che porta all’intenso dibattito sulla legge 180, proposta da Franco Basaglia. Ancora riferiti alla sua esperienza personale come psichiatra sono Per le antiche scale (1972) e Gli ultimi giorni di Magliano (1982), dove si rappresentano gli effetti dramma­tici della chiusura dei manicomi in seguito all’entrata in vigore della «legge Basaglia» (1978), i numerosi sucidi di ospiti fatti uscire dalla struttura protetta e lasciati poi soli con i loro fan­tasmi, paure, angosce insuperabili.

In queste opere Tobino descrive con nostalgia le dinamiche quotidiane del manicomio, diventato la sua casa per oltre quarant’anni. Egli esalta la follia come vera protagonista del mondo, ritenendola paradossalmente una via di espressione della personalità umana più sincera di ogni altra. Il malato, a suo parere, è più libero dietro le sbarre del manicomio, dove il mondo che lo circonda, con i suoi ritmi immutabili, lo tranquillizza, piuttosto che ritrovarsi fuori dal manicomio, «li­bero» di subire gli effetti diretti e indiretti degli psicofarmaci che in ogni caso deve assumere.

Altri testi autobiografici sono La brace dei Biassoli (1956), racconto degli ultimi giorni di vita della madre, vera saga della famiglia materna; e Tre amici (1988), che ripercorre uno spaccato di storia italiana durante la Resistenza, soffermandosi in particolare sulla terribile morte dell’amico Mario Masi, il partigiano «Montagna».

Letture decisive per la sua formazione erano stati i grandi autori italiani e stranieri, da Dante a Machiavelli, da Tacito ad Orazio, e poi i russi, i francesi, gli americani, e più tardi Arthur Rimbaud e Friedrich Nietzsche.

La lingua della sua prosa è insieme tradizionale e innovativa, con forti scarti rispetto alla lingua standard, con una sintassi elaborata e creativa, in grado di cogliere la verità più profonda dell’essere umano. Afferma infatti Tobino: «La fantasia mi è stata compagna comunque le cose del mio tempo si consumassero; ho trovato spiragli di allegria anche nei giorni più neri».

I romanzi di Tobino vanno ovviamente letti integralmente: si propone qui pertanto solo l’inizio di Per le antiche scale, romanzo autobiografico ambientato nell’immaginario manicomio di Magliano (ma autobiograficamente Maggiano, dove Tobino esercitò per oltre quarant’anni), dove il dottor Anselmo (cioè lo stesso Tobino) cura con affetto e comprensione i malati ricoverati, umanità autentica e sensibile.

 

Dentro la cerchia delle mura

I

Il dottor Anselmo abitava in manicomio. Mangiava alla mensa; aveva una stanza. Lo stipen­dio era gramo. Tutto era ristretto.

Solo chi c'è passato sa come fu il dopoguerra in Italia - quello della seconda guerra mondiale - per uno che durante la dittatura italiana aveva vivamente sperato: da ogni parte scenari che cadevano, trionfo della materia, il denaro e la carne più dominanti di prima. La nuova lussuria invogliare le masse alla completa servitù.

Anselmo si era ritirato; faceva vita di ospedale, di manicomio.

Giorno dopo giorno, in quelle ore, si era trovato ad occuparsi semplicemente dell'Istituto dove lavorava. Diverse volte nella giornata si soffermava in portineria per ragioni pratiche come la posta, il telefono, il parente di un malato che chiedeva informazioni: più spesso - specie verso sera - per chiacchierare col portiere D'Inzeo, ormai prossimo alla pensione, con Achille, il tecnico di Laboratorio, anche lui veterano.

Nei nebbiosi pomeriggi invernali le conversazioni si fecero sempre più fitte, confidenziali. E ogni volta, fatalmente, succedeva che il centro del discorso fosse il Bonaccorsi, il dottor Bonaccorsi, lui aveva guidato, dominato gli anni precedenti. Nell' ospedale si muoveva la sua leggenda.

Infatti anche gli altri infermieri ne parlavano con fervore e come ancora vivesse, lo si potesse incontrare da un momento all'altro per le corsie, tra i malati, nella sua camera-ufficio impre­gnata di acido fenico, e innanzitutto, attraverso il finestrone, lo si potesse intravedere nel Laboratorio, suo regno per più di trentacinque anni.

Anselmo un giorno tentò di collocare nel tempo il Bonaccorsi e domandò:

«È molto che è andato in pensione?»

Achille contò con le dita e: «Nove anni. Perbacco, come passano!».

«E ... quando è morto?»

«Due inverni fa, il 16 dicembre.»

Anselmo si accorse che quei due vecchi infermieri, coi quali così spesso parlava, solo ora si azzardavano - e in parte - a parlare con libertà sul dottor Bonaccorsi; quasi anche a loro sembrava di non esser proprio sicuri che non apparisse per i viali del manicomio, attraver­sasse in fretta il giardinetto davanti alla direzione.

Achille, che del Bonaccorsi era stato la vittima e il beneficiato, era quello che dava i dati più sicuri, di prima mano, testimonianza diretta.

Il portiere D'Inzeo comprovava, aggiungeva il suo tono a quella musica, e con una acutezza particolare, di chi ha osservato da lontano ma con più calma e attenzione, meno disturbato dalla vicinanza fisica.

Achille, il tecnico di Laboratorio, era stato dominato tutta la vita dal Bonaccorsi, dalla sua figura.

Negli ultimi anni però, quando il dottore era già in pensione, il ritratto gli si era offuscato, intinto di amaro. Achille aveva creduto di essere il suo beniamino, una eccezione tra tutti gli infermieri, e invece no, aveva battuto la testa nell'incontrario.

Quando il dottor Bonaccorsi andò in pensione - in uno dei quattro appartamenti della palaz­zina davanti al fiume- i nuovi dirigenti, per quel doveroso omaggio che tutti spontaneamente avevano per lui, incaricarono un infermiere di portargli ogni mese le riviste di psichiatria che mano-mano uscivano. Lo stesso infermiere doveva ritirarle, il mese trascorso, e portare le nuove.

Quando l'infermiere bussava alla porta, era la sorella del Bonaccorsi ad aprire. Il dottore non si faceva vedere, non si presentava, rannicchiato dietro la porta della sua stanza.

Se c'erano nuove istruzioni il Bonaccorsi le trasmetteva attraverso l'uscio alla sorella, e que­sta all'infermiere.

Achille ardeva dalla voglia di rivederlo almeno una volta, parlare con lui una volta almeno ancora, il suo maestro, dedicate a lui le sue ore più belle.

Benché il Bonaccorsi avesse dichiarato che mai più avrebbe ricevuto persona, Achille spe­rava, era sicuro, che per lui ci sarebbe stata l'eccezione.

La sorella apri. Appena il Bonaccorsi capì che invece del solito infermiere era venuto Achille, parlò ancora meno, da dietro la porta. Invano Achille si effondeva, chiedeva notizie sulla sua salute, che tutti lo ricordavano, il manicomio senza di lui un deserto.

Nulla. Di là, dietro la porta, non arrivò più neppure un mugolio. Achille si ritrovò sulla strada quasi in pianto.

Fu anche per questa sofferta amarezza che Achille prese sempre più a parlare con confi­denza sul Bonaccorsi, a rispondere ad Anselmo che si insinuava con ogni sorta di domande.

E così accadde che in quei lunghi dopopranzi di portineria, Anselmo lentamente - una con­fidenza dopo l'altra, un episodio da Achille, una notizia da D'Inzeo - riuscì a carpire presso che tutto di quel tempo leggendario, del Bonaccorsi e degli altri.

II

Bonaccorsi era biondo, alto, gli occhi celesti, vigoroso, un che di longobardo; aveva una barbetta a punta che soleva in certi momenti stringere nel pugno. Un uomo attivissimo, brulicante di progetti, di azioni, di immediatezze. Numerosi medici della vicina città ancora se ne ricordano con gratitudine e ne parlano con eccitazione.

Quando Bonaccorsi sapeva che a Lucca c’era uno studente di medicina avido di apprendere, lo invitava, gli mandava un infermiere con un biglietto, che finiva: "Venga a studiare con me. L'aspetto".  In questi casi era di estrema umiltà.

Lo studente arrivava con entusiasmo. Il Bonaccorsi proponeva:

«Se ci mettessimo al cervello? Lo ripassiamo insieme. Che voglia ho di rivedermelo tutto! Oppure vogliamo trattare il cuore? È anch'esso ben misterioso! Cosa preferisce?»

L'argomento era scelto, e allora: «Dovremmo cominciare di buon'ora perché poi ho da curare il Laboratorio. Venga domattina alle cinque. Andremo avanti per alcuni mesi, non trascureremo nulla.»

Così ogni mattina lo studente arrivava al manicomio; il Bonaccorsi era già in piedi, festoso per la prossima attività. I libri disposti, preparati sul piccolo tavolino della camera-studio. Il Bonaccorsi per due e tre ore illustrava l'anatomia, la fisiologia, la patologia, faceva una lezione a tu per tu, sommamente proficua. E se udiva di un altro o più studenti volenterosi anche questi erano invitati, accolti, spronati alla bellezza e serietà del sapere. Alle cinque del mattino - e d'estate ancora prima – nella cameretta del Bonaccorsi cominciavano a correre i nomi delle diverse branche della medicina.

Questo per gli studenti. Un'altra sua donazione, ed assai più importante, era per i medici, per gli alienisti, per chi aveva iniziato la carriera psichiatrica sia in un manicomio che in una clinica. Il Bonaccorsi donava i lavori scientifici, i lavori di psichiatria, neurologia, istologia.

Per i medici dello stesso ospedale ripetutamente accadeva così. Un giorno il Bonaccorsi incontrava uno di questi e, come distrattamente: «Ho scoperto un caso interessante. Ci potresti fare un lavoro». Il medico rizzava le orecchie, acchiappava la fortuna; tutti sapevano cosa voleva dire quell'invito. I lavori servivano per i concorsi.

«Il caso è questo. Vai nel tale reparto. Studialo, butta giù le tue riflessioni. Mi raccomando la bibliografia». Il medico faceva qualche mossa, usava un po' di finzione, simulava di aver sudato. E ritornava dal Bonaccorsi con due o tre paginette.

«Bene. Gli darò un'occhiata. Poi te le ripasso.»

Il Bonaccorsi sbrigava tutto, era assetato di attività, trovava appagamento nel portare a termine ogni faccenda. Appena quelle smilze paginette erano in mano sua, le trescava con letizia e animosità. Era un fiume di memoria, di associazioni di immagini, possedeva le notizie più fresche, internazionali, moderne. Scriveva con quella sua calligrafia rapida, in fuga. Più andava avanti, più il lavoro si arricchiva, altre idee nascevano; molto spesso la parte scritta veniva accresciuta, corredata, comprovata da preparati istologici, da microfotografie.

In pochi giorni quelle grame paginette consegnate dal timido dottore si erano trasformate in un poderoso lavoro psichiatrico, degno della rivista più qualificata.

La profondità spirituale di Margherita Guidacci

Margherita Guidacci ha inteso la poesia come scavo interiore, come esercizio di catarsi. Per lei, la poesia ha la capacità di indagare sul mistero della morte, dell’angoscia e della depressione. Istanze senza dubbio sofferte e insopprimibili accanto alle quali la Guidacci affianca, con estremo lindore e afflato sincero, una certa fedeltà, una passione per la vita, come anche la gioia e la grazia. Col suo incedere poetico, dove ogni singola parola è depositaria e custode di significato profondo, davvero meriterebbe di essere riscoperta, letta per l’eleganza dello stile, per il suo andamento assorto e quieto che indugia nella riflessione e nella meditazione. Una profondità spirituale, che non tocca soltanto corde esistenziali, ma anche sollecitazioni etiche, di impegno civile”. Così Grazia Frisina, squisita poeta siciliana, a proposito della fiorentina Margherita Guidacci (1921-1992), che –come lei segnala - è molto meno nota di quanto meriterebbe.

Insegnante, poeta, prosatrice, traduttrice (Emily Dickinson, Emmanuel Mounier, Georges Gissing, Ezra Pound, Jorge Guillen, Joseph Conrad, Mark Twain, Tao Huang Ming, Edith Louise Sitwell, John Donne, Thomas Stearns Eliot), la Guidacci è oggi trascurata sia a livello critico che di pubblico, nonostante le numerose e significative raccolte poetiche pubblicate. Timida e introversa, ha sempre vissuto l’esistenza come precarietà, indugiando sovente sul tema del dolore, senza però mai piangersi addosso, ma cercando risposte alla proprie domande esistenziali.

Cresciuta in campagna in compagnia del cugino, il poeta Nicola Lisi, si laurea in letteratura italiana all’Università di Firenze con una tesi su Giuseppe Ungaretti, specializzandosi poi in letteratura inglese ed americana. Insegnante liceale e poi universitaria, vive dopo i sessant’anni a Roma.

Il suo stile prosastico, limpido, narrativo, decisamente anti ermetico, la porta a isolarsi dalle mode correnti negli anni immediatamente precedenti alla seconda guerra mondiale: e forse è la causa principale dell’oblio che l’ha colpita anche successivamente.

Nei suoi testi affiora spesso la nostalgia per un mondo che si perde, il rimpianto per gli amici perduti e per la sofferenza che regna nel mondo; ma anche una ricerca, di cui non contano né la portata né l’approdo, che cerca nell’accostamento drammatico di significati, anziché in un accostamento magico di suoni, le risposte alle domande implicite. Da questa concezione prettamente «impura» della parola nasceva quindi come corollario una spiccata avversione al «frammento», una tendenza alla narratività che oggi andrebbe riscoperta.

Le sue raccolte poetiche principali sono: La sabbia e l’angelo (1946), libro d’esordio di cui lei dice: «non scriverlo sarebbe equivalso per me, letteralmente, a morire»; Morte del ricco (1954); Giorno dei santi (1957); Neurosuite (1970), una sorta di «radiografia dell'anima umana, colta tra dimensione cosciente e tensioni dell'inconscio», scaturita dalla dura esperienza della malattia e del conseguente soggiorno in un istituto psichiatrico, dove la meditazione sul dolore e sul destino degli uomini, sospesi fra l’ira per il proprio infelice destino e l’avvilimento della disperazione, è affidata alle parole dell’Inferno di Dante Alighieri; L’altare di Isenheim (1980); L’orologio di Bologna (1981) composta in occasione della strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, e che ha come chiave di lettura l’indole fratricida dell’umanità simboleggiata dal delitto originario di Caino; Il buio e lo splendore (1989) e Anelli del tempo, uscito postumo nel 1993. Nel 1990 era uscito il volume Le poesie a cura di Maura Del Serra, dove si trova raccolta quasi per intero la sua produzione poetica.

La sabbia e l’angelo

IV

Ora il nostro amore si spanderà nella vigna e nel grano,
il nostro veleno nei cactus e negli spini crudeli.
Si curveranno i vivi alle sorgenti, diranno:
“Chi spinse verso noi l’acqua da occulte vene del mondo?”
E molto prima che il freddo li colga e la notte sul loro cuore s’adagi,
anche in un meriggio d’api e di succhi ardenti,
conosceranno l’angoscia, perché potenti noi siamo e vicini,
e non vi è fuga dal cerchio in cui già li stringiamo,
con ogni stelo da noi sorto e ogni frutto

che colmo e grave alla nostra terra s’inchina.

XVI

Se tu mai sentissi la notte nei tuoi polsi tremare,
e trafiggerti con gli aghi del sangue,
e i minuti del cuore sconvolgerti in improvvise frane,
allora nemmeno comprenderai
che sia, di terra farsi poi nardo e neve,
ed entrare in un tempo incorruttibile.

Una voce

Il vento che odora di morte

mi ha passato sul viso la sua viscida mano.

Ha toccato i vitigni marciti,

i muri sbavati di lumache,

lo zolfo e il muschio giallo tra le scaglie di pietra,

i bassi scogli rivomitati dalla marea

quando la notte emerge dalle acque

come il dorso di un pesce immenso.

Quale stagione viene ad annunziarmi?

Il mio cuore l’ignora,

pure me trema.

Nerosuite

Clinica neurologica
qui giunto molte cose o pellegrino
puoi domandarti ma una sola importa:
è l’ultima casa dei vivi
o la prima dei morti?

Ostrica perlifera

Dio mi ha chiamata ad arricchire il mondo

decretandone il semplice strumento:

basta un opaco granello di sabbia

e intorno il mio dolore iridescente!

Stella cadente

Alcuni desideri si adempiranno
altri saranno respinti. Ma io
sarò passata splendendo
per un attimo. Anche se nessuno
mi avesse guardata
risulterebbe ugualmente giustificato –
per quel lucente attimo – il mio esistere.

Scrivo parole ogni giorno.
Scrivo parole ogni giorno.
Non so dove arriverò,
scrivendo.
So che potrei tacere.
Colui che sa, non parla.
Muto nel ventre del tempo
dove uomini gridano, anche.
Lo sguardo
basterà per comprendere e dire
quanto la voce non dice.
Sfioro ogni istante, ogni giorno
l’urlo e il tuono. Vivo intorno.
Potrei fermarmi e attendere.
In silenzio.

Il tuo ricordo

Il tuo ricordo, sul fondo
della mia solitudine,
ne rivela l’ampiezza
e tuttavia la limita.

Così un canto d’uccello
addolcisce l’immensità del cielo
e una singola vela
rende umano il mare.

È come una mancanza di respiro

È come una mancanza di respiro
e un senso di morire
quando mi stringe improvviso
il desiderio di te tanto lontano
e nulla può calmarlo, altro pensiero
non può occuparmi, tranne il Paradiso
che sarebbe per me lo starti accanto.
Ma poiché ciò m’è negato, più cara,
molto più cara d’una fredda pace
mi è la stretta indicibile -
quasi marchio di fuoco che proclami
ancora e sempre quanto sono tua.
A nessun costo vorrei separarmi
da questo mio dolore.

La conchiglia

Non a te appartengo, sebbene nel cavo
della tua mano ora riposi, viandante,
né alla sabbia da cui mi raccogliesti
e dove giacqui lungamente, prima
che al tuo sguardo si offrisse la mia forma mirabile.
Io compagna d’agili pesci e d’alghe
ebbi vita dal grembo delle libere onde.
E non odio né oblio ma l’amara tempesta me ne divise.
Perciò si duole in me l’antica patria e rimormora
assiduamente e ne sospira la mia anima marina,
mentre tu reggi il mio segreto sulla tua palma
e stupito vi pieghi il tuo orecchio straniero.

Lascia sia il vento

Lascia sia il vento a completar le parole
che la tua voce non sa articolare.
Non ci occorrono più le parole.
Siamo entrambi il medesimo silenzio.
Come due specchi, svuotati d' ogni immagine,

che l'uno all'altro rendono
un semplice raggio. E ci basta.

Colore di Betelgeuse

Hanno il colore di Betelgeuse

(mi scrivi) i fiori che sono riuscita

finalmente a donarti. Tu che vedi

una Galassia in ogni fioritura

terrestre e un fiore in ogni stella, hai legato

così il mio dono al più amato, per me,

fra tutti gli astri, quello che tu stesso

m’indicasti, quando Orione scalava

l’orizzonte autunnale. Nel nuovo autunno i fiori

saranno morti e il confronto avverrà

tra una presenza e una memoria, o forse

tra due memorie: chi può infatti dire

con sicurezza che sia ancora viva

Betelgeuse? Forse noi vediamo solo

quanto di lei ricorda il cielo, a lungo

attraversato dall’antica luce

rosata in uno spazio così grande

che il viaggio continua, pur se la stella è spenta.

Ma resterà sempre il nostro fulgore

che abbiamo accolto, come l’altro, tenero,

dei fiori divenuti d’ombra. Che importa

il durare, se una risposta è suscitata,

di vita a vita, luce a luce? Avranno

le nostre stesse anime il colore

di Betelgeuse. Così

di riflesso in riflesso si propaga

un amore che custodisce il mondo.

Anelli del tempo

Degli anelli del tempo, che si aggiungono
sempre nuovi, furono alcuni così stretti
che ne ricordo solo l'orrore di soffocare.
In altri, larghi e informi, vagai smarrita
senza un sostegno a cui aggrapparmi. I più,
pallidamente indifferenti, si ammucchiavano
gli uni sugli altri, subito saldandosi
senza nemmeno un segno di sutura.
Solo a pochi e per poco è tollerabile
riandare. Ma almeno questo, l'ultimo,
di cui oggi si chiude il cerchio, resta perfetto
nel mio cuore: cornice d'oro intorno
a uno specchio di gioia. Chiedo solo
di serbar quest'immagine. E che a te
uno stesso fulgore la riveli
e la circondi, allo scadere dell'ora,
nel tuo specchio gemello.

All'ipotetico lettore

Ho messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa' che siano
allora come foglie e come vento,
assecondando il suo volo.
E sappi che l'affetto nell'addio
non è minore che nell'incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino.

Alla fine dei secoli
Alla fine dei secoli, quando

mi chiamerà un’altra voce
e proverò per la seconda volta
l’impeto di risurrezione
prego che come questa volta,
quando sei stato tu a chiamarmi,
alzandomi stupita dalla fossa
con le ossa che sentono la carne
stendersi nuovamente su di loro,
con la carne che sente
in sé di nuovo penetrare l’anima –
io possa, in quel tremendo campo
dove avrà inizio l’eterno,
fissare il primo sguardo su di te,
ritrovarti al mio fianco.

Gesualdo Bufalino, insegnante e scrittore

Gesualdo Bufalino nasce a Comiso nel 1920, figlio di un fabbro con una gran pas­sione per la lettura, e si nutre dei volumi presenti nella biblioteca paterna. Dopo il Liceo si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia a Catania, ma nel ’42 deve interrompere gli studi perché richiamato alle armi: riuscirà a laurearsi solo nel ‘47, e da allora fino alla pensione insegnerà nell’Istituto Magistrale di Vittoria (RG). Muore in un incidente stra­dale nel 1996.

Appassionato di libri, cinema, musica, Bufalino è stato poeta e traduttore oltre che narratore: ma il suo primo grande romanzo (in realtà diario e confessione, più che romanzo in senso stretto), destinato a un successo straordinario, è pub­blicato solo nel 1981 presso l’editore palermitano Sellerio. L’opera nasce dall’espe­rienza personale dell’autore, che nel 1944 si era ammalato di tubercolosi e aveva do­vuto ricoverarsi prima a Scandiano, poi in un sanatorio della Conca d'Oro, dal quale era uscito guarito nel 1946. L’esperienza lo segnò profonda­mente e contribuì a farlo riflettere sui temi dell’amore e della morte, della malattia e dell’amicizia; in un’intervista del 1985 affer­mava: «la scrittura mi serve come medicina, come luogo di confessione, come possi­bilità di dialogo con me stesso».

La vicenda è così sintetizzata da Leonardo Sciascia, conterraneo e amico dell’autore: «Nel 1946, in un sanatorio della Conca d’oro – castello d’Atlante e campo di sterminio – alcuni singolari personaggi, reduci dalla guerra, e presumi­bilmente inguaribili, duel­lano debolmente con se stessi e con gli altri, in attesa della morte. Lunghi duelli di gesti e di parole; di parole soprattutto: febbricitanti, tenere, barocche – a gara con il barocco di una terra che ama l’iperbole e l’ec­cesso». Il protagonista è un giovane reduce che nel 1946 affronta, dopo quello della guerra, un nuovo «apprendistato di morte» nel sanatorio della Rocca sulle alture di Palermo, dove incontra altri reduci: il colonnello, Sebastiano, i due Luigi, l'Allegro e il Pensieroso, Giovanni, Angelo e frate Vittorio il cappellano. A curarli il medico del sanatorio, il nobiluomo Mariano Grifeo Cardona di Canicarao detto il Gran Magro, un alcolizzato, un «inquilino bisbetico» del mondo, di­sposto ad am­mettere - con beffarde argomentazioni - l'esistenza di Dio, perché «non c'è colpa senza colpevole». Il protagonista si innamora di Marta, una ragazza dal pas­sato equivoco, che aveva già rischiato la vita in quanto ebrea, e che ora si avvia ine­sorabilmente alla morte. Nel finale i due fuggono dal sanatorio: ma men­tre la donna muore in un piccolo albergo del litorale, il protagonista avverte la vicinanza della gua­rigione «e rientrando nella vita di tutti, vi porta un’educazione alla catastrofe di cui pro­babilmente non saprà servirsi, ma anche la ricchezza di un noviziato indimenticabile nel reame delle ombre».

Del romanzo Bufalino dice: «L’ho pensato e abbozzato verso il ‘50, l’ho scritto nel ‘71. Da allora una revisione ininterrotta: fino alle bozze di stampa. Mi è venuto dall’espe­rienza di malato in un sa­natorio palermitano: negli anni del dopoguerra, quando la tubercolosi uccideva e se­gnava ancora come nell’Ottocento. Il senti­mento della morte, la svalutazione della vita e della storia, la guarigione sentita come colpa e diserzione, il sanatorio come luogo di salvaguardia e d’incantesimo (ma La montagna incantata, è evidente, non ha giocato per nulla). E poi la di­mensione religiosa della vita, il ricono­scersi invincibilmente cri­stiano. M’impor­tava esorcizzare quell’esperienza; ma soprat­tutto mi urgeva coagulare eventi e persone intorno a un centro di parole che avevo dentro. Confesso che il primo capitolo che scrissi fu come un gioco serio: e consisteva nel trovare intrecci plau­sibili tra 50 parole scelte in anticipo per timbro, colore, carica espressiva. Qual­cosa di meno maniacale delle scommesse di Roussel, essendo nel mio caso il legame tra le parole scelte non casualmente ritmico, né esoterico, ma in­sorgente da una parentela e coali­zione espressiva e musicale, così come da un re, da un sol minore premeditato, nasce una sinfonia». L’opera rivela i sotterfugi, le illu­sioni, la perenne volontà di autoinganno, gli strazianti e ossessivi sentimenti di una rasse­gnata umanità, che si accalca nel tubercolosario palermitano in attesa della morte, il più probabile degli esiti. La malattia è vista come condizione esi­stenziale da Bufalino, che in un’intervista così commenta: «Cosa c’è di più iper­bolico della morte? Cosa c’è di più eccessivo dell’estate, della Sicilia, di un sana­torio, di tutte e tre queste cose messe insieme?».

Dopo il successo di quest’opera, Bufalino nell’arco di un quindicennio pubblicò quasi maniacalmente una gran quantità di opere: poesie, (L'a­maro miele, 1982), prose d'arte e di memoria (Museo d'ombre, 1982), testi narrativi (Argo il cieco, 1984, L'uomo invaso, 1986, Le menzo­gne della notte, 1988, Qui pro quo, 1991, Calende greche, 1992, Il Guerrin Meschino, 1993, Tommaso e il fotografo cieco, 1996), saggistica (Cere perse, 1985, La luce e il lutto, 1988, Saldi d'autunno, 1990, Il fiele ibleo, 1995), aforismi (Il malpensante, 1987, Bluff di parole, 1994), an­tologie (Dizionario dei personaggi di ro­manzo, 1982; Il matrimonio illustrato, 1989), senza più ottenere un successo paragonabile.

 

da Diceria dell’untore cap. XVI [l’ultimo]

 

Questo fu l'ultimo sorso di luce per Marta. Già lungo la via, sfiorandola per caso, m'ero accorto che avvampava di febbre. E i ronchi secchi e crepitanti della tosse che durante il giorno avevano chissà come taciuto, erano ora ininterrotti, stra­zianti. Cercai dove fer­marmi. Tanto più che un difetto ai fari non m'avrebbe con­sentito, benché con l'aiuto della luna, di raggiungere la città. Alla costa comunque volevo arrivare, dove più fittamente si susseguivano i luoghi di vil­leggiatura e maggiori apparivano le possibilità di soccorso. Continuai dunque la corsa al mare, e che fosse vicinissimo, dietro quel velo d'ulivi, un ragazzo ce lo disse, che si levò con diffi­denza da una soglia di sasso quando si senti chia­mare. E subito ve­demmo un gabbiano di­sperso, scuro e bianco come una rondine, volteggiare sul colmo di dune davanti a noi. Allora Marta volle, con una testardaggine innervo­sita, smon­tare dalla vettura e rimanere in piedi, nella frescura della sera, a guar­dare il mare. Era calata la sera, e il mare, che mille volte in passato m'era parso nascere dalla curva delle colline dome­stico e balneare come nelle guide, non ci fu verso qui che risparmiasse uno solo dei suoi veleni: né il borbottio dei suoi contrab­bassi arrochiti; né le stereotipie delle onde contro la riva: né il secolare malodore di calafature e disastri. Più ancora mi sgo­mentò, en­trando nel portic­ciuolo, scorgere attraverso gli usci se­mia­perti, a lume di candela, donne in cer­chio sedute sui pavimenti di pece, che con mani eterne rammendavano reti.

«Atropo, Lachesi... dimentico sempre la terza...» mi sforzai di sorridere, senza che Marta mostrasse di capire, intenta com'era a fissare la spiaggia come si fissa un ne­mico.

Era decisamente un'ora povera, un’ora infelice. Com'è sempre nelle sere di mo­ri­bondo set­tembre su un lido sporco di stracci d'alghe e di giornali d'agosto. Non indu­giammo a soffrirla, ma, chiusa la macchina, ci avviammo, stampando pedate uguali sul bagna­sciuga, alla ricerca di un alloggio, Marta s'era stretta dentro uno scialle e camminava con sforzo, appesa al mio braccio, lamentandosi a bassa voce. Io mi sentivo invece, dissipate le apprensioni della mat­tina, e i contraddittori ammae­stramenti dello spettacolo, tutto preso da una nuova esultanza: sciolto nei miei moti acerbi, lievemente esaltato dalla minutaglia di gocciole che la brezza sa­lina m’insi­nuava nelle narici, e in quell’istante fi­nalmente sicuro di trovarmi sulla cresta di un riflusso amico che dal centro dell'imbuto d'abisso, dall'attirante vor­tice, per miracolo, m'allon­tanava. Me ne veniva a mo­menti uno stolido orgoglio, come una fisica arro­ganza, specie al paragone della creatura che stavo a passo a passo accompagnando alla fine. Per la cui sorte, tuttavia, un rigurgito di pena sopravveniva poi subito dal fondo più nascosto del sangue, me­scolandosi a quel benes­sere e istigandolo a diventare vergogna.

Un bunker in abbandono, relitto delle previste difese contro l’invasione, su un pic­colo dorso di promontorio, ci offerse fra i suoi calcestruzzi un po' di riparo e riposo, quando già appariva l'alberghetto sul mare, spopolato ormai d'avventori, in cui se­condo le indi­cazioni del ragazzo, avremmo potuto far sosta, prima di rientrare l'indo­mani alla Rocca. Da esso rare figure e voci, che attraverso gli strombi del fortilizio pervenivano fino a noi, ci incoraggiarono a proseguire. Ma veramente Marta non po­teva più muovere un passo. E piuttosto portandola in braccio che sorreggendola, riuscii a farle superare le intermina­bili decine di metri - baratri fra astri lontani - che la divide­vano da un letto.

Vi si lasciò cadere vestita com'era, con la superstite grazia d'una figura di danza, ma del pasto freddo, che per sua volontà ordinai di portare, non toccò nulla salvo un pezzetto di pesca. Con lo scialle di cascemir buttato sopra le spalle, mi guardava dal letto mentre mangiavo. A un colpo più forte di tosse, come alzai gli occhi dal piatto per interrogarla, m’impose di voltarmi. Ma feci in tempo a scor­gere sul fazzoletto, che riponeva in fretta dentro la guaina del cuscino, il colore portentoso del san­gue.

Vi fu allora silenzio nella stanza come in un luogo dove non c’è nessuno. O piuttosto era il silenzio che accompagna le imboscate di mezzogiorno. Quando I’esecutore av­verte nella vit­tima un sollievo e una pace che le cose, intorno, non posseggono più: chissà perché si agita nel sonno la capra; che malore gonfia la vigna come una fronte lebbrosa; perché impazzisce il cielo negli occhi dei volatili, li vedi d'un radere l'erba, pre­cipitare.

Mi levai, accorsi accanto a lei, non sapevo che fare. Era chiaro dai suoi occhi atterriti, dalla plumbea tinta del viso, che qualcosa era imminente, stava bus­sando dietro un muro. Una pa­ratia sottile, oh quanto sottile, resisteva ancora, lo vedevo, dentro di lei a una pressura di na­scosta alluvione. Ma non c'era speranza che non cedesse da un mo­mento all'altro. Intanto l'affanno cresceva, gli sputi sanguinosi si facevano più ricchi e frequenti. Finché mi trovai a reg­gerle il capo, come nelle sfide di carnevale alle matricole ubriache di triple-sec, mentre lei si sentiva salire alle labbra un irrefrenabile zampillo di rossa schiuma e di morte. Un sangue immenso, seminato di bolli­cine rotonde, le irruppe dal petto e allagò le len­zuola, enfatico, esclamativo.

«Marta, aiutami» gridai senza senso, mentre mi riempivo le mani inutilmente di catini, di asciugamani. Non durò molto, quando tornai a guardarla era morta. E mi venne di cercare dove fosse il coltello, tanti erano attorno a lei i segni di una selvaggia macelleria.

Era morta, questo era ora il suo stato naturale e pacifico. Come se non fosse stata mai altro: di botto impietrita, uccisa e neutra, una cosa.

Mi chinai a pulire con un lembo le labbra che grondavano ancora e mi sedetti accanto al capezzale. Non so immaginare perché. Capivo che avrei dovuto chia­mare qualcuno, gridare, disperarmi. Invece in me c'era soltanto un sentimento di curioso languore, un ingorgo ch’era simile insieme a una sazietà e a una fame, quasi lo spasimo finto che si sente dove prima c’era un arto amputato. E tuttavia trovai la forza di chiuderle i due occhi e di mormorare in quell'atto, non una pre­ghiera, non ne sapevo, ma il versetto di Bibbia trovato fra le carte di padre Vittorio e di cui sentivo ora l'annunzio rifiammeggiarmi nella memoria. Poiché veramente le cateratte del diluvio di Dio rombavano, cantavano in quelle lordate lenzuola, senza che da nessuna colomba potesse venire salvezza.

Infine le volsi le spalle, mi feci alla finestra a guardare il lido, dove non c’era anima viva, salvo quel ragazzo di prima, come mai non era andato a dormire, che giocava con l'om­bra di una barca in secco. Alzai la fronte. Che rotonda moneta, lassù, la luna. E i colori e le ombre che ne piovevano, bianchi e neri di una pelli­cola muta, come davano alla scena l'inverosimi­glianza di una neve sognata. Se­nonché un vento che sopravvenne dal largo cominciò a sve­gliare nella risacca, poco fa così fievole, una voce sempre più mo­notona e alta, di lamentela ferina, che al mio stesso cordoglio rassomigliava. E allora il pianto mi sciolse finalmente il groppo nel petto e mi ricondusse sulle labbra le vecchie cadenze di lutto impa­rate nell’infanzia da grandi contadine vestite di nero:

«Marta,» cominciai «Marta, ascoltami» dissi. «Dove sei ora, Marta, dove cam­mini? In quale notte? Con che nome mi chiami, con che nome devo chiamarti? Ci sono fiumi dove abiti ora? da varcare a nuoto? su passerelle che tremano? E sei sola, o siete tanti, ti ricordi ancora di me? Tornami in sogno, Marta. Anche se l’aria duole sotto i tuoi piedi scalzi, e non trovi labbra per dirmi le parole che vuoi. Guarda come mi lasci in mezzo alla via: una guasta semenza, una sconsacrata sostanza, un pugno di terra su cui casca la pioggia...»

Così in una cabaletta di parole a memora, come era giusto, finiva una storia di palco­scenico, stonata a turno, un po’ da ciascuno, da due moribondi inesperti. Di cui l'uno, mescolando sino alla fine in uno stesso vaso impostura e dolore, pia­gnucolava ora con­tro la notte, mentre l'altra - e quanto sangue capiva in un corpo così pallido - opponeva a quella nenia, di rimando, non so che parvolo invariabile broncio e nient' altro più che il vermiglio del suo vomito supremo. Spensi la luce per cancellarlo, e nella stanza, al chia­rore della luna tornai a cercarla con gli oc­chi: sembrava dormire, come nella cuna d’una illesa natività; e sul cuscino, at­torno al viso che vi posava senza imprimervi segno, tanto era leggero, I‘incurva­tura a elmetto dei mozzi capelli componeva ancora un'aureola quasi di serpi pa­cificate.

«Erebo, Eros, Erinne», lo scioglilingua per Adelmo mi ritornò nel pensiero. Poi­ché or­mai, sull'esempio del Magro, mi buttavo preferibilmente sul classico.

Delle ore che seguirono (che setaccio strano è la mente, come sceglie a caso quando ri­corda!) mi restano solamente fotogrammi a pezzi, una specie di album incarbonito. Non la rivedo più, la cesura di una tela cerata si frappone ogni volta fra me e la sua faccia, esposta sul bigliardo, fra quattro ceri, all'agonia viscosa delle ultime mosche. Ma soprav­vivono, e mi seguiranno per sempre, taluni ritagli d’ironica vivacità: la balbuzie del me­dico condotto, ac­corso dal capoluogo, per constatare il decesso; il foruncolo rigoglioso, malamente fasciato da una filaccia, sul collo del fornitore di cataletti. E risento la sete inestinguibile che mi prese durante la veglia, nel silenzio della notte marina, e mi durava ancora l'indomani, mentre aspettavo che il Gran Magro, il quale al telefono aveva accolto la notizia con una dolcezza che mi parve sospetta, mandasse dalla Rocca qualcuno a ri­portarci a casa, me e la morta. Nella cui borsa frugai poco dopo, quando l'alber­gatore me ne chiese, burocraticamente preoccupato, il cognome, e mi resi conto d'improvviso che a quel Blundo, sotto cui la schedavano alla Rocca, non avevo mai veramente cre­duto. Fu un responso quale da un pezzo temevo, né potevo più eluderlo, quello che il passaporto mi offrì, pescato fra bastoncini di rossetto e lime e fasci di dollari e am-lire: Levi, un cognome da mormorare all'orecchio. Non mi domandai fino a che punto esso quadrasse coi monconi di biografia che sa­pevo o credevo di sapere di lei; e quanto sini­stramente quel bagliore di stella gialla potesse risarcirne il testo. Non era tempo di polizia ma di pietà. E da basso già chiamavano...

Ai funerali di Marta non volli assistere. Bensì al bruciamento delle cose di lei nel forno cre­matorio della Rocca. II Magro era al mio fianco, e insieme seguimmo con lo sguardo le vesta­glie, le babbucce, i tutù della sua cassapanca d'attrice, spinti dall'attizzatoio dell'infermiere a pigiarsi nella cavità del congegno, ardere, crepitare, incenerirsi. Anche un mazzetto di foto, che avrei preteso di risparmiare, seguì la medesima sorte, e fra le molte una - dove era lei sulle ginocchia di ober­leutnant in uniforme, con una dedica dietro «a Garance», firmata Von Tizio o Von Caio – m’inferse una punta di baionetta nel ventre, mentre s'attorcigliava fra le fiamme e il Magro la commentava (essendo che in lui ogni cosa, apoteosi o ro­vina, era sempre dannata a travestirsi in parole di libri) con una cita­zione di cui solo dopo mi parve di poter cogliere il senso:

così s'osserva in lor lo contrappasso.

Di ritorno nella mia stanza mi buttai sul letto a pensare e m’addormentai a tra­dimento, con un braccio serrato sugli occhi. La stanza era scura quando mi sve­gliai. Scura e umida. Guardai fuori e vidi un cielo tanto nero, non capivo cos'era. Quand'ecco un odore che avevo già sentilo prima, senza decifrarlo, entrare nel mio sonno, s’illuminò d’improv­viso, e fu odore di piccola pioggia sull'erba, odore di nebbia, fioca aria di tem­porale lon­tano. Allora uscii sulla veranda e m'affacciai a guardare il giardino. Era buio, il giardino, ma distinsi il lustrare di una cesoia dimenticata nell'erba, percepii la soddi­sfazione delle radici dentro la terra bruna e bagnata. È piovuto, ecco dunque I’au­tunno. Bisogna che parta, mi dissi, troppo tempo ho perduto fra i morti, simulandomi morto, scordandomi dell'ironia. E ri­pensai a un vecchio del mio paese, un Ecce Homo da Venerdì Santo, che paga­vano per mimare ogni anno sul sagrato una posticcia Mort’e Passione. Amava dopo la recita pavoneggiarsi un poco fra la folla nella divisa divina, prima di resti­tuirsi alla sua bottiglia di peccatore feriale. Chissà se è morto, mi chiesi, chissà se la parte è vacante…

Intanto quieta quieta veniva giù di nuovo la pioggia. Io restavo col capo sporto fuori a metà, sotto l'acqua che gocciava dai coppi del tetto, e mi sentivo strana­mente lieto. O pago, piuttosto, mentre guardavo nel giardino il prato imbeversi ancora e l'acqua bat­tere il suo mite alfabeto sulle sedie di ferro rovesce, sul fo­gliame e gli aghi degli alberi. E mi dicevo che l'estate era finita, e la mia gloria insieme. E che di tante febbri, e frasi, e fazzoletti zuppi di lacrime e sangue, per­fino il ricordo presto si sarebbe consumato, una va­canza era stata, una debolezza del cuore che voleva educarsi a morire. Come tutte le grandi pesti, anche questa mia finiva con una pioggia. In compagnia dell'acqua che mi colava dai capelli e mi rigava le gote, il male si scorporava da me, se ne andava. Ma con esso ogni resto d'orgoglio: con esso, forse, la gioventù. Mi attendevano altre strade, do­mani. Facili, rumorose, comuni. Le mezze fedi, le false bandiere. Mi ci sarei ras­se­gnato, che altro potevo fare? Poiché la seduzione del nulla era inutile, rilut­tando il cuore per tanti segni a farsene persuadere. E l’infelicità, col suo miele amaro, neppure essa mi serviva più.


Donata Berra

Di Donata Berra si era parlato già quattro anni orsono, ma oggi ne riparliamo in occasione dell’uscita di una significativa auto-antologia, che riprende buona parte delle quattro raccolte precedenti, ridistribuendo e in parte ritoccando i testi già editi, e con l’aggiunta di una quindicina di testi nuovi. Il titolo è significativo (La linea delle ali) perché sottolinea l’aspirazione della poetessa a librarsi sopra le ingiustizie e le miserie del mondo, per cercare in alto una possibile felicità: non per caso molte delle poesie hanno come protagonisti uccelli o altri animali che tendono verso l’alto, per esempio gli amati gatti. Si riconosce in questo volume (il primo edito in Italia) la vena ironica che ha da sempre caratteriz­zato la poetessa italo-svizzera, il lieve motteggio che colpisce spesso i personaggi maschili nella loro pretesa di superiorità (“maschi [che] millantano meraviglie”). Ed è un’ironia che si trasferisce poi su altri perso­naggi, oggetti e paesaggi quotidiani, di cui Berra sa cogliere con effetti stranianti aspetti inediti e stupefacenti. Possono essere le folaghe che portano “un lieve tocco d’ala / sul cuore”, civette e tassi, gatti sornioni o “grandi uccelli in fuga” che riattivano “la memoria dilatata e scomposta”, i gabbiani coi loro “tuffi ad ali chiuse” o “la lucertola a due code”: un bestiario delicato e variopinto, sul quale lo sguardo della poetessa indugia con simpatia e curiosità.

Accanto agli animali, in una sorta di erbario magico, si ritrovano poi frutti, piante e cespugli (l’elicriso e i “filari d’uva”, le “pigne” o l’erba “docile al fiato”, i fiori “privati dell’unico giorno di gloria”, gli ulivi e i rovi, resina e muschio, scagliola e pimpinella) che da “semplice verzura” si trasfigurano in messag­geri di misteriosi messaggi. Anche qui si può cogliere la fine ironia che giunge a far definire la cor­teccia delle betulle che i castori rosicchiano come “la più saporita”, quasi che anche la poetessa l’abbia assaggiata! Ed è lei stessa in un certo senso a farsi castoro, acero biondo, schiuma e risucchio, alga e medusa: attrice di una recita che affascina il lettore, trasportandolo in mondi impro­babili, dove cercare una risposta che vada oltre il “brusio indecifrabile”, il rumore di fondo della vita.

In questa ricerca di senso, che rischia di essere illusoria, la poetessa brama però sempre il dialogo con un interlocutore, sia pur misterioso (o addirittura già morto, come in Requiem per una persona buona), che le renda possibile continuare a scandagliare la realtà sfuggente della vita. Anche se si tratta sempre di una realtà ambigua e ambivalente, dove amarezza e allegria, fiducia e disinganno, domande e si­lenzi, effimero e sempiterno si alternano senza fine. Ed è qui dove la duplicità della scrittura di Berra si mostra in tutto il suo fascino, perché ai contrasti alto / basso, luce / tenebra, presenti fin dalla prima raccolta, si affiancano ora contrapposizioni che potremmo definire “spaziali”: il dentro e il fuori, il sopra e il sotto, dimensioni metafisiche che moltiplicano lo spazio della vita, indirizzandoci verso un altrove misterioso, “un posto pensato, tra terra e cielo”.

Elicriso

E adesso vieni, entriamo insieme in questo inverno,

sarà stagione di abbandoni e reticenze,

guarda: le ombre che credevamo immaginate,

o risospinte ai margini del bosco,

vòltati: avanzano alle spalle.

 

Vieni, lascia scorrere il tuo corpo

dal vento acre di resina e di muschio,

lascia la scabra pelle rilevarsi

alle carezze mie, come fossi lei,

 

quella per cui fiorisce, e sa di cielo,

-dove tu solo sai, e mi conduci-

il fioco fiore giallo d’elicriso.

Corallo

Scende al mare, s’immerge,

                                   come fosse

dissolversi

                                   non più chiamarti

                                   non più saperti…

 

Valli marine, smeraldi ghiacciati,

rocce vergate d’arancio,

muschi ventose bocche

giù sempre più sotto fino

alle isole sommerse,

 

il corpo sempre più bianco, ma

su tutto il liscio della pelle

le tue mani, ancora,

schiuma e risucchio,

succo salino…

                                   allora

 

entra, infrangi

lo scudo splendente del mare

tu donna tu alga medusa lunare

vibratile opalina orlata di viole

trafitta per sempre

dal rosso sperone di corallo.

Omaggio

Era un passaggio veloce di folaghe

non era la tua voce che smoriva,

o non ancora: l’ombra nera

ha posto solo un lieve tocco d’ala

sul cuore, che sa il vortice del volo.

Acero

No, perché? Era un giorno come gli altri,

segnato sullo stesso calendario

di una data qualunque.

 

Ma verso sera

sul piccolo, remoto palcoscenico

di una piazzetta fuorivia

 

si è aperto un sipario d’aria purpurea

ed è salito sulla scena,

emozionato per la recita

 

e vibrante d’attesa, come chi aspetta

il cenno del maestro di ballo

per un ultimo, rapido inchino

 

il vecchio acero biondo,

laccato d’oro

dai raggi del sole al tramonto.

 

E tu lo guardi, allora, come

non più il tempo tuo

vi portasse un domani.

Di notte, nel bosco

Sei venuto di notte

la faccia splendente dell’amore.

 

Tu parli, e nel bosco

si fanno velluto le ombre

sotto gli occhi attenti delle civette.

 

Io guardo altrove, ma nel buio

si accende il ricordo ai filari d’uva

dove nel corso del lungo pomeriggio

i grappoli si sono inzuccherati al sole.

 

Tu ridi, e i tassi nel folto del bosco

si attestano in posizioni più sicure.

 

Al sole del caldo pomeriggio

le pigne crocchiando si sono spaccate,

io ho raccolto i pinoli

li ho ordinati in fila ad uno ad uno.

 

Tu guardi, e mille occhi si accendono,

sguardi inquieti posano su di te.

 

Io cerco una scusa, un’attenuante,

ma dalla memoria dilatata e scomposta

mi risponde un brusio indecifrabile.

 

Tu chiedi, e la tiepida notte

si strappa in nastri di lutto, ali

di grandi uccelli in fuga

sfrangiano l’aria, mentre

inesorabile mi possiede

il corpo vischioso del diniego.

Requiem per una persona buona

Per la sete dell’erba, spossata

dalla mano feroce del sole,

per la sete dell’erba piagata, e i suoi fiori

 

privati dell’unico giorno di gloria

che loro era stato accordato

dal sempiterno giro delle stelle,

 

per quell’erba, docile al fiato che la spegne

e che nessuno mai coglierà

mai nessuno raccoglierà il suo perdono

 

per quell’erba e i suoi fiori io so che allora

quando ritagliavo il tuo annuncio di morte

stavo attentissima a seguire con la lama

il nero segno sottile

 

del margine, a sfiorare il segno, non inciderlo,

non intaccarlo, non intersecarlo

non tagliare dentro lo spazio circoscritto,

perdonando quei limiti.

Fuga

                                 a Gianna

 

Varcare dosso a dosso le colline

lungo muretti a secco, ulivi, rovi

finché si apre il golfo, riappare

la luce metallica del mare

e abbrunano ramati gli angiporti.

E dentro, dentro, che ne brucia l’ora

dentro fra gli altri ai tavoli dei bar

con gli occhi fissi all’indaco del fondo

che spiano l’avanzare della sera:

dentro fra i suoni fra gli stridi sbiechi

e i tuffi ad ali chiuse dei gabbiani

che pescan pesci sottopelle all’onda,

con gli occhi fissi dentro al fumo nero

della nave che salpa: eppure, ancora

no, non ti strappi all’unghia della notte.

Tu

E tu sei padre e figlio,

sei chi mai viene e poi

non sei più nulla

nell’ultima mia

scialbatura di memoria.

Frati

I frati piantano melissa nel chiostro riparato,

attendono la fioritura nei chiusi conventi.

Ricavano dai fiori un elisir per contrastare

col tenero dei boccioli e delle foglioline sessili

alla dovizia notturna (e diurna, anche: orante)

di stati di angoscia, ansia, cedimenti di nervi,

emicranie e battiti del cuore, ma irregolari.

Dicono: che serva anche contro il mal di donne.

Se ne colgano i petali labiati, molteplici, bianco pallido,

a infiorescenza glabra, unisessuati, dalle ligule molto corte.

Appaiono in estate, l’uno accanto all’altro, sugli pseudoverticilli.

Delle peculiari potenzialità del fiore si erano accorti

già molto tempo prima gli arabi: gli infedeli.

Frati

Andavan compitando per analogie

il mondo e i suoi effetti, loro inclusi

non meno, ché nel chiostro la dogliosa

fabulatoria dell’origo generis

che palpeggiava intorno alla matrice

si producesse nel contorto collo

del mostro inciso dentro al capitello.

Torcevano le membra pur sapendo

che la scrittura è germe dell’inconscio

eppure si ostinavan con protervia

nel disegnarli sempre a fargli l’ali.

Scrivevano in inchiostri rossi e d'oro

e debolmente rimediavano

al divino disordine.

Nodi

No, tesoro, grazie, i nodi

lasciali sciogliere agli altri, io

per me, camminando qui al lungofiume

dove crescono scagliola e pimpinella

(semplice verzura, sai), qui dove

rosicchiano di notte i castori

la corteccia alle betulle (senza

confronto, credimi, la più saporita) e dove

ancora passa, se sei fortunata,

la lucertola a due code, che subito

sparisce per improvvisi gomiti, fratture,

 

io, per me, immedesimandomi, spero

che abbiano, i nodi, anche loro

un posto pensato, tra terra e cielo.

Ortensie

Il tempo passa, dicevi, resta

l'odore mielato dei rami

al riparo dal sole: l’ombra

delle ortensie azzurre dove

il primo giocare era da te

nascondino, ma qualcuno sempre

si incaricava di svelare me

e che la natura

è refrattaria alla metafisica.

Zolfo ci vuole per il blu dei corimbi:

questo so ora, che non voglio

nessuno mi cerchi:

per quel che vale

restar dentro a pensare.

Sommessamente

Non con trombe alte e tese

splende l’annuncio: l’angelo

è meglio raccolga i lembi

della lunga veste,

sieda e riposi.

Sommessamente nasce

la voce, solo, se mai, per sottrazione.

Vedute bernesi IV

E scendono i sentieri

tra vasi di gerani rosa

tra giochi di bambini

secchielli palloncini strilli

da ridere giù per le altalene, e proprio ora

calma la voce dice "oggi

hai già dato da mangiare al gatto?"

mentre come allora

scorre sontuoso il fiume verso Köln.

Vedute bernesi VII

Insomma lèvati se vuoi uscire

a che serve star dentro sonnecchiando

scendi agli umori, ingaggia marinai

salpa ancor oggi e poi

appena il vento infila

il piancito del ponte e incinge

alla vela di rada una gran pancia

esci, anche a sbalzo, e dillo

dillo questo nome.

[E andando lasciava la nave sul liscio dell'acqua]

E andando lasciava la nave sul liscio dell'acqua

un nastro a ricciolo largo,

allucciolato d'oro,

ricolmo di liquide stelle

inghiottite dall'onda e sempre riaccese,

e spumiglie e fiocchi di mare

emblemi di specchi ritorti

sparenti e riapparsi poi sciolti

in barbagli, in scaglie di luce;

e lasciava, la nave

il lungo profilo del suo lento passare,

e del nostro, più incerto,

a memoria di mare scritta serrata, ma poi

appena stretta la cima alla bitta, la nave

viene solo richiesta di pronta consegna

del pesce pescato

ai camion del ghiaccio.

Questioni. II

Dopo tante maledizioni

sapersi persi, non cedere

lasciando l’ultima riva

giocarsi tutto rischiare

compromettere la salvezza

esasperati di stare all’oscuro

spingere a fondo la domanda

che ci riguarda

ché di altro non sapremmo chiedere

e prendere atto piano piano

di una nota scura

cupa insistente

come di bordone

era la voce di Dio che diceva

è niente.


Grazia Frisina, una sfida al nichilismo

Nata in Sicilia e vissuta a lungo a Torino, Grazia Frisina è stata insegnante di Lettere, dal 2000 a Quarrata, nel cuore della Toscana, dove ha voluto trasfondere nei suoi alunni «l’amore per la poesia come sollecitazione dei sentimenti». La poesia è per lei infatti «sfida al nichilismo, alla depressione, a quelle Erinni, quelle oscure malie, che tentavano la mia anima».

Via via nel corso degli anni questa sfida ha prodotto memorabili raccolte poetiche, da Dell’imperfetto sentire (2006) a Foglie per maestrale (2009), da Questa mia bellezza senza legge (2012) a Innesti (2016), da Pietra su pietra (2021) fino al recentissimo Avrei voluto scarnire il vento (2022).

In quest’ultima raccolta sono raffigurate trentadue figure femminili tra mito, storia, religione, letteratura e arte: un gineceo immaginario che propone, col solo nome di battesimo, donne diversissime, unite però dal comune anelito ad esprimersi in libertà, a rivelare i propri traumi e i propri successi, la propria sensibilità e intelligenza.  Non tutte sono esistite nella vita reale, non tutte sono famose, non tutte hanno lasciato un segno significativo nella vicenda umana: ma tutte hanno interpellato l’autrice («per me hanno avuto una loro significanza, profondamente calate nel destino umano») e ne sono state interrogate in profondità, fino a rivelare aspetti inattesi della loro personalità. Sono scrittrici come Virginia Woolf, Etty Hil­lesum, Alda Merini, Saffo; artiste come Frida Kahlo o Camille Claudel; donne del mito o della letteratura come Persefone e Dulcinea, Penelope e Filomela; figure dall’esistenza oscura come Baba, la domestica di Segantini, o la babysitter Vivian Maier, autrice misconosciuta di splendide fotografie.

A loro la Frisina ha dato voce facendo in modo che ognuna potesse raccontare la propria storia, la propria singolare essenza femminile, il difficile rapporto avuto con la società ma­schilista del tempo, i tentativi di ribellione e di riscatto, l’interiorità sofferta, le angosce e le gioie. «La donna – afferma la poetessa - nella società è meno valorizzata. Con i miei testi dedicati a donne che sono state famose nella storia, magari perché hanno avuto delle op­portunità, voglio dare un omaggio al valore delle donne nel silenzio della casa, che restano nell’ombra ma spesso sono artefici di trasformazioni invisibili».

Nell’ultimo testo della raccolta, poi, il pronome di prima persona singolare svela la pre­senza dell’autrice stessa, che si pone accanto alle altre donne per continuarne la stirpe, per riconoscere in ognuna di loro un frammento della propria femminilità.

Particolare è la cura formale che la Frisina dedica ai testi, nelle scelte lessicali che tendono al neologismo, nell’alternanza della persona verbale da testo a testo, nella variazione della focalizzazione, nell’architettura sintattica e strutturale della raccolta.

Marianna

Non sono che una parola
da divenire – io

Grumo d’insembianze
racchiusa nel bozzolo di un senso
protesa al concepimento

Io sono spigolatura di alfabeti
sillabe fonemi da intagliare
con pugnali persuasi
nell’aria – Per dire per cantare
Da sommare a storie di venti
a granelli di sale
da sciogliere nel ritmo del sangue
da traversare sopra un assolo di goccia

Io sono la parola che invento

Parola carnale – solletico dell’anima
Parola da toccare con polpastrelli insonni
da morsicare tra i denti della solitudine
da mescere alla saliva di tutte le cose
da spingere sull’altalena dei giorni
da annegare come abisso
da liberare come fuga

Non sono che nessuna parola
– io

Sylvia

Capo chino
L’america è là squillante
fuori dal vetro – prossima e nemica

Occhio puntato
come chi voglia scandagliare
come chi dal microscopio non desista
lei scrive – Visioni scrive

Scrive lei tallonando
le ore e le ansie – insieme
lunghi righi – vie d’accesso
alle impraticabili miniere

quarzite osso elettrizzato shock
shock shock shock
lampi che bucano il cranio

Lei scrive
per capire
come sotto le cellule
s’accalchino incanti e spaventi
brame e schianti
per scoprire
dove avviene la germinazione
di quei tortuosi sonnambuli pensieri

che come pipistrelli strapparono
le trecce alle biondebimbe
e succhiarono come vermi il miele
tutto – nelle arnie delle madriapi

tanto da morirne – in un febbraio
livido – senza conforto

Con minuzia d’archeologo
setaccia lei polvere di parole – scava
dal pozzo il gorgoglìo lunare
il cristallo dal precipizio dell’insonnia
dalle viscere il vagito sommerso

Per l’urgenza scrive
– per placarla

Alda

Io – è vero – non sono stata

né montagna

né acquapiovana

 

Una cenciosa faccenda

invecchiata con la vanità

della rosa discinta

            dal gemito maturata

 

Un rammendo non facile

a slabbrare

            punti fittifitti

il cui filo lo strappo cuce

ricuce ric-ama

sotto il rovescio

d’una parola possente

 

Tra passato e presente

nell’ordito dei giorni

ne ho perse scommesse

ma ho anche rinvenuto

il coraggio di essere

splendore d’insania

 

Il mio erratico rammendo

 - sappiate

sconfinante quasi

da ciò che ho traversato

Saffo

Un’illecita vibrazione

spalmò il rossetto

di baie e poesie

sopra un bacio

senza causa – D’amore

totalmente intriso

 

Il sole seduceva la sabbia

che sfavillava

nella ragnatela di fiati e seni

 

In tal modo al mondo

rivelai l’indecenza

della mia sostanza

Marie

                       e tu Anne – lavandaia di Sauve
                       il tuo soffio batti sulla pietra
                                                 
Résistez

Calò sopra la nostra fede
il tuono di un giudizio
rimbombò di ferri la notte
In questo duro utero di torre
Dentro noi – Figlie e sorelle
L’una per l’altra madre

                       e tu Isabeau – filatrice di Pranles
                       tra le crepe tessi fili caparbi
                                                  
Résistez

Se dalla nicchia del lamento
spirava un lugubre di resa
la faccia ai calabroni voltavamo
alle sentinelle al gelo venuti
a succhiarci il sonno e la nostalgia
Fra noi l’alleanza illesa rispose

                       e tu Jeanne – sarta di Saint-Georges-les-Bains
                       a punto fiorito cuci sull’orlo dello sconforto
                                                          
Résistez

Di riflessi tremava la cella
quando dalle feritoie il sole
col suo salmo consolava d’alleluia
e noi appresso a lui non ci spegnemmo
Non ai sinedri bensì al Signore
al silenzio e ai figli s’espresse il cuore
                   
                       e tu Suzanne – venditrice di fiori di Nîmes
                       il tuo richiamo di lavanda nell’aria ricomponi
                                                           Résistez

Ritte in piedi di noi restava il torto
questo esserci con le mani indivise
quel travalicare tutte le lacrime
Le grate rompemmo avendo occhi
di pioggia sciamanti verso pascoli
a venire – ove dissetare il riso deposto
                      
                       e tu Marie – moglie del mercante Michel
                       lo spago slega attorno ai polsi
                                               Résistez

Lo spazio percorso fu di giorni qualsiasi
le vite nostre qualsiasi – Nient’altro
che un rotondo cintato di pallori
d’ombre partigiane – No tuttavia
no dicemmo – Mai ci ripiegammo
né ci bagnammo nella macera fonte dell’abiura
                   
                       e tu Françoise – contadina di Privas
                       le zolle delle ore cadute solca e semina
                                                  Résistez

La scure del carceriere
non sbiancherà l’incendio della rosa
non innalzerà più steccati ai voli
Daranno frutti le nostre ossa
come ciliegi in estate – Come
agli uccelli il saluto mattutino

                          Marion Jaquette Marguerite Elisabeth
                                               
Résistez

Noi siamo il canneto che rinasce dalla palude
al di là di questa sepoltura di secoli sale
a un vento più forte di libere nuvole

Baba

Io non so

chiedermi

io non so dire

qual è il silenzio che dal serto dell’alpe

s’allunga sino all’orizzonte

dove s’aggruma il mio presente

e ogni bisogno o fatica

in pula si disfa

piccolissima e vana

 

In questa vastità

sta la mia vita

Così disadorna

Così sacra

 

Sta

come se l’Eterno

in altro modo giacesse

respirasse accanto

in confidenza

Rovesciato addosso

con lo smalto del cielo e dell’erbe

a in

            cantarmi

a disvelarmi

nel ruminio buono di tre pecore

la Devozione alla

Lenta

Rotazione

Delle Cose

Psiche

Attendo che

l’anca stanca del tramonto

non s’attardi troppo sull’orma dell’ombra

                                   che in seno batte

 

Più amabile è questa sulfurea flemma

che la baldanza della strada

                                   là fuori

dove balordo è ogni lampione

che il nettare depreda

alla prima luna

 

Ma ecco che giunge

Giunge e sussurra

 

D’un Notturnale Evento

a me sussurra

un’inviolata mano di raso

 

Non so come abbracciarlo

ma è

l’ondosa sua fantasia

a fasciarmi

tutta

gioiosamente

i sensi spalancare

 

Di vertigine m’insemina

ogni sua carezza

Caverna ove pulsa il mio incendio

Ansa stretta allo sconoscimento

 

Di sogno – Amore – a notte

sei mia carne

Amelia

………………………………..

         e –                      sciolti
dalle pastoie i malleoli
con un balzo di gatta
dal suolo mi stacco
………………………………..

          via! su! via!
           cabrando

Cosce a mezz’aria
            alta altissima
            in solitaria
            sulla rotta di nuvole
            senza destinazione
Con l’esile piumaggio dei pensieri

Una rosa dei venti
fluttuante tra i capelli
Un mannello di stelle
polari in brusio sottopelle

Niente adesso m’è affanno
quello che prima era fragore
guerre brandelli covo di ferocia
ora in basso è solo un’inerme
afflosciata zitta giostra

Tradendo gravità e correnti
azzardando oltre le quote dei monti
trasvolate e peripli
impensate orbite
per una volta

     sola
sono
a vedere in giù la Terra
           Mio Belvedere da quassù
           Biglia nel blu
il pianeta roteare rot
eare rotea
re

in placenta d’immenso
        s
          g   u
            a      z
                             zare

Me

Fui più volte

Emily Marina Sylvia

Elizabeth Anna e Virginia

 

Mossi incontro

a quelle elette stanze

senza bussare

 

M’apparvero

vestaglie sonnambule

andare in assoluta bellezza

con candele d’indugio

su libri lettere e quaderni

aghi e filtri di tè

fra casalinghi cicalecci

e specchi alchemici

 

Fra esse – nate per le comete

ero – non vista

gomito a gomito

felice straniera

Ragazza col cuore increspato

A tanta ronda perpetua

di parole – affiliata

devota

 

Imparai da loro a rintoccare

con voce di sciabola

il disordine che passava

giù per le costole

a levigare le ore con l’insolenza

di qualche verso caparbio

 

Poco importa se ora

ho sottili cartilagini

passi imprecisi

friabili arresi

impaludati nell’inciampo

se non so più scovare

in estate le tracce delle api

vorticose fra i papaveri

 

Poco importa se ora

resto muta

 

Allo specchio mi guardo

Grazia imbiancata

Senza ornamenti

Occhi che galoppano

ancora

 

Sono tortora

fronda di betulla

A loro – Menadi sciamanti

in gonne di rose

sorellamente legata

 

a quella stessa stregata

luna

che oscilla in secchi

insonni d’echi


 Le donne “disegnate” in queste poesie con il solo nome sono: Marianna Ucria, sordomuta figlia di un nobile siciliano prota­gonista del romanzo di Dacia Maraini La lunga vita di Marianna Ucria (1990); Sylvia Plath (1932-1963), romanziera e poetessa americana moglie del poeta inglese Ted Hughes; Alda Merini (1931-2009), poetessa milanese che visse lungamente in manicomio; Saffo, poe­tessa dell’isola di Lesbo vissuta tra VII e VI secolo a. C. e creatrice a Mitilene di una comunità femminile devota ad Afrodite; Marie Durand (1711-1776), ugonotta che a causa della sua scelta religiosa rimase in prigione ad Aigues Mortes dai 18 ai 56 anni; Barbara Huffer, «Baba», giovane domestica e modella del pittore trentino Giovanni Segantini; Psiche, figura mitologica amante di Eros; Amelia Earhart (1897-1937), famosa aviatrice statunitense che nel 1932 ef­fettuò la trasvolata dell’Atlantico in solitaria e nel 1937 scomparve misteriosamente nell’Oceano Pa­cifico mentre tentava il giro del mondo in aeroplano. Nell’ultima poesia, intitolata Me, Grazia Frisina si identifica infine con alcune poetesse amate: Emily Dickinson, Marina Cvetaeva, Sylvia Plath, Elizabeth Barrett Browning, Anna Achmatova, Virginia Woolf.

Milo da Angelis, poeta e traduttore

«La parola poetica è una parola non ritrattabile, una parola d’onore. È una parola che nutre mescolandosi alla parte più vulnerabile di ciò che siamo (il sangue) ed è al tempo stesso la vita e la morte. Credo che tale parola nasca insieme a noi, fin dall’inizio, che si annidi in qualche parte oscura di noi e che a noi spetti il compito di tradurla, letteralmente: extra ducere, condurre fuori, permettere la sua vera nascita, l’ingresso nel tempo umano».

Queste parole indicano con chiarezza ciò che pensa Milo De Angelis (nato a Milano nel 1951) della sua attività di poeta, che nel 1976 lo vede esordire giovanissimo (ma già perfettamente padrone della lingua poetica) con la raccolta Somiglianze, sorta di canzoniere amoroso che scandaglia il disagio e l’inquietudine di un giovane uscito dal Sessantotto; tematica ripresa nel 1983 con Millimetri, rac­colta di ventinove poesie dalla stupefatta sentenziosità.

A partire da Terra del viso (1985), e poi con Distante un padre (1989) e Biografia sommaria (1999), inizia ad avvertirsi una tendenza a distendere la misura dei testi, fino al vero e proprio poemetto, mentre permangono riferimenti all'adolescenza, che si affiancano alla celebrazione del gesto sportivo, tema che sarà d’ora in poi particolarmente caro al poeta.

Ma la raccolta più significativa giunge all’inizio del nuovo secolo: Tema dell'addio (2005), dedicato alla prematura scomparsa della moglie, dove il poeta è forzato ad affrontare i temi universali della malattia e della morte. Il distacco e l’addio, dopo un lungo cammino di comunanza, dopo la condivisione di gioie e dolori, inducono nel poeta memorie, emozioni, riflessioni, lo fanno indugiare fra illusioni di tregua e drammatica sensazione di impotenza, tra resistenza e devastazione.

Nel 2015 esce Incontri e agguati, dove ancora la presenza della morte invade l'io lirico in una lotta senza quartiere. Recentissima è infine Linea intera, linea spezzata (2021), raccolta con la quale De Angelis compie la sua descensio ad inferos, rievocando luoghi, amici, amori perduti.

I temi della poesia di De Angelis sono stati efficacemente sintetizzati in una nota critica di Daniele Piccini che così li identifica: «Il gesto atletico perfetto e fulminante, le presenze modeste e insieme oracolari, gli anni del liceo e le loro sconfinate promesse, i nomi legati ai luoghi coessenziali della poesia dell’autore (prima di tutto Milano ma anche il Monferrato)». A questo elenco si potrebbero aggiungere tematiche quali l’adolescenza, il ritorno e il destino; il rapporto tra l’io e l’altro, tra tempo e istante; e infine il tentativo di rappresentare la «dimensione del vuoto, del nulla, del niente», quella «sete d’infinito che la poesia conosce bene perché le appartiene fin dall’origine».

All’attività di poeta De Angelis ha da sempre affiancato quella di traduttore: dal francese di Racine, Baudelaire, Maeterlinck, Blanchot, Drieu La Rochelle, dal greco di Eschilo e dell'Antologia Palatina, dal latino di Virgilio, Claudiano e Lucrezio. A quest’ultimo in particolare ha dedicato “una lunga fedeltà” (come direbbe Contini), per una consonanza che nacque sui banchi del Liceo e lo ha accompagnato fino alla recentissima traduzione edita da Mondadori nell’aprile 2022. Per lui tradurre è entrare in sintonia, essere ospiti di un poeta e di un’epoca, e a vicenda ospitare nella propria epoca e nel proprio linguaggio quello che diventa un amico, un compagno di strada. «Tradurre significa questo, significa protrarre la finitezza di un incontro, farle oltrepassare le contingenze della sua giornata e aggiungere una tappa al suo cammino, trasportarlo nella nostra pagina e diventare il guardiano della soglia, vigilare che sia fruttuoso il passaggio da un’epoca all’altra. Ma perché avvenga questo passaggio, occorre ascoltare a fondo il respiro della scena tradotta, sentirne le pulsazioni, il battito cardiaco, il desiderio di prolungare la propria esistenza e pulsare in un luogo diverso dal suo, lanciarsi oltre la propria attualità, poter essere ascoltato da tutti e dovunque, da questa epoca e da quelle che verranno, in una sete d’infinito che la poesia conosce bene perché le appartiene fin dall’origine».

 

Largo pomeridiano

Ora che le canoe attraversano il fiume
movimenti
nel sole festivo, mentre lo sguardo
si chiude sulle ragioni

dove questa morte non è solo svanire
ma insieme, un poco, esserci
alla periferia della gioia
che si apre, reca l'offerta
leggera al brillare di una goccia
ed è escluso il commento
quando le rive al mattino
portano la loro forza
messaggera di un nome, in ascolto,
e traducono la volontà del corpo, la carezza imminente
guardare vivendo qui
la stagione intatta
che ha un tempo per durare
ma spinge più in là
non fruga nelle macerie e chiede
una scrittura inosservata.

La luce sulle tempie

Che strano sorriso

vive per esserci e non per avere ragione

in questa piazza

chi confida e chi consola di colpo tacciono

è giugno, in pieno sole, l’abbraccio nasce

non domani, subito

 

il pomeriggio, i riflessi

sui tavoli del ristorante non danno spiegazioni

vicino alle unghie rosse

coincidono con le frasi

questa è la carezza

 

che dimentica e dedica

mentre guarda dentro la tazzina le gocce

rimaste e pensa al tempo

e alla sua unica parola d’amore: «adesso».

La frazione

Eppure era per la gioia.

Le luci tremano, nella vetrina,

e vorrebbero entrare in un significato.

Qui è impossibile

legare i minuti a qualcuno:

il tempo non si accorcia

con un progetto,

tutto ha la sua lunghezza.

Non coincide con ciò che pensa, non può.

Eppure era per la gioia

troppo viva per non crederci. Prendeva

con le mani amori e amori

che si convertivano in uno solo.

 

Appoggiata al vetro

una fronte gelida

(“farò della mia vita una porcheria”)

mentre una radio parla

lingue sconosciute

e nessuno dice il significato

che forse uscirà, a distanza, controvento.

Nei polmoni

La coperta, la sua forza, mentre crescevamo.
O gli occhi che ieri furono ciechi,
oggi tuoi, ieri l’inseparabile. Le fiale,
il riso in bianco diventano l’unico
mondo senza simbolo. Materia che
fu soltanto materia, nulla che
fu soltanto materia. Vegliare, non vegliare, poesia,
cobalto, padre, nulla, pioppi.

Telegramma

La finestra è rimasta come prima. Il freddo
ripete quell’essenza idiota di roccia
proprio mentre tremano le lettere di ogni parola.
Con un mezzo sorriso indichi
una via d’uscita, una scala qualunque.
Nemmeno adesso hai simboli per chi muore.
Ti parlavo del mare, ma il mare è pochi metri quadrati,
un trapano, appena fuori. Era anche, per noi,
l’intuito di una figlia che respira
nei primi attimi di una cosa. Carta per dire
brodo e riso, mesi per dire cuscino. Gli azzurri mi chiamano
congelato in una stella fissa.

Donatella

La danza fiorisce, cancella il tempo e lo ricostruisce
come questo sole invernale sui muri
dell’Arena illumina i gradoni, risveglia insieme agli anni
gli dei di pietra arrugginita. «C’è Donata De Giovanni?
Si allena ancora qui?» «Come no, la Donatella,
la velocista, la sta semper de per lé.»

Mi guardava fisso, con l’antica dolcezza milanese
che trema lievemente, ma sorride. «Eccola, guardi,
nella rete del martello…la prego…parli piano…
con una mano disfa ciò che ha fatto l’altra mano.»
“chi è costui? Un custode, un’ombra, un indovino…
quali enigmi mi sussurra?” Si avvicinò
a Donata, raccolse una scarpetta a quattro chiodi.
«La tenga lei, signore, si graffia le gambe…
…povera Donata…è così bella…lei l’ha vista…»

«Forse il punto luminoso della pista
si è avvitato a un invisibile spavento, forse
quest’inverno è entrato nella gola insieme al cielo:
era sola, era il ventuno o il ventidue gennaio
e  ha deciso di ospitare tutto il gelo»

«O forse, si dice, è successo quando ha perso
il posto all’Oviesse, pare che piangesse
giorno e notte…per non parlare di suo padre…
i dottori che ha chiamato…mezza Milano»

«Io, signore, sbaglierò, le potrà sembrare strano
ma dico a tutti di baciarla, anche se in questo
quartiere è difficile, ci sono le carcasse dell’amore
c’è di tutto dietro le portiere. Sì, di baciarla
come un’orazione nel suo corpo, di baciare
le ginocchia, la miracolosa forza delle ginocchia
quando sfolgora agli ottanta metri, quasi al filo
e così all’improvviso si avvera, come un frutto»

«Lo dica già stasera, in cielo, in terra, dappertutto,
lo dica alle persone di avvicinarsi: ne sentiranno
desiderio – è così bella – e capiranno che la luce
non viene dai fari o da una stella, ma dalla corsa
puntata al filo, viene da lei, la Donatella».

La stessa voce

La stessa voce asfaltata, la stessa

ferita dei secoli che qui non parlano

la stessa donna che respira

nei primi attimi di una cosa, una vita, una

voce ci addita, impronta digitale, impronta

divisa in grida, come un chilometro

nell’intervallo spalancato tra le tempie

come una primitiva

sostanza esterrefatta, chiedeva come

è accaduto amore mio, come

mai, come mai.

Vedremo domenica

Tutto era già in cammino. Da allora a qui. Tutto
il tempo, luminoso, sfiorava le labbra. Tutti
i respiri si riunivano nella collana. Le ombre
di Lambrate chiusero la porta. Tutta la stanza,
assorta, diventò il primo battito. Il nero
dei tuoi capelli contro il giallo dell’ultimo raggio.
Da allora a qui. Era il primo giorno dell’estate.
Il silenzio ci riempiva la fronte. Tutto era
già in cammino, da allora, tutto era qui, unico
e perduto, nostro e remoto, ardente. Tutto chiedeva
di essere atteso, di tornare nel suo vero nome.

Scena Muta

Eri l’ultima
donna della vita, eri il temporale
e la quiete, il luogo
dove la luce è insanguinata
e il sangue fiorisce: pochi minuti,
pochi metri, sempre lì,
nel cemento che parla, nella città
degli amanti, nel silenzio
dei lavandini, il bacio
avvenne
e noi non abbiamo
voluto più uscire.

Si muore così, all’ingresso
di una scuola, un cerchio perfetto.

Hotel Artaud

Quando su un volto desiderato si scorge il segno
di troppe stagioni e una vena troppo scura
si prolunga nella stanza, quando le incisioni
della vita giungono in folla e il sangue rallenta
dentro i polsi che abbiamo stretto fino all’alba,
allora non è solo lì che la grande corrente
si ferma, allora è notte, è notte su ogni volto
che abbiamo amato.

Milano era asfalto

Milano era asfalto, asfalto liquefatto. Nel deserto
di un giardino avvenne la carezza, la penombra
addolcita che invase le foglie, ora senza giudizio,
spazio assoluto di una lacrima. Un istante
in equilibrio tra due nomi avanzò verso di noi,
si fece luminoso, si posò respirando sul petto,
sulla grande presenza sconosciuta. Morire fu quello
sbriciolarsi delle linee, noi lì e il gesto ovunque,
noi dispersi nelle supreme tensioni dell’estate,
noi tra le ossa e l’essenza della terra.

Per Viviana Nicodemo

Ho saputo, amica mia,
che sei stata in un limite. Anch’io
negli intervalli di una sola e grande morte
dormivo tra i casolari
dove si raccolgono d’inverno
con la parola disunita e il fitto
delle idee: entrava
un profumo di uva passa e la neve
dell’incontro ha percepito
la mia notte nella tua.

Quando su un volto

Quando su un volto desiderato si scorge il segno
di troppe stagioni e una vena troppo scura
si prolunga nella stanza, quando le incisioni
della vita giungono in folla e il sangue rallenta
dentro i polsi che abbiamo stretto fino all’alba,
allora non è solo lì che la grande corrente
si ferma, allora è notte, è notte su ogni volto
che abbiamo amato.

Sala Venezia

Qui tutto diventa veloce, troppo veloce,
la strada si allontana, ogni casa sembra una freccia
che moltiplica porte e scale mobili e allora hai paura.
Senti i tuoi passi in migrazione,
vuoi rallentare, hai paura
e allora entri in questa sala di via Cadamosto,
saluti gli ultimi giocatori di biliardo,
pronunci lentamente un commento preciso sulle sponde
o sull’angolo di entrata, fai una piccola scommessa
e sorridi e ti acquieta il panno verde
come un prato dell’infanzia, ti acquietano i bordi
di legno che ora contengono il tuo evento
e la forza centripeta conduce l’universo
in un solo punto illuminato.

Dal balcone

Dal balcone dell’ultimo piano ora guardi
la città notturna, l’infilata dei grattacieli che sembrano
una barriera corallina e intorno i vecchi palazzi
con i tetti impolverati, le chiese romaniche, le colonne,
un concilio segreto di secoli che si parlano sottovoce,
sussurrano al tempo di fermarsi e diventano
la scorza staccata dal suo tronco, ciò che resta
dell’infinita moltitudine in cui sei immerso anche tu,
e guardi lì sotto il bar aperto, l’uomo con l’impermeabile
mentre racconta una storia sempre uguale
alla ragazza vestita di rosso che beve
dallo stesso bicchiere e sorride lievemente.

Per l’Adele

“Vedi, giungono da un’altra mente,
le parole, una mente lontana che abitava
nel miele delle arnie e tra i fili
del ragno sul soffitto. Arretrano le nostre stagioni,
i passi diventano aria, sfumano gli orizzonti
del viso, nulla ci appartiene se non questo foglio
popolato di demoni.”

“Vedi, scrivo con mani di rugiada e diventa sottile
il confine tra la gioia e il grumo più buio, tra il rubino
della tua prima collana e il mio miraggio
ogni pietra prende il colore del mattino.”

“Prendilo tu,
questo fazzoletto che sa ancora di vaniglia, accendi
il rogo delle mille estati trascorse, con il tuo gesto
musicale conduci il rosa tenue
dei Castagnoni negli anni che sono rimasti
fuori dalla morte.”

“Tu che hai sentito scomparire il mondo
dentro un colpo senza origine, tu che sei stata
un puro gemito tra le verbene, stamattina appari
in una tazza di latte e la tua pupilla trucidata ricomincia a vedere, a poco a poco,
raggiunge la dolce cantilena di un dialetto contadino
che pronunciamo per l’ultima volta.”

Piscina Scarioni

Lo stile è sempre quello, da pura delfinista, la gambata

subacquea e potente, il corpo che disegna un movimento

ondulatorio, la respirazione frontale, la virata

sempre più perfetta a ogni allenamento, il minuto

da non superare.

E proprio lì, sui blocchi di partenza, la raggiunsi e le diedi

la notizia. Sorrise e mi disse soltanto “dovevi ritornare…

solo io… solo noi ti abbiamo atteso così profondamente”.

“Dovevo ritornare, lo so, ma non per te, mia invincibile amica,

e nemmeno per le vostre voci ritrovate... dovevo tornare

per un oscuro richiamo dei luoghi, per questo

rettangolo azzurro e per i suoi cinquanta metri

che innumerevoli corpi percorrono, per il tuffo

che illumina laggiù la piattaforma e il doppio avvitamento

sospeso nell’aria e nel brivido del tempo, per conoscere

ciò che mi aveva già conosciuto.”

L’ora inestesa

La serietà della morte ci ha accompagnato per tanti anni
con le voci interiori che all’improvviso esplodevano
l’abbiamo portata con noi nei supermercati e negli uffici postali
compilando moduli con una mano fuori dal tempo, l’abbiamo
taciuta per tanti anni tra i banchi di scuola e il campanello
dell’ultima ora, l’abbiamo taciuta per tanti anni
mentre gridava nel verde potente di un biliardo, l’abbiamo
sentita nella stretta musicale di un abbraccio, la serietà
della morte, ora ci attende con le sue mani oscure e un fermaglio
di legno nei lunghi capelli e ora usciremo dal teatro
e cammineremo da soli nel buio fino al luogo cruciale,
fino alla casupola vicino al fiume, dove finiremo
attenti a non sporcare nulla di sangue,
costringeremo il nulla a svelarsi.

Giovanna Sicari

Giovanna Sicari, tarantina (1954-2003), è stata la moglie di Milo de Angelis, ma ha avuto una sua precisa identità autonoma di poetessa e prosatrice fin dall’esordio nel lontano 1986 con la raccolta Decisioni, dove ha cercato di trasfigurare la realtà che osservava, di trasformare la disarmonia delle situazioni e delle parole in un vocabolario visionario, fortemente espressivo, quasi oracolare.

A partire dagli anni ottanta inizia a lavorare come insegnante nel penitenziario di Rebibbia, a Roma, mantenendo l’incarico fino al 1997, quando si ammala gravemente: ma anche di fronte alla malattia non si arrende, continua ad interrogarsi con coraggio e caparbietà sul senso della vita, del destino, della sofferenza umana. Dopo essersi sottoposta a interventi e cure prima a Roma, poi a Milano, dove nel frattempo si era trasferita col marito e il figlio, torna a Roma nell'estate del 2003, e muore nella notte tra il 30 e il 31 dicembre.

«Inventare altri nomi per le cose sembra l’unico atto di coraggio, l’unico grido possibile. Resistere è vedere un oggetto da ogni posizione e in ogni sua parte con lo strenuo rigore del monaco che continua a pregare mentre tutto intorno è assurda materia»: queste sue profetiche parole sono un’autopresentazione calzante, che identifica proprio la sua volontà di scrutare la realtà per coglierne tutte le sfumature possibili. La ricchezza di figure retoriche, di esclamazioni e interrogativi, l’incalzare delle strutture metriche e sintattiche ha contribuito a rendere la sua poesia capace di affondare nel cuore del dolore universale, combattuto con la sola fede nella parola disarmata.

Decisioni (1986), la prima raccolta, è un volume intenso e crudele, dove il verso lungo è usato per «scardinare» il linguaggio, per rifiutare le mode poetiche del tempo, votate all’intimismo e alla soggettività. La Sicari affronta invece tematiche latamente politiche, sulla scorta del suggerimento del grande poeta russo Osip Mandel’stam secondo il quale scopo «del poeta lirico è scambiare segnali con Marte». Ella cerca dunque di costruire una poesia che da un lato recuperi la liricità e la concretezza, dall’altro lato intenda comunicare con qualcuno che ha criteri di lettura del reale molto diversi da quelli di chi scrive.

Centrale nel suo percorso poetico è il volume Sigillo (1989), raccolta dedicata alla madre dove la liricità tende a prevalere sulla riflessione, la dizione è rallentata, il tono si fa riflessivo, il lessico si distende in forme metriche più discorsive e pregnanti.

Postuma esce infine la raccolta Poesie 1984-2003, a cura di Roberto Deidier (2006), che dà conto dell’intero percorso evolutivo della poesia sicariana, dove la musica è al tempo stesso violenza e dolcezza, fermissima lotta alla malattia e alla morte.

Impotente per imparare

Impotente per imparare, per la maturità

del cielo incapace, per il rombo della

nave inerte, m’imbattevo solo nei fumi

di un gasdotto che bestemmiava l’accesso

ad un passaggio invalicabile.

La schiuma, gli amori

La schiuma, gli amori mi aprono di nuovo

al sonno che m’ingoia, alla salda fessura dei salici.

Non ci sono più, non canta

e tu taci presenza invadente

ti prego più avanti,

senza misture e cataletti, dove rimane il profumo

dei lecci estranei alla foresta.

Tu vieni più presto ad impedirmi il riposo

di figlia evanescente, a cavalcare

mezzo raggio fra cosce di partorienti.

Calesse bianco

Calesse bianco, il tuo trillo di amore insoluto
sembra di brina, capitolo di frecce verso il cielo
capitale divertimento per cuori da clochard!
Ma che stavo inventando per capire gli intrighi?
I signori della terra tendono agguati, alzano per caso
le loro bandiere, è il caso di diffondere
il mio pamphlet, gabbie di canne storte
molliche per vertebrati, serre dalla luce irriflessa!
Oh il mio militare silenzio, il mio pazzo distribuire
aureole che precedeva gli eventi, clausole per dame
profumate, scappavano per un indizio, come scippate
di un fiore a prova di bomba.
Hanno pagato i banchetti, le cose hanno solo nomi
non frutti, essenza, differenza. Banditore oscuro
è il caso dimesso, non le messi, il seme, la terra.

Che azzurra veglia

Che azzurra veglia, che tiepida ossessione

il pendio ha la sua fine, il silenzio

fa cerchio al mormorio del solito eroe vacante

per avventura lo spazio traditore ci riscalda

mentre l’albergatore stordito affitta stanze

agli avventori. Andasse lui al galoppo

molleggiando bene la sua carne addosso

sussurrando l’immagine mia nella trama del pozzo

il deliquio sarebbe stato pieno, a riparo

l’albergo dagli indiscreti parlatori.

Erano curve le loro vene

Appoggiata appena allo schienale
ero là che invocavo tutti i santi
del paradiso, i divini, i malcapitati
ammaliatori ostaggi dell’anno duemila.
Voce d’aria, impero del coraggio
vi affranco da ogni male
pescatemi ancora più giù nella scarpata.
Avvolgevo la sorte e chiudevo
chiudevo per folgorare
mescolando con me i canti dell’animale.
Frequente rotta vedi qualcuno per domani?
Più che incerta sembrava la guardia
gli altri finivano, erano curve
le loro vene, i giardini
oh i giardini giravano dentro
sdoppiati, oltre ogni misura scoppiavano.

Sognavo che ero morta

Sognavo che ero morta e camminavo
l’ignoto scandiva impeti e campane
l’ignoto, quando tutti seguono la legge
dà la vertigine, una macchia il sole
all’improvviso, ricordava tracce di ideali:
penitenti bagnati sull’asfalto
accarezzano aria.
Seguitemi – dissi – ho mani divise
cerco un insensato forte luogo
di alghe e sesso
dove lo scenario ha puri battiti sfrenati
coperte nuziali ricamate di cielo.

Ortolana io scrivo

Ortolana io scrivo per brama di controversie
assembramento di tegole al liceo
tacchi a spillo, mi davo un contegno.
Costretti a scappare, come se io fossi
una maga, paura di tristi compromessi.
Documentari sfatammo tra le foglie della
pestilenza. Dietro un’apparenza intrattabile
la mia storia cadeva da una arte
come un filo grosso d’erba.
Troppo cresceva, e le adunate
si mischiavano al delitto della terra.
Come un groviglio ingoiavo, confondevo.
Mi appariva normale spiare la musica
e i ponti, le camicie appese ai quadri.
Solo per un attimo, fra le oche presenze
la sua, confusa nel respiro.

Mattino aperto

Mattino aperto è questo che si vive come in guerra.
Per quanto si udisse dovevo starmene
nel piede imbastito, dal correre per puro caso.
Nel racconto di querce, un bacio, montagna di acqua-lucida,
luci da montagna, frutto-granito di bambino quieto,
uomo leggero nella gabbia del senso.
Dovevo starmene senza giudicare
un vano lago, corollario di fango avvampavo la terra.
Lodarti, festeggiare un mistero,
una preferenza infantile di roccia,
dispersa la traggo, io nuda senza ritorno
in cerca di lava sotto il vulcano, fra le sue mappe,
cosmico luogo per camminare ai bordi, in verticale.
Se non fosse stato olio o resina o grazioso veliero,
non sarebbe stato questo svegliarmi
alterno a leggende, meandri, paesi.

Da stasera

Da stasera posso sentirla
in un arpeggio di parole
che non mi disconosce
e raccolgo le frange di una storia
spezzata, curvata, stonata.
Anch’io di marzo sono caduto
in un deserto di parole
senza limiti e interferenze
mi chiedevo dove scorgere
le ombre malsane della guerra
l’incapacità a decifrare gli ossi
ad inseguir le tracce
ripercorrere le orme
di un ritorno estraneo alla terra.
Spingo i passi fin dentro la bufera
e mi respinge il fato:
non ho dove poggiare il piede
e mi spaventa la desolazione.
ricomporrò i miei sogni accattivanti
per intensificarne la memoria
che m’attraversa e non mi fa domande.

Persino improtetta, facendo ricorso

Persino improtetta, facendo ricorso
alla massa di luce del cielo, qualcosa
si accendeva ribelle alla fine del male.
Si scartava il tempo di una giornata
piovosa, il resto pioveva magnifico
fra le piante e il ponte. Questo
costituiva il tempo, l’unità del tempo.

Vorrei baciarti il sangue

Vorrei baciarti il sangue

amore mio, e ancora fare andare

le dita nel vento, accarezzarti i capelli, la fronte

sentirti dentro l’aria

dentro il ventre, sentire

come è leggero il vento

e come apre le vie

e come tutto sembra possibile

sapere quanto possa

l’amore con la saliva e il silenzio

curare dalla fonte.

Gennaio riscalda già l’aprile

Ogni brindisi commuove, ogni anima tradisce

ogni viaggiatore rompe l’argine per sempre

e i fuochi alle finestre attendono

ciechi l’aprile.

Fosse rabbia fosse caldo questo continuo

sentirsi rapinati: ladro alle spalle

magazzino superfluo

e noi così superbo aspettando

l’ora di una comparsa

avremmo da dire

da fare, nelle mani

fretta, desiderio

fosse questo giorno chiaro di gennaio

il perno degli anni che non danno pace.

Solo una scia d’amore

Solo una scia d’amore vorrei cantare

quando non sono né donna

né carne, né volo, né acqua

quando non sono quella

 

e il nulla pietrifica in una condizione

d’inferno: sconforto di tutti i giorni

dove tutto e niente sono

la cosa cieca della cosa viva.

Giuseppe Antonio Borgese, giornalista, critico e romanziere

Borgese fu scrittore di notevole spessore intellettuale in tutti i campi in cui si cimentò: giornalista, critico letterario, docente universitario, poeta e narratore, egli ebbe soprat­tutto un ruolo fondamentale nella rinascita del romanzo nei primi anni venti (dopo la sta­gione delle avanguardie), contribuendovi sia con scritti teorici che con opere d'inventiva.

Nato a Polizzi Generosa, in provincia di Palermo, nel 1882, a diciott’anni si trasferì a Firenze, dove compì gli studi universitari, seguendo i corsi di Pio Rajna, Pasquale Villari e Guido Mazzoni. Dopo l'esperienza di collaborazione alla rivista "Leonardo" (influenzata dal pensiero di Nietzsche e dall’estetismo dannunziano), nel 1904 fondò una propria rivista a carattere nazionalista, "Hermes", che proseguì le pubblicazioni fino al 1906. Come giornalista esordì sul "Mattino” di Napoli per continuare sulla "Stampa” di Torino, e nel 1910 approdò al “Corriere della Sera", dove pubblicò fino alla morte, sopraggiunta nel 1952. Fu inoltre docente di letteratura tedesca all'Università di Roma, e poi di Milano: ma quando, a causa del suo aperto antifascismo, non volle prestare il giuramento che le norme del regime imponevano ai docenti, dovette riparare esule in California e quindi a Chicago, dove riprese l'insegnamento universitario; rientrato in Italia nel 1946, ottenne la cattedra di estetica all'Università di Milano.

Crociano agli esordi, ben presto egli volle differenziarsi dal maestro, con il quale si mise anche in polemica, elaborando una propria teoria estetica basata sull'attenzione agli aspetti ideologici e al “movimento spirituale" dell’opera, che ebbe grande influenza sul gusto letterario primonovecentesco. Nello stesso modo egli superò anche la giovanile infatuazione per D'Annunzio, che definirà in seguito il rappresentante del "romanticismo giunto alla sua ultima crisi".

La sua attività di critico confluì nei primi anni dieci nelle raccolte La vita e il libro (1910, 1911, 1913): ma il principale merito di questa fase di produzione resta quello di aver guardato con attenzione alla poesia di Moretti, Martini e Chiaves, poeti per i quali coniò l’etichetta di “poeti crepuscolari”, tuttora in uso.

Fondamentale infine fu la pubblicazione del volume Tempo di edificare (1923), nel quale, rifacendosi al grande modello verghiano e all’esperienza contemporanea di Tozzi, rilevava la necessità di superare il frammentismo vociano e i preziosismi rondeschi (mo­vimenti entrambi anti-narrativi e anti-romanzeschi), per tornare a "costruire” il romanzo in una misura compatta e autonoma. Proprio il caso di Tozzi, che Borgese vedeva come erede e continuatore del Verga, poteva servire come eccellente esempio del lavoro da farsi.

Alla ripresa della narrativa Borgese inoltre contribuì direttamente con il romanzo Rubè (1921) che ebbe una vasta risonanza negli anni trenta. L'opera narra le vicende di Filippo Rubè, intellettuale piccolo-borghese dal carattere velleitario, psicologicamente fragile, carico di contraddizioni, che durante la grande guerra assurge senza volerlo al ruolo di eroe. Sposatosi senza convinzione (anche con lo scopo di avvantaggiarsi nella carriera legale), Rubè diviene in seguito l'amante di una bella dama parigina: avendone causato involontariamente la morte, pur prosciolto da qualsiasi accusa, precipita nella coscienza della propria indifferenza e passività, e finisce ucciso per caso durante una manifesta­zione di anarchici cui non intendeva neppure partecipare.

Romanzo di una crisi ideologica, storica e intellettuale, di taglio sottilmente analitico e introspettivo, Rubè è l'acuta e consapevole rappresentazione, oltreché dei conflitti insa­nabili del protagonista, anche del disagio di tanti intellettuali borghesi dell'epoca e dell'in­cipiente e disordinata nascita del fascismo: in ciò riflette l'organica volontà dell'autore di usare la struttura romanzo per esprimere sia i fatti sia lo "spirito" del tempo. L'opera, che meriterebbe una rivalutazione critica, costituisce nel complesso un importante anello di congiunzione tra la produzione pirandelliana, sveviana e tozziana da un lato, e quella di Moravia e dei nuovi romanzieri degli anni trenta dall'altro, e resta una testimonianza fon­damentale di un deciso mutamento di rotta nella nostra letteratura.

Borgese proseguì la sua opera di narratore con una decina di romanzi e raccolte di novelle, da I vivi e i morti (1923) a La Siracusana (1950), senza però più raggiungere risultati artistici pari. Minore resta anche la sua produzione poetica e drammaturgica, così come i libri di viaggio; mentre carica di interesse è la riflessione, scritta in inglese, sul fascismo: Goliath, the March of Fascism (Golia, la marcia del fascismo, 1937). Signi­ficative sono anche le traduzioni, in particolare quella del Werther goethiano e quella della Storia meravigliosa di Peter Schlemihl di Adalbert von Chamisso (1781-1838), esponente di spicco del secondo romanticismo tedesco.



Rubè, cap. I La vita di Filippo Rubè prima dei trent’anni non era stata apparentemente diversa da quella di tanti giovani provinciali che calano a Roma con una laurea in legge, un baule di legno e alcune lettere di presentazione a deputati e uomini d’affari. Veramente egli aveva portato qualcos’altro del suo, segnatamente una logica da spaccare il capello in quattro, un fuoco oratorio che consumava l’argomentazione avversaria fino all’osso e una certa fiducia d’essere capace di grandi cose, postagli in cuore dal padre; il quale era segretario comunale a Calinni, e, conoscendo bene l’Eneide in latino e la vita di Napo­leone in francese, giudicava che tutti, a cominciare da se medesimo, fossero intrusi in questo mondo fuorché i geni e gli eroi. Ma l’essersi messo nello studio dell’onorevole Taramanna gli aveva più nociuto che giovato, tanta era l’oppressione di quell’uomo mas­siccio tutto scuro che lo soverchiava dalla spalla e gli toglieva il sole. Sebbene la sua eloquenza fosse più fine e la sua preparazione più esatta, si sentiva schiacciato da quell’uomo privo di grammatica e di scienza che traversava gli ostacoli, senza neanche guardarli, col passo di un elefante nella boscaglia e, quando il suo discepolo perorava in Tribunale come un Mirabeau, fabbricava barchette di carta con una negligenza spon­tanea non ispirata da invidia. Talvolta, la sera, Filippo gli esponeva accalorandosi la sua idea per vincere una lite o per decidere una lotta politica; ma Taramanna, che aveva fretta di giocare a poker, lo ascoltava restandosene in piedi e, lasciatolo arrivare al più bello, gli piantava la mano sulla spalla e con una risata di negro che non «Magnifico! Ma la vita non è fatta così». Come fosse fatta, e che cosa fosse propriamente la vita, Filippo si domandava la mat­tina dopo passando davanti allo specchio, con gli occhi che nella solitudine aveva un po’ cavi e allucinati, ma poi volontariamente ammansiva per apparire normale ai clienti e ai colleghi. La vita non era certo la professione; di cui gli restava nel cervello, dopo il sonno popolato d’immagini stracche, né più né meno di ciò che resta dentro la campana quando ha cessato di battere. Durante il giorno ci si riappassionava e spesso viveva qualche ora brillante; ma a tarda sera, mettendo la chiave nella serratura della camera mobiliata, lo poteva cogliere un subitaneo ribrezzo come se stesse per vedere l’anima sua simile a un anfiteatro dopo la rappresentazione del circo equestre: un infinito sbadiglio con cicche di sigarette e bucce di arance.

Altre volte la vita di cui avrebbe voluto rendersi ragione gli pesava come un involto che qualcuno gli avesse affidato senza dirgliene il contenuto né più ripassasse a ritirarlo; lo affliggeva come una lettera che ingiallisse reclamando risposta. Ma di rispondere non aveva tempo. Prima di guardare a comodo il panorama e di riconoscere i luoghi doveva finire quel pezzo di erta salita senz’ombra che si chiamava la conquista del pane e del companatico non meno indispensabile del pane. Il padre continuava a mandargli pun­tualmente due fogli da cento ogni mese perforandoli con uno spago di cui fissava i capi con dei bolli di ceralacca sulla busta dell’assicurata, così austeramente meticolosa che pareva un ammonimento e Filippo non la apriva finché non ne avesse bisogno. Ma sten­tava, malgrado tanti elogi dei magistrati e dei conoscenti, a triplicare quella somma, e se aveva il vestito nuovo il cappello era un po’ unto, e quando la cravatta era fresca le scarpe di coppale erano un po’ sgraffiate, sicché conveniva non accavallare comoda­mente le gambe stando a conversare la sera sui canapè fiorati di casa Taramanna per timore che il lucernario liberty ne illustrasse in pieno ogni ruga e magagna. Anche gli dispiaceva dopo mezzanotte, svoltando la cantonata della sua strada, la luce del pub­blico fanale allumacata sui vetri chiusi della camera deserta, e avrebbe preferito vederne respirare il riflesso d’un paralume verde presso cui vegliasse aspettandolo una giovane moglie. Non c’era che da scegliere tra le cinque figlie di Taramanna; ma quando ridevano tutte in una volta, quasi distribuendosi le parti di un cànone, o quando sciamavano per le vie tutte vestite della stessa mussola di seta a ghirlande, pareva impossibile sposarne una sola senza accollarsi tutto il casato.

Insomma, dell’adolescenza si ricordava come d’un rombo di acque fra i monti, e ora gli pareva che quell’acque si fossero adagiate in un largo lago paludoso riflettendo presso le rive indistinte pallidi canneti. Spesso, soprattutto al rincasare, un oscuro rimescolío interno, ch’egli non voleva riferire al travaglio dello stomaco malaticcio, lo avvertiva che così non sarebbe durata e che prima o poi l’acque si sarebbero raccolte fra rive più strette e precise e il corso della sua vita avrebbe riacquistato una direzione ed un suono. Ma s’immaginava una passione d’amore o una fortunata campagna elettorale ora che aveva gli anni per presentarsi a Calinni, e restò sorpreso dei due fatti tanto inattesi e diversi che gli accaddero proprio sul fare dei trent’anni. Il primo fatto fu che morì quasi d’improvviso il padre, lasciando la vedova e due figlie che restavano zitelle (come pareva destino di casa Rubè) in condizioni di fortuna troppo meschine perché paresse ingiusto il privilegio con cui il morente faceva le tre donne usufruttuarie di tutto il suo, riservando a Filippo, oltre la nuda legittima, un orologio d’oro a chiavetta. La busta assicurata non arrivò il primo luglio e tardò dieci giorni, ma venne quella volta più gonfia, con sette bi­glietti da cento e uno da cinquanta e con quattro fogli di lettera della sorella Sofia, che narrava minuziosamente gli ultimi giorni del padre e descriveva piano piano la vita delle tre superstiti, la quale era molto scura pel dolore recente e pel disagio economico e per le dure faccende agricole e amministrative che gravavano sulle spalle della mamma. Una visita del fratello le avrebbe consolate, ma capivano che non aveva tempo e che le spese sarebbero state troppo forti. In un poscritto chiedeva notizie di quella mezza rivo­luzione che c’era stata a Roma e in Romagna nel giugno. A Calinni era tutto quieto. Poi su un margine del foglietto aggiungeva sbadatamente per il lungo, come ricordandosene all’ultimo tuffo, che le settecentocinquanta lire gliele mandava la mamma, poveretta, per il lutto, e le rincresceva di non poter fare di più. Filippo credette di capire, e messo il gruzzolo alla Cassa postale di risparmio, quasi che di portare quella piccolezza a una banca si vergognasse, scrisse una letterina di due facciate in cui, con studiata conci­sione, pregava la madre di non scomodarsi più e rinunziava, finché non ne avesse biso­gno per una sua propria famiglia di là da venire, anche al frutto della legittima.


Giovanni Testori, tra sperimentazione ed espressionismo

Giovanni Testori (1923-1993) fu attivo in molteplici campi: narratore, poeta, giornalista, critico d'arte e letterario, drammaturgo, sceneggiatore, regista teatrale e perfino pittore, egli seppe lasciare un segno in ognuna delle attività cui scelse di dedicarsi. L’esordio avvenne preco­cemente con opere teatrali minori, ma già nel 1954 il primo romanzo, Il dio di Roserio, dedicato al mondo delle corse ciclistiche, ottenne un notevole successo di pubblico e di critica, soprattutto perché fu pubblicato nella prestigiosa collana einaudiana dei “Getto­ni” a cura di Elio Vittorini. Lontano dall’espressionismo che ne connoterà le opere ma­ture, Testori utilizza qui uno stile asciutto, in certo modo vicino al neorealismo, ricco di lombardismi e con un costante ricorso al discorso indiretto libero; anche se si avverte tra le righe l’influsso dell’esuberante prosa gaddiana e degli scapigliati lombardi.

Anche nelle opere successive Testori restò fedele all’ambientazione lombarda, in parti­colare della periferia milanese, dove si muovono personaggi fragili e sconfitti, goffi e grossolani. Si possono ricordare in particolare le raccolte di racconti Il ponte della Ghi­solfa (1958) e La Gilda del Mac Mahon (1959), i testi teatrali La Maria Brasca e L’Arialda (entrambi del 1960) e i due romanzi Il fabbricone (1961) e Nebbia al Giam­bellino (1995, postumo), che costituiscono un vero e proprio ciclo unitario, una “commedia umana” dal titolo I segreti di Milano.

I personaggi che Testori descrive sono spesso oppressi da oscure colpe, ma sempre alla ricerca di un riscatto dalla vita mediocre e insulsa che si trovano a vivere: questo vale in particolare per le donne, “offese eppure capaci d’infinito amore”, pateticamente sconfitte e deluse, op­presse e costrette all’infamia, ma costantemente aperte a un moto di rivincita o di ribellio­ne.

È il caso dei due fratelli protagonisti della Gilda del Mac Mahon: Luisa, giovane vedova di un contrabbandiere, che si prostituisce per sbar­care il lunario, e Romeo, mantenuto di un misterioso ricco personaggio, che frequenta una società costituita da un’anonima folla di uomini vilipesi e oltraggiati, di donne inquiete o perverse.

Il compito che Testori si è assunto nella sua opera è quello di scrutare il segreto incon­fessabile dei suoi personaggi più abietti, sempre schiacciati dal peso oscuro della colpa (delitto, tradimento, omosessualità, prostituzione, inganno), per presentarli con crudo realismo, senza falsi moralismi o reticenze, anche a costo di dar voce ai toni violenti e spietati del loro linguaggio, come quello di Romeo nei confronti della sorella: Tu, qui, […] la troia non la fai […] quando le gite al confine puzzavano […] Siediti, ho detto, o scema! […] Chiudi quella bocca o ti strozzo! […] lasciala far anche la troia). Ma si avverte comunque, al di là del linguaggio sguaiato e collerico, una vena di religiosa pie­tas, non indenne né da populismo né da decadentismo, verso la gente delle periferie ur­bane, quel sottoproletariato che anche Pasolini ritraeva in quegli stessi anni.

Da ricordare infine la sua produzione teatrale degli anni settanta, profondamente carat­terizzata da una lingua espressionistica e anticonformista, e da posizioni religiose parti­colari, che suscitarono polemiche vivacissime e giudizi trancianti, ma che ancor oggi è possibile vedere messa in scena: la Trilogia degli Scarrozzanti: L'Ambleto (1972), Mac­betto (1974) e Edipus (1977); e la Terza trilogia: Conversazione con la morte (1978), Interrogatorio a Maria (1979) e Factum est (1981).

 Si propone qui un breve brano tratto da La Gilda del Mac Mahon, ovvero il dialogo aspro e vendicativo tra i due fratelli: Luisa, che ha appena perso il marito, ucciso mentre fuggiva dalle forze dell’ordine, e Romeo, che si guadagna da vivere prostituendosi presso un ricco omosessuale.

 

Fu proprio in quel momento che il fratello, rimasto fin lì ad aspettar quieto in cucina, s’avvicinò alla porta, abbassò la maniglia ed aprì:

Allora?” fece dopo un po’, vedendo che la Luisa, seduta sul letto, continuava a voltargli le spalle, fingendo di niente.

Allora, cosa?”

Ti decidi o no?”

A fare?”

Come a fare? A venir da noi. Non vorrai star qui anche stasera…”

E perché?” rispose la Luisa, voltando la faccia verso di lui? “Hai forse paura che tornino qui un’altra volta? Non torneranno più; ormai han sistemato tutto; me l’ha detto il Raffaele. E anche se tornassero, credi che da sola non saprei difendermi? E poi cosa voglion trovare? L’han ben vista la miseria in cui mi ha lasciato…”

Ho detto che stasera qui, a dormir sola, tu non ci stai…” Il Romeo lasciò una breve pausa, poi aggiunse: “Non vorrai far sempre di testa tua! Hai ben sentito cosa t’han detto dietro oggi con la tua mania d’andar al funerale come se andassi a una festa… Che sei una puttana, han detto!” Un’altra pausa, poi: “E tu continua, continua a far quello che vuoi! ...”

Perché, ho forse mai chiesto io a te cosa fai e dove vai a guadagnarteli, i tuoi soldi?”

Un altro, breve silenzio in cui fratello e sorella si guardaron con rabbia quasi per comandarsi l’un l’altra il rispetto più duro pei loro segreti; quindi il Romeo fece:

Lo dico per te… Per me, figurati! ... Ma se vieni da noi puoi sentir dalla mamma qualcosa sul papà…”

Ecco: l’intruso che in quel momento lei non avrebbe certo voluto che le venisse proposto all’attenzione le era scivolato lì, davanti, coi suoi dolori da bestia e coi suoi giorni contati.

Perché c’era anche quello; come se la disgrazia, la perquisizione, l’interrogatorio e il funerale non fossero bastati…