Ada Negri tra socialismo e religiosità
Il prossimo 3 febbraio cadranno i 150 anni dalla nascita di Ada Negri, la scrittrice lodigiana divenuta famosissima con la prima raccolta poetica, poco più che ventenne, e rimasta sulla cresta dell’onda per oltre cinquant’anni. Il successo di pubblico e di critica accompagnò infatti tutta la sua carriera, che vide la pubblicazione di dieci libri di poesia e nove di prosa. Dopo la sua morte, però, pregiudizi ideologici e malintesi critici l’hanno fatta cadere nell’oblio: ed ora pare finalmente giunto il momento di riabilitarne la memoria e riconoscerne il grande valore.
L’esordio trionfale della Negri (Fatalità, 1892) deve molto al suo pensiero sociale, che scaturisce non solo dalle teorizzazioni in voga a fine secolo, dall’ideologia socialista dei Turati, dei Moneta, del primo Mussolini massimalista, ma soprattutto dall’esperienza personale, dai racconti della madre, operaia al lanificio (el fabricòn), e della nonna, portinaia in una casa nobiliare di Lodi. Fatalità è una raccolta poetica ancora acerba, che però propone un io poetante caparbio e determinato, che con giovanile vitalismo si oppone sia al «grasso mondo di borghesi astuti», sia allo stereotipo che prevedeva allora per il genere femminile solo ruoli subalterni e inferiori.
L’autobiografismo è d’altronde una costante che riaffiora carsicamente nell’opera negriana, come è evidente anche nelle successive raccolte poetiche, da Tempeste (1895) a Maternità (1904), dal Libro di Mara (1919) ai Canti dell'isola (1924), fino a Vespertina (1930), Il dono (1936) e Fons amoris (1946), che viene a ricapitolare l’intero percorso poetico. Costante è l’espressione dell’affetto per gli amati paesaggi lombardi e il ricordo malinconico della gioventù lodigiana, cui si affianca un’amara riflessione “politica” su giustizia e ingiustizia, che trova infine risposta solo nella dimensione religiosa dell’esistenza. Ma non mancano poesie d’amore, legate soprattutto all’infelice rapporto con Ettore Patrizi, testi dedicati alla madre, alla figlia e ai nipotini, poesie e prose nate da esperienze piacevoli nell’isola di Capri e in altri luoghi dell’Italia e della Svizzera.
Nelle prime raccolte Ada Negri intreccia tematiche sociali (che le varranno i soprannomi di “rossa valchiria” o di “vergine rossa”, sul modello dell’anarchica comunarda Louise Michel) e personali: ed è proprio dal calibrato intreccio tra questione sociale e questione femminile, fra empiti tumultuosi e cadenze delicate, che scaturisce il successo della sua prima produzione poetica.
da Fatalità
Io non ho nome. Io son la rozza figlia dell’umida stamberga; plebe triste e dannata è mia famiglia, ma un’indomita fiamma in me s’alberga. Seguono i passi miei maligno un nano e un angelo pregante. Galoppa il mio pensier per monte e piano, come Mazeppa sul caval fumante. Un enigma son io d’odio e d’amore, di forza e di dolcezza; m’attira de l’abisso il tenebrore, mi commovo d’un bimbo alla carezza. Quando per l’uscio de la mia soffitta entra sfortuna, rido; rido se combattuta o derelitta, senza conforti e senza gioie, rido. Ma sui vecchi tremanti e affaticati, sui senza pane, piango; piango su i bimbi gracili e scarnati, su mille ignote sofferenze piango. E quando il pianto dal mio cor trabocca, nel canto ardito e strano che mi freme nel petto e sulla bocca, tutta l’anima getto a brano a brano. Chi l’ascolta non curo; e se codardo livor mi sferza o punge, provocando il destin passo e non guardo, e il venefico stral non mi raggiunge.
Quando lo vedo per la via fangosa passar sucido e bello, colla giacchetta tutta in un brandello, le scarpe rotte e l’aria capricciosa; quando il vedo fra i carri o sul selciato coi calzoncini a brani, gettare i sassi nelle gambe ai cani, già ladro, già corrotto e già sfrontato; quando lo vedo ridere e saltare, povero fior di spina, e penso che sua madre è all’officina, vuoto il tugurio e il padre al cellulare, un’angoscia per lui dentro mi serra; e dico: «Che farai, tu che stracciato ed ignorante vai senz’appoggio né guida sulla terra?... De la capanna garrulo usignuolo, che sarai fra vent’anni? Vile e perverso spacciator d’inganni, operaio solerte, o borsaiuolo? L’onesta blusa avrai del manovale, o quella del forzato? Ti rivedrò bracciante o condannato, sul lavoro, in prigione, o all’ospedale?...» .... Ed ecco, vorrei scender nella via e stringerlo sul core, in un supremo abbraccio di dolore, di pietà, di tristezza e d’agonia: tutti i miei baci dargli in un istante sulla bocca e sul petto, e singhiozzargli con fraterno affetto queste parole soffocate e sante: «Anch’io vissi nel lutto e nelle pene. Anch’io son fior di spina; e l’ebbi anch’io la madre all’officina, e anch’io seppi il dolor.... ti voglio bene.»
O grasso mondo di borghesi astuti di calcoli nudrito e di polpette, mondo di milionari ben pasciuti e di bimbe civette; o mondo di clorotiche donnine che vanno a messa per guardar l’amante, o mondo d’adulterî e di rapine e di speranze infrante; e sei tu dunque, tu, mondo bugiardo, che vuoi celarmi il sol de gl’ideali, e sei tu dunque, tu, pigmeo codardo. che vuoi tarparmi l’ali?... Tu strisci, io volo; tu sbadigli, io canto: tu menti e pungi e mordi, io ti disprezzo: dell’estro arride a me l’aurato incanto, tu t’affondi nel lezzo. O grasso mondo d’oche e di serpenti, mondo vigliacco, che tu sia dannato! fiso lo sguardo ne gli astri fulgenti, io movo incontro al fato; sitibonda di luce, inerme e sola, movo. E più tu ristai, scettico e gretto, più d’amor la fatidica parola mi prorompe dal petto!... Va, grasso mondo, va per l’aer perso di prostitute e di denari in traccia: io, con la frusta del bollente verso, ti sferzo in su la faccia.
Dunque tu m’ami. Hai confessato; or, trepido, taci ed attendi, e ti scolora il viso un’onda di pallor. Vuoi dal mio labbro un bacio ed un sorriso. vuoi di mia fresca giovinezza il fior!... Ma dimmi: L’ansie, le battaglie e gl’impeti sai tu d’un ideal che mai non langue? Sai tu che sia soffrir?... Che ti val la tua forza ed il tuo sangue, l’anima tua, la mente, il tuo respir?... Hai lavorato?... Le virili insonnie de la notte in severe opre vegliata, di’, non conosci tu?... A qual fede o vessillo hai consacrata la tua florida e bella gioventù?... Non mi rispondi.... oh, vattene. Fra gli ozî lieti di sonnolente ore perdute torna, vitello d’ôr. Torna fra balli, carte e prostitute; io non vendo i miei baci ed il mio cor. Oh, se tu fossi affaticato e lacero, ma coll’orgoglio del lavoro in faccia, e una scintilla in sen; se stanche avessi l’operose braccia, ma t’ardesse nel grande occhio un balen; se tu fossi plebeo, ma sovra gli uomini cui preme e sfibra il vile ozio codardo ergessi il capo altier, e nel tuo vasto cerebro gagliardo avvampasse la febbre del pensier, io t’amerei, sì!... T’amerei per l’opre tue vigorose e la tua vita onesta. pel sacro tuo lavor; sovra il tuo petto chinerei la testa. forte di stima e pallida d’amor!... Ma tu chi sei?... Da me che speri, o debole schiavo languente fra dorato lezzo? Sgombrami il passo, e va. non m’importa di te va’ ti disprezzo, fiacco liberto d’una fiacca età!...
Miseria. La pigion non fu pagata. A rifascio, nel mezzo de la via, la scarsa roba squallida è gettata. Quello sgombero sembra un’agonia. La tenebrosa pioggia insulta e bagna il carro, i cenci, i mobili corrosi dal tarlo, denudati, vergognosi. V’è un’anima là dentro che si lagna; e il letto pensa al disgraziato amore ch’egli protesse, e che le membra grame di due fanciulli procreò a la fame, o del tugurio maledetto amore!... E scricchiola fra i brividi: Chi il dritto diede a la donna schiava e mal nudrita di crear per un bacio un’altra vita d’angosce?... amor pei poveri è delitto. Sotto la pioggia il carro stride. Dietro, un operaio scarno, a fronte bassa, segue la sua rovina. Ei muto passa, ombroso il guardo, e non si volge indietro: e a lui presso è la donna, la piangente lacera donna, con due figli. E vanno senza riposo, e dove essi nol sanno, e la pioggia gli sferza orrendamente: un austero dolor che par minaccia per entro ai cenci ammonticchiati freme, freme nel carro che cigola e geme nei quattro erranti da l’emunta faccia. Quella guasta mobilia denudata che in mezzo al fango a l’avvenir s’avvia; quella miseria che ingombra la via sembra il principio d’una barricata.
Non ritornar mai più. Resta oltre i mari, resta oltre i monti. Il nostro amor, l’ho ucciso. Troppo mi torturava. E l’ho calpesto, l’ho sfigurato in viso, l’ho morso, l’ho ridotto in cento brani, l’ho ucciso, ecco! Ora tace, finalmente. tace. Più lento per le vene scorre il sangue prepotente: posso dormir, la notte; e più non piango. te chiamando, affannosa. Oh, quanta calma!... Ne la penombra senza fine, senza moto, riposa l’alma; e tesse, tesse le oblïose fila d’un sogno di rinuncia. Non tornare. io, cieca e fredda, voglio odiarti, come ti seppi un giorno amare: odiarti pe’ miei freschi anni fiorenti che immolai, dolorando, a te lontano; povera gioventù senza carezze, sacrificata invano!... Ma nell’odio si soffre; ma si piange nell’odio.... ed io t’avrei sempre davanti anche imprecando a te. Non ho più forza di lotta o di rimpianti; voglio silenzio un gran silenzio!... Fate tacer quel fioco gemito, là in fondo. C’è qualcuno che lagnasi, un nemico, un malato, là in fondo: qualcuno oppresso da un immenso male, da un peso immenso a cui non può sfuggire; qualcuno che agonizza e chiede aiuto. E non vuole morire.
(dal quadro di T. Pattini). Di fuori è tènebra: dentro il tugurio freddo e deserto trema il lucignolo d’una candela con guizzo incerto. A terra è il rigido corpo d’un morto. Non sa, non sente; riposa. Il copre nero un sudario: sembra un dormente. La salma squallida è d’un robusto lavoratore, strappato al vomero, strappato al suolo fecondatore; ai campi fertili, a l’auree vigne, ai fieni aulenti; a le boscaglie folli di sole, nel sol fiorenti. Prona in un angolo giace una donna muta nel duolo. più lunge, un roseo fanciullo gioca sul nudo suolo. Non sa di triboli, non sa d’orrori, non sa di morte. Ei gioca, ingenuo, biondo, ridente, tranquillo e forte. Su lui la tènebra tutta s’affisa con occhio strano. Ha voci e brividi, pensieri e pianti l’intento vano. Da un rozzo bacio dentro una stalla venuto al mondo, di’, che t’aspetta, figlio di plebe, pargolo biondo?... La zappa ruvida corrusca al sole: l’aratro lento: meriggi torridi, furia di piogge, furia di vento: de la malaria, de la risaia la febbre impura: fatiche innumeri, pan bruno e scarso, stamberga oscura. Chi sarai?... Debole corpo impossente di mal nudrito, in buia, torpida, rude ignoranza inebetito?... Chi sarai?... Libera alma selvaggia di lottatore, de l’imo popolo, del solco vergine sôrto dal cuore?... Tu giochi, ingenuo; ma l’aria e l’ombra san di tempesta. Su l’ala rapida te invola il tempo che non s’arresta: te, forse milite d’aspri e bollenti conflitti umani: forse una vittima, forse un ribelle de l’indomani.
.... E sale, e sale. Con sinistro rombo s’accavalla nel buio onda sovr’onda: qual torrente d’inchiostro urge a la sponda, e trema l’aria, pavida, al rimbombo. È la fiumana dei pezzenti. E sale, son cenci e piaghe, son facce scarnate, braccia senza lavor, bocche affamate, cuori gonfi d’angoscia. E sale, e sale, e con sé porta un greve tanfo umano, il tanfo dei tuguri umidi, infetti; e un grido erompe dai dolenti petti: «Dateci il nostro pane quotidiano.» Ma ognuno a la gran voce è sordo e cieco. l’immota calma che precede i lampi del tonante uragan pesa su i campi, e il fiume ingrossa, il fiume avanza, bieco: i granitici, immensi argini atterra, lordo di sangue, livido di pianto: domani, in nome d’un diritto santo, mugghiando allagherà tutta la terra.... .... Ah!... l’ora è sacra. Una virtù d’amore infinita, immortal come il Creato, o forti, può guarir quel disperato cumulo di miserie e di dolore: basterebbe che incontro a le diserte anime singhiozzanti i vincitori movessero fra siepi alte di fiori, benedicendo con le braccia aperte.
Un’ombra è ne’ suoi strani occhi. Il suo petto è scosso da un brivido. Sul rosso velluto le sue mani s’abbandonano, come morte. E di morta è il volto, fra l’ondeggiar disciolto de le scomposte chiome. Premerà dunque il greve travaglio, il peso enorme, le sue scultorie forme, la sua beltà di neve?... Spasimerà la pura marmorea carne anch’essa, dilanïata, oppressa da l’immortal tortura?... No. La superba vuole de i balli fra le chiare pompe gioir, regnare, come rosa nel sole!... E le purpuree tende quasi regali, e i densi tappeti, e i vasi immensi ove l’oro s’accende, son complici a l’abisso perfido che la tenta. Oh, come ella diventa livida!... oh, come fisso si fa il suo sguardo!... come arde!... ma condannato ha il figlio. È decretato l’atto che non ha nome. * .... Morrai fra poco, umano germe che il mondo ignora, e che, nel sonno, l’ora vital sognasti in vano: morrai fra poco, o cuore soffocato ne i brevi tuoi battiti da lievi mani, senza rumore: pura alba, che diritto avevi a la tua sera!... Non teme la galera chi osò questo delitto. Ne i balli andrà, qual giglio immacolato il viso, la pallida, che ha ucciso se stessa nel suo figlio: andrà, come se fosse viva. Ma un sordo male misterïoso, da le viscere che le rosse sue mani han profanate succhierà il sangue, lene lene, fin che le vene avrà tutte vuotate; e una manina informe l’attirerà fra l’onda del gorgo senza sponda ove il rimorso dorme.
Ella dintorno si guardò, tremando, e riconobbe la selvaggia e strana terra che a fiume si dirompe e frana entro l’acque, che fuggon mormorando. Il guado antico riconobbe e il prato e le foreste, azzurre in lontananza sotto il pallor de i cieli: e il passato di lotta e di speranza, il suo ribelle e splendido passato ricomparve, senz’ombra e senza veli. Piegavano gli steli in torno, ed ella respirava il vento: vento di libertà, di giovinezza, soffio di primavere sepolte, belle come messaggere di gloria, piene d’ali e di bufere vïolente e d’immemore dolcezza!... Ora, silenzio. Un battere di remi, solitario, nel fiume: un lontanare di cantilene lungo l’acque chiare, e nel suo petto il cozzo de’ supremi rimpianti. Oh, prega, anima che t’infrangi a l’onda de i ricordi, travolgente come tempesta a notte: anima stanca in vene quasi spente, così giovane ancora, oh, piangi, piangi con tutte le tue lacrime dirotte qui dove i sogni a frotte ti sorrisero un giorno!... Ora è finita. .... E strinse fra le mani il capo bruno: a lei da la profonda coscïenza, com’onda chiama l’onda nel plenilunio a fior de l’alta sponda, salivano i ricordi ad uno ad uno. E rivide la vergine ventenne con la fronte segnata dal destino sfiorar diritta il ripido cammino, baldo aquilotto da le ferme penne. La nuda stanza fulgida di larve rivide, e il letto da le insonnie piene di cantici irrompenti; ed il sangue gittato da le vene robuste, il sangue di veder le parve, ne la febbre de l’arte su gli ardenti ritmi a fiotti, a torrenti gittato. E i versi andarono pel mondo, da la potenza del dolor sospinti; e parvero campane a martello; e le case senza pane e senza fuoco e la miseria inane dissero, e l’agonie torve de i vinti. Ma la vinta or sei tu, che de la morte senti, a trent’anni, il brivido ne l’ossa, e ben altro aspettavi da la rossa tua giovinezza così salda e forte!... Tutto dunque fu vano?... e così fugge oscuramente dal tuo cor la vita, dal cerebro il fervore de i ritmi, come sabbia fra le dita?... Ah, niun guarisce il mal che ti distrugge!... .... Pur de le sacre tue viscere il fiore, la bimba del tuo amore torna da i boschi, carica di rose. Essa che porta la divina fiamma del sogno tuo ne gli occhi, lascia cader le rose a’ tuoi ginocchi, e dice, e par che l’anima trabocchi ne la sua voce: Perché piangi, mamma?...
Ho quell’ore ne l’anima inchiodate: la via deserta, sotto un ciel di piombo: ad un tratto, da lungi, un sordo rombo di folla, e un grandinar di fucilate. Porte e finestre in un balen serrate lugubremente - poi silenzio. Il rombo già s’avvicina, sotto il ciel di piombo: colpi, fischi di palle, urli, sassate. Fin ch’io vivrò mi resterà ne l’ossa quell’angoscia, quel soffio d’agonia su gente inerme del suo sangue rossa; e vedrò quel fanciul, senza soccorso morente un bimbo!... in mezzo de la via, china e intenta su lui come un rimorso.
T’ho vista ieri, irta ferrigna immobile dietro le sbarre d’una vasta gabbia. Non guardavi già tu la gente piccola che ti guardava. Ferma sugli artigli d’acciaio, gli occhi disperati al torbido cielo volgevi, al cielo!... Uno scenario t’hanno fatto di rocce, per illuderti: perché tu creda ancor d’essere in patria, fra pietrami di grotte e di valanghe, fra protervie di rupi e di ciclopici templi, sospesi in vetta a’ precipizii, in faccia al vento che a procella sibila. Ma non t’illudi tu. Vedi le sbarre, sai che è finita. Io voglio ora una storia dirti d’uomini saggi, che le proprie mani a foggiar la propria gabbia adoprano, d’oro o di ferro - quasi sempre d’oro: e bene assai la temprano e la rendono inaccessa, e là dentro si rinserrano, e si lamentan poi d’essere in carcere, guardando il mondo co’ tuoi occhi d’odio vano e di vana disperazïone. Tu almeno, tu fosti ghermita al laccio, fosti ferita, tu, nella battaglia feroce, prima d’esser come un cencio ignobile fra mano al tuo nemico. E stai senza speranza e senza gemito vile; e chi passa ti può creder morta o sculta in bronzo, così immota e diaccia t’irrigidisci, chiusa in un disdegno indomito per tutto che non sia l’ebbrezza della libertà perduta. E, se tu comprendessi, con un colpo di rostro lacerar vorresti il volto di chi t’offende con la sua pietà.
Veronetta Longhèna, tu mi piaci. Il tuo sorriso è quello delle zingare, bianco e rosso, con linee sinuose, con fremiti fugaci di sarcasmo e d’orgoglio. - Tu mi piaci. Dove l’hai preso il tuo bel nome?... È un nome di guerra, non è vero?... Qual capriccio d’amante allegro e ironico te l’appuntò, qual nastro fra le chiome?... Veronetta, mi piace il tuo bel nome. Raccontami la tua vita randagia. Io m’accovaccio presso a te, sul morbido tappetino di Persia, frugando con le molle fra la bragia. Raccontami la tua vita randagia. Dimmi i paesi che vedesti, i porti donde salpasti, spensierata rondine, e il tuo piacer di vivere così, padrona delle varie sorti, come lo sei de’ tuoi capelli attorti. Io t’assomiglio, se mi guardi bene. Ma è come fossi chiusa dentro un fodero, mentre snudata sfolgori tu, fina lama che in sua punta tiene il mondo, per gingillo. Guarda bene. Quando riparti?... e verso qual ventura?... .... Io resterò a frugar dentro la cenere; e mirerò lo specchio per rivederti in me, nella tua dura fronte d’enigma, o Donna di ventura.
Io ti farò morire di dolcezza, se tu m’ascolterai quando la luna gonfia il mio cuore come un cuore umano. Sarà rossa la luna ad orïente, e poi, salendo, diverrà di perla. Tu immobile starai tra flutto e spiaggia, piccola - oh, un punto!... in mezzo all’infinito. Io ti dirò l’ore perdute della tua dolce infanzia, l’ore che tu credi dimenticate; e i sogni in cui vedevi fiori simili a bocche aperte al bacio fiorir per te lungo rupestri lande ove il giorno non era e non la notte era, ma Vita somigliava a Morte. Io ti dirò ciò che hai sofferto. Ma mitemente, così, come di cose lontane, e che non possono colpire più, tanto nel pensier le trasfigura la poesia della possente vita. Io ti dirò le cose che tu speri, e per incanto le vedrai compiute: e la pienezza de’ tuoi sensi tale sarà, che ti parrà d’essere eterna, fulgida innumerevole leggera quale schiuma di queste onde d’argento che si gonfian d’amor sotto la luna. Io ti farò morire di tristezza se tu m’ascolterai quando di piombo grava il cielo su gravi acque di piombo. Starà sospesa dentro la calura, nel silenzio, un’attesa di tempesta: l’onde verranno a lacerarsi sulla spiaggia, con rauche grida appassionate. Allora, allora, o piccola, che hai così tenere mani e così grandi occhi, io ti canterò la veemente poesia della vita che vivesti prima d’esser la piccola che sei. Una zingara fosti. I tuoi capelli battenti il dorso eran color del rame, tutti a riccioli, vivi uno per uno: e verdastri e mutevoli i tuoi occhi di sole e d’onda; e tutto di serpente l’agile corpo, in mille avvolgimenti esperto, ed arso dall’impuro sangue dei nomadi. Tu fosti una regina. Passò il tuo carro lungo le mie rive, il tuo riso il tuo canto a fior de l’acque. I tuoi compagni avean denti ferini, rapaci mani, acuti occhi di falco, e tu li amavi; ma più d’essi amavi la libertà. Tenevi al petto un fiore, sotto il fiore nascosto un pugnaletto lucentissimo. E fiera sulle piazze danzavi le tue danze, le tue danze di gitana, ricordi?... Non ricordi dunque tu nulla?... Dalla casa errante le pallide vedesti albe fiorire, e nei tramonti l’acque invermigliarsi, e nei meriggi tutto esser di fiamma, anche il tuo corpo, anche la vagabonda anima tua come l’arena innumere, multicolore come l’onda, libera come il vento del largo. E delle folle ti piacque il gran clamore, e del deserto il gran silenzio, e delle vie notturne i fanali rossastri, i torvi agguati, il pericolo corso ad ogni istante. Di desiderio io ti farò morire, se vorrai ch’io ti dica il nome tuo d’una volta. Ricòrdati. Superbo era, ma dolce e pieno d’assonanze strane. Non giungi a ricordarti?... China sul mare, ascolta il pianto inconsolabile dell’acque che s’inseguono s’infrangono e muoiono e rinascono e non sanno perché. Non ti diran forse quel nome; ma in esse sentirai la sua potenza dominatrice, o piccola, che hai così teneri polsi per catene di perle, e così grandi occhi pel sogno. Con la quinta raccolta (Esilio, 1914), il cui titolo fa esplicito riferimento alla “fuga” in Svizzera, nata dal disgusto per il matrimonio ormai fallito con l’industriale biellese Giovani Garlanda e dalla volontà di stare con l’amata figlia Bianca che era stata inviata a studiare in un collegio zurighese, la poesia di Ada Negri vira decisamente in direzione del versante personale. Sentendosi «sola come in una bara» (lettera a Laura Orvieto del 14 novembre 1914), avvertendo il tempo che svanisce «come la sabbia fra le mani» (XXXI Dicembre), amaramente convinta che «ogni donna è al mondo per servire» (Servire), ella si aggrappa infatti al rapporto con la figlia, su cui proietta se stessa e le proprie ansie di libertà.
Ponte di Lodi, i tuoi plumbei pilastri abbracciati dall’impeto del fiume rivedo, e i freschi spruzzi delle schiume candide a fior dei vortici verdastri. Come una volta ancor vorrei poggiarmi alle tue sbarre, e riaver quel vento in faccia; e mirar nuvole d’argento specchiate in acqua, e d’esse sazïarmi. Ma esser quella d’allora, con quel volto e quell’anima, scarna adolescente livida di superbia, impazïente di vivere, con sensi aspri in ascolto: e tutto innanzi a me: lo spumeggiante fiume e la vita!... Ma su via trascorsa non si ritorna. Il tempo spinge, in corsa: altri fiumi, altri ponti, altri miraggi. E vado e vado. Finché, un giorno. Addio dirà l’anima al corpo. E sarà il fiume natal, che, in sogno, sotto il ponte, a lume d’astri, mi condurrà verso l’oblio.
Fluttuo con te, nel tuo sordo tumulto
perduta; e tu mi porti e tu mi spingi
e mi rigetti, e d’ignorarmi fingi,
ma ben m’abbranca il tuo potere occulto.
Sai di sudore umano, e di sporcizia
mascherata d’aromi, e del sentore
d’ogni travaglio: ogni odio ed ogni amore
per oscuro fermento in te s’inizia.
Mi piaci per l’enorme onda vitale
che tutta mi ravvoltola, muggente
e rischiumante, carne e cuore e mente
impregnando del tuo libero sale.
Ogni volto che a lampi appare e spare
forse è il mio: ché mio corpo non è questo
solo ch’io sento e curo e movo e vesto:
chi vi noma e vi scinde, onde del mare?...
D’essere innumerevole è mia gloria
e mia superbia; e multiforme, come
te, folla; e in preda a tutti i venti, come
te, che a folate scardini la storia;
e, se fremito passi di sommossa,
ingigantir con te, con te disvellere
i sassi e i cuori, ed oscurar le stelle
col divampar della mia furia rossa.
Il libro di Mara (1919) apre una nuova stagione lirica, soprattutto per le innovative scelte metriche della Negri, che sulla scorta del poeta americano Walt Whitman abbandona l’amato endecasillabo per sperimentare il verso lungo non rimato. A queste scelte stilistiche rimarrà fedele anche nel successivo volume poetico (I canti dell’isola, 1924) che scaturisce da un’esperienza esaltante che Ada aveva vissuto nel 1923 a Capri, dove si era fermata per alcuni mesi ospite del sindaco dell’isola, Edwin Cerio.
da Il libro di Mara
Quando il canto del gallo segò il cielo, ed ella ancor nel sonno a te sorrise, o amato.
L’uno dall’altro nasceste allora, in purità di corpo, in purità di spirito.
O voi beati, non espressi da grembo di madre, ma dalla meraviglia del vostro amore!
E vi levaste con atti limpidi, ed il primo mattino del mondo con voi si levò.
E nuovi furono agli occhi vostri i rosei cirri del cielo specchiati nei fiori dei peschi,
nuova l’erba intrisa di guazza, fresca alle mani come un lavacro,
divina in voi la dolcezza di scoprirvi un nell’altro presenti e viventi,
con anima per amare,
labbra per baciare,
voce per benedire.
Domani è aprile, e tu verrai per condurmi incontro all'ultima primavera.
Donde verrai, come verrai, non so; ma senza soffrire potrò rivederti.
Soave sarà nella tua la mia mano, soave il mio passo al tuo fianco.
Occhi d'infanzia i nostri, a specchio innocente del novo miracolo verde.
Andremo per orti e frutteti, a capo scoperto nel sole, senza far male ai santi germogli.
In punta di piedi, per tèma si stacchin dai rami le rosee farfalle dei pèschi,
e trepidi e senza respiro, per non turbar pur con l'aria i fiori dell'ultimo sogno.
E di quello che fu della carne, nulla verrà ricordato.
E di quello che fu del dolore, nulla verrà ricordato.
E quel che è della vita eterna farà pieno di canti il silenzio.
Non io tua, non tu mio: dello spazio: radendo la terra con ali invisibili,
sempre più lievi nell'aria, sempre più immersi nel cielo,
fino a quando la notte ci assuma ai suoi vasti sepolcri di stelle.
Oh, tu, figlia! Oh, tanta terra e tanto mare fra noi!
Quando fu mai, fra noi, tanta terra e tanto mare?
E come puoi vivere senza di me? Dimmi che non puoi!
Saprò forse allora strapparmi all'incanto, lasciare
l’Isola dolce. So, ch’essa è sogno: ch'è vana parvenza
di sogno. Sparire potrebbe, così, all'improvviso,
nei flutti, o nel gorgo solare; e, con essa, la mia demenza…
Serro su gli occhi le mani, per salvarmi; e nel cuor ti ravviso.
Sei sulla terrazza, in tunica bianca: allatti la tua Donatella.
Sole velato su lei, su te, attraverso le grappe e le fronde
del glicine. Vien da San Barnaba, ingenuo, un canto di campanella:
letizia materna ti penetra col succhiar della bimba, a grandi onde.
Altro non sai, né chiedi. Ti basta la tua verità.
Ala fanno i capelli sul volto, perduto nel volto che gli somiglia.
Raccolgono gli occhi la luce del cielo sulla diletta, che gode e non sa.
Così, in cuore, ti penso - e mi salvo – giovine madre che sei la mia figlia.
Quando sarò sepolta nel paese di mia madre,
là dove la bruma confonde i fertili solchi terrestri coi solchi del cielo,
le rane ed i rospi dei fossi mi canteranno la nenia notturna.
Dagli acquitrini melmosi, filtrando fra il bianco umidor della luna,
in soavi cadenze di flauti, in tremolii lunghi di pianto sciogliendomi il cuore,
blandiranno il mio sogno, custodi della perenne malinconia.
Malinconia della patria, con sapore di terra bagnata e di grano maturo,
con quieto pudore di case ove accendon le madri pei figli la lampada al desco,
con fumo di tetti, ansare di fabbriche, radici dei vivi e dei morti,
a me verrà, con me dormirà, portata da canti di rane e di rospi,
quando sarò sepolta nel paese di mia madre.
Con Vespertina (1930) e Il dono (1936) la Negri torna a metri più tradizionali e al modello leopardiano particolarmente amato; il rimpianto per la gioventù perduta e il costante pensiero alla morte non vanno però disgiunti dall’ammirazione per il creato e dalla sensazione di poter ancora realizzare un’opera immortale. E all’amico giornalista Federico Binaghi il 3 aprile 1930 scrive: «Ho l’impressione che il mio testamento morale si trovi tutto in questa cinquantina di liriche in endecasillabi sciolti».
da Vespertina
Sempre sul cuore il tuo dolor ti preme
più grave che non sia peso di pietra.
Pure è per esso che ti senti viva:
s’egli non fosse, vano a te sarebbe
sangue e respiro, vano il mover passi
in quel deserto ch’è a te il mondo: colmo
d’uomini, è vero; ma alla sabbia uguali
ch’or sì or no mulina in groppa al vento.
Come hai fatto a restar senza nessuno
sulla terra, cosi: che men solingo
è il cane a cui per via mori il padrone?
Né tu ti lagni d’esserlo. Non gridi
«Son sola» per chiamar chi ti s’accosti
e t’accompagni. Forse uno verrebbe
se lo chiamassi: o, se tu andassi a lui,
nel suo sorriso leggeresti il cuore.
Ma non lo vuoi. Non credi più. Non sai
più abbandonarti alla tremante luce
della speranza. Ti bendasti gli occhi
per non mirarla. E pur ne soffri; e più
nel tempo inoltri e più t’ostini in questa
tua superba miseria, e più comprendi
che meglio forse era non esser nata.
Ricordi, un giorno. Amavi. E se di sole
t’entrava un raggio dal balcone aperto,
eri quel raggio, fra la terra e il cielo:
se veniva improvviso a inebriarti
un effluvio di rose, ecco, e tu eri
fresca rosa olezzante in un giardino:
se a te saliva un canto, eri quel canto.
Trovassi ancora un po’ d’amore sulla
tua strada, pur sapendo che non dura
amore in terra più che in ciel non duri
la nube! Ancora illuderti potessi
d’essere creatura necessaria
ad altra creatura, e quella a te!
Posare il capo su la spalla d’uno
che di te tutto sappia, anche le colpe,
e tutto ami, anche il male, anche i crudeli
segni del tempo; e tutta ti raccolga
nelle sue braccia!
Ma non son che tardi
vaneggiamenti. Non ritorna il tempo
d’amore. E tu non hai, per te, che il peso
de’ tuoi ricordi, mentre scende l’ombra.
Luna, che sorgi di su l’alte case
della città, nell’ora in cui si placa
il tumulto dei traffici, e ai cristalli
splendon luci improvvise, e per le vie
lampade bianche sboccian tonde in fila
a farti specchio mentre in ciel cammini:
sempre sei quella ch’io, fanciulla, un tempo
miravo da’ miei campi e dal mio fiume;
e m’illudea, sì vasto era l’incanto,
essere tu ed io sole nel mondo.
Ora, sulla città greve di folla,
dura d’asfalti, irta d’antenne, inferma
di rumor, di fatica, di travaglio
cupido e vano, ov’io perdei me stessa,
tu la tregua di Dio porti, ed assolvi
col tuo riso celeste ogni peccato.
E mentre guardi a noi, passi vagando
anche sui flutti del profondo mare,
sui sentieri e le vette ardue de’ monti,
e su placidi laghi e lontananze
di foreste e di prati; e ovunque l’uomo
trovi; e l’illudi; ché tu sempre sei
quella; ma per ciascun sola a lui solo.
Sola a me sola, ecco, ritorni, o luna,
e nell’effuso tuo pallor m’oblio
come allora che tu m’eri custode
sull’abbandono del virgineo sonno.
Se ti son cara, questa notte almeno
la fanciulla ch’io fui veglia nel mio
sonno; e dormendo io sogni esserti accanto
fanciulla eterna nell’eterna pace.
Amo la libertà de’ tuoi romiti vicoli e delle tue piazze deserte, rossa Pavia, città della mia pace. Le fontanelle cantano ai crocicchi con chioccolio sommesso: alte le torri sbarran gli sfondi, e, se pesante ho il cuore, me l’avventano su verso le nubi. Guizzan, svelti, i tuoi vicoli, e s’intrecciano a labirinto; ed ai muretti pendono glicini e madreselve; e vi s’affacciano alberi di gran fronda, dai giardini nascosti. Viene da quel verde un fresco pispigliare d’uccelli, una fragranza di fiori e frutti, un senso di rifugio inviolato, ove la vita ignara sia di pianto e di morte. Assai più belli, i bei giardini, se nascosti: tutto mi pare più bello, se lo vedo in sogno. E a me basta passar lungo i muretti caldi di sole; e perdermi ne’ tuoi vicoli che serpeggian come bisce fra verzure d’occulti orti da fiaba, rossa Pavia, città della mia pace.
Padre, se mai questa preghiera giunga
al tuo silenzio, accoglila, ché tutta
la mia vita perduta in essa piange:
e s’io degna non son, per la grandezza
del ben che invoco fammi degna, Padre.
Quando morta sarò, non darmi pace
né riposo giammai ne le stellate
lontananze dei cieli. Sulla terra
resti l'anima mia. Resti fra gli uomini
curvi alla zolla, grevi di peccato: con essi vegli, in essi operi, ad essi
della tua grazia sia tramite e luce. Lascia ch'io compia dopo morta il bene
che nella vita compiere m'illusi, o me povera povera! e non seppi. Mi valga presso Te questo rimorso
ch'io ti confesso, e il mio soffrire, e il vano
fuoco di carità che mi distrugge. Giorno verrà, dal pianto dei millenni,
che amor vinca sull'odio, amor sol regni
nelle case degli uomini. Non può
non fiorire quell'alba: in ogni goccia
del sangue ond'è la terra intrisa e lorda
sta la virtù che la prepara, all'ombra
dolente del travaglio d'ogni stirpe.
Il dì che sorga, fa’ ch'io sia la fiamma
fraterna accesa in tutti i cuori; e i giorni
la ricevan dai giorni; e in essa io viva
sin che la vita sia vivente, o Padre.
Nato a Codogno nel 1923, Franco Galluzzi crebbe nutrito degli ideali di libertà e democrazia che si respiravano in famiglia. Cominciò giovanissimo già negli anni trenta a distribuire la stampa clandestina antifascista che usciva dalla tipografia del padre; e nei boschi di Senna Lodigiana andava a recuperare le armi paracadutate dagli Alleati per traghettarle al di là del Po. Dopo l’8 settembre del ’43 salì in montagna, aggregandosi alle formazioni partigiane della Valdossola e prendendo parte a vari combattimenti contro i nazifascisti. Tornato a Codogno nell’aprile del ’45, collaborò attivamente all’insurrezione locale che portò alla liberazione della città: ma in quegli stessi giorni si ammalò e morì il 2 maggio, pochi giorni dopo la Liberazione.
La sua vena poetica rimase ignota per decenni, finché nel 2004 i fogli dattiloscritti contenenti ottantadue sue poesie vennero scoperti e pubblicati a cura di Gennaro Carbone, Annalisa Degradi e Isabella Ottobelli per i «Quaderni dell’Istituto Lodigiano per la Storia della Resistenza e dell’età Contemporanea» (ILSRECO), formando una piccola ma intensa raccolta cui è stato dato il titolo Se potessi…. Riletti oggi, a distanza di molti anni, questi testi mostrano certamente una maturità artistica non ancora pienamente raggiunta (come è ovvio), ma fanno emergere con chiarezza il ritratto di un lettore di poesia straordinariamente maturo per l’età, che accanto ai grandi della tradizione italiana conosce e apprezza la poesia nuova di D’Annunzio, Gozzano, Ungaretti, Montale. Ispirato da questi maestri, Galluzzi sa però distaccarsi dai modelli per proporre uno stile personale, asciutto e incisivo, ricco di improvvisi scarti logici che provocano nel lettore un forte effetto di straniamento. Egli sa investigare in questi suoi testi la profondità della propria inquietudine giovanile e dare voce alla dolorosa consapevolezza dell’impossibilità di una comunicazione profonda tra gli uomini. Ma questo, lungi dal portarlo alla rinuncia o all’afasia, fa piuttosto scaturire sempre nuovi interrogativi e ulteriori percorsi di ricerca.
I temi che egli approfondisce spaziano dall’amore, vissuto con trepidazione e inquietudine, all’impegno politico affrontato con estrema determinazione, fino alla riflessione sulla morte, che per lui non ha nulla di tragico o angoscioso, ma è vissuta con la levità del ragazzo che affronta serenamente il suo futuro, consapevole che in tal modo «sembrerà più facile / la morte». Così in un intenso testo egli può affermare: «Fuggo / per diventare finalmente un uomo»: è la fuga dal disimpegno e dalla tranquilla serenità quotidiana, per sfidare con matura consapevolezza l’impegno decisivo.
Qual è il tuo nome?
Io non lo so ancora.
E l’ho cercato tanto in mezzo a quelli
che vengono alla bocca d’improvviso,
quando il cuore ha bisogno
di dare una sua forma,
una sua forma intima ed amica
al fuggente fantasma d’una donna.
Ne vorrei uno che accogliesse
in un alito
la musica di boschi risonanti,
echeggianti nell’ombra,
l’amarezza smisurata e ondosa
del nostro padre il mare,
il profumo del fieno
che nel meriggio è ardente
e nella sera
fresco come le guance tue.
Vorrei un nome che s’attorcigliasse
al tuo corpo,
formando un tutto unico,
un nome breve,
perché io possa dirlo
tante volte di più.
T’ho amata da lontano, tenuamente,
per non rompere il filo che trattiene
il mio sognare al tuo sognare assente,
perduto dietro Quello che non viene.
T’ho seguita pregando sulla porta
chiusa della sua casa abbandonata,
quando guardavi la facciata morta,
prona la dolce testa sconsolata.
Se tu sapessi come anch’io ho vissuto
il tuo amore per Lui, che se n’è andato,
ch’è tornato nell’ombra, sconosciuto,
senza sapere che non l’hai scordato.
Se tu sapessi come anch’io ho creduto
nel tuo sgomento grande, desolato.
Amiamoci dunque per questo:
per potere, domani,
aver la squisita tristezza
d’abbandonarci.
Amiamoci
per saper che significa
dopo,
andare divisi,
conoscer la buia dolcezza
dell’ultima parola.
Addio...
Le mani rivivono sole,
al contatto,
lo strano romanzo.
E noi ci guardiamo:
un attimo, oh! un attimo ancora.
Andarsene, andarsene lontano
e dire a chi c’incontra, a chi ci guarda
senza più riconoscerci: “Io fuggo
per diventare finalmente un uomo.
Fuggo per non amare più il profumo
femmineo della notte ed il notturno
calore della donna. Fuggo infine
perché il mondo soltanto è la mia casa
e l’orizzonte il mio traguardo. Vado
dove mille esistenze stanno ansiose
ad aspettare l’anima mia, vado
dove il coraggio spezza ogni confine
tra la vita e il romanzo. Dico addio
a voi restanti”. E poi tranquillamente
continuare la strada.
Compagno, è già l’alba.
È già l’ora d’un’altra fatica.
E tu maledici ogni giorno
che ancora
rinnova la strada nemica:
e tu
che la vita degli altri
hai vissuto
nel sogno recente,
rivolgi l’estremo saluto
a ciò che per niente
amasti stanotte.
Compagno.
Allaccia le cinghie,
riprendi il tuo sacco.
Ritorna a scordare
le cose negate di ieri,
ritrova i pensieri
irrequieti
che portan lontano.
Compagno, compagno.
Cos’è
che ti fa meno forte:
è forte il sapere che morte
si chiama
la sosta futura?
È forse una nuova paura
che il cuore ti serra
e i passi t’acquieta?
È forse la meta che oggi
più folle ti sembra?
Compagno, rimembra
perché cominciasti
l’andare:
ricorda quel mondo che odiasti,
le immagini amare
che un giorno
ti spinsero fuori
dagli uomini.
Compagno: ricorda e prosegui.
Certo
ci accorgeremo a un tratto
d’esser vecchi.
Sarà come se sfatto
dentro di noi
si fosse qualche cosa
che pareva durevole
perché ancora incompiuto,
qualcosa che pareva
non andasse perduto
perché non si sapeva come, quando
lo si era trovato.
Amica, ti domando
che mai faremo allora.
Ricorderemo? E cosa?
Che momenti saran da ripensare
nel poco tempo
della sosta estrema?
Che ore rivivremo dal groviglio
di un passato fuggente,
faticoso,
che negli occhi
non ci ha lasciato niente,
se non la voglia ansiosa
di poterli serrare?
Guarderemo negli altri
quelli che sorgeranno,
la verdicante, gaia giovinezza
che noi non ci accorgemmo
d’aver avuto in mano,
quando la mano tendevamo aperta
a chiedere di più?
Come certa
sembrerà la disfatta!
E l’inutile strada che per tanto,
amando, disperando,
maledicendo
percorremmo a fianco,
ci parrà così sciocca,
così breve,
da lasciarci capire finalmente
cos’è l’umanità!
Forse non rimarrà
che chiedere un’ultima volta
cos’era
la smania di giungere,
se alla meta
portiamo un cuore stanco,
un’anima scialba che soltanto
desidera tornare.
Davanti alla vecchiezza
forse amara
ci sembrerà più facile
la morte…
Concludiamo questa breve antologia poetica con un brano riflessivo che Galluzzi scrisse pochi giorni prima di morire:
“Ma allora cos’è questa morte che tra le crepe della vita ci guarda cogli occhi d’un’amante respinta? Ce la sentiamo nelle pupille, qualche volta; qualche altra nei sensi che la sua terribile inconsistenza affila, scarna. Guardiamo a lei come si guarda al fondo d’un orrido e ci corre per il corpo lo stesso raccapriccio che ci fa ritrarre, lo stesso inverosimile fascino che ci tiene inchiodati a fissare. La morte è la sola verità che l’uomo non può permettersi d’ignorare.”
(Fine aprile 1945)
Corrado Alvaro e la narrativa meridionalistica
Nato nel 1895 a S. Luca, sull’Aspromonte, Corrado Alvaro combatte nella prima guerra mondiale e da quella drammatica esperienza trae la raccolta lirica Poesie grigioverdi (1917). Nel primo dopoguerra è giornalista al «Resto del Carlino», al «Corriere della Sera» e alla «Stampa», quindi direttore del «Risorgimento» e del «Popolo di Roma». Nel 1925 è tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Nel 1940 riceve il Premio dell'Accademia d'Italia per la letteratura. Nel 1945 è il primo direttore del Giornale radio nazionale della RAI. Muore a Roma nel 1956.
Il suo testo più noto è la raccolta di racconti Gente in Aspromonte (1930), cui seguono negli anni altri brani narrativi, resoconti di viaggio, saggi critici e testi teatrali, che non hanno però successo presso il pubblico né la critica; ma molto interessante è in particolare il romanzo distopico L'uomo è forte (1938), un libro di dura polemica sull'uomo moderno vittima delle dittature, che ovviamente viene visto con sospetto dalla censura fascista.
Tutta la produzione di Corrado Alvaro si può inscrivere sotto il segno della contraddizione, del dissidio insanabile che dall’uomo si trasferisce sui personaggi: infatti sensualità e moralità profonda, razionalità e incanto dei ricordi, amore per la civiltà contadina e richiamo della città, regionalismo ed europeismo, nostalgia dell’infanzia e desiderio di modernità convivono inscindibilmente in lui e nei suoi personaggi. Ne scaturisce un pessimismo di fondo, che non porta però mai Alvaro al disincanto e al disimpegno, ma anzi è fonte per lui di consapevolezza e lo spinge alla lotta contro l’ingiustizia; tanto che egli può affermare: “Ho cercato di sopravvivere per i miei doveri sociali e verso me stesso, pensando che un giorno avrei potuto dire una parola utile, se non necessaria, secondo l'eterna illusione che assiste uno scrittore”.
Il rapporto tra letteratura e vita gli è offerto da modelli prestigiosi che egli ha ben presenti, in particolare Verga, D’Annunzio, Pirandello, Grazia Deledda: non a caso scrittori che come lui hanno saputo descrivere il mondo meridionale con lucidità e realismo. Anche se per Alvaro sarebbe meglio parlare di “realismo magico”, perché la Calabria che egli descrive è nello stesso tempo un luogo reale conosciuto, vissuto e amato, ma anche uno spazio mitico sognato e rimpianto, un'oasi di originaria innocenza cui tornare nei momenti di sconforto. L’analisi che egli attua del mondo calabrese è precisa e partecipe: egli lo osserva nostalgicamente ammirato, pur consapevole della sua atavica arretratezza e barbarie. Non manca nei suoi testi l’impegno di denuncia, ma il tono predominante, soprattutto nei racconti di Gente in Aspromonte, è quello surreale e magico di uno scrittore alla ricerca delle proprie radici. I modi naturalistici sono così riletti alla luce delle esperienze letterarie più moderne, italiane ed europee: e la Calabria che emerge dal libro è un luogo mitico prima che geografico, “paese dell’anima” la cui gente diviene simbolo di una fedeltà assoluta alla tradizione e ai valori di una civiltà che non vuole sparire.
Questa ambivalenza di giudizio vale anche per la città, che da un lato è vista come realtà di progresso e civiltà, dall’altro lato sembra esprimere violenza e sopraffazione. Anche in questo Alvaro si contrappone al fascismo, che demagogicamente celebrava la forza, la violenza, il progresso; mentre lo scrittore calabrese tende a rifugiarsi nella terra natia, nel contatto con gli umili, con le cose e i sentimenti conservatisi nella loro naturale verginità e schiettezza, col mondo patriarcale dell'infanzia. Il fascismo ai suoi occhi si presentava infatti come il "trionfo del ricco sul povero, del potente sul debole. della retorica sulla verità, della città sulla campagna, di un ordinamento militaresco sulla libertà individuale, della ipocrisia sulla schiettezza”.
La scrittura di Alvaro sembra di primo acchito trascurata e istintiva, ma ha invece una grazia leggiadra, quasi sensuale, esprime una sensibilità a volte amara, ma sempre partecipe, quasi romantica, fatta di chiaroscuri ed evocazioni, di riferimenti sottintesi e di sogni ad occhi aperti.
L’opera sua più famosa, Gente in Aspromonte, è una fantastica trasfigurazione delle condizioni di vita dei contadini e dei montanari in questa regione, condotta sul filo della memoria: Alvaro ricostruisce vicende, persone, paesaggi da lui amati in gioventù, sentendosi sempre partecipe del dramma della povera gente che da secoli è oppressa e depauperata da latifondisti spietati. I personaggi dei racconti raccolti in questo volume devono sopravvivere in una terra arida e desolata, subendo ingiustizie e inveterate sopraffazioni, come il protagonista del racconto principale, il pastore Argirò, i cui buoi (avuti in custodia da un ricco proprietario terriero, tale Filippo Mezzatesta) precipitano in un burrone e devono essere venduti per pochi soldi come carne di bassa macelleria. La sorte poi si accanisce contro di lui quando il piccolo appezzamento di terra che lavora viene devastato da un torrente; e infine quando alcuni contadini invidiosi gli bruciano la stalla facendo morire la mula che lo aiutava nel lavoro. L’unica speranza che gli rimane è il figlio minore, Benedetto, che facendosi prete darebbe al padre una bella rivincita. Ma sarà invece l’altro figlio, Antonello, a vendicarlo, divenendo brigante e bruciando il bosco del ricco possidente Filippo Mezzatesta che aveva sempre angariato suo padre. Antonello infine distribuisce ai poveri il bestiame del Mezzatesta e ne distrugge i raccolti; finché, braccato dai carabinieri, si arrende dicendo: "Finalmente potrò parlare con la Giustizia. Che ci è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio!"
Ecco l’inizio di Gente in Aspromonte:
«Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d'inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante. Sugli spiazzi le caldaie fumano al fuoco, le grandi caldaie nere sulla bianca neve, le grandi caldaie dove si coagula il latte tra il siero verdastro rinforzato d'erbe selvatiche. Tutti intorno coi neri cappucci, coi vestiti di lana nera, animano i monti cupi e gli alberi stecchiti, mentre la quercia verde gonfia le ghiande pei porci neri. Intorno alla caldaia, ficcano i lunghi cucchiai di legno inciso, e buttano dentro grandi fette di pane. Le tirano su dal siero, fumanti, screziate di bianco purissimo come è il latte sul pane. I pastori cavano fuori i coltelluzzi e lavorano il legno, incidono di cuori fioriti le stecche da busto delle loro promesse spose, cavano dal legno d’ulivo la figurina da mettere sulla conocchia, e con lo spiedo arroventato fanno buchi al piffero di canna. Stanno accucciati alle soglie delle tane, davanti al bagliore della terra, e aspettano il giorno della discesa al piano, quando appenderanno la giacca e la fiasca all’albero dolce della pianura. Allora la luna nuova avrà spazzata la pioggia, ed essi scenderanno in paese dove stanno le case di muro, grevi delle chiacchiere dei sospiri delle donne. Il paese è caldo e denso più di una mandra. Nelle giornate chiare i buoi salgono pel sentiero scosceso come per un presepe, e, ben modellati e bianchi come sono, sembrano più grandi degli alberi, animali preistorici. Arriva di quando in quando la nuova che un bue è precipitato nei burroni, e il paese, come una muta di cani, aspetta l’animale squartato, appeso in piazza al palo del macellaio, tra i cani che ne fiutano il sangue e le donne che comperano a poco prezzo.
Né le pecore né i buoi, né i porci neri appartengono al pastore. Sono del pigro signore che aspetta il giorno del mercato, e il mercante baffuto che viene dalla marina. Nella solitudine ventosa della montagna, il pastore fuma la crosta della pipa, guarda saltare il figlio come un capriolo, ode i canti spersi dei più giovani, intramezzati dal rumore dell’acqua nei crepacci, che borbotta come le comari che vanno a far legna. Qualcuno, seduto su un poggio, come su un mondo, dà fiato alla zampogna, e tutti pensano alle donne, al vino, alla casa di muro. Pensano alla domenica nel paese, quando si empiono i vicoli coi loro grossi sospiri, e rispondono a loro, soffiando, i muli nelle stalle e i porci nei covili, e i bambini strillano all’improvviso come passerotti, e i vecchi che non si possono più muovere fissano l’ultimo filo di luce, e le vecchie rinfrescano all’aria il ventre gonfio e affaticato, e le spose sono colombe tranquille. Pensano alla visita che faranno alla casa di qualche signore borghese, dove vedranno la bottiglia di vino splendere tra le mani avare del padrone di casa, e il vino calare nel bicchiere che vuoteranno tutto d’un fiato, buttando poi con violenza le ultime gocciole in terra. Quel vino se lo ricordano nelle giornate della montagna come un fuoco dissetante, poveri e eterni poppanti di mandra».
Luciano Erba tra ironia e riserbo
Dieci anni fa moriva a ottantasette anni Luciano Erba (1922-2010), traduttore, critico letterario, docente universitario e poeta: aveva esordito in questo campo nel 1951 con Linea K, una raccolta nella quale soprattutto rileggeva la tragica esperienza vissuta nei campi di lavoro in Svizzera durante la guerra. Dice di questa raccolta l’autore: «La linea K è la linea dell’impossibile, perché è scritta nell’alfabeto dell’impossibile. Alludevo con la lettera K a un fatto fonologico: la K era presente sino all’epoca medievale come grafema nell’alfabeto. Poco usata, sì, ma comunque rendeva i suoi servigi per trascrivere suoni che poi in epoca moderna sono stati registrati graficamente da gruppi consonantici e semiconsonantici complessi. Eppure esisteva! Lo dico nella poesia Tra spazio e tempo, “abbiamo perso anche il kappa”. Mi affascinava l’idea dell’eliminazione grafica di un suono pur esistente. Ma io volevo contraddire l’eliminazione, e allo stesso tempo dire che l’esperienza, anche registrata attraverso la poesia, è eliminabile, non necessaria».
Fin dagli esordi Erba si inserisce a pieno titolo in quella che Luciano Anceschi definisce “linea lombarda” per le sue scelte stilistiche lontane tanto dall’ermetismo quanto dall’estetismo (così come, in anni più tardi, prenderà le distanze dalla neoavanguardia del Gruppo 63): egli sceglie invece una lingua poetica tersa e lineare, ulteriormente alleggerita da una profonda ironia (e autoironia) che rende il dettato limpido ma allo stesso tempo carico di significato. L’ironia è infatti per lui non un semplice artificio retorico, ma un vero e proprio strumento di conoscenza, in grado di esprimere le perplessità, il desiderio di trascendenza, la tensione verso l’assoluto che egli costantemente avverte, senza che questo si trasformi in dogmatismo o fanatismo religioso. Afferma Erba in un’intervista: «a me sembrava che il domandarsi da dove nasce il mondo, la bellezza di questo domandarsi, sia cosa legittima anche in un’epoca come la nostra dove tutto è stato più o meno spiegato»; e ancora: «Il cercatore e trovatore di verità sa che in poesia la verità non si coglie che per sfuggirci di nuovo».
Allo stesso criterio risponde la scelta costante di presentare nelle sue poesie un catalogo di oggetti consueti, comuni, quelli che egli definisce «le cose senza prestigio, / gli oggetti senza design [che] meglio di altri / esprimono una loro tensione» (Un cosmo qualunque). E in maniera simile anche le persone che appaiono nei suoi testi sono esseri semplici, comuni, “marginali”, uomini e donne di scarsa rilevanza sociale, che sono però in grado di rivelare al poeta la vera essenza del mondo, assai più di quanto potrebbe fare qualunque teoria filosofica o asserto teologico.
Poeta lombardo è dunque Erba, che però alle immagini della Milano in cui viveva (la Milano in realtà meno nota, quella meno “turistica”) affianca scenari parigini e paesaggi lacustri e alpestri: «ho guardato altrove – afferma - al paesaggio che va oltre Milano, il paesaggio lombardo dei laghi, delle colline che arrivano ai monti. Si guardava alla campagna, alla parte dei laghi, il Lago di Como e il Lago Maggiore». Si tratta di luoghi cari, ai quali il poeta vuole aggrapparsi per cercare sicurezze, convinto in ogni caso che la verità ultima è sempre oltre la meta che l’uomo può raggiungere. Il compito che si era assegnato Erba era quello di trascrivere in poesia ciò che altrimenti avrebbe rischiato di passare inosservato: oggetti luoghi e persone di tutti i giorni, che diventano però semi e promesse di trascendenza, quasi eliotiani “correlativi oggettivi”, in grado di svelare, grado per grado, il senso della vita, che pure torna inesorabilmente a sfuggire: «La poesia è nulla, la registrazione del nulla, l’eterno invece è ancora l’archetipo di tutto. Quando mi sfugge dalle mani cerco in ogni caso di descriverlo, e di trasmettere a chi mi legge la sensazione che questa vana ricerca mi lascia nelle mani. Cerco di afferrarlo, l’eterno, ma quello che riesco ad afferrare è questo nulla».
Dopo la raccolta d’esordio le tappe più significative della sua produzione si possono ritracciare in Il bel paese (1955), che nel titolo allude ironicamente a una Lombardia perduta, Il male minore (1960), che riassume tutta la prima fase della sua ricerca poetica, Il nastro di Moebius (1980) che raccoglie i testi scritti fino a quella data; Il tranviere metafisico (1987); L’ippopotamo (1989), che contiene le due raccolte precedenti con vari inediti; Variar del verde (1993); L’ipotesi circense (1995) e Remi in barca (2006).
È soprattutto nella fase finale della sua produzione che la “caccia spirituale” di Erba assume definitivamente i connotati della ricerca religiosa, grazie alla capacità delle cose più umili di «riempire il nulla». Si tratta per lui di un cammino senza fine, perché egli è consapevole di non poter dare risposte a tutte le domande; paradossalmente egli afferma: «la poesia è una ricerca, è un po’ come una ricerca religiosa, è cercare Dio: c’è, non c’è, chi lo sa? […] Ricerca della verità, sapendo benissimo di non poterci arrivare, perché è una ricerca mai assertiva, sempre dubitativa, continua. La mia poesia l’ho trovata senza mai ottenere una risposta, oppure ho trovato risposte e allora non c’era la domanda».
Cominciò incontrando fra la terra
una piccola mano di donna
che scavava patate come me.
Troppo vecchio
Garibaldi badava a non far niente
ma la fila chinata si agitava
nel solco del trattore
a colmare le sporte del padrone.
Lei portava i calzoni del fratello
una borsa alla cinghia
un farsetto come giustacuore:
vidi un paggio
e colsi quella mano.
In cielo correvano le nubi
un contromastro giungeva in decauville:
un santo di legno tra le canne.
È sera qualunque
traversata da tram semivuoti
in corsa a dissetarsi di vento.
Mi vedi avanzare come sai
nei quartieri senza ricordo?
Ho una cravatta crema, un vecchio peso
di desideri
attendo solo la morte
di ogni cosa che doveva toccarmi.
Sin tanto che don Oldani
e i venticinque esploratori
si rincorrono su queste lastre di piombo
io mi immagino il popolo di donne
della cerchia più antica della città.
Addormentate agli ultimi piani
in un letto di ferro
quante sognano la mia sciarpa di seta?
Guardo la città grigiorossa
domenicale, dal terrazzo del duomo
ma potessi volare
ai bei gerani sulle lunghe ringhiere
varcare porte, e a piedi nudi
camminare sugli esagoni rossi
poi vedermi alle vostre specchiere
brune ninette, che abitate il verziere!
Partono adesso i crociati
io rimango quassù
con una spia albanese
che fotografa torri e ciminiere.
Questo è un regno di pioggia, un mondo vizzo
di fantesche accodate ai music-halls,
di bambini sospesi a un palloncino
color lampone, vicino fuma il padre
ha le guance screziate dal rasoio.
Questo è un giorno di festa che ti esilia
alla soglia d'amore e dell'addio
a due mani di donna che tu hai visto
indugiare un istante tra le perle
di una breve collana
sembravan dire
per noi la vita è sempre mañana.
Goletta, gentilissimo legno, svelto
prodigio! se il cuore
sapesse veleggiare come sai
tra gli azzurri arcipelaghi!
ma tornerò alla casa sulla rada
verso le sei, quando la Lenormant
avanza una poltrona sul terrazzo
e si accinge ai lavori di ricamo
per le mense d'altare.
Navigazione blu, estivi giorni
sere dietro una tenda a larghe maglie
come una rete! bottiglie
vascelli tra rocchi di conchiglie
e la lettura di Giordano Bruno
nel salotto di giunco, "nominatim"
De la Causa Principio e Uno!
Si passano le stagioni
a scavare il tronco di un albero
per preparare la piroga
su cui c’imbarcheremo in autunno.
Ti ha portata novembre. Quanti mesi dell’anno durerà la dolceamara vicenda di due sguardi, di due voci?
Se io avessi una leggenda tutta scritta direi che questo tempo che ci sfiora ci appartiene da sempre. Ma non sono che un uomo tra mille e centomila ma non sei che una donna portata da novembre e un mese dona e un altro saccheggia. Sei una donna che oggi tiene un naufrago impaziente dimmi tu sei scoglio o continente?
La tua camicetta nuova, Mercedes
di cotone mercerizzato
ha il respiro dei grandi magazzini
dove ci equipaggiavano di bianchi
larghissimi cappelli per il mare
cara provvista di ombra! per attendervi
in stazioni fiorite di petunie
padri biancovestiti! per amarvi
sulle strade ferrate fiori affranti
dolcemente dai merci decollati!
E domani, Mercedes
sfogliare pagine del tempo perduto
tra meringhe e sorbetti al Biffi Scala.
Sembrava tutto possibile
lasciarsi dietro le curve
con un supremo colpo di freno
galoppare in piedi sulla sella
altre superbe cose
apparivano all’altezza degli occhi.
Ora gli anni volgono veloci
per cieli senza presagi
ti svegli da azzurre trapunte
in una stanza di mobili a specchiera
studi le coincidenze dei treni
passi una soglia fiorita di salvia rossa
leggi "Salve" sullo zerbino
poi esci in maniche di camicia
ad agitare l’insalata nel tovagliolo.
La linea della vita
deriva tace s’impunta
scavalca sfila
tra i pallidi monti degli dei.
Tu anche mi appari agli ultimi sogni e il giorno per te s’inizia con altro cielo. Sul treno delle vacanze cerco il tuo viso e le nostre stature il nostro respiro giovane oltre i larici. Mi ridico per ritrovare la tua voce di allora certi nomi di luoghi che pronunciavi indicandoli al di qua della valle. Amarti è questo, e piangere. Altro non so. La pena è certa è il rimorso.
Secondo Darwin avrei dovuto essere eliminato
secondo Malthus neppure essere nato
secondo Lombroso finirò comunque male
e non sto a dire di Marx, io, petit bourgeois
scappare, dunque, scappare
in avanti in indietro di fianco
(così nel quaranta quando tutti) ma
permangono personali perplessità
sono ad est della mia ferita
o a sud della mia morte?
Abitano mondi intermedi
spazi di fisica pura
le cose senza prestigio
gli oggetti senza design
la cravatta per il mio compleanno
le Trabant dei paesi dell'est.
Tèrbano, ma che vorrà dire?
Forse meglio di altri
esprimono una loro tensione
un’aura, si diceva una volta
verso quanto ci circonda.
Quel campanile osservato dal treno
che fa una esse tra sambuchi e robinie
non è forse il miglior osservatorio
su altri verdi, di foreste ercinie?
Ecco un tipo di foglie che guadagna
se questo verde di alberi da frutta
lo vedi contro un cielo minaccioso
di un temporale colore di lavagna.
Vi è poi un verde selvatico di forre
a mezza costa, sotto i santuari,
che scurisce nel colmo dell’estate:
il sole è alto, l'ombra fa miracoli,
serpeggia il verde da Fatima al Carmelo,
salgo in mezzo ai roveti, guardo il cielo.
Un circo è un circo, anche un piccolo circo.
Il mio paese sembrava più leggero
la sera, quando issata l'alta cupola
le bandiere si alzavano nel cielo,
quando un drin drin di giochi e carabattole
faceva più spediti il cuore e i passi
i colori apparivano più veri
nell'aria nuova, era marzo, era la sera,
soprattutto l'azzurro, la lontana
linea dei monti, il fumo dei camini
e la notte al di là del campanile
che attendeva la fune del funambolo.
Partiva il circo la mattina presto.
Furtivo, con trepestio di pecorelle,
io poiché, fatti miei, stavo già desto
vedevo svanire il circo e poi le stelle.
L'albero che saliva si piegava
tornava a salire verso il cielo
ma avesse preso questa o quella forma
avesse avuto questo o quel colore
sarebbe stato solo un albero
soltanto un segno su quel dosso di monte
di un paesaggio creato dai miei occhi
per secondare i miei esaltati spirti
la mia fierezza di viandante alpestre
giunto infine poco sotto la vetta.
Rema in piedi controcorrente
per salutare gli amici sopra il ponte
beve con noi un vino spesso e forte
seduti a un lungo tavolo di legno
appare e scompare in mezzo agli alberi
nel più fitto del bosco.
È il monaco che passa su un fiume gelato.
È il Figlio, nell'idea direi incompleta
che provo a farmi della Trinità.
II
Viaggiatore che guardi il tuo treno in corsa tra le risaie affacciato da un vagone di coda in curva tra le robinie, sei in fuga lungo un arco di spazio?
o immobile guardi lontano più lontano, da una piega del tempo se il sole che ora declina (il verde è un trionfo di giallo) si arresta ai tuoi occhi pavesi?
Viaggiatore di fine giornata di collo magro, di fronte stempiata.
Dopo la lunga siesta di dicembre
svegliarsi in un paese meridionale
di strette vie, in salita e in discesa.
Salgono odori di cibi affumicati
scendono i ragazzini del doposcuola
vi è una stella nel cielo invernale
Bodini dice: È Natale!
Abito a trenta metri dal suolo
in un casone di periferia
con un terrazzo e doppi ascensori.
Questo era cielo, mi dico
attraversato secoli fa
forse da una fila di aironi
con sotto tutta la falconeria
dei Torriani, magari degli Erba
e bei cavalli in riva agli acquitrini.
Questo mio alloggio e altri alloggi
libri stoviglie inquilini
questo era azzurro, era spazio
luogo di nuvole e uccelli.
L’aria è la stessa: è la stessa?
sopravvivere: vivere sopra?
Non so come mi sento agganciato
la sera ha tempo di farsi più blu
da un pallido re pescatore
o, di passaggio qui in alto,
dal vero barone di Mùnchausen.
Otto anni fa, il 21 gennaio 2012, moriva a Milano Vincenzo Consolo, saggista, giornalista e scrittore raffinato quanto poco noto al grande pubblico. Era nato a Sant’Agata di Militello nel 1933 e si era laureato in Giurisprudenza prima di dedicarsi all’insegnamento nella scuole agrarie del messinese. Nel 1968 si era trasferito a Milano per lavorare alla RAI e dal 1977 è stato consulente editoriale della Casa Editrice Einaudi insieme con Italo Calvino e Natalia Ginzburg.
Oltre a saggi (Di qua dal faro, 1999), testi teatrali (raccolti in Oratorio, 1999) e testi per musica, Consolo ha scritto romanzi e racconti. L’esordio si ha nel 1963 con La ferita dell’aprile, «poemetto narrativo» come lui lo definisce, romanzo di formazione che apre uno spiraglio sulla vita di un paese siciliano durante le lotte politiche dei primi anni del dopoguerra; la narrazione è impostata cronologicamente come diario di un anno scolastico, nell’intreccio tra vicende personali dei protagonisti e storia d’Italia.
Sin da questo esordio si nota nella scrittura di Consolo l’importanza centrale della parola; come conferma lui stesso: «Mi ponevo un po’ consapevolmente, un po’ istintivamente sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’impatto linguistico, dal recupero non solo degli stilemi e del glossario popolari e dialettali, ma anche, dato l’argomento, di un certo gergo adolescenziale. Gergo quanto mai parodistico, sarcastico, quanto mai oppositivo a un ipotetico codice linguistico nazionale, a una lingua paterna, comunicabile. E organizzavo insieme la scrittura su una scansione metrica, su un ritmo poetico, con il gioco, ad effetto comico, delle rime e delle assonanze. Prendeva così il racconto, nella sua ritrazione linguistica, nella sua inarticolazione sintattica, nella sua cadenza, la forma di un poemetto narrativo».
Ma il capolavoro di Consolo giunge nel 1976 con Il sorriso dell’ignoto marinaio, romanzo storico ambientato in Sicilia nel periodo di passaggio dal regime borbonico a quello sabaudo, culminato nella sanguinosa rivolta contadina di Alcara Li Fusi del maggio 1860, molto simile alle vicende di Bronte rievocate da Verga nella novella Libertà. Protagonista è il bizzarro barone Enrico Pirajno di Mandralisca, catalogatore di molluschi e collezionista d’arte, che si interroga sul senso della storia nell’isola: «Cosa è stata sin qui la Storia, egregio amico? Una scrittura continua di privilegiati». Per lui il mondo è paragonabile ad una chiocciola: una spirale di ingiustizie e di soprusi, che si manifesta anche nella raffinatezza strutturale, di carattere simbolico, nella «costruzione a chiocciola», concentrica e labirintica, del romanzo. Come afferma l’autore: «quel simbolo io l'ho preso come il simbolo della storia, per cui i popoli, le popolazioni che si trovano in una infelicità sociale, possono rimanere prigionieri dentro questo labirinto a forma di spirale, oppure, seguendo il labirinto, possono uscire verso la realtà della storia e prendere consapevolezza della loro condizione sociale. Ecco, è questo il simbolo della lumaca». Il romanzo richiama nel titolo il sorriso enigmatico dell’anonimo Ritratto di ignoto di Antonello da Messina, quadro che si finge regalato al barone filantropo Mandralisca il quale, osservandolo, si interroga sul ruolo dell’intellettuale di fronte a episodi come quelli che successero in Sicilia in occasione dell’arrivo di Garibaldi.
Nel 1985 è la volta di Lunaria, favola teatrale ambientata nella Palermo settecentesca, ma nello stesso tempo allegoria della solitudine dello scrittore, che si rispecchia nel malinconico Viceré Casimiro che sogna la caduta della luna, in una visione che si fa presagio che s’invera.
Segue due anni dopo Retablo, un altro romanzo storico che richiama nel titolo l’arte pittorica; presenta le vicende di un intellettuale del Settecento in fuga da Milano verso la Sicilia alla ricerca della matrice culturale e umana della donna che ama. E non è chi non veda come anche questo personaggio possa considerarsi alter ego dell’autore.
La trilogia composta da Nottetempo, casa per casa (1992), L’olivo e l’olivastro (1994) e Lo spasimo di Palermo (1998) è invece posta sotto il segno del definitivo tramonto dell’utopia. Nel primo dei tre romanzi l’autore vuole «far vedere come il fascismo fosse figlio della follia, la follia privata del protagonista e quella pubblica della Storia, il ricorso al satanismo che voleva distruggere il cristianesimo di una società malata: tutti segni oscuri e premonitori, come quelli che vediamo oggi con il ritorno a queste ridicole forme di esorcismo, questi fondamentalismi, questi revanscismi». Il secondo, quasi un “antiromanzo”, costituisce probabilmente l’apice della ricerca formale di Consolo, perché strutturato in una prosa spiroidale e convulsa, vicina a quello che Roland Barthes chiamava «il grado zero della scrittura». Il terzo, che vede ancora una volta la Sicilia al centro della narrazione e che per alcuni versi richiama l’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, è una corrosiva narrazione di viaggio, «un viaggio in verticale, una discesa negli abissi» attraverso la Sicilia di un presente degradato, che si confronta con il passato mitico. Non per nulla il romanzo è ambientato nell’anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio (1992) e si presenta per l’ennesima volta come un nòstos, un ritorno alle origini del protagonista, quel Gioacchino Martinez nel quale lo scrittore si riconosce, specialmente per le amare riflessioni sull’impossibilità del romanzo in questo nostro tempo e sulla dubbiosa funzione della letteratura come strumento di opposizione al malcostume dilagante. Il romanzo termina con l’assassinio del giudice Borsellino, episodio che costituisce il simbolo di un’epoca, quella dell’ultimo decennio del XX secolo, caratterizzata dalla caduta delle grandi ideologie, dello sterminio degli ultimi uomini giusti.
La riflessione che Consolo propone in tutta la sua opera giunge a conclusioni molto amare: i “viceré”, vecchi e nuovi, i “gattopardi” di un tempo e di oggi, i mafiosi e gli arrivisti, i politici corrotti e i borghesi del quieto vivere sono il “colera di Palermo”, la pandemia che distrugge natura e arte di una regione (potremmo dire “di una nazione”) bella e perduta. Domina su tutto il suo lavoro l’amaro senso di fallimento di una generazione che non ha saputo costruire dopo la guerra un’Italia civile, moderna e virtuosa: e si ritrova ora a vivere in un paese stravolto, dove si respira «un odore dolciastro di sangue e gelsomino». Segno che l’infezione (e non stiamo parlando di Coronavirus…) non è ancora passata e che forse non se ne potrà proprio mai guarire…
Si propone, anziché uno stralcio da uno dei romanzi di Consolo (che vale invece la pena leggere per intero), un breve racconto ambientato sullo Stretto di Messina.
Scilla e Cariddi
Ora mi pare d'essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in contemplazione, statico e affisso a un'eterna luce, o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminati e vani, scale, fra mezzo a chiese, palazzi di nuvole e di raggi. Mi pare (vecchiaia puttana!) ora che ho l'agio e il tempo di lasciarmi andare al vizio antico, antico quanto la mia vita, di distaccarmi dal reale vero e di sognare. Mi pare forse per questi bei nomi dei villaggi, per cui mi muovo tra la mia e la casa dei miei figli. Forse pel mio alzarmi presto, estate e inverno, sereno o brutto tempo, ancora notte, con le lune e le stelle, uscire, portarmi alla spiaggia, sedermi sopra un masso e aspettare l'alba, il sole che fuga infine l'ombre, i sogni, le illusioni, riscopre la verità del mondo, la terra, il mare, questo Stretto solcato d'ogni traghetto e nave, d'ogni barca e scafo, sfiorato d'ogni vento, uccello, fragoroso d'ogni rombo, sirena, urlo. Inciso nel suo azzurro, nel luglio, nell'agosto, dalle linee nere, dai ferri degli altissimi tralicci, alti quanto quei delle campate ch'oscillano sul mare, dal Faro a Scilla, che sono ormai l'antenne verticali e quelle orizzontali, ritte come spade sui musi delle prore, delle feluche odierne chiamate passerelle. Ferme, in attesa, ciascuna alla sua posta, o erranti, rapide e rombanti, alla cattura del povero animale.
Viene il momento allora, per i vocii e i frastuoni dei motori, sul mare (barbagliano parabrezza d'auto, di camion che lontano corrono lungo i tornanti della costa calabra, sopra Gallico, Catona; barbagliano vetri e lamiere dei grandi gabbiani, degli aerei aliscafi), sulla strada alle mie spalle, che corre, tra le case e il mare, giù verso Messina, il porto, fino a Gazzi, Mili, Galati, su verso Ganzirri, Rasocolmo, San Saba, viene il momento di rintanarmi.
Mi metto allora a lavorare ai modelli in legno dello spada, azzurro e argento, tonno, alalonga, aguglie, ai modelli dei lontri veri, delle feluche antiche, a riparare reti e ritessere ricordi, miei, della mia vita, qui, sopra questo breve nastro di mare, quest'infinito oceano di fatti, d'avventure, o per il mondo.
Sono nato (e chi lo sa più quando?) a Torre Faro, da rinomato padrone lanzatore, padre Stellario Alessi, terzo di cinque figli. I maschi, Nicola, Saro e io, di nome (solo di nome) Placido, ancora quasi lattanti, non lasciavamo in casa a nostra madre forchetta per mangiare, che legavamo in cima a una canna a mo' di fiocina per infilzare polipi bollaci costardelle, ogni pesce che per ventura capitava a tiro del nostro occhio e braccio. Era l'istinto che ci portava verso il mestiere, come aveva portato nostro padre, suo padre indietro, ci portava verso il destino del mare, dello Stretto, del pesce spada, sopra feluche e lontri, ci portava a lance, palamidare, palangresi.
Nicola morì soldato e Saro nel suo letto, di spagnola. E io non mi ricordo più quando salii sul lontra e lanciai l'arpione la prima volta. Ho solo negli occhi la vista della draffinera, di quelle preziose del ferraro mastro Nino, che s'inchioda nella pelle lucida, colore dell'acciaio, nel cuore della carne, del pesce che s'impenna, che s'inarca, alta la spada sopra il fior dell'acqua, e s'inabissa, sferzando forte con la luna della coda, rapido sparendo con tutto il filo della sàgola, il filo del sangue che disegna la sua strada. Strada che finisce nella morte. Ho negli occhi la ciurma che lo tira in barca, grande, pesante, inghiaccato alla coda, la bocca aperta, la spada in basso, come un cavaliere che ha perso la battaglia; negli occhi, l'occhio suo tondo e fisso, che guarda oltre, oltre noi, il mare, oltre la vita. Ho nell'orecchio le voci di mio padre, i suoi comandi, le voci della ciurma: «Buittu, viva san Marcu binidittu!». Dopo la femmina, fu la volta del maschio, che s'aggirava, pesante e rassegnato, come in offerta, torno alla barca, a tiro del mio ferro.
Da allora, ho negli occhi e nel ricordo una schiera infinita di pesci indraffinati, di spade a pezzi succhiate nel midollo, di teste, di pinne, di code resecate.
Mio padre, vecchio e privo d'altri maschi, privo ormai di vista e resistenza, fu costretto a scender dall'antenna, ad ingaggiare, per la stagione che arrivava, uno di Calabria, dove sono gli antennieri più acuti dello Stretto, pur se i comandi, in vista dello spada, li fanno in lingua tutta loro. «Appà, maccà, palè, ti fò...» urlano.
Il giovane, Pietro Iannì, che sempre da caruso era stato guida sulle postazioni delle rocche alte di Scilla, di Palmi, di Bagnara, sposò poi Assunta, mia sorella, e se ne tornò al paese. Fu per il loro primo figlio, pel battesimo, ch'io conobbi quella che divenne poi la mia sposa. Figlia di padrone di barche, padre Séstito, era picciotta bella e assennata. Muta e travagliante. Ma non di fora, come le bagnarote libere e spartane che vanno a commerciare pesce, intrallazzare sale, avanti e indietro sempre sui traghetti, ma, di casa, e al più sulla spiaggia, tra le barche dei suoi. Bruna, il fazzoletto in testa, gli occhi sfuggenti che spiavan di traverso, stretta alla vita, i fianchi dentro quel maremoto di pieghe della gonna, il busto che sbocciava in sopra ardito e snello: così m'apparve in prima a quella festa. Il matrimonio, con tutti gli accordi e i sacramenti, si fece nella chiesa bella del Carmelo, e il trattamento, nella casa capace della sposa. Fu quel giorno che mio padre, in presenza dei Séstito, pronunciò il testamento, disse che le barche, gli attrezzi per la pesca, tutto passava a me, ch'io sarei stato da quel giorno il padrone nuovo.
Poco durò lo spasso per le nozze. Me la portai, Concetta, la mia sposa, nella casa nostra, lì vicino alla chiesa, davanti al monumento con l'angelo di marmo a cui la guerra tagliò di netto un'ala, in faccia alle barche nostre, al mare, alla rocca di Scilla dall'altra parte. Le feci conoscere Messina, il porto, con tutta la confusione dei bastimenti fermi, delle navi in movimento, dei ferribotti, la Madonna lì alla punta della falce, alta sopra la colonna, sopra il forte del Salvatore; il Duomo, dove restò incantata, a mezzogiorno, per il campanile e l'orologio, ch'è una delle meraviglie di questo nostro mondo: suonano le campane, canta il Gallo, rugge il Leone, la Colomba vola, passa il Giovane, il Vecchio, passa la Morte con la falce; sorge la chiesa di Montalto, passa l'Angelo, San Paolo, torna l'Ambasceria da Gerusalemme, la Madonna benedice... Me la portai per i viali, a Cristo Re, a Dinnammare, su fino a Camaro, a Ritiro, ai colli di San Rizzo. Ma lei, lei, sempre pronta, sottomessa, era però come restasse sempre straniata, come legata con la mente alla terra di là, oltre lo Stretto. E più mi dava figli (tre volte partorì in cinque anni) più sembrava crescere in lei il silenzio e lo scontento. C'era fra noi, che dire? come una distanza, uno stretto, una Scilla e Cariddi fra cui non si poteva navigare. Eppure, santissima Madonna! la trattavo con ogni cura e affetto, l'adornavo di vesti, di ori; la portavo alla festa di Ganzirri, alla processione di San Nicola sul Pantano, alla trattoria di don Michele; e a Messina, alla festa dell’Assunta a Mezzagosto. Una volta tirai anch'io per voto (voto che si capisce quale fosse, d'avere finalmente quella donna, per cui potevo morire, indraffinato come un pescespada), tirai per la corda la gran Vara, scalzo, senza camicia, e lei accanto a me, sciolti i capelli, certo per un voto suo segreto che mai mi rivelò.
Un luglio, ad apertura della pesca, per l'ammalarsi dell'antenniere mio, fu lei a suggerirmi, come per caso, quel nome d'un parente suo lontano, Polistena Rocco, rinomato fra Bagnara e Scilla. E arrivò quest'uomo snello, alto, d'una chioma riccia come quella del gigante Grifone sul cavallo. Tanto che là, in cima, stava per tutte l'ore senza un cappello, solo riparo quel suo casco nero di chiocciole o di cozze. Lo vidi e l'odiai. Non so perché. Forse per il suo portamento, il suo sorriso, la fama per cui ognuno rideva e mormorava, d'una sua dote fuori d'ordinario, la fama, scapolo com'era all'età sua, di grande ladro, d'amatore tenace e senza cuore. Mi parve che Concetta, al suo arrivare, mi parve che appena appena mutasse nell'umore, nel modo suo di fare; parlava più frequente, con me, coi figli, sorrideva finanche qualche volta. L'odiai. E quando alzavo il braccio per colpire il pesce, che lucido e dritto guizzava sotto l'acqua con la spada, mi sembrava di colpire, di piantare in quell'uomo la draffinera. E il mare lo vedevo tutto rosso, poi argento, poi blu, poi nero come la notte.
Pel tempo che durò la sua presenza al Faro (due, tre estati, non ricordo), pur senza un segno, un fatto, un motivo vero, cresceva sempre più la mia pazzia, l'ossessione dell'inganno. E sì che non eravamo più di primo pelo, né io né quello né Concetta. Durò fino a quell'anno in cui cominciò il grande mutamento, l'anno vale a dire in cui passarono in disuso remi, lontri, feluche, si mutarono le barche in passerelle. E ci vollero quindi, per i motori, l'antenne, tanti soldi. Decisi per questo (ma forse fu una scusa) di sbarcare, disarmare tutto, licenziar la ciurma, il calabrese.
Per mantenere la famiglia m'imbarcai come marinaio, io padrone, sopra il Luigi Rizzo, il vaporetto che collegava Milazzo a Lipari, Vulcano ... Fuori dal porto, costeggiando la penisola del Capo, oltre il Castello, davanti alla casa di quell'ammiraglio che nella Grande Guerra era stato eroe, assieme a un poeta, per una impresa ardita contro il nemico, il battello che portava il suo nome, lanciava il fischio di saluto. Allora qualcuno, una serva, un parente, rispondeva sventolando dal terrazzo un panno bianco. Il battello d'estate era sempre pieno di turisti: scoprii così il mondo. Mi feci, per cancellar l'amore per Concetta, gran traffichiere, facile predatore di straniere. D'inverno, nelle soste a Lipari sotto il Monastero, nelle soste forzate per il brutto tempo, m'intrecciai con una di là, ché sono, le donne di quell'isola, svelte, calamitose, seducenti.
Tornavo al Faro, a casa, a ogni turno di riposo, tornavo per le feste. E lei, Concetta, era sempre chiusa nel suo mondo, sempre indifferente. In più ora sembrava solo presa dai figli, ch'erano ormai cresciuti e le davano maggior lavoro.
Il colmo della sua freddezza nei confronti miei lo provai un'estate. Forse per sfida o forse nell'intento di smuoverla allo scontro, portai una straniera fino a Torre Faro, fino alla punta estrema del Peloro, all'incrocio dei mari, dove la rema forma i gorghi, quelli che la tedesca chiamava del mostro di Cariddi. Passammo davanti alla mia casa. Lei ci vide, da dietro la finestra, ed ebbe come un riso di sprezzo, di compatimento.
Dopo quel fatto, decisi di sbarcare, di tornare al mio mestiere della pesca. Anch'io, come gli altri, misi da parte remi e lontri, comprai un motore per la mia feluca e cominciai a correre, a inseguire lo spada sullo Stretto. Avevo preso un'antenniere nuovo di Fiumara Guardia, e il mio braccio di vecchio lanzatore era tornato ad essere forte e preciso come nel passato. Fu in uno di questi erraggi, nell'inseguire il pesce dalla posta mia, che mi scontrai con una passerella che per abuso aveva catturato il pescespada. Lì, sull'antenna della feluca pirata, rividi allora dopo tanto tempo il calabrese. La questione della preda fu portata davanti al Consiglio, che sentenziò naturalmente a mio favore. Ma al Polistena, che seppi era il padrone della passerella, feci sapere che il giudizio per me, oltre il Consiglio, era nel riparar lo sfregio col duello: che si facesse trovare sulla spiaggia, proprio sotto il Faro. Fu lì puntuale, come convenuto. Stavamo appressandoci, quando, a un passo l'uno dall'altro, cominciarono a fischiare sopra le nostre teste le palle dei fucili. Eravamo proprio sotto il campo del tiro al piattello. Ci buttammo per terra, la faccia contro la rena. E restammo così, impediti a muoverci, non so per quanto tempo. Ci spiavamo con la coda dell'occhio. Poi improvviso fu lui a ridere per primo, a ridere forte, e trascinò me nella risata, mentre i piatti in aria venivano dai colpi sbriciolati. Dopo, quando ci fu il silenzio, ed era quasi l'imbrunire, ci alzammo, ci guardammo in faccia. Fu lui, Rocco, a tendermi la mano. Non lo vidi più. Sparì dalla mia vista e dalla mia vita. Anche perché sparì in uno con Concetta tutto il rancore mio e la gelosia.
Mi disse lei, là all'ospedale Margherita, affossata nel letto, gli occhi negli occhi, la mano serrata nella mia: «Ah, Placido, come si può passare una vita senza capire!» Da allora, quando mi lasciò la mia Concetta, sentii che cominciavo a farmi vecchio. Donai tutto, passerella e reti ai miei figli, lasciai il Faro e venni qui ad abitare in una nuova casa.
Ora mi pare d'essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come un trapassato... Ma vivo nei ricordi. E vivo finché ho gli occhi nella beata contemplazione dello Stretto, di questo breve mare, di questo oceano grande come la vita, come l'esistenza.
Elsa Morante (1912-1985) è stata autrice di romanzi voluminosi, da Menzogna e sortilegio (edito nel 1948: 700 pagine in ottavo grande) a L’isola di Arturo (1957: quasi 400 pagine), da La Storia (1974: più di 650 pagine) ad Aracoeli (1982: oltre 300 pagine). Non che la quantità debba essere sinonimo di qualità, né viceversa di scarso valore: ma molti critici le hanno contestato una certa disuguaglianza di risultati artistici dovuti proprio alla mole dei suoi romanzi.
Il suo esordio narrativo avviene nell’immediato dopoguerra con Menzogna e sortilegio: la vicenda è ambientata a inizio Novecento in una piccola città del Mezzogiorno, dove la protagonista Anna ha vissuto una misera adolescenza, invaghita del ricco e fascinoso cugino Edoardo; a questa coppia se ne affianca un’altra, formata dallo squattrinato studente Francesco e dalla giovane prostituta Rosaria. Poi le coppie si scambiano, Anna sposa Francesco e ne ha una figlia, muoiono in successione Edoardo, Francesco e infine Anna. La figlia di Anna, Elisa, resta affezionata a Rosaria e infine si fa narratrice di tutta la loro vicenda. Questa la trama essenziale, su cui si innestano però numerosissimi episodi laterali, che diventano a loro volta altri piccoli romanzi, fino a dare, come si diceva, una dimensione strabordante all’opera.
L’isola di Arturo occupa i dieci anni successivi della scrittura della Morante: è ambientato nell’isola di Procida, dove Arturo, un ragazzetto orfano di madre, vive con il padre tedesco Vilelm Gerace, che sovente parte per viaggi misteriosi. Da uno di questi viaggi torna con la giovane Nunziatina che ha sposato a Napoli: all’iniziale avversione di Arturo si sostituisce gradatamente un’attrazione fatale per la matrigna, che però ne è disgustata. Alla nascita del fratellastro Carmine, e dopo avere scoperto i loschi traffici a motivo dei quali il padre si assentava, Arturo decide di lasciare l’isola, mentre la guerra sta per scoppiare. E il lungo romanzo si chiude con un finale aperto.
Probabilmente la vetta artistica raggiunta dalla Morante si può identificare ne La Storia, il romanzo che suscitò a partire dal 1974 il più focoso dibattito critico. Ma la scintilla del successo fu extra-letteraria: fu la decisione che l’autrice impose all’editore Einaudi di pubblicare il volume in edizione popolare a un prezzo contenutissimo. La critica si divise tra coloro che consideravano l’opera un tardivo scialbo omaggio al neorealismo e quelli che lo osannavano come il più bel romanzo del Novecento. La scelta dell’autrice è quella di dare un affresco della storia d’Italia durante la seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi (dal 1941 al 1947) intrecciandola con le vicende personali della maestra Ida e del figlio Giuseppe, nato dallo stupro da lei subìto nel 1941 a Roma da parte del giovane militare tedesco Günter. Questi poco dopo muore: Ida, Giuseppe e Nino (l’altro figlio avuto dalla donna in precedenza dal commesso viaggiatore di origine siciliana Alfio Mancuso) devono affrontare varie peripezie, anche dopo la fine della guerra. Dopo la morte di Nino sopraggiunge quella di Giuseppe: Ida rimasta solo impazzisce e si barrica in casa; viene infine portata in un ospedale psichiatrico, dove morirà nove anni dopo.
Opera assai diseguale, La Storia ha avuto però il merito di rinnovare l’interesse di una vasta platea di lettori per le vicende italiane di quegli anni drammatici. Scrisse Emilio Cecchi: «Come certe antiche carrozze da viaggio, il romanzo ha un aspetto pesante, casalingo e tuttavia avventuroso […] ha l’intimità d’uno studiolo, d’una camerella dove, così pigramente andando alla deriva, si può appartarsi e fantasticare». In effetti accanto a pagine assimilabili a quelle del neorealismo (pensiamo a Pavese, Calvino, Vittorini, Pratolini, Viganò, Pasolini) se ne trovano altre intimistiche o sognanti: il che può anche essere considerato positivo. Secondo Geno Pampaloni «le prime settanta pagine rimangono folgoranti. Insieme all’allucinata evidenza del racconto c’è in esse un’arcana tenerezza, lo stupore disperato e dolcissimo della vita così com’è, rapida a dissolversi nel vorticare del tempo, e che tuttavia lascia sulla terra la traccia di una sua inviolabile reminiscenza».
L’ultimo romanzo, Aracoeli, è tutto centrato sul rapporto intenso, quasi magico tra una donna, l’andalusa Aracoeli appunto, e suo figlio Manuele: è quest’ultimo, quarantenne fallito e omosessuale infelice, a rievocare le vicende di un’infanzia mitizzata, paradisiaca. Egli si reca in Andalusia alla ricerca delle radici della madre, in una sorta di viaggio iniziatico; che però finisce per rivelare soltanto la drammatica miscela di sesso, follia e incomunicabilità che la madre aveva vissuto. Il romanzo esprime la continua mescolanza della dimensione inconscia e del dramma personale della scrittrice, che durò tutta la vita: per trovare sfogo appunto in Aracoeli. Ma la figura di Manuele che ripercorre tragicamente il destino materno senza essere infine capace di uscire dal nido che lei gli ha costruito intorno, rivela in realtà la vera essenza della scrittrice, che in questo romanzo mette definitivamente a nudo se stessa, confessa la sua incapacità di amare. Ella lo definì «il mio povero, ultimo romanzo andaluso […] fabbrica d’ombre equivoche, per trastullo dei miei giorni vani».
Si propone qui un brano de La Storia, dove con profonda amarezza Elsa Morante osserva come le classi sociali che da sempre detengono il potere abbiano angariato le altre classi sociali, nel nome del guadagno ad ogni costo, distruggendo la natura e annientando chi si ribellava.
Come già tutti i secoli e millenni che l’hanno preceduto sulla terra, anche il nuovo secolo si regola sul noto principio immobile della dinamica storica: “agli uni il potere, e agli altri la servitù”.
È curioso come certi occhi serbino visibilmente l’ombra di chi sa quali immagini, già impresse, chi sa quando e dove, nella rètina, a modo di una scrittura incancellabile che gli altri non sanno leggere – e spesso non vogliono.
Il Potere, spiegava a Santina, è degradante per chi lo subisce, per chi lo esercita e per chi lo amministra! Il Potere è la lebbra del mondo! E la faccia umana, che guarda in alto e dovrebbe rispecchiare lo splendore dei cieli, tutte le facce umane invece dalla prima all’ultima sono deturpate da una simile fisionomia lebbrosa! Una pietra, un chilo di merda saranno sempre più rispettabili di un uomo, finché il genere umano sarà impestato dal Potere…
L’umanità, per propria natura, tende a darsi una spiegazione del mondo, nel quale è nata. E questa è la sua distinzione dalle altre specie. Ogni individuo, pure il meno intelligente e l’infimo dei paria, fino da bambino si dà una qualche spiegazione del mondo. E in quella si adatta a vivere. E senza di quella, cadrebbe nella pazzia.
La natura è di tutti i viventi… era nata libera, aperta, e LORO l’hanno compressa e anchilosata per farsela entrare nelle loro tasche. Hanno trasformato il lavoro degli altri in titoli di borsa, e i campi della terra in rendite, e tutti i valori reali della vita umana, l’arte, l’amore, l’amicizia, in merci da comprare e intascare.
Qui dentro, gli uomini (ce n’erano delle centinaia) non si potevano nemmeno contare a anime, come usava ancora ai tempi della gleba. Al servizio delle macchine, le quali, coi propri corpi eccessivi, sequestravano e quasi ingoiavano i loro piccoli corpi, essi si riducevano a frammenti di una materia a buon mercato, che si distingueva dal ferrame del macchinario solo per la sua povera fragilità e capacità di soffrire.
Lo si sentiva a volte ripeterla fra sé in una sequela monotona: «pecché? pecché pecché pecché pecché??». Ma per quanto sapesse d’automatismo, questa piccola domanda aveva un suono testardo e lacerante, piuttosto animalesco che umano. Ricordava difatti le voci dei gattini buttati via, degni asini bendati alla macina, dei caprettini caricati sul carro per la festa di Pasqua. Non si è mai saputo se tutti questi pecché innominati e senza risposta arrivino a una qualche destinazione, forse a un orecchio invulnerabile di là dai luoghi.
Solo da quella si riconosce il cristo: dalla parola! che è solo una sempre la stessa: quella là! E lui l’ha detta e ridetta e tornata a ridire, oralmente e per iscritto; e da sopra la montagna e da dentro le gattabuie e… e dai manicomii… e departùt… Il cristo non bada alla località, né all’ora storica, e né alle tecniche del massacro… Già. Siccome lo scandalo era necessario, lui si è fatto massacrare oscenamente, con tutti i mezzi disponibili – quando si tratta di massacrare i cristi non si risparmia sui mezzi… Ma l’offesa suprema, che gli hanno fatta, è stata la parodia del pianto! Generazioni di cristiani e di rivoluzionari – tutti quanti complici! – hanno seguitato a frignare sul suo corpo – e intanto, della sua parola, ne facevano merda!
Erano dei ciechi, guidati da ciechi e alla guida di altri ciechi, e non se ne accorgevano… Si ritenevano dei giusti – in perfetta buona fede! – e nessuno li smentiva in questo loro abbaglio.
I morti, se ne fa un conto approssimativo, e poi vanno in archivio: pratiche estinte! Per le ricorrenze, dei signori in tight portano una corona al milite ignoto…
La camera a gas è l’unico punto di carità, nel campo di concentramento.
La sola rivoluzione autentica è l’ANARCHIA! A-NAR-CHIA, che significa: NESSUN potere, di NESSUN tipo, a NESSUNO, su NESSUNO! Chiunque parla di rivoluzione e, insieme, di Potere, è un baro! e un falsario! E chiunque desidera il Potere, per sé o per chiunque altro, è un reazionario.
La Storia, si capisce, è tutta un’oscenità fin dal principio.
Si sa che la fabbrica dei sogni spesso interra le sue fondamenta fra i tritumi della veglia o del passato.
A ventisei anni, nel dicembre del 1938, Antonia Pozzi decise di togliersi la vita, dichiarando di non aver più forza per lottare: l’ultimo scritto che aveva lasciato fu bruciato dal padre, che già ne aveva ostacolato le scelte di vita, in particolare impedendo la relazione affettiva con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi. Nel 1930 si era iscritta alla facoltà di filologia dell’Università statale di Milano, divenendo amica di suoi coetanei quali Vittorio Sereni, Enzo Paci, Luciano Anceschi, Remo Cantoni; nel 1935 si laureò con una tesi sulla formazione letteraria di Gustave Flaubert. Cercò sempre di essere una donna libera, studiando inglese, francese e tedesco, effettuando numerosi viaggi in Europa, dedicandosi alla fotografia, ma soprattutto scrivendo: e questo avvenne principalmente nel “buen ritiro” di Pasturo, nel lecchese, ai piedi della Grigna, dove la famiglia possedeva una villa (oggi visitabile come parte del Parco letterario a lei dedicato).
La grande italianista Maria Corti, che la conobbe all'università, affermava di lei che «il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull'orlo degli abissi. Era un'ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava certo più dei suoi simili».
Certamente influenzarono la sua poesia prima il crepuscolarismo di Gozzano, poi l’espressionismo tedesco: ma personalissimo restò sempre il suo stile, ricco di suggestioni bibliche sfocianti in preghiera. Pur nell’amara consapevolezza che il limite dell’umano non potrà mai essere travalicato, la sua poesia è pervasa da una costante ricerca di infinito; come scrisse in una lettera, «la poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci rimbalza nell'anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell'arte, così come sfociano i fiumi nella celeste vastità del mare». E alla poesia Antonia dedicò lo spazio più intimo del suo essere, sempre in bilico tra attaccamento alla terra, alle radici, e indomabile anelito verso l’altezza, sia in senso fisico (l’amore per le montagne, su cui compiva frequenti scalate con la guida alpina Emilio Comici) sia metafisico (la smania di assoluto che la dilaniava). Scalare una montagna equivaleva per lei ad espiare la colpa, trovare nella solitudine l’incontro con il Dio che accoglie e consola. E anche il vento di montagna aveva per lei questa funzione catartica: lo considerava capace di infondere vita e di castigare, ammaestrare e portare messaggi di salvezza, rivelare la volontà di Dio e rinforzare il legame tra terra e cielo.
La montagna fu in effetti per Antonia Pozzi il primo approdo a Dio, sentito in quei luoghi più vicino che altrove: la luce che illumina la vette fu per lei espressione dello splendore divino, che avrebbe potuto forse illuminare anche la sua anima sepolta nelle tenebre. Sulla sommità della montagna le pareva di unirsi panicamente con la natura e con la divinità, in un amore atemporale («Anima, sii come la montagna: / che quando tutta la valle / è un grande lago di viola / e i tocchi delle campane vi affiorano / come bianche ninfee di suono, / lei sola, in alto, si tende / ad un muto colloquio col sole»).
Ma non l’abbandonò mai la paura di essere senza Dio, di non avere «nulla di fermo / ma solo cose vive che sfuggono / essere senza ieri / essere senza domani / ed acciecarsi del nulla». Questa concezione vittimistica si avverte nell’idea che man mano affiora nella sua poesia di una luce sempre più crepuscolare, luce di tramonto che non sarà seguito da nessuna alba, da nessuna rinascita: «scende la notte- / nessun fiore è nato- / è inverno -anima- / è inverno». L’incontro con la notte è un ritorno verso l’ombra, verso il traguardo odiato e desiderato, verso l’annullamento che attraverso «lunghe scale» la porta a dissolversi: resta la sua poesia a testimoniare un’anima che non ha saputo vincere il peso della vita.
Anima, sii come il pino:
che tutto l'inverno distende
nella bianca aria vuota
le sue braccia fiorenti
e non cede, non cede,
nemmeno se il vento,
recandogli da tutti i boschi
il suono di tutte le foglie cadute,
gli sussurra parole d'abbandono;
nemmeno se la neve,
gravandolo con tutto il peso
del suo freddo candore,
immolla le fronde e le trae
violentemente
verso il nero suolo.
Anima, sii come il pino:
e poi arriverà la primavera
e tu la sentirai venire da lontano,
col gemito di tutti i rami nudi
che soffriranno, per rinverdire.
Ma nei tuoi rami vivi
la divina primavera avrà la voce
di tutti i più canori uccelli
ed ai tuoi piedi fiorirà di primule
e di giacinti azzurri
la zolla a cui t'aggrappi
nei giorni della pace
come nei giorni del pianto.
Anima, sii come la montagna:
che quando tutta la valle
è un grande lago di viola
e i tocchi delle campane vi affiorano
come bianche ninfee di suono,
lei sola, in alto, si tende
ad un muto colloquio col sole.
La fascia l'ombra
sempre più da presso
e pare, intorno alla nivea fronte,
una capigliatura greve
che la rovesci,
che la trattenga
dal balzare aerea
verso il suo amore.
Ma l'amore del sole
appassionatamente la cinge
d'uno splendore supremo,
appassionatamente bacia
con i suoi raggi le nubi
che salgono da lei.
Salgono libere, lente
svincolate dall'ombra,
sovrane
al di là d'ogni tenebra,
come pensieri dell'anima eterna
verso l'eterna luce.
Pasturo, 10 aprile 1931
Forse non è nemmeno vero
quel che a volte ti senti urlare in cuore:
che questa vita è,
dentro il tuo essere,
un nulla
e che ciò che chiamavi la luce
è un abbaglio,
l'abbaglio supremo
dei tuoi occhi malati –
e che ciò che fingevi la meta
è un sogno,
il sogno infame
della tua debolezza.
Forse la vita è davvero
quale la scopri nei giorni giovani:
un soffio eterno che cerca
di cielo in cielo
chissà che altezza.
Ma noi siamo come l'erba dei prati
che sente sopra sé passare il vento
e tutta canta nel vento
e sempre vive nel vento,
eppure non sa così crescere
da fermare quel volo supremo
né balzare su dalla terra
per annegarsi in lui.
Milano, 31 dicembre 1931
Sotto gli ulivi vorrei
in un mattino fresco
salire
e salutare
di là dalle lievi
chiome d'argento
il pallore del sole ed il volo
delle nuvole lente
verso il mare.
Vorrei cogliere un mazzo di pervinche
fiorite
nei cavi tronchi
e camminare per il viale oscuro
dei lecci
con il mio dono azzurro presso il cuore.
Rasentare così
le antiche mura
ricoperte dall'edera
vorrei
e bussare alla porta del convento.
Vorrei essere un frate silenzioso
che va con i suoi sandali di corda
sotto gli archi di un chiostro
e attinge acqua all'antica
vera del pozzo
e disseta
le lavande e le rose.
Vorrei
dinnanzi alla mia cella
avere
quattro metri di terra
ed ogni sera
al lume delle prime stelle
scavarmi
lentamente una fossa
pensando al tramonto dolcissimo
in cui verranno
salmodiando
i fratelli
e in mezzo ai cespi delle lavande
mi coricheranno
ponendomi sul cuore
come fiori
morti
queste mie stanche mani
chiuse in croce.
Assisi, 24 gennaio 1933
Io vengo da mari lontani –
io sono una nave sferzata
dai flutti
dai venti –
corrosa dal sole –
macerata
dagli uragani –
io vengo da mari lontani
e carica d'innumeri cose
disfatte
di frutti strani
corrotti
di sete vermiglie
spaccate –
stremate
le braccia lucenti dei mozzi
e sradicate le antenne
spente le vele
ammollite le corde
fracidi
gli assi dei ponti –
io sono una nave
una nave che porta
in sé l'orma di tutti i tramonti
solcati sofferti –
io sono una nave che cerca
per tutte le rive
un approdo.
Risogna la nave ferita
il primissimo porto –
che vale
se sopra la scia
del suo viaggio
ricade
l'ondata sfinita?
Oh, il cuore ben sa
la sua scia
ritrovare
dentro tutte le onde!
Oh, il cuore ben sa
ritornare
al suo lido!
O tu, lido eterno –
tu, nido
ultimo della mia anima migrante –
o tu, terra –
tu, patria –
tu, radice profonda
del mio cammino sulle acque –
o tu, quiete
della mia errabonda
pena –
oh, accoglimi tu
fra i tuoi moli –
tu, porto –
e in te sia il cadere
d'ogni carico morto –
nel tuo grembo il calare
lento dell'ancora –
nel tuo cuore il sognare
di una sera velata –
quando per troppa vecchiezza
per troppa stanchezza
naufragherà
nelle tue mute
acque
la greve nave
sfasciata.
20 febbraio 1933
Poi che anch'io sono caduta
Signore
dinnanzi a una soglia –
come il pellegrino
che ha finito il suo pane, la sua acqua, i suoi
sandali
e gli occhi gli si oscurano
e il respiro gli strugge
l'estrema vita
e la strada lo vuole
lì disteso
lì morto
prima che abbia toccato
la pietra del Sepolcro –
poi che anch'io sono caduta
Signore
e sto qui infitta
sulla mia strada
come sulla croce
oh, concedimi Tu
questa sera
dal fondo della Tua
immensità notturna –
come al cadavere del pellegrino –
la pietà
delle stelle.
9 aprile 1933
Che cosa mi ha dato
Signore
in cambio
di quel che ti ho offerto?
del cuore aperto
come un frutto –
vuotato
del suo seme più puro –
gettato
sugli scogli
come una conchiglia inutile
poi che la perla è stata
rubata –
che cosa mi hai dato
in cambio
della mia perla perfetta
diletta?
quella che scelsi
dal monile più splendente
come sceglievano i pastori
antichi
nel gregge folto
l'agnello più lanoso più robusto più bianco
e l'immolavano
sopra il duro altare?
Che cosa hai fatto tu
se non legarmi
a questo altare
come ad una eterna
tortura? –
Ed io ti ho dato
la mia creatura
unica
la mia ansia materna
inappagata
il sogno
della mia creatura non creata
il suo piccolo viso senza
fattezze
la sua piccola mano senza
peso –
Sulle rovine della mia casa non nata
ho sparso
cenere e sale –
E tu
che cosa mi hai dato
in cambio
della mia dolce casa
immacolata?
se non questo deserto
Signore
e questa sabbia che grava
le mie mani di carne
e m'intorbida gli occhi
e m'insudicia le piaghe
e m'infossa
l'anima –
O non ci sono più nembi
nel tuo cielo
Signore
perché si lavi
in uno scroscio
tutta questa
miseria?
Milano, 6 maggio 1933
Campani
frane lente di suoni
giù dai pascoli
dentro valli di nebbia.
Oh, le montagne,
ombre di giganti,
come opprimono
il mio piccolo cuore.
Paura. E la vita che fugge
come un torrente torbido
per cento rivi.
E le corolle dei dolci fiori
insabbiate.
Forse nella notte
qualche ponte verrà
sommerso.
Solitudine e pianto –
solitudine e pianto
dei làrici.
Breil, 3 agosto 1934
La glicine sfiorì
lentamente
su noi.
E l'ultimo battello
attraversava il lago in fondo ai monti.
Petali viola
mi raccoglievi in grembo
a sera:
quando batté il cancello
e fu oscura
la via al ritorno.
11 maggio 1935
Fruscìo sordo di legni
sovra il lago
sepolto:
ci scompare
alle spalle in un turbine di neve
la pista esile dritta.
Ora si leva
la voce di un attacco nel passo.
Stride ritmico:
e forse è freddo pianto di bivacchi,
grido di spaventevoli bufere;
o è lamento d'uccelli,
ansito roco
di volpi gracili vedute morire –
Non andiamo ai confini di una terra?
E quando in altre vesti
alle calde vetrate sosterò –
(la slitta
m'avrà rapita
nel giro dei suoi campanelli,
avrò alle spalle
lampade volti canti) –
la mia ombra
sarà sul lago,
pegno immoto di me
fuori – alla triste
favolosa sera.
Misurina, 12 gennaio 1936
Piovve tutta la notte
sulle memorie dell'estate.
A buio uscimmo
entro un tuonare lugubre di pietre,
fermi sull'argine reggemmo lanterne
a esplorare il pericolo dei ponti.
All'alba pallidi vedemmo le rondini
sui fili fradice immote
spiare cenni arcani di partenza –
e le specchiavano sulla terra
le fontane dai volti disfatti.
Pasturo, 20 settembre 1937
Mariangela Gualtieri fra teatro e poesia
Nata a Cesena nel 1951, laureata in Architettura, la Gualtieri fonda a Cesena nel 1983 con Cesare Ronconi il Teatro Valdoca, tra i più importanti teatri di sperimentazione, e con Milo De Angelis vi fa nascere una Scuola di Poesia dove ha modo di confrontarsi con alcune delle più importanti voci poetiche di quel periodo: Roberto Rebora e Dylan Thomas, Franco Fortini e Mario Luzi, Piero Bigongiari e Franco Loi, Amelia Rosselli e Alda Merini. Esordisce tardi in poesia con la silloge Antenata (1992), cui seguono negli anni Fuoco centrale (1995), Nei leoni e nei lupi (1997), Senza polvere senza peso (2006), Bestia di gioia (2010), Le giovani parole (2015), Quando non morivo (2019).
La sua parola, sempre alla ricerca di echi e suggestioni che vadano oltre il significato immediato dei termini scelti, si affianca al silenzio degli spazi bianchi, in un rapporto di circolarità che reciprocamente li illumina: «la poesia – afferma - ha proprio questa peculiarità: è parola che tiene con sé il silenzio, parola che ha al proprio centro il silenzio». E ancora: «forse la poesia, forse tutta l’arte nasce da questa insufficienza della lingua corrente, che finge di poter dire ciò di cui davvero ci importa, per poi lasciarci sempre inappagati, delusi. Certo è viva in me l’esigenza di rinominare le cose, di richiamare alla vita o alla vivezza le parole, strappandole dal luogo logoro in cui sono relegate»; o infine: «Non prendere la parola. / Lascia sia lei da sola. Diventa tu / la preda. Sia lei che ti cattura».
Il sentimento che domina ovunque nella sua produzione è lo stupore, l’attesa dello svelamento di ciò che sta dietro la parola, e che solo la poesia è in grado di scoprire e rivelare. Proprio per raggiungere questo livello profondo del senso, Gualtieri stravolge il linguaggio comune, violando la semantica, trasgredendo le regole grammaticali e sintattiche, incidendo sulla lingua quelle che lei definisce «ferite perfette»: sbagli apparenti, lapsus, deviazioni semantiche, che mirano a un’idea di perfezione che va ben oltre la logica. In questa ricerca di una sempre più perfetta (ma irraggiungibile) comunione con tutte le entità dell’universo, hanno cittadinanza nella poesia di Mariangela Gualtieri gli oggetti più svariati: fiumi e porte, aghi e candele, ponti e coltelli, pane e sale, persone e animali, in un caleidoscopio di apparizioni che interpellano la lingua stessa che le nomina, in un continuo rapporto dialogante tra voce corpo e mondo.
Ne scaturisce una scrittura contemplativa che si nutre di osservazione, di indagine, ma anche di assenza, di domande che cercano invano risposte soddisfacenti. Fin dalle prime raccolte emerge quello che possiamo considerare un cliché tipico della sua poesia: l’apertura al mondo nei suoi innumerevoli aspetti, che a sua volta fa scaturire una continua sorpresa, talvolta anche la perplessità, più spesso la fiducia piena nel futuro, per quanto oscuro possa a prima vista sembrare. Nella sua ultima silloge leggiamo queste parole di speranza traboccante: «C’è nel mattino – sarà / per quella luce – una sottile ebbrezza / sarà per la bellezza / degli inizi – quella promessa / che sempre si nasconde / quando s’avvia un nuovo / qualche cosa».
Il linguaggio
Il linguaggio non segnava vantaggi, ma si scolava via come buccia e sottosopra con feroce spolpo andava vuotamente più del sibilo su tutte le cose. Dal loro fondo liso le parole straccetto hanno un alito amaro, le parole fagotto, le care parole cadute giù. Ho parole stampelle, parole porte parole ali sotto i vestiti, parole strade e fiumi parole barche affilate. Ho solo parole e ali incerte – ali incerte e parole. io sono senza aggettivi, io sono senza predicati, io indebolisco la sintassi, io consumo le parole, io non ho parole pregnanti, io non ho parole cangianti, io non ho parole mutevoli, non ho parole perturbanti, io non ho abbastanza parole, le parole mi si consumano, io non ho parole che svelino, io non ho parole che puliscano, io non ho parole che riposino, io non ho mai parole abbastanza, mai abbastanza parole, mai abbastanza parole…
Io sento il piangere delle cose. Sento il piangere di tutte le cose. Strazio sento delle. Pianto sento delle Io sento Delle. Io pianto pianto. Delle cose. Piangono. Sì. Fatica sento sì. Arrancatura. Sì.
La candela dice La candela dice: io mi consumo senza lamentele che pena, quel tuo chiedere durata la pianura dice: io accolgo, accolgo largamente e l’ago dice: perdermi mi piace, stare dimenticato nelle fessure, essere ignorato. E tu? e il coltello dice io taglio i ponti divido un pezzo dall’intero so dare ferite perfette. E tu.
C'è nel riso dell'uomo C'è nel riso dell'uomo la meraviglia sotto la pelle dei pezzi di pane da mangiare subito si vedono le corde vive nei bracci poi verrà la pioggia a lavare le schiene infilare la tosse nei petti
Euridice Tu senti che vado lontano in zone pericolose. Potrei non fare ritorno – restare sbalzata su quel fuoco con veste incendiata rovinare o perdermi nei deserti del cielo sbandare sui ghiacci stesi spericolarmi nei boschi e nelle radure minacciose. Si è molto soli là tra le alture e le fosse, nelle fermentazioni nel pullulare appena di voci. Slacciata da ciò che mi è noto un po’ squilibrata nel vuoto. Ci debbo ogni tanto tornare – che qui c’è la parte migliore. Di quella mi vesto ogni tanto di rado. Ma tu non girarti a guardare. Lasciami sola. Non farmi di sale.
Se questo è amore, mi dico. Se questo è amore, mi dico. Ma sì, questo è l’amore che conosciamo. Ora. Amore appiccicato, che incolla quel poco di ala modesta sulla schiena. Amore legato. In cui si ripete la solfa del tu e dell’io. Non siamo capaci di essere insieme acqua e moto, sale e onda, unica impresa spettacolare. Come il mare laggiù, lo vedi?
C’è nella tristezza un contagio C’è nella tristezza un contagio amore mio, e da questo si vede che abbiamo fatto comune cuore e siamo uno che appare due. Allora io insemino la gioia in questa cosa che non consiste però esiste e tiene entrambi appesi. La gioia ce la metto io.
Volevo tutte le sbandate. Volevo tutte le sbandate essere viva fino allo scortico essere tavolo pietra bestiale essere bucare la vita coi morsi infilare le mani in suo pulsare di vita scavare la vita scrostarla sfondarla spericolarla battermi con lei fino ai suoi sigilli. Per amore – per amore – tutto per amore.
Se la parola amore è Se la parola amore è uno straccio lurido, se non ho altra lingua per dire cosa amo, se l’anima adesso è un ingombro e il cielo un posto come un altro se dormiamo e dormiamo
se il mio canto è schiacciato nel cantone se il mio canto o il tuo, se il mio canto
se tutte le parole dei savi sono troppo lente per questa corsa sui cocci, se anche le bestie in quel loro morire bastonate neppure si rivelano
se c’è una tosse se c’è una tosse che incrosta il cielo e poi lo sputa
se abbiamo nemici dentro le teste e macchinette rotte
se la mano è scontrosa alla mano scontrosa rompe l’onda e il ramo rompe l’ala e il becco
se abbiamo salmi stonati se le macerie sulle facce stanche fanno il peso di tutta la storia
se poi nessuno viene nessuno s’alza dal fradicio delle tombe a consegnarci un grappolo, una tazza un giuramento alla luce se se se
se c’è una sete che ci ammala se c’è un sorso per chi ha sete se davvero davvero muove il sole se muove il sole e l’altre stelle se la sua gran potenza, sua gran potenza d’antico Amore, se il nostro cuore è immenso se il nostro cuore talvolta è immenso, se le stelle nascono, se è vero che nascono anche adesso, se siamo polverine allo sbaraglio, catenelle smagliate,
benedico ogni centimetro d’Amore ogni minima scheggia d’Amore ogni venatura o mulinello d’Amore ogni tavolo e letto d’Amore
l’Amore benedico che d’ognuno di noi alla catena fa carne che risplende
Amore che sei il mio destino insegnami che tutto fallirà se non mi inchino alla tua benedizione.
Noi tutti non siamo solo
Noi tutti non siamo solo
terrestri. Lo si vede da come
fa il nido la ghiandaia
da come il ragno tesse il suo teorema
da come tu sei triste
e non sai perché. Noi
tutti, noi forse ritornati,
portiamo una mancanza
e ogni voce ha dentro una voce
sepolta, un lamentoso calco di suono
che un po’ si duole anche quando
canta. Te lo dico io
che ascolto
il tonfo della pigna e della ghianda
la lezione del vento
e il lamento della tua pena
col suo respiro ammucchiato sul cuscino
un canto incatenato che non esce.
Ascoltare anche ciò che manca.
L’intesa fra tutto ciò che tace.
Sii dolce con me. Sii gentile Sii dolce con me. Sii gentile. È breve il tempo che resta. Poi saremo scie luminosissime. E quanta nostalgia avremo dell’umano. Come ora ne abbiamo dell’infinità. Ma non avremo le mani. Non potremo fare carezze con le mani. E nemmeno guance da sfiorare leggere. Una nostalgia d’imperfetto ci gonfierà i fotoni lucenti. Sii dolce con me. Maneggiami con cura. Abbi la cautela dei cristalli con me e anche con te. Quello che siamo è prezioso più dell’opera blindata nei sotterranei e affettivo e fragile. La vita ha bisogno di un corpo per essere e tu sii dolce con ogni corpo. Tocca leggermente leggermente poggia il tuo piede e abbi cura di ogni meccanismo di volo di ogni guizzo e volteggio e maturazione e radice e scorrere d’acqua e scatto e becchettio e schiudersi o svanire di foglie fino al fenomeno della fioritura, fino al pezzo di carne sulla tavola che è corpo mangiabile per il mio ardore d’essere qui. Ringraziamo. Ogni tanto. Sia placido questo nostro esserci - questo essere corpi scelti per l’incastro dei compagni d’amore. nei libri.
Febbraio dice
Febbraio dice
parole di tramestio nelle tane
e in ogni radice cresce
un formicolío di valvole accese.
Ascolta. Una cocciutaggine d’intesa
prelude piano piano la ripresa
il perdifiato dei fiori. Saranno qui
fra poco. Di nuovo nuovi. Intatti.
Scandalosi.
Meraviglia dello stare bene
Meraviglia dello stare bene
quando le formiche mentali
non partoriscono altre formiche
e si sta leggeri come capre sulla rupe
della gioia.
Non angustiarti – cuore
Non angustiarti – cuore – se il tuo
udire si interrompe
e non c’è un giorno intero
per l’innesto dei tuoi tamburi
col battito potente universale.
Non angustiarti
se tutti i fiori in colorate grida
appellano l’arsura tua di fiore
senza fiorita – ora. Aspetta
fermo al centro. Avventurato
d’un silenzio muto. Ci sarà
un tempo largo in cui ti rifarai
di questo digiuno e giovani parole
tufferanno senza spine
fra le tue righe d’oro
i loro verdi rami, i nidi,
le gocce diamantine, i semi
il coro degli uccelli con il sole.
Saranno tue parole per coloro
che nel dolore, dietro i finestrini,
appoggiano la fronte sulla mano
sopra un treno in ritardo
carico di destini, di gonfi piedi
e gambe. Sguardo perso lontano.
Casa lontano. Lontanissimo il cielo.
Farai il tuo canto. Cuore. A squarciagola.
Stai quieto ora. Tornerà.
Tornerà la giovane parola.
Ogni granello
Ogni granello. Ogni millimetro di foglia.
Ogni estremità di zampa d’ape
tutto ha siffatto marchio d’una cura
che lo sostiene
come fosse ogni specie prediletta
e prescelta, ognuna, nella fattispecie sua
che a guardarla per bene ogni particella
è centro universale, bella
d’una bellezza unica e abbagliante
commovente per quanto ci è vicina
e somigliante.
Io vedo da qui
Io vedo da qui
partenoni di meraviglia
così mirabili fatture e meccanismi
e colori, che il mio respiro trema.
Tutto ha stile ed eleganza.
Una genialità e proporzione
colori e velature – tutto
rivela cura dettagliata
e una dedizione penetrante.
La materia nella sua fattura
porta ovunque un’impronta.
Anche noi siamo fatti di tanta
perfezione. Anche il virus e la cancrena
guardati da vicino hanno l’aria piena
di quel nome.
Io non vi credo
Io non vi credo cose che vedo
perché chiudendo gli occhi
una vitalità di costellazioni
d’altro mondo
vi sopravanza
e la supremazia del visibile
s’incrina in felicità.
Non c’è spina
oltre le vostre sponde
niente confina o crolla
niente s’impolvera
in quella luce.
Questo giorno che ho perso
Questo giorno che ho perso
ed ero nell’esilio
dentro panni che non erano miei
e scarpe che mi disagiavano
e tasche che non riconoscevo
e correvo correvo puntuale
senza neanche un dono
per nessuno. Solo un vuoto, corto
respirare. A conferma che nel disamore
il fare anche se fai resta non fatto.
Nome che stai al centro,
Nome che stai al centro,
il tuo suono ciocca e s’imperla di voci
ma nessuna ti tiene, nessuna ti osa in
suono, in lettera e cifra. Nelle tue solitudini
di mai chiamato. Come tutto è assai strano.
A me sembra. Assai strano.
Ti piantóno, ti indago, mi avvicino in
millimetri. Ti ho nella voce
senza che esca in suono.
Chiedo la forza del tirarsi indietro la forza d’ogni rinunciante, la forza d’ogni digiunante e vegliante la forza somma del non fare del non dire del non avere del non sapere. la forza del non, è quella che chiedo. Non non non : che parola splendida questo non. Sono che quasi viene da sé la mia acqua sigillo, mio fiotto di creatura. Venite in nascita dentro tutte cose dei mondi. Sbalordite questo tutto finito del corpo di un parto perenne, nel rinascere qui che io mi sostanzio andandomi via. Scomparsa di tutte le finte radici Le qualità finte, le bugie mammifere. È solstizio col giorno in allargatura di luce.
Explicit
La gioia si condensa in particelle legate, si fa sfera rotante e firmamento, si getta nella vita danzante senza perire, senza esaurire, immutata, intoccata, seducente. Conduce a sé e il morire dei corpi non è che l'entrare fuori misura. Senza chili, senza metri, senza particelle. Alleluiare.
Franco Loi, “la poesia contro il disincanto”
È morto all’inizio di quest’anno, novantenne, Franco Loi, poeta in dialetto milanese che ha maturato nel corso degli anni una religiosità molto personale, anarchica, se vogliamo, ma appassionata e autentica. La sua prima produzione poetica nacque tutta in un decennio cruciale, tra il 1965 e il 1974, ed è così rievocata dal poeta: "Scrivevo versi per quattordici ore filate al giorno [...] Camminavo per la mia stanza ridendo, piangendo, recitando [...] ma nella stanza c'era un sé che dettava, qualcuno che mi dettava dentro: una presenza che avvertivo sul capo come un calore e che mi osservava indifferente a quanto mi accadeva. Ecco perché mi sono sempre considerato amanuense di Qualcuno".
Da I cart (Le carte, 1973) a Poesie d'amore (1974) a Stròlegh (Astrologo, 1975), “visione in quarantadue passaggi”, tappa fondamentale della sua produzione, la sua poesia è stata fin dall’inizio visionaria e allusiva, un sogno ad occhi aperti, una speranza irrazionale, una ricerca ininterrotta.
Lo stile potentemente espressionistico che l’ha sempre caratterizzata scaturiva da una violenta combinazione di registri, che spaziavano dal grottesco al sarcastico dall’ironico al satirico; il dialetto usato nella vasta produzione è un milanese “reinventato”, mescidato di altri dialetti, intriso di forestierismi e latinismi, arcaismi e neologismi: un idioma personalissimo e inimitabile. Temi ricorrenti della sua poesia sono il trauma della guerra e delle violenze nazi-fasciste, la drammatica scoperta della presenza insopprimibile del male nella storia, l’osservazione accorata degli umili trascurati dalla storia: ma da questa dolorosa concezione dell'esistenza scaturisce in Loi un’invocazione costante, quasi una preghiera laica alla ricerca del senso della vita.
La fase centrale della sua produzione inizia con L’Angel (1981), romanzo in versi magmatico e potente che traccia il singolare ritratto di “un eroe italiano” (questo avrebbe dovuto esserne il titolo), un uomo che si crede un angelo in esilio dal Paradiso e vive la sua vicenda umana con intensa passione. Su questa stessa linea si collocano le altre raccolte, uscite a ritmo incalzante negli anni ottanta e novanta: Lűnn (Lune, 1982), dalla fascinosa ambientazione notturna; Bach (1986), dominata dalla ricerca del dialogo con la morte e dal desiderio di recuperare il valore della vita; Liber (1988: Libro, ma anche Libero/Liberi), dove ricompare l’utopia di una palingenesi rivoluzionaria in grado di liberare l'uomo moderno; Umber (Ombre, 1992), che vede ulteriormente incrinarsi il rapporto tra società e poeta; Amur del temp (1999), memoriale della donna amata e del tempo che fugge lasciandoci “furest a nűm, a lur, al so insugnàss (forestieri a noi, a loro, al loro sognarsi)”. Forse meno significativa è stata la produzione poetica dell’ultimo ventennio, durante il quale però Loi ha continuato a essere presente sulla scena culturale italiana con importanti saggi, racconti e traduzioni.
Oh quanta gent che morta sü ‘na strada
la storia l’è passada sensa véd,
quèl ref de la speransa generusa
che l’umbra mia de mì sia pü de lé,
oh quanta gent che morta sü ‘na strada
par che la spetta e la spetta pü,
e passa l’aria e la curr luntan
due che la gent s’insogna che la vita
se tègn scundüda, e che la turnarà.
Oh, quanta gente che morta su una strada / la storia è passata senza vedere, / quel filo della speranza generosa / che l’ombra mia di me sia più della storia, / oh quanta gente che morta su una strada / sembra che aspetti e non aspetta più, / e passa l’aria e corre via lontano / dove la gente sogna che la vita / si tiene nascosta, e che ritornerà.
Se scriv perchè la mort, se scriv 'me sera quan' l'òm el cerca nient nel ciel piuü, se scriv perchè sèm fjö o chi despera, o che 'l miracul vegn, forsi vegnü, se scriv perchè la vita la sia vera, quajcòss che gh'era, gh'è, forsi ch'è pü.
Si scrive perché la morte, si scrive come sera / quando l'uomo cerca niente nel cielo piovuto, / si scrive perché siamo ragazzi o chi dispera, / o che il miracolo venga, forse venuto, / si scrive perché la vita sia più vera, / qualcosa che c'era, c'è, forse non c'è più.
Puèta, disen, d'òm inamurâ, puèta, disen, a chi piang la sera, e la matina s'alsa desperâ. Ma anca al legriusà se dis puèta, a chi sa ben parlà, bev e magnà, e a quel che canta i donn, e amô puèta disen la giuentü che sa encantass. Ma quèj che fan murì cun la puesia ligada sü, ciavada, e fan negà nel liber de la vita... Avemaria! În no puèta, în no òmm de lüstrà. Je ciàmen massa e ciau, e cusì sia.
Poeta, dicono d'uomo innamorato, / poeta, dicono, a chi piange la sera / e la mattina s'alza disperato. / Ma anche al rallegrarsi si dice poeta, / a chi sa ben parlare, bere e mangiare, / e a quello che canta le donne, e ancora poeta / dicono la gioventù che sa meravigliarsi. / Ma quelli che fanno morire con la poesia / legata dentro, chiusa a chiave, e fanno annegare / nel libro della vita... Avemaria! / non sono poeti, non sono uomini da onorare. / Li chiamano massa e ciao, e così sia.
Ranza de lüna che scunfüsa al piang
va cume dü che mai s’encuntrarà,
quèl veder de fenestra me sluntana
la tua giuinessa trista de lassàm…
Oh ranza del pü nient, blö lüna sfrusa!
bel ültum veder, tas‘d’un respiràm!
Mì t’û vardada, e ’dèss l’è cume tusa
che per la strada va sensa vultàss.
Falce di luna che confusa al piangere / vai come due che mai s’incontreranno, / quel vetro di finestra mi allontana / la tua giovinezza triste nel lasciarmi… / Oh falce del più niente, blu luna che fuggi! bell’ultimo vetro, zitta d’un respirarmi! / Io ti ho guardata, e adesso è come una ragazza / che per la strada va, senza voltarsi.
Forsi û tremâ cume de giass fa i stèll, no per el frègg, no per la pagüra, no del dulur, legriâss o la speransa, ma de quel nient che passa per i ciel e fiada sü la tèra che rengrassia… Forsi l’è stâ cume che trèma el cör, a tí, quan’ne la nott va via la lüna, o vegn matina e par che ‘l ciar se mör e l’è la vita che la returna vita… Forsi l’è stâ cume se trèma insèm, inscí, sensa savèl, cume Diu vör…
Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle, / non per il freddo, non per la paura, / non del dolore, del rallegrarsi o della speranza, / ma di quel niente che passa per i cieli / e fiata sulla terra che ringrazia... / Forse è stato come trema il cuore, / a te, quando nella notte va via la luna, / o viene mattina e pare che il chiarore si muoia / ed è la vita che ritorna vita... / Forse è stato come si trema insieme, / così, senza saperlo, come Dio vuole…
Vòltess, sensa dagh pés, cume se fa quand ch’i penser ne l’aria slisen via, vòltess per abitüden lenta, sensa sâ, cume quj donn che per la strada i gira la testa per un òm, in câ, o sü la porta, vòltess per simpatia d’un rümur luntan, o d’una rùnden sü nel ciel stravolta, vòltess sensa savè, per vuluntâ d’un quaj penser bislàcch, o per busia, vòltess per returnà, che smentegâ sun mì che dré di spall te rubarìa quel nient del camenà, quel tò ’ndà via.
Vòltati, senza dar peso, come si fa / quando i pensieri nell'aria scivolano via, / voltati per abitudine, lenta, senza senso / come quelle donne che per strada girano / la testa per un uomo, in casa, o sulla porta, / voltati per simpatia d'un rumore lontano, / o d'una rondine su nel cielo stravolta, / voltati senza sapere, per volontà / d'un qualche pensiero bizzarro, o per bugia, / voltati per ritornare, che dimenticato / ci son io dietro le spalle per rubarti / quel niente del camminare, quel tuo andare via.
Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient, forsi memoria sèm, un buff de l’aria, umbría di òmm che passa, i noster gent, forsi ‘l record d’una quaj vita spersa, un tron che de luntan el ghe reciàma, la furma che sarà d’un’altra gent… Ma cume fèm pietâ, quanta cicoria, e quanta vita se la porta el vent! Andèm sensa savè, cantand i gloria, e a nüm de quèl che serum resta nient.
Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente, / forse memoria siamo, un soffio dell'aria, / ombra degli uomini che passano, i nostri parenti, / forse il ricordo d'una qualche vita perduta, / un tuono che da lontano ci richiama, / la forma che sarà di altra progenie... / Ma come facciamo pietà, quanto dolore, / e quanta vita se la porta il vento! / Andiamo senza sapere, cantando gli inni, / e a noi di ciò che eravamo non è rimasto niente.
Serum de aria int un ciel de frasca e da la müra l'erga a ridascià, e l'aria l'era el temp, e lé diseva: "La mia paüra l'è quèl tò tucàm!" Passa 'na nevura e vardi i mè penser, 'n üsèll sifula, e senti 'me 'n tremà. Û tegnü 'l cor, e lé diseva: "Jer la mia giuinessa la te muriva in brass". Nient alter me pareva de scultà. Taseva el temp, e me tegnivi bass.
Eravamo d'aria in un cielo di frasche / e dalla mura l'edera a ridacchiare, / e l'aria era il tempo, e lei diceva: / "La mia paura è quel tuo toccarmi!" / Passa una nuvola e guardo i miei pensieri, / un uccello zufola, e sento come un tremare. / Ho trattenuto il cuore, e lei diceva: "Ieri / La mia giovinezza ti moriva in braccio". / Null'altro mi pareva di ascoltare. / Taceva il tempo, e mi tenevo basso.
Pruà la mort sarà cume mè mader:
tremava el ment, la bucca vèrta a pèss,
el fiâ de la caverna tra quj làver
e j öcc vultâ a l’indré sensa pü vèss,
sarà cume mè mader, che vardavi
e la pareva ’n’ altra, e l’era un crèss
de l’ansia che nel spià faseva morta
e pö la biasegava i sò silens,
cume mè mader, da la bucca tòrta,
la flebo al brasc, quèl slentàss del temp,
che l’era lì, la mort, e la spetavi
ma nel rivà i lensö cuàtten el temp.
Provare la morte sarà come mia madre: / tremava il mento, la bocca aperta a pesce, il fiato della caverna tra quelle labbra / e gli occhi rovesciati all’indietro senza più essere, / sarà come mia madre, che guardavo / e sembrava un’altra, ed era un crescere / dell’ansia che nello spiare la credeva morta / e poi biascicava i suoi silenzi, / come mia madre, dalla bocca tòrta, / la flebo al braccio, / quell’allentarsi del tempo, / che era lì, la morte, e l’attendevo / ma nel sopraggiungere le lenzuola coprono il tempo.
Me se regordi pü se chí, a Milan,
ghe sia ’na piassa cun l’aria sensa temp,
che dré ’n cantun me sun pruȃ de andà
e i gent ne l’acqua passàven cume ’l vent.
E dré ’l cantun una camisa bianca
pareva lí a spetàm, e gh’era nient.
La piassa sensa temp, ’na dòna stanca,
j òmm che van sarȃ nel sentiment.
Sù no due seri mì. Gh’era ’na panca
e mì che camenavi tra la gent,
e quèl cantun, che mai ghe se rivava,
l’era la vita che de luntan se sent.
Non mi ricordo più se qui, a Milano, / ci sia una piazza con l’aria senza tempo, / che dietro un angolo mi son provato ad andare / e le genti nella pioggia passavano come il vento. / E dietro l’angolo una camicia bianca / sembrava lì ad attendermi, e non c’era niente. / La piazza senza tempo, una donna stanca, / gli uomini che trascorrono chiusi nel sentimento. / Non so dov’ero io. C’era una panca / e io che camminavo tra la gente, / e quell’angolo, cui mai si arrivava, / era la vita che da lontano si avverte.
Tra nüm e Diu gh’è cume un vöj de aria,
penser, un nient, un sass surd e luntan…
E möv el sass l’è cume la busia
che quan’ se dìs par nient, ma la sta là,
ferma, ‘n ingumber, cume sta ne l’aria
la nevura che scund la veritâ.
Tra noi e Dio c’è come un vuoto d’aria, / pensieri, un nulla, un sasso sordo e lontano…/ E muovere il sasso è come la bugia / che quando si dice sembra niente, ma sta là, / ferma, un ingombro, come sta nell’aria / la nuvola che nasconde la verità.
Cent’anni fa, l’8 gennaio 1921, nasceva a Racalmuto Leonardo Sciascia, maestro scomodo che in tutta la sua produzione intese denunciare senza mezzi termini i mali della società italiana e specialmente di quella siciliana. “Mi guidano la ragione – affermava - l'illuministico sentire dell'intelligenza, l'umano e cristiano sentimento della vita, la ricerca della verità e la lotta alle ingiustizie, alle imposture e alle mistificazioni». Pur innamorato della sua terra, egli non accettò mai di chiudere gli occhi sull’illegalità, sulle menzogne, sugli abusi del potere che in essa scopriva, attirandosi in tal modo anche l’ostilità di molti conterranei, gli stessi che magari oggi lo celebrano e lo esaltano.
La sua figura è ben nota, oltre che per l’impegno politico, per la sua produzione, che spazia in numerosi campi: notevole la sua attività di giornalista e saggista, con studi su Pirandello e Manzoni, e su letterati francesi, da Stendhal a Voltaire, da Diderot a Montaigne; Sciascia fu inoltre commediografo, sceneggiatore e pamphlettista (La corda pazza, La scomparsa di Maiorana, L’affaire Moro); assai famosa la sua produzione narrativa: Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il mare colore del vino, Todo modo, Morte dell’inquisitore. Ma quasi del tutto sconosciuto è il fatto che egli compose anche una raccolta di ventiquattro poesie intitolata La Sicilia, il suo cuore (1952), che fin dal titolo rivela l’amore che inscindibilmente lo legava a quella terra. “Qui la Sicilia ascolta la sua vita” recita l’ultimo verso del testo eponimo: e Sciascia a sua volta nella sua silloge giovanile si ritrova ad ascoltare e osservare con empatia e disincanto la vita di quest’isola, traguardata dall’orizzonte minimo della sua Racalmuto, facendone erompere un ritratto affascinante e malinconico.
La Sicilia che emerge dalle sue pagine è infatti una terra assolata e passionale, una terra senza mitologia (“le ninfe inseguite / qui non si nascosero agli dèi”), dove la negatività sembra sempre sul punto di sopraffare il poeta, che trova però ogni volta la forza di ricominciare, di riprendere con caparbia il cammino interrotto. La Sicilia è in queste poesie una terra che si staglia in tutta la sua bellezza seducente, nonostante le innumerevoli drammatiche contraddizioni che la caratterizzano.
Sciascia utilizza in questi testi una lingua asciutta e compatta, di vago sapore ermetico (che molto deve a Quasimodo e al primo Luzi), capace di colpire il lettore con immagini pregnanti e ricche di emozione. A caratterizzare la raccolta è la costante compresenza di termini antitetici, dialetticamente bilanciati: combattono la morte e la vita, mentre il poeta si percepisce “vivo come non mai” presso i suoi morti; il silenzio e l’oscurità predominano in una “perpetua stagione di morte”, ma non prevalgono, perché compito del poeta è “mutare il nulla in parola”; il paesaggio “s’incanta di luce” fino all’“ultima notte del mondo”, la “nave di malinconia” ha “vele d’oro”, dalla “rabbia dei lampi” riemerge “un umido sguardo azzurro”, dal silenzio scaturisce un “cuore di musica”. Un ritratto dell’isola e dei suoi abitanti dipinto alla Chagall (come ci avvisa il primo testo della raccolta), sognante e concreto allo stesso tempo, ricco d’amore e di nostalgia.
Come Chagall, vorrei cogliere questa
terra
dentro l’immobile occhio del bue.
Non un lento
carosello di immagini,
una raggiera di nostalgie: soltanto
queste
nuvole accagliate,
i corvi che discendono lenti;
e le stoppie
bruciate, i radi alberi,
che s’incidono come filigrane.
Un
miope specchio di pena, un greve destino
di piogge: tanto lontana
è l’estate
che qui distese la sua calda
nudità
squamosa di luce – e tanto diverso
l’annuncio
dell’autunno,
senza le voci della vendemmia.
Il silenzio
è vorace sulle cose.
S’incrina, se il flauto di
canna
tenta vena di suono: e una fonda paura dirama.
Gli
antichi a questa luce non risero,
strozzata dalle nuvole, che
geme
sui prati stenti, sui greti aspri,
nell’occhio
melmoso delle fonti;
le ninfe inseguite
qui non si nascosero
agli dèi; gli alberi
non nutrirono frutti agli eroi.
Qui
la Sicilia ascolta la sua vita.
L’inverno lungo improvviso si
estenua
nel maggio sciroccoso: una gelida
nitida favola che ti
porta, al suo finire,
la morte – così come i
papaveri
accendono ora una fiorita di sangue.
E le prime rose
son presso le tue mani esangui,
le prime rose sbocciate in questa
valle
di zolfo e d’ulivi, lungo i morti binari,
vicino ad
acque gialle di fango
che i greci dissero d’oro. E noi
d’oro
diciamo la tua vita, la nostra
che ci rimane –
mentre le rondini
tramano coi loro voli la sera,
questa mia
triste sera che è tua.
I morti vanno, dentro il nero
carro
incrostato di funebre oro, col passo
lento dei cavalli: e
spesso
per loro suona la banda.
Al passaggio, le donne si
precipitano
a chiudere le finestre di casa,
le botteghe si
chiudono: appena uno spiraglio
per guardare al dolore dei
parenti,
al numero degli amici che è dietro,
alla classe
del carro, alle corone.
Così vanno via i morti, al mio
paese;
finestre e porte chiuse, ad implorarli
di passar oltre,
di dimenticare
le donne affaccendate nelle case,
il bottegaio
che pesa e ruba,
il bambino che gioca ed odia,
gli occhi vivi
che brulicano
dietro l’inganno delle imposte chiuse.
Dal vecchio chiostro entro nel silenzio
dei tuoi viali, tra i marmi
che affiorano come rovine
nel rigoglio verdissimo dell’erba;
e un marcio odore di terra e di foglie
mi chiude nell’autunno che in te stagna,
anche se il sole
folgora sulle lapidi e sui cippi
o inverno abbrividisce nei cipressi.
Perpetua stagione di morte: e mi ritrovo
vivo, gremito di parole
come l’istrione sulla fossa d’Ofelia;
vivo come non mai, presso i miei morti.
Mi è riposo il ricordo dei tuoi giorni grigi,
delle tue vecchie case che strozzano strade,
della piazza grande piena di silenziosi uomini neri.
Tra questi uomini ho appreso grevi leggende
di terra e di zolfo, oscure storie squarciate
dalla tragica luce bianca dell’acetilene.
E l’acetilene della luna nelle tue notti calme,
nella piazza le chiese ingramagliate d’ombra;
e cupo il passo degli zolfatari, come se le strade
coprissero cavi sepolcri, profondi luoghi di morte.
Nell’alba, il cielo come un freddo timpano d’argento
a lungo vibrante delle prime voci; le case assiderate;
in ogni luogo la pena di una festa disfatta.
E i tramonti tra i salici, il fischio lungo dei treni;
il giorno che appassiva come un rosso geranio
nelle donne affacciate alla prora aerea del viale.
Una nave di malinconia apriva per me vele d’oro,
pietà ed amore trovavano antiche parole.
Il riso stridulo della Notte
si è aperto nel silenzio
come una vena fatale.
E sono stato nascosto in me,
cieca preda spaurita,
senza memoria né speranza di luce.
Ora, in quest’alba che hanno le case,
il paese è come un vascello che salpa:
nella sua nitida alberatura
per me s’impiglia una vela di morte.
Sto a far camorra sulle cose, seduto
al
sole d’aprile che in me torna
a un suo azzardo di
risentimenti e di inganni.
Guardo accendersi il gioco dei ragazzi,
una rissa leggera che s’incanta
di
luce, cerca un suo cuore di musica;
forse un suo cuore di pena.
Il
paese, non lontano, sembra affondare
nel verde: di là da
questo gioco
pieno di voci, è solo un paese di silenzio.
La casa splende bianca in riva al mare;
e la palma che svetta nell’azzurro,
il
verde trapunto dal giallo dei limoni,
la fredda ombra sotto la
trama dei rami.
I suoni stridono sul cristallo del giorno,
una
barca rossa si allontana piena di voci.
La ragazza che esce sulla
spiaggia
ha dimenticato i sussurrati segreti della notte;
saluta
con la mano alta i clamori della barca,
l’azzurro giorno
marino, il sole già alto;
poi si china armoniosa a
slacciare i sandali vivaci.
Le gru rigano lente il cielo,
più avido è il grido dei corvi;
e il primo tuono rotola improvviso
tra gli scogli lividi delle nuvole,
spaurisce tra gli alberi il vento.
La pioggia avanza come nebbia,
urlante incalza il volo dei passeri.
Ora scroscia sulla vigna, tra gli ulivi;
per la rabbia dei lampi preghiere
cercano le vecchie contadine.
Ma ecco un umido sguardo azzurro
aprirsi nel chiuso volto del cielo;
lentamente si allarga fino a trovare
la strabica pupilla del sole.
Una luce radente fa nitido
il solco dell’aratro, le siepi s’ingemmano;
tra le foglie sempre più rade
splende il grappolo niveo dei pistacchi.
Dopo la raccolta, ragazzi scalzi
invadono
i mandorleti: scettri di miseria
le lunghe canne
tentennanti.
I loro occhi acuti
s’incrunano tra le rame,
scoprono
la nuda mandorla lasciata.
Mi giunge il picchio delle
canne,
il lieve tonfo sulla zolla:
suoni
dell’estate che muore, dell’autunno
delle
piogge e dei poveri.
La notte frana cieca sulle case.
In lei resta della nostra vita
un calco atroce: l’ultimo nostro volto
nell’ultima notte del mondo.
Alda Merini, “la pazza della porta accanto”
Nasceva novant’anni fa Alda Merini (1931 – 2009), la più grande poetessa milanese (e forse italiana) del Novecento, salita alla ribalta della fama a soli quindici anni, quando il critico letterario Giacinto Spagnoletti recensì positivamente una sua poesia: ed è ancora lui a pubblicarne nel 1950 due liriche nell'Antologia della poesia italiana contemporanea 1909-1949, facendola conoscere a un pubblico sempre più vasto e competente; subito dopo è l’indimenticabile editore Giovanni Scheiwiller a riproporre suoi testi nell’antologia Poetesse del Novecento (1951). La fama però non salva Alda dai fantasmi di una mente fragile, tanto che già a sedici anni incontra "le prime ombre della sua mente" e viene internata per un mese nella clinica Villa Turro di Milano, dove le viene diagnosticato un disturbo bipolare. Da questo momento in poi la produzione poetica prosegue a ritmo incalzante, mentre iniziano i ricoveri manicomiali, che proseguiranno fino all’inizio degli anni settanta: nel 1953 è l'editore Schwarz a pubblicare il primo volume di versi intitolato La presenza di Orfeo; nel 1955 esce la seconda raccolta, intitolata Paura di Dio, con le poesie scritte dal 1947 al '53; nel ’55 la terza silloge, Nozze romane. La sua vita privata continua ad essere tormentata, tra matrimoni, amori infelici e la nascita di quattro figlie che è costretta ad abbandonare. Raccontò in un’intervista: «Ho avuto quattro figlie. Allevate poi da altre famiglie. Non so neppure come ho trovato il tempo per farle. Si chiamano Emanuela, Barbara, Flavia e Simonetta. A loro raccomando sempre di non dire che sono figlie della poetessa Alda Merini. Quella pazza. Rispondono che io sono la loro mamma e basta, che non si vergognano di me. Mi commuovono».
In un mio incontro con lei, nell’arruffatissima casa sui Navigli dove abitava, svoltosi in occasione del suo ultimo compleanno, il 21 aprile 2009, mi disse tra l’altro: «Il manicomio mi ha fatto scoprire la profondità del male, ma anche la profondità di me stessa. Il male, dominante nel mondo, è la presenza del diavolo che si contrappone a Dio: ma la nostra lotta con il male è ciò che ci salva dalla ‘noia’, ciò che ci tiene vivi e ci fa sentire in qualche modo utili a questo mondo, a questo universo splendido, inconoscibile; come è inconoscibile Dio, che non possiamo abbracciare, ma che ci abbraccia amorosamente. Il Paradiso per me è la pace. La pace. Null’altro».
È dall’esperienza manicomiale che nascono le sue poesie più intense, raccolte soprattutto nei volumi La Terra Santa (1984), L'altra verità. Diario di una diversa (1986), Vuoto d'amore (1991) e La pazza della porta accanto (1995). Nel 2000 esce nell'edizione Einaudi, Superba è la notte, un volume risultato di un lavoro minuzioso di cernita compiuto su innumerevoli poesie inviate all'editore Einaudi. E inizia quello che è stato definito il periodo mistico, caratterizzato dalla ripresa di motivi e figure religiose, proposte in un’ottica straniante e a volte quasi blasfema: nascono così le poesie raccolte via via in L'anima innamorata (2000), Magnificat, un incontro con Maria (2002), La carne degli Angeli (2003), Corpo d'amore (2004), Poema della Croce (2005), Cantico dei Vangeli (2006), Francesco, canto di una creatura (2007), Mistica d'amore (2008), Padre mio (2009).
Come si può notare, la sua produzione è sempre stata copiosissima (e non sempre – bisogna dirlo – dello stesso livello artistico): ma questo è stato forse il peggior difetto di Alda Merini, quello di non sapere o volere scegliere, ma di “vomitare” ogni sua riflessione, sentimento, suggestione in testi che si affollano esorbitando, quasi un diario quotidiano di una vita certamente fuori dal comune. D’altronde, come diceva un grande poeta, Giovanni Raboni: “Il poeta è l’interprete delle inquietudini”; non solo delle proprie, ma di quelle del mondo intero.
Chi volesse approfondire la conoscenza di questa grande poetessa, può utilmente accedere al sito ufficiale www.aldamerini.it.
Il gobbo
Dalla solita sponda del mattino
io
mi guadagno palmo a palmo il giorno:
il giorno dalle acque
così grigie,
dall'espressione assente.
Il
giorno io lo guadagno con fatica
tra le due sponde che non
si risolvono,
insoluta io stessa per la vita
... e
nessuno m'aiuta.
Ma viene a volte un gobbo sfaccendato,
un
simbolo presagio d'allegrezza
che ha il dono di una strana
profezia.
E perché vada incontro alla promessa
lui
mi traghetta sulle proprie spalle.
(Poetesse del Novecento – 1951)
Quando il mattino è desto
tre
colombe mi nascono dal cuore
mentre il colore rosso del
pensiero
ruota costante intorno alla penombra.
Tre colombe che
filano armonia
e non hanno timore ch'io le sfiori...
Nascono
all'alba quando le mie mani
sono intrise di sonno e non
ancora
alte, levate in gesti di minaccia...
(La presenza di Orfeo – 1953)
Sei il culmine del monte di cui i
secoli
sovrapposti determinano i fianchi,
la Vetta
irraggiungibile,
il compendio di tutta la natura
per entro cui
la nostra indaga.
Sei colui che ha due Volti: uno di luce
pascolo
delle anime beate,
ed uno fosco
indefinito, dove son
sommerse
la gran parte delle anime,cozzanti
contro la
persistente
ombra nemica: e vanno, in quelle tenebre,
protendendo
le mani come ciechi…
(Paura di Dio – 1955)
No, non chiudermi ancora
No, non chiudermi ancora nel tuo
abbraccio,
atterreresti in me questa alta vena
che mi inebria
dall'oggi e mi matura.
Lasciamo alzare le mie forze al
sole,
lascia che mi appassioni dei miei frutti,
lasciami
lentamente delirare
e poi coglimi solo e primo e sempre
nelle
notti invocato e nei tuoi lacci
amorosi tu atterrami sovente
come
si prende una sventata agnella.
(Tu sei Pietro – 1961)
Io ero un uccello
dal bianco
ventre gentile,
qualcuno mi ha tagliato la gola
per riderci
sopra
non so.
Io ero un albatro grande
e volteggiavo sui
mari.
Qualcuno ha fermato il mio viaggio,
senza nessuna carità
di suono.
Ma anche distesa per terra
io canto ora per te
le
mie canzoni d’amore.
(La Terra Santa - 1984)
Le più belle poesie
si
scrivono sopra le pietre
coi ginocchi piagati
e
le mani aguzzate dal mistero.
Le più belle poesie si
scrivono
davanti a un altare vuoto,
accerchiati
da agenti
della divina follia.
Così, pazzo
criminale qual sei
tu detti versi all'umanità,
i
versi della riscossa
e le bibliche profezie
e sei
fratello a Giona.
Ma nella Terra Promessa
dove
germinano i pomi d'oro
e l'albero della conoscenza
Dio
non è mai disceso né ti ha mai maledetto.
Ma
tu sì, maledici
ora per ora il tuo canto perché
sei sceso nel limbo,
dove aspiri l'assenzio
di
una sopravvivenza negata.
(La Terra Santa - 1984)
viene il mattino azzurro
nel nostro
padiglione:
sulle panche di sole
e di durissimo legno
siedono
gli ammalati
non hanno nulla da dire,
odorano anch’essi
di legno,
non hanno ossa né vita,
stan lì con le
mani
inchiodate nel grembo
a guardare fissi la terra.
(La Terra Santa - 1984)
Non vedrò mai Taranto bella
non
vedrò mai le betulle
né la foresta marina:
l'onda
è pietrificata
e le piovre mi pulsano negli occhi.
Sei
venuto tu, amore mio,
in una insenatura di fiume,
hai fermato
il mio corso
e non vedrò mai Taranto azzurra,
e il mare
Ionio suonerà le mie esequie.
(Poesie per Charles – 1982)
Non voglio che tu muoia, no.
Se tu
tremassi nella morte,
io cadrei come una foglia al vento,
eppure
con le mie grida e i miei sospiri
io ti uccido ogni giorno;
ogni
giorno accelero la tua morte,
sperando che anche per me sia la
fine
e mi domando dove Dio stia
in tanta collisione di
anime,
come permetta questo odio senza rispetto,
e brancolo nel
buio della follia
cercando il tentacolo della scienza.
(Per Michele Pierri – 1991)
Non voglio dimenticarti, amore,
né
accendere altre poesie:
ecco, lucciola arguta, dal risguardo
dolce,
la poesia ti domanda
e bastava una inutile
carezza
a capovolgere il mondo.
La strega segreta
che ci ha guardato
ha carpito la nudità del
terrore,
quella che prende tutti gli amanti
raccolti
dentro un'ascia di ricordi.
(Titano amori intorno – 1993)
Ritorna, che cantar canzone di voto
dentro l’acqua del Naviglio io voglio
perché tu sia riesumato dal vento.
Ritorna a splendere selvaggio
e giusto ed equo come una campana,
riscuoti questa mente innamorata
del suo dolore, seme della gioia,
mia apertura di vento e mio devoto
ragazzo
che amasti la maestra poesia.
(Ballate non pagate – 1995)
Quattro stanze per Roberto Volponi
….
II
Mentre cerco vita nel tuo volto,
dolcissimo Roberto che mi cadi
pesantemente tra le molte braccia,
io sono Diana, forsennata caccia
che trova dentro i rivoli del sogno
grandi cerbiatti dagli occhi di rima.
(La volpe e il sipario – 1997)
La mia poesia è alacre come il
fuoco
trascorre tra le mie dita come un rosario
Non prego
perché sono un poeta della sventura
che tace, a volte, le
doglie di un parto dentro le ore,
sono il poeta che grida e che
gioca con le sue grida,
sono il poeta che canta e non trova
parole,
sono la paglia arida sopra cui batte il suono,
sono la
ninnananna che fa piangere i figli,
sono la vanagloria che si
lascia cadere,
il manto di metallo di una lunga preghiera
del
passato cordoglio che non vede la luce.
(La volpe e il sipario – 1997)
Il ladro Giuseppe
C’è un caffè, giù sulla Ripa, gestito da due sorelle dove io mi ritrovo tutti i giorni insieme ad altre compagne di sventura. Sì, perché la vita è una enorme assurda sventura. I nostri discorsi li conosciamo a memoria come conosciamo a memoria la vita l’una dell’altra. Abbiamo tutte un punto debole, un punto doloroso di cui parliamo sempre e questo caffè somiglia o un confessionale o a un luogo di psicoterapia piuttosto che a una birreria. Una volta un tizio mi disse che non davo buono spettacolo facendomi vedere lì dentro mentre le altre massaie rassettavano la casa, ma io mi ero messa a ridere; e dove la trovavo io la forza di andare avanti, se nessuno mi parlava mai? Sì, d’accordo, erano discorsi scuciti di gente molto vicina all’arteriosclerosi, ma in fondo erano discorsi umani accorti, anzi con un certo piglio signorile perché le persone che frequentavano questo bar avevano tutte licenza di credere che sarebbero state persone altolocate se il caso fosse stato benigno. Beh, ecco, il baretto consta di un largo pancone e poche sedie per le persone più anziane, ma ci si trova bene e si addice meravigliosamente al Naviglio che sta di fronte. Fuori la scritta “La Madonina” precisa che ci troviamo proprio a Milano, nel cuore della vecchia città, che non ci possiamo sbagliare e che lì dentro è tutto milanese; le sorelle poi che gestiscono il locale – il quale non ha subito modifiche da oltre un centinaio di anni – sono abilissime e curiose, quel tanto di curiosità che basta a farti dire con piacere le tue cose private come se ti scaricassi di un lungo inveterato peso.“La Madonina”: ecco il mio punto fermo nella vita e alle volte vorrei scrollarmelo di dosso come un piacere che non merito, a volte mi dico che ho cose più urgenti da fare, che non è giusto che una madre di famiglia si sieda a prendere un buon caffè; ma poi mi consolo pensando che sì, in fondo, non vado mai dal parrucchiere, che non ho altri sfoghi e così mi adagio serenamente nella poltrona del piccolo caffè e lì comincio a dipanare ricordi senza fine e senza nome sulla scie dei discorsi degli altri, fumandomi qualche sigaretta, regalata anche quella dall’Alice che è la più giovane delle sorelle. Così, ecco un punto fermo. Credo che tutti nella vita ne abbiano bisogno uno; chi se lo fa al bar, chi in altri posti, chi persino in chiesa. E poi – lo crederesti, lettore? – in questo bar qualche volta si prega: sì, perché, vedete, siamo tutte persone spaurite che andiamo a rifugiarci lì dentro a chiedere una grazia – solo che questa grazia invece di chiederla a Dio la chiediamo a una buona tazza di caffè.
(Alda Merini, Il ladro Giuseppe, Milano, Scheiwiller, 1999)
Chi di noi ha più di sessant’anni non potrà fare a meno di ritrovare, nella nuova silloge di Davide Puccini, gli odori, i sapori, i colori della sua gioventù, di quegli anni del primo dopoguerra e del boom economico che paiono così lontani dalla contemporaneità. Animali diversi ed altri versi (con una corposa prefazione di Giancarlo Pontiggia) è una raccolta scandita in undici sezioni tematicamente unitarie, che tracciano con delicatezza scenari carichi di spensierata nostalgia.
Si inizia con quindici ritratti di Animali diversi: un topolino dal musetto grazioso e un cavalluccio marino, un geco e un piccione, una chiocciolina e una farfalla, un gatto e un riccio di mare, altri animali di piccole dimensioni che portano “un messaggio d’amore” inatteso; destinato subito dopo a riproporsi nella visione di Alberi foglie fiori frutti che rappresentano, secondo il poeta, quasi uno “spreco di bellezza”.
La terza sezione è un elogio del mare, amato da Puccini nella sua “ampiezza infinita” e goduto con fedeltà nelle nuotate di fronte alla sua Piombino; seguono le sezioni dedicate al corpo, alla vita e alla morte, autoritratti (diretti e indiretti) che ci offrono l’immagine di un poeta a suo agio nel “camminare silenziosamente”, nell’attraversare l’esistenza con appartata delicatezza.
La sesta sezione ci riporta Dal passato il racconto di eventi, situazioni, giochi che erano sepolti nella nostra memoria e si riaffacciano gioiosamente con la loro carica di gioventù; altri episodi e situazioni del passato si ritrovano anche nell’ultima sezione, dedicata a Dolci ricordi di vicende e oggetti che probabilmente le nuove generazioni non conoscono: la penitenza che inesorabilmente punteggiava i nostri giochi infantili e la raccolta di francobolli, la scatoletta della liquirizia e il carretto del gelato con i suoi coperchi argentati, i dolci regionali e le carrube sgranocchiate al cinema, le “palline di vetro colorato” che rimandano alle proustiane madeleines e la pastiera napoletana. Si tratta di oggetti e occasioni che ci riportano in un mondo fiabesco, perché secondo il poeta “le cose possiedono un’anima”; sono luoghi, realtà, situazioni di un passato che forma il sapore dolce della nostra infanzia e giovinezza.
Resta da dire della nona sezione, forse la più importante, intitolata Epicedi, dove Puccini rievoca amici e amiche perdute, di cui ricostruisce con intenso affetto e straziante malinconia tessere vitali, situazioni, “occasioni”.
Un’ultima considerazione merita lo stile, sempre curato e raffinato, ma al tempo stesso leggiadro e gioioso, ricco di finezze ineguagliabili quali le rime equivoche, gli enjambement, l’uso costante dell’endecasillabo e del settenario; la grande capacità poietica di Puccini trova infine il culmine della perfezione nella Sestina dei sogni (posta non a caso esattamente al centro della raccolta) dove la canonica retrogradazione incrociata è splendido supporto alla testimonianza di vita del poeta stesso.
La chiocciolina
Una chiocciola con la sua casetta
ancora trasparente
(qualcosa di vivente
dentro si muove e pulsa),
nata da poco eppure all'avventura
sulla grande vetrata del soggiorno
che mi permette comoda visione:
è all'esterno del mondo che conosco,
ma la vedo aderire con tenacia
alla liscia parete tutta uguale;
percorre l'invisibile diaframma
sterminato per lei, quasi infinito,
senza fretta o paura,
solo di quando in quando
cambiando direzione.
E mi viene l'impulso irresistibile
di aiutare la piccola creatura
in cerca della meta,
di poter scavalcare la distanza
(barriera insormontabile dell'essere)
che ci separa in modo irreparabile.
Amore universale
Aliando lieve una farfalla viene
un attimo a posarsi
sulla mia spalla. Cara,
che tu mi abbia scambiato per un fiore
è un tenero segnale
di amore universale.
La libellula
Libera la libellula librata
nel fremito vibratile delle ali;
enormi occhi con vista panoramica
rispetto ai quali l'uomo è quasi cieco,
rosso o smeraldo misto ad oro il corpo:
gioiello senza eguali di un tesoro
di grazia e leggerezza proverbiali
.
È triste questo spreco di bellezza
per un insetto: a cosa può servire?
Ma la bellezza è spreco o non esiste.
Gli amanti del sole
Sopra un folto tappeto
di fogliette carnose
che coprono il pendio e si protendono
come mani che chiedono,
si aprono i pugni che verdi racchiudono
le macchie colorate degli amanti
del sole, la corolla
si allarga allegra nel flagrante viola,
mostra il cuore dorato
che è subito assaltato
da nugoli frementi
che suggono voraci
e ingordi si cospargono di spore
avviando un processo
di furibondo eppure casto sesso.
Fratelli nello spirito,
la vostra breve vita la passate
tutta in omaggio a colui che portate
con coraggio nel nome altisonante;
vi offrite confidenti,
appassite dolenti
di non poter godere ancora un poco
del suo fecondo amplesso.
Nascita del vento
Il mare è calmo sotto il cielo grigio.
Una leggera brezza di grecale
muove blanda corrente che si placa
lentamente nell'aria che ristagna.
Ora nulla disturba questa quiete.
Ma ecco un primo soffio che lieve alita
appena percettibile sul volto.
Ne cerco il segno in acqua: ecco s'increspa
al largo con un brivido che subito
s'affievolisce e posa, ecco riprende
dove non c'è il ridosso delle rocce,
di nuovo perde lena e ammutolisce.
Il sole che s'insinua fra le nubi
solleva ancora un poco di respiro
nell'ampio seno che mai non riposa
e come un fiume placido si sposta
la vasta massa in senso orizzontale:
finché ad un tratto, trionfante forza,
si leva maestoso il maestrale.
Waterman
Io che scrivo con questa stilografica
di segno fine sono - nomen, omen -
un uomo d'acqua. Inconsistente scorro
come l’inchiostro liquido bluastro,
trascorro la mia vita sulla ruga
di una sottile lamina di carta,
pallido astro che rapido declina,
lasciando appena un'orma diluita
che si trasforma in labili parole:
il sole la prosciuga ed è finita.
Sestina dei sogni
Il sentimento che ci spinge a amare
tutto il bello che vive sotto il sole,
portato dall'istinto al proprio fine
di trovare l'oggetto dei suoi sogni,
può diventare amaro come il sale
se gli manca la meta per cui parte.
Tutte le volte che spontaneo parte
alla ricerca del cuore da amare
attraversa deserte e buie sale
prima di risalire verso il sole
che riesca a dorare un poco i sogni,
nella mente dell'uomo unico fine.
Ma se il dolore che segna la fine
di ciò che della vita è tanta parte,
l’iridescente trappola dei sogni,
bagna i nostri occhi di lacrime amare,
lascia libere le sole
parole che ci fanno arido sale.
E mentre la marea schiumando sale,
l’acre soffrire sembra senza fine
persino quando fuori splende il sole
che riscalda la terra in ogni parte,
perché ci sono troppe cose amare
che offuscano la luce alta dei sogni.
Nostri alleati traditori, sogni,
per vostra colpa inanimato sale
diviene ciò che noi potremmo amare
e che sarebbe il nostro solo fine
se non ci distogliesse dalla parte
giusta il vostro mutare ad ogni sole.
Inutile sperare che col sole
del nuovo giorno finalmente i sogni
consunti da vecchiezza faccian parte
di un'esistenza concreta che sale
verso il destino d'avere la fine
che tocca al corpo che è buttato a mare.
E ancora ciò che ci fa amare il sole,
il fine e acuto stimolo dei sogni,
sale in scena a dire la sua parte.
La penitenza
A Stefano Carrai,
in debito di un ricordo
Il gioco era un pretesto
per dare penitenza
a chi ne usciva vinto
soprattutto se nella lieta frotta
qualche bella bambina lievitava
e per incantamento
la lotta si accaniva:
dire fare baciare...
Eravamo in attesa dell'evento,
materiale in fermento,
incuranti di quel che minacciava
l'avvenire in agguato dietro l'angolo.
Ora che invece il gioco
ha perso ogni attrattiva e lo rimpiango,
non mi resta più alcuna alternativa:
… lettera testamento.
La coppia galante di Capodimonte
Seduto sopra un ceppo od una roccia,
appoggiato ad un tronco che sta mettendo già
i primi e stranamente troppo folti
ributti verdi di foglie di quercia,
lui tenta una zampogna boschereccia
ma scoprono il suo gioco la bruna giacca ricca
d'alamari dorati, le finissime calze,
le scarpe con le fibbie luccicanti,
le trine al collo e ai polsi, il cappello a tricorno;
lei, un poco più in basso, espande l'ampia gonna
decorata da cespi di viole
e ornata in fondo da fiocchi azzurrini
che sembrano sorreggere la gala
rosa increspata, dalla quale spuntano
i piedini calzati di raso blu: lo ascolta
sognante e accoglie in grembo un innocente agnello
(una pecora bruca mansueta,
ingentilita certo da un nastro rosso al collo).
Intanto ignoti vezzi sfuggono dalla casta
eppure maliziosa scollatura
su cui richiama (inconsapevolmente?)
l'attenzione la piccola manina
sapientemente arcuata al polso che esce
dalla manica a sbuffo, affusolato.
Felicità più grande può darsi nella vita
di queste vostre eterne moine fuori moda?
Le cose e la morte
Le cose sono spietate.
Le cose non conoscono
la discrezione di morire.
Le cose sopravvivono
sempre e comunque, anche malridotte
Le cose stanno immobili
con la loro muta presenza
implacabili come dei rimorsi.
Riccardo
Hai sfidato la morte a viso aperto
sul suo terreno: alle prime avvisaglie
del cancro l'hai virato in arte pura
facendo diventare la sua immagine
terrificante un gioco di colori
affascinante nella sua astrattezza.
Se il fumo era la causa evidente,
non ti sei mai pentito e fino all'ultimo
senza piegare il capo, renitente,
sei rimasto fedele al caro vizio.
Sapevi bene di non poter vincere,
ma con ostinazione hai combattuto
senza paura finché hai potuto.
Non ho memoria dei banchi di scuola
dove insieme sedemmo da ragazzi,
ma ancora vedo un tuo disegno a cera
(una candela illumina la scena:
natura morta con verde bottiglia)
su carta nera a lungo appeso al muro
nel corridoio di casa di allora.
Mi torni a mente nella tua durezza
con affetto dettato da amicizia
che negli anni si perde eppure resta
capace di capirne la dolcezza.
Andrea
Violino di spalla dell’orchestra
che riscaldava di arte il freddo inverno
e solista di vaglia:
a forza di vederci
entrambi in prima fila, tu sul palco
ed io al mio posto in centro alla platea,
si accendeva talvolta al nostro sguardo
la luce di un sorriso silenzioso,
quasi un ceno d’intesa tutto interno.
Della notizia della tua scomparsa
ho saputo in ritardo ed ora luccica
nel ricordo un barlume prezïoso.
Mi sorprendo a pensare che il silenzio
Tra noi non può più essere interrotto,
e mi consolo solo riflettendo
che il silenzio fa parte della musica.
Il gelato
Nei pomeriggi estivi, dopo il mare,
il gelato arrivava in bicicletta
su di un carretto spinto dai pedali
preannunciato da scampanellio
tanto sonoro da chiamare in frotta
i ragazzi del vasto vicinato.
Ad officiare il rito sempre uguale
con in testa un berretto bianco a barca
rovesciata a coprire la pelata
il caro Ponzio col sorriso strano
di chi possiede pochi denti in bocca
e povere parole smozzicate:
sollevando il coperchio di lucente
acciaio apriva l'intimo caveau
da cui traeva con una paletta
il tesoro di crema e cioccolato
murato con due tocchi in cima a un cono
sfilato dalla sfilza un po’ ricurva
impilata alla meglio sul ripiano.
Andava trangugiato senza indugio
per non farlo squagliare sotto il sole.
Il gelato costava dieci lire.
La pastiera napoletana
Per Pasqua trionfava la pastiera
sfornata dalla mamma di un compagno
di scuola e di quartiere in quantità
che consentiva dosi generose,
come da sacrosanta tradizione
per lei di origine meridionale.
Mi conquistava la delicatezza,
la morbidezza al taglio netto e al morso,
la rara sfumatura sinestetica
del suo sapore ricco di profumo:
una felicità all’acqua di rose.
«Scrivendo mi sento ogni volta portato in salvo»: questa rasserenante affermazione fu fatta a quasi novant’anni da Giancarlo Majorino, uno dei protagonisti della poesia italiana del Novecento, morto nel maggio scorso (1928-2021). Dapprima impiegato di banca, poi rappresentante, bookmaker, infine docente di filosofia, drammaturgo e poeta, Majorino ha avuto anche il merito di fondare nel 1965 la rivista “Il Corpo”, una rivista, come amava definirla lui, “mai vista”, che cercava approcci diversi alla letteratura, dando spazio, accanto alla poesia, alla filosofia, alla storia, alla psicanalisi, secondo uno sguardo nuovo, “europeo”; e il 21 marzo 2004 ha dato vita alla “Casa della poesia” di Milano, spazio di riflessione e condivisione cui hanno collaborato numerosissimi scrittori negli anni, e che dal 2007 continua ad esistere su FaceBook.
L’esordio poetico non è precoce: avviene nel 1959 con il racconto in versi La capitale del nord, “una simbiosi tra il romanzo e la poesia” (lo definì l’autore) dove Majorino rievoca la sua giovinezza e inizia a sondare in profondità i territori dell’ignoto. Poeta-intellettuale, per sessant’anni egli ha dialogato nella sua opera con la propria storia personale e con le vicende della società contemporanea, sempre nella convinzione che la poesia abbia una responsabilità insostituibile nel mettere in luce e condannare tutte le contraddizioni dell’esistenza. Si definiva “insofferente di ingiustizie” e quindi “di sinistra”, ma non fu mai iscritto a un Partito, un po’ per sfiducia un po’ per orgoglio: il suo impegno civile doveva trovare voce solo nella scrittura.
E la sua è stata una scrittura che ha espresso fedelmente e instancabilmente l’inquietudine, l’insofferenza per ogni forma di sopraffazione, grettezza, ipocrisia; ma è stata anche costantemente una ricerca di strumenti espressivi articolati e poliedrici, capaci di comunicare al meglio la complessità e l’inafferrabilità dell’esistenza. Le sue scelte lessicali e verbali vanno in direzione dell’utilizzo molto forte, quasi ossessivo, del participio presente e del gerundio, modi verbali che dilatano il presente fino a renderlo “con-temporaneo”, in grado di accogliere tutti i tempi dell’esistenza umana.
Nelle raccolte più tarde, da La solitudine e gli altri (1990) a Le trascurate (1999), da Viaggio nella presenza del tempo (2008) a La gioia di vivere (2018), lo stile si fa ancor più spigoloso e trasgressivo, teso ad interpretare la realtà dell’oggi, che Majorino vede sempre più cupa, caotica, e per questo quasi inconoscibile. Eppure coesistono in questi testi magmatici e problematici da un lato il tentativo di esprimere la disorganicità dell’esistenza, certamente un giudizio negativo sulla realtà contemporanea, ma anche nello stesso tempo la speranza di poterla modificare, di poter incidere in maniera positiva sull’evoluzione del mondo, proprio attraverso la poesia. In tal modo l’apparente impoeticità di certi testi risulta coerente con il tentativo di costruire una scrittura sempre più aderente alla metamorfosi continua della vita: la sua poesia, in sostanza, si sforza caparbiamente di cercare un accordo, una difficile sintonia tra arte, espressione e vita quotidiana.
La madre ha insegnato
la madre ha insegnato a Virginia
l’importanza del corpo
ogni sera per molte belle estati
il padre riceveva
Virginia allontanata
il suo compenso
eravamo felici se ci penso
il mestiere dannato dei denari
il piccolo commercio
un gatto in mezzo ai cani
faceva il babbo
è strano
grande e allegro
com’è dolce serbare un corpo umano
O mia città
O mia città vedo le porte gli archi
che un tempo limitavano il tuo cauto
intrecciarsi di case strade parchi
oggi spezzarti come una frontiera
o come una catena di pontili
congiungere le tue zone più vili
ai box del centro dove grandi banche
rivali o consociate in busta chiusa
dan vita o morte in crediti d'usura
legate col cordone ombelicale
del capitale e in loro trasformate
e quelle in queste ritmica simbiosi
le sedi razionali dell'industria
con l'asino alla mola e i nuovi impianti
la rapida salita - la discesa
più rapida - la sedia dei trent'anni
intorno curve schiene di negozi
la Galleria col tronco fatto a croce
in fondo oltre la Scala la gran piazza
Cavour congestionata la questura
la pietra dell'Angelicum trapassi
violenti e luminosi in via Manzoni
il tufo è ancora base ai grattacieli?
contro il centro e soltanto qualche raro
sabato sera in blu nei suoi ritrovi
s'addensa l'altra razza la sicura
nemica della pace dei signori
e topi sul formaggio ogni mattina
dalla Nord da Varese dalle strade
fitte di bici e scooter le tribù
compagne di lavoro o traversanti
le piazze con stendardi per San Siro
o incolonnate per dimostrazioni
"da quanto tempo il tavolo rotondo
della terra è quadrato?"
"per quanto tempo ancora notte e giorno
saranno scarpe al piede dei padroni?"
nel mezzo come un uomo tra due fuochi
uno che brucia l'altro che risplende
il ceto medio spirito e materia
all'ombra dei potenti per la pace
per lunga convenienza e religione
contro di loro nella propria essenza
costretto a verità di sottomesso
se fedele dev'essere il poeta
al tempo scriveremo di partenze
frenate di ricorsi in cassazione
di lenze che catturano usignoli
gettati in acqua ritornati pesci
con versi che la biro dell'ufficio
(la marca della ditta l'attraversa)
la vespa delle ferie la ragazza
di tutti e rabbia/amore detteranno.
Achtung
O luminosa città,
un doppio petto di gonfi negozi centrali
arrossa guance di donne, bambini con pacchi,
ebbri di ciò che verrà.
Regali, regali, la gente regala e dimentica;
anch'io, città, che cammino e s'è aperta una fossa,
ti regalo qualcosa:
una poesia nuova (m'aiuta l'auto nera di Krupp tornata in cortile)
Tozze case scientificamente disposte
quasi filari alveari (non paragoni)
zeppe di scheletri umani prima di notte saranno
sotto le docce nel gas a scavare le fosse terra che poi coprirà
le membra umane aghi pinze fruste caverne paludi tane letame
uomini donne tornati sugli alberi o rane carogne con calzoni giubbe sottane
strappano denti unghie dita mani con denti unghie dita mani vincenti
otto quintali di capelli urgono alla fabbrica Rosch?
questa bambola che acquisti hai guardato i suoi capelli?
l'orsacchiotto ha gli occhi tristi? sono gli occhi di un ebreo
che suo figlio giudica (esagerato) colpevole Eichmann.
Poesie che si tradiscono galleggiano
come scatolette, feci, preservativi usati, saliva, macchie sull'acqua.
Krupp è tornato: festeggiato da amici e diplomatici
beve lo champagne che per fine anno abbiamo prenotato
anche noi;
anche tu che leggi, e c'è poco da leggere qui,
le donne violentate, è ovvio, in quel momento
sono beate: nessuno le strazia in quel momento.
Ilse netta le zampe nel grembiule della bimba che càpita
"torturerò anche te quando sarai più grande";
penzolano ai ganci quarti d'uomo,
orbita presso l'orbita, come i quarti di bue
che cuochi apprestano per cena a noi che passeggiamo
tra i negozi centrali, brava Milano.
Contorto
ritorno ad Itaca, a casa
Gagliardi
conti la tua mania tessendo
Penelope cui non torna Ulisse detto
Nessuno
rubandoti alla ditta contabile
di sé
sparecchiato continua
lungo
elenco di cifre dopocena
allegra e circondati come siamo
di
figli non nati nell’inquieta
cucina certe inutili poppe che
hai
senza i figlioli i fagioli
per giocare con la morte a
tombola
ugualmente
utili che hai
nel letto mi ricordo che cantavano
certe sirene
dal visino aguzzo
che finivano in triangolo laggiù
e
trentadue incisivi ora mentre giri
il fianco con i fori delle
iniezioni.
l'Enrica dorme:
posa la faccia
sul cuscino che torna
petto di mamma
nel buio
in quella calma
avvicina il mento all'intestino
le ginocchia al mento
nell'acqua della stanza
nuotano pesciolini.
Pacata mente sgrano gli occhi dei minuti
e riconosco il Caso: nientetutto:
potresti scomparire sei comparsa
tantopiena, cosìfrutto.
potresti scomparire sei comparsa
Misurata, carina, scesa - è chiaro -
da un'educazione paleopatrizia.
Prima della classe, non sa
cosa significhi lotta di classe.
Ma lo imparerà! urla la Lòvere;
invece forse no. Comunque
ringrazia, uscendo,
chi glielo spiegherà.
Adora i concerti ed è priva,
per ora (pensa?), di carnalità.
Le sue calzette bianche
inebriano le affaticate, stanche
proff. a mezzo servizio.
La comunista invece le dà quattro:
ringrazia anche la comunista, sa
che lo scrutinio la favorirà;
lo scrutinio di classe generale
non può farle del male.
Sit-in
Ma
c’era qualcuno, in quella folla di giovani
vibratili e
prefiguranti la nuova brughiera,
così usciti dall’ ossessione d’eros, belle e belli,
uniti
nel volere e nel recitare la Rivoluzione,
è triste
scriverlo, c’era qualcuno, io,
che sbirciava cosce seni
labbra, pare incredibile
avanti
avanti avanti
proseguono,
implacabili, coatti;
rasaerba
mentecatti che siamo,
circondati
da flussi di petrolio, urlandoci ti amo
o
isole di mota
l’anarchia del globo, gomitoli disfatti,
luride animelle
ripeti
gesti liberi tamburo
ripeti gesti liberi ripeti gesti liberi
ripeti
luride
anirnelle sbatacchianti
tamtamburo motoso tamtamburo
ma
tu / Bianca, lo sai / che non ci / vedremo più? / che finiremo
remo
io lì tu là / tre metri sotto / tu bocca nera
spa / lancata come,
bambola nera / rotta per sempre
na bambola
/ come nera / rotta per sempre
na bambola / come nera / rotta per
sempre
ripeti gesti liberi tamburo
ripeti gesti liberi ripeti
gesti liberi ripeti
tu con la bocca nera spalancata
io io coi
denti e basta
lo sai Bianca?
tu che sei l’amica
dell’Enrica
e ieri parlavamo allegri mangiucchiando la
tavola fiorita
sotto la lampada lustra di plurima luce
tavola
ferita rima luce
noi
siamo qui
io ti penso
sotto la lampada
e sei
ma
in una forma leggera
piccolo tondo scavato
con questo aiuto di
carta
nella mia mente d’amore
ma
in una forma leggera
stella di latte nel vetro
tutti
ti guardiamo
ma a me sarai amica, luna, ancora?
sei
ancora viva stai ancora male
sei ancora viva stai ancora male
sei
ancora viva e mi dimeno
ti getto un ponte continuo riso d’amore
ma
sotto trema come l’acqua il cuore
mentre
tu lotti senza poterti aiutare
dolci ricordi fanno l’inutile
vela
l’inutile stella l’inutile bianco sul mare
Ma,
chi sei tu? persona somigliante,
estranea insieme, chiedo un po’
pedante
mentre furiosi conversiamo in tanti.
Fisso lo
sconosciuto rovistando
architetture e macerie, balzi e stralci
di
un comparabile volto sgrumato.
I suoi occhi mi tengono
lontano;
preferirebbe ci legassimo a un gioco:
ci sto e
continuo a misurare quel poco
che
nega e torna, dentro e fuori, già,
la superficie e la
profondità.
Metropolitane e viali colle ali.
tu che guardi
la purezza delle cose
la loro sicurezza
tu che guardi
alterata dall'ignoto
che fa da tuorlo al corpo
pure porgendo il profilo inviti a qualcosa
d'intensamente stabile e fluttuante
quindi con la voce battezzante
nomini dividi esponi l'ombra
sorella misteriosa
persona corporale più ricca di ogni cosa
oh
la bella terra dormentata
zurrovelata nel candore Venere
qui si
figlian chicchi tinta cenere
tanto
togliersi quanto tuffarsi
stampo che va lento in epidemia
noi
da ste parti al microfono biasci
è spiccato con un salto
su
mamma spaventata torre di controllo
noi voi lì a restituire le bandiere
via
uno entra 1’altro via 1’altro subentra
il terzo ha
girato il primo e rientra
andavamo
tutti come fosse un’emigrazione
chi per acqua chi per terra,
allarmati
notammo che un leone ci oltrepassava
ma era come
quando nella tundra incendiata
fuggivamo insieme felini e prede
uccelli e serpi
cos’era cosa poteva esser stato nulla
ricordo
non fatti precisi non odor di bruciato migravamo
in
ratti gusci motorizzati e caschi a piedi scalzi
da chi sa che
mossi transitavamo nel piano sembrante discesa
così
potevamo saremmo riusciti a scampare a arrivare ansando entro
quando?
in tempo e non contavano orario e luogo transitare
occorreva,
altro corpo! snello basso e tozzo su quattro sciolte zampe
quasi
una lotta di molte zampe gambe
una testa bianca tra colli di
giraffe
sandali orme zoccoli nella sabbia
nel suo trotto a zig
zag cinghiale irsuto
con famiglia a fianco bimbo su bici
gara
di moto cicli chiatte e scafi accanto
una universale processione
forte respirante
sbandata ma diretta senza macchine da presa
o
per quegli apparecchi occhialuti ritrasmessa
eravamo dentro pure
per noi scorreva noi fissi davanti
cosa preoccupava il rinoceronte
con intorno il vuoto?
la mandria pelosa che panicata quasi
s’ingoiava?
la coppia remante arti e respiro sotto forte
ipnosi?
il caduto rischiava tutto ma
capitava e dopo un grido
d’aiuto
quasi tranquillizzato si chetava
trafitto
schiacciato
trafitto
schiacciato, per le mosche
i fastidiosi insetti non v’era
tempo
di notarli, né i canterini uccelli
dardeggianti vi
saranno stati
non era il momento di ricercarli non era il
momento
andava come 1’acqua un’acqua umana
e
animale a non si sa che pozzo tentando
abbandonando non si sa che
male
e,
e le piccole marce
del tuo respiro nella notte di casa
e i
grandi gruppi che lottano insieme
grossi animali allo stremo allo
stremo
tanto di legno quanto di vetro
vuoi vivi altrove vuoi
vivi qua
ancora da un attimo a un attimo ancora
come se
avessero bevuto veleno
senza sonno gambe divaricate
testa
captante suoni allontanantisi
per tangenziali sino alle aste dell’
erba
l’amore
le pose del corpo nudo
il positivo infinito
forse non ha
abbastanza slancio la cosa
e fatica a dare ambigua risonanza
quale
folata di frecce non si sa verso dove
o perché poco osserva
la divaricazione
delle due terre o teste, scrivere vivere
è l’insegnamento del secolo trascorso
l’acqua
inquietante, l’acqua che sta sopra
macera mani alghe
stracci
in una pirotecnica di fusi ittici e umani
nel
torpore chiuse gli occhi e vide
girare lenti dentro il sangue i
sosia
nell’orbita di grandi meduse bianche
alzavamo
onde altissime
o piccole onde, secondo l’estro
con
l’amico Viviano
ascensore senz’allievi
senz’altro
figlio che sé
sere degli anni ’50
lasciandoci
stordire dal piacere
in ogni porosprazzo
appiccicando
antitesi
quasi ad ogni passo
lacerando unità
era
è
dato che sta
entro molte staffette
mai appellate
mai chiuse
e in quelle giornate
fatte di notte e di
giorno
vampiri buoni si girava il mondo
continuo come
posso
finché vivo stando addosso
a tutti a tutto, la
nostalgia
è troppo semplice
Primo
canto
luna
più della luna in cielo stava
sull’intero ma poco
guardata poco
in postazione cellule tuttora silenziose
dove
confluiscono si flettono e si abbandonano
sinergie svaganti
e
si riprendono
macchie interne o vichi foreste o avi bestia
ma
la potenza dello spazio tempato
ha la meglio, crèdimi
credètemi
luna
più della luna in cielo stava
non ci si può togliere
da un piangere, non
ci si può togliere da un piangere da un
ridere
e i lumi si smagriscono, si spengono
è la città
indiretta
dove accucciati sleali si vestono e andiamo
luna
più della luna in cielo stava
e sull’intero ma poco
mirata poco
e non era bello ma era necessario lasciare l’io
lo
sbriciolato incerottato coi cerotti a pezzi
allontanarsi dalle
fiammelle grette
e volare a sogno volare introiettando bassi
bassi
il cemento, remoto il confine dell’erba
Settantottesimo
canto
le
vere fiamme, quelle dei corpi trattenuti
il vento ostile proviene
da oscurità immense sleali
insieme – si sono
coalizzate le massicce forze dell’epoca
accelerativamente
adesso, con inarrestabili (pare)
autarchiche autoconnesse mosse
mortuarie
anche si tratta di rirendere cruciale la poesia
È l’immediato che mi sorprende sempre:
ecco il libro che si sta formando
Enrica insegue col bicchierino
altri ultimi Tivù con un po’ di mondo
ecco l’alba di toni che sta riprendendosi
il mondo salvato dagli adulti liberi
lo sforzo della poesia
vari passati tornano presenti
ancor via i santi di potere stupido
il mondo salvato dalle donne libere?
aiutare i politici ne han bisogno
tanto da invecchiare prima di morire
l’ignoranza non cede, è troppo nutrita
permetter anche all’interrogato d’interrogare
e su sé e sugli altri
Poesia e Conoscenza gran titolo!
come già ci fosse una vita in comune
sentendomi un singolo-di-molti
progettare scuole di materie nuove
i trascorsi? da sapere, non sapere
sobbalzi continuanti cervello domina
a tagliar fogli di mondo un vero dòmino
gioco in cima? forse sì, anche una fratellanza
però da bocc’aperta da occhi aperti da
e di tutto
e stai provando come turno tutto il vivere – scrivere
tastandone vari lati varietà
parte di equilibrio sgrana Enrì
l’appartamento è grande!?
dodici ore scatteranno una via l’altra.
Poeta, traduttore e critico letterario, Piero Bigongiari (1914-1997) si laurea nel 1936 presso l’Università di Firenze con una tesi su Leopardi discussa con Attilio Momigliano, e qui ha modo di conoscere e frequentare autori fondamentali come Luzi e Macrì, Bo e Gatto, Parronchi e Pratolini, e in seguito Montale, Landolfi, Ungaretti. Lavora dapprima come traduttore e collaboratore della RAI, poi a metà degli anni sessanta inizia a insegnare Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea a Firenze, dove costituisce con Luzi e Parronchi la “triade dei poeti ermetici toscani” (come la definì Carlo Bo). Collabora a numerose riviste tra cui «Campo di Marte», «Il Frontespizio» e «Letteratura». Muore a Firenze nel 1997. Le sue opere principali sono La figlia di Babilonia (poesie, 1942), L’elaborazione della lirica leopardiana (saggio, 1947), Rogo (poesie, 1952), Il senso della lirica italiana e altri studi (saggi, 1952), Testimone in Grecia (prose, 1954) e Testimone in Egitto (prose, 1958), Il corvo bianco (poesie, 1955), Le mura di Pistoia 1955-1958 (poesie, 1958), Il caso e il caos (1960), Vento d’ottobre (traduzioni, 1961), Dove finiscono le tracce 1984-1996 (poesie, 1996).
La sua poesia austera e raffinata è costantemente impregnata di interrogativi esistenziali, che la luce del paradosso contribuisce a illuminare: la ricerca della verità nascosta sotto gli oggetti, divenuti simboli di un altrove che sfugge inesorabilmente, spinge infatti il poeta a scoprire che “il mistero è uno, e solo l’uomo unanime può opporsi ad esso e di esso far poesia”, perché solo la poesia, “come il frutto delizioso del melarancio”, è capace di cogliere la dimensione ‘vera’, ‘essenziale’, che nella quotidianità risulta celata, quasi illeggibile. Si tratta poi di passare dall’oggetto al sentimento, di vincere l’assenza, di superare la contraddittorietà del reale per cogliere il senso più profondo dell’esistenza, oltre il caos apparente.
Il poeta ha raffinato nel corso degli anni il suo linguaggio potentemente allusivo (“il ticchettio delle parole”), giungendo a una limpidezza di dizione che non rinuncia in ogni caso alla profondità della riflessione, alla ricerca del superamento dell’opacità del linguaggio: ne scaturisce un dettato dove le parole hanno un ruolo fondamentale per rendere leggibile la realtà, e la letteratura è un gesto naturale, fatto di passione e disponibilità verso il mondo.
Tra le raccolte poetiche meritano un’attenzione particolare La figlia di Babilonia (1942), romanzo in versi dedicato a un’amata perduta, Il corvo bianco (1955) e Antimateria (1972), dove predominano i temi dell’assenza e del mistero, La legge e la leggenda (1992), fantasmatico poema che rilegge i miti classici, ricco di un’aggettivazione densa e straniante, e infine Dove finiscono le tracce (1996), raccolta poetica uscita pochi mesi prima della sua morte, divenuta quasi un testamento spirituale, compendio della sua particolare concezione della vita.
Più uno, meno uno
La
poesia che nasce nella tua stanza
è come il frutto
delizioso del melarancio,
odo nel ticchettio delle parole
il
carosello perduto e melanconico
un notturno riassorbersi
d'aconito,
nel tuo slancio d'amore, queste sere.
Non mancan le
parole per godere,
mancan le parole per non soffrire.
La
farfalla di luce sul candeliere
sugge l'ultima cera, la più
calda,
la più molle e volatile, sul fondo.
Come in
miasmi di luce, anch'io m'effondo,
non mancan le parole per
soffrire
in questa mia stanza di fantasmi.
Assenza
Non ha il cielo un segreto che ti culmini,
le tue risa s'iridano al vetro
della sera dolcissima di fulmini.
Al cielo sale nel tuo gesto effimero
la riga d'un diamante, lo smeriglio
ricalcola all'assenza una giunchiglia
morta nel sonno e al tenero fermaglio
del tuo dolore che non si può chiudere
geleranno dagli astri luci blu,
luci sorte alla piega delle labbra
che rimormorano arse cielo al cielo.
Dove un rapido greto si distrugge,
dove odorano (al tuo braccio?) gaggie,
segreto faccio
mia la tua pena che non ti raggiunge.
Vetrata
O memoria, la terra è il tuo ritorno
negli occhi, le magnolie
in un torno di gridi dai cortili
traboccano, sui lividi ginocchi
spunta l'età più grande come un'alba.
Una febbre rimuove dagli stipiti
la madre dolcemente: là trasporta
simile a luce le vele dal porto:
afosa muore sulle braccia a chi
non scorda. Mentre un lampo rosa inonda
la finestra, l'attesa: una tempesta
di caldo, un bacio che fa vana ressa.
E i cani spenti di una festa delirano
di viola se grappoli di nulla
pendono già a un oriente
Eco di un’eco
Ti
perdo per trovarti, costellato
di passi morti ti cammino
accanto
rabbrividendo se il tuo fianco vacuo
nella notte ti
finge un po’ rosa.
Quali
muri mutevoli, tu sposa
notturna, quale spazio abbandonato
arretri
al niveo piede, al collo armato
del silenzio dei cerei paradisi
che
in festoni di rose s’allontanano?
Eco in un’eco, mi
ricordo il verde
tenero d’uno sguardo che dicevi
doloroso,
posato non sai dove
di
te, scoccato dentro il misterioso
pianto ch’era il tuo riso.
Oh, non io oso
fermarti! non i muri che dissipano
di bocci
fatui un’ora inghirlandata.
Odi
il tempo precipita: stellata,
non so, ma pure sola Arianna
muove
dalla sua fedeltà mortale verso
dove il passo
ritrova l’altra danza.
Non so
Nell’umido
brillare dei tetti,
nel calare del sole tra scogliere
di
strade, non so cos’altro aspetti,
s’altro dichiari con
parole rade
ai passanti, ai vetri ciechi del tram,
e a un
tratto molto so della speranza,
ma non so neppure cosa si
perde
nell’ansimo dell’aria, quasi un
battito
accelerato di motore,
quasi tacchi più fitti,
una catena
che si tende, gli occhi un poco più desti.
Ma
lo sguardo è dentro le cose
a cercarvi la buccia tra la
polpa,
e non v’è colpa sufficiente per la nostra
gioia,
nemmeno la speranza e la solitudine:
tu sai che non so,
tu sai che puoi chiedere.
La tempesta
Forse è questa l'ora di non vedere
se tutto è chiaro, forse questa è l'ora
ch'è solo di sé paga, ed il tuo incanto
divaga nell'inverno della terra,
nell'inferno dei segni da capire.
Ma non farti vedere dimostrare
ancora le tue formule, è finita
l'orgia dei risultati rispondenti
alle cause. Sei sola, batti i denti
accosto ai vetri nevicati, tetri.
Divergono in un morbido riaccendersi
d'altro sangue i destini che ci unirono.
Tu li ricordi come - in queste tarde
ore che riscoccano dalla pendola -
in un fuoco di tocchi, in un orrendo
scatenarsi, dai tuoi armadi, di bambole.
La nostra vita, catturata, vedi,
mentr'era armata solo di silenzio,
come dai parafulmini ridesti
da un lampo, trova il filo da seguire
per non morire restando se stessa.
Appassionata
Il cane si addormenta sulle sedie
spagliate di cucina, il cedro azzurro
fa luce nel cortile, ed il veleno
verde dei colli stempera il diluvio;
ma le uve sono ancora sulle viti,
la terra si sostiene su se stessa
staccandosi dal mallo dell'estate,
fradicia pesa nei suoi arati brividi,
e le argille crettate ricompone
una dura omertà: può udirsi il grido
dei demoni tra i picchi e le calvane.
I torrenti sommuovono un abbaglio
d'estate calcinata entro cui spicca
via dal Mugello l'unica cicogna,
la favola di tutta una stagione.
Rimangono nei forni i fuochi accesi,
araldica speranza, il lieve odore
del fumo a risbiadire tra palvesi
di povertà: passare una paranza
io vedo di dolcezza nei tuoi occhi,
appassionata tu per più passione,
odo il gallo nel chiuso lamentarsi
senza il chicco dell'alba da intaccare.
E ancora lenti lungo lo stradale
mediceo i buoi muggiscono d'inedia,
tu il cristallo di un'alba inventerai
che accendono d'un fuoco che ora è tuo
sempre più tuo altri soli
soli aperti alla morte, soli attesi
Lied
Un'altra rosa oscilla addolorata,
la vite in fumo raspa dietro i vetri,
i ginepri smentiscono la mano
evanescente che li addita amari,
il verde scende a valle avvelenato,
a mulinello il vento te lo porta
presso il cane fedele stilla porta
di casa tra il prillio lungo dei pioppi,
le rondini ritessono la notte
dalle punte solari delle tuie
alle buie pupille che l'attendono,
il pipistrello scava la miniera
dell'ombra come una farfalla nera,
di fiele gronda la sua bocca. Spera!
Fra terra e mare
L'onda che si accavalla
trova in se stessa sponda all'infinito,
ha udito, nel suo orecchio, in una stalla
il muggito più fievole dei secoli
che propone a finito ed infinito
di toccarsi fra loro, trastullarsi
in un piccolo corpo infreddolito.
Se le eriche là al vento rosseggiano
e il mare trova in schiume l'elemento
del suo frangersi in luce, chi, chi attento
al quasi nulla sente quasi tutto
stringersi in sé mentre intorno a sé espande
anche il pianto d'un re. Ande remote
nevano l'orizzonte: è il qui che è grande.
Il qui che non è qui. Se si sgranchiscono
le gambe di chi tanto ha camminato
sul suo qui, è il suo qui, tese le rande,
che ascolta il vento empirgli del profumo
dell'altrove le nari: ancora ballano
sulle maree le navi, ascolta lungo
i travi scricchiolare
nelle murate il soffitto degli avi.
Nessuno in cammino
Eccola, la città in penombra,
la città della tolda e della sclera,
spenta di marmi nella lenta sera
che intorno a lei s'aggira a cercarmi.
O a cercare se stessa nel mio occhio
che vede come cera all'orizzonte
disfarsi un porto, là innalzarsi un ponte
su cui passa un fanciullo, la chimera
tenendo in pugno della propria vita.
Se troppo ho osato, è che non fu Nessuno
che il suo pianto più alato come il grido
che a perdifiato spargono le rondini
sul tetto patrio dove sono stato
insieme un figlio e un padre.
Sono stato
chi sono? Sono quello che sarò?
Fuoco rarningo che cerca la stoppia
dove accendersi della propria storia?
Il dono è da accettare a mani aperte,
ma quanto esse stringono, cos'è?
E dov'è il nido? Non nella memoria...
Le rondini lo sanno. Io lo cerco
nella grigia alternanza della cenere
dove il fuoco nascosto a un tratto sprizza.
Senz'ali ma col vento e la pazienza
delle cose che non cercano di essere
la ripicca della dimenticanza.
È l'istante che è eterno
È l’istante che è eterno: non ha fine
che fuori di sé; esplode nel suo interno
il segno, il sogno, di ciò che non è
il tempo, la cui aureola già si attenua.
Il vento che s’è fatto impetuoso
mescola fuoco e cenere, intriga
nel suo più ingeneroso antiattimo
il suo ormai impossibile riposo.
Sono qui, tu gli gridi, sono qui,
i nidi sono pieni degli implumi
che attendono le ali tra i barlumi
della tempesta. E’ ciò che di me resta
degli istanti fatali di una festa
racchiuso nei suoi numeri immortali.
Il piede già non calpesta le orme
della sua ultima mutazione.
Tutto dorme, anche la felicità
in questo tramutarsi delle forme
nella loro forse ultima realtà
L'ombra della luna
Nulla, più nulla, un suono non ti regge
assetata stasera al plenilunio,
é finita la vita oltre la tua legge,
questo vento s'immischia dentro il bruno
tuo pallore, come vano!
Si voltano le pergole, le azzurre
cenerarie dolorano:
se fuma un'ala lungo la facciata
tu perseguine l'ombra fino a dove
si spegne senza luna.
Nella trasparenza dell'esservi
...è ritrovare il lampo adesivo
dell'universo, passero che spiuma
il suo barlume inverso: il puma si
raggira nella sua elasticità...
ma che è là che rimane, foglia o tremito
di denti, o sia il gemito di assenti
che qui sono, unisono di perle
nel sole che s'ingrigia, quasi a berle...
quasi a berne quel viscido che ostacola
la fluenza del mare. Tu apri, tu
apri invano lo sguardo, non v'è appiglio
nella mano che s'apre alla rapina...
mia prima mia ultima, ma non
vi è in mezzo il mezzo, un suono di cristalli
si perde nella lunga trasparenza...
s'io sono senza, io sono senza suono...
nel sentiero della luce.
Miraggi
Sono
io che ho creduto di non averti
mentre mi guardavi nel più
profondo del cuore
coi tuoi occhi poco esperti di abissi.
Sono
io che non ho reso i tuoi sguardi
alla loro innocenza, li ho
tenuti
prigionieri, nascosti, fissi dentro
di me.
Ah!
tu capissi quanta luce
spandono in fondo a quei penetrali.
Mentre
altri sguardi volano con ali
felici chissà dove, troppo
alti,
e si fondono, luce con la luce,
qui nel fondo di me c’è
un abisso
scintillante di quanto hai visto in me.
Io
ti prego, perdona il carceriere
del tuo notturno splendore. Se
è
amore quello che non sa risolversi
a rendere al sole i
suoi raggi,
è più tuo l’amore che incoraggi
e
che non tutto sia restituito
dei suoi insostenibili miraggi.
È
il fondo oscuro in cui il tuo sguardo brilla
come un diamante
puro. I ritardi
- o sono io già te, se tu mi guardi?-,
i
miei ritardi forse si giustificano
dinanzi alla misura
imperscrutabile
della velocità di quella luce.
Ne
trattengo le stigmate qui abbasso
perché non so quel raggio
ove conduce
in quel suo mirabile stoccaggio
della felicità
nell’universo.
Ti ricordi a Patrasso, appena scesi
dal
traghetto, come splendeva il sasso
della riva e lo stesso mio
andare
alla deriva in un raggio perfetto?
Era il tuo sguardo
perso che fioriva
nell’azzurro e sfioriva? Era il
sussurro,
quello, non soltanto di una riva.
Solo se
all’impossibile tu chiedi
aiuto, forse qualcosa
arriva.
Nessuno sguardo su chi è ferito
rimane muto. Per
questo ti scrivo
con questo inchiostro intriso nel tuo
raggio.
Cerca un viso. Lo trova? È un miraggio?
Tra la legge e la leggenda
Amo
perdere qualcosa, più che per ritrovarlo,
per
lasciare una traccia a chi m’insegue,
forse
perché amo farmi là raggiungere
dove
non sono, mentre guardo il mare
che
insinua tra le sue macerie il grido
del
gabbiano e un nido tra la ruggine
perduto
che galleggia tra le schegge,
al
contrario del gran depistatore,
perché
so che è difficile seguire
chi,
indeciso sulla propria meta,
ma
forse proprio in essa pesticciando,
si
distrae dietro un viso, si nasconde
dietro
il dito che indica le onde
che
asciugano e bagnano la riva
del
paese natale, la deriva
della
luce che liquida ne assale
le
sponde e nella mente la ravviva.
Amo
confondere il cricchio del tarlo
a
un andante di Mozart…, mescolare
il
passo del viandante per la via
con
quello di chi risale le scale
a
semicerchio della nostalgia.
Amo
dimenticare il profumo della cedrina
su
quello della tua pelle. Del tutto
ricordare
la parte più obliata,
del
frutto il seme ch’entro sé difende
la
sua amarezza in duro tegumento.
Ma
se mento, non mento che a me stesso
per
dirti la verità che nello stesso
errore
è celata, difesa, abbandonata
a
crescere in se stessa, nelle proprie
contraddizioni
elementari – è lì
che
ogni due si unifica, nei suoi
seminali
abbandoni.
Amo
guardarti
mentre
riveli in te una dolcezza
che
è quella della fata che nascosta
tra
gli alberi occheggia che nessuno
la
segua andando verso il suo tugurio
arredato
come una reggia se tu
ne
precorri l’augurio coi tuoi occhi,
scheggia
impazzita tra gli altri balocchi
del
destino che l’uomo chiama vita.
Cammino
dietro a poche cose, quelle
meno
necessarie, le più volatili,
le
meno rare. Forse in mano ad esse
è
il codice per leggere il messaggio
che
la legge ha lasciato sul tuo tavolo,
semiaperto,
semicancellato,
fra
terribilità e dolcezza.
Ma
se tengo le mani ad un tempo
sui
due telai, è che amo riprendere
dal
secondo la tela che Penelope
sta
sfacendo: è solo con quel filo
–
altro
non ne ho: l’aspo ne fu rapito –
che
sull’altro ritesso la leggenda.
Tu
che la leggi strappane la benda
dei
segni che l’accertano o la mettono
in
forse, perché, vedi, sotto sanguina.
Nella Nobili nasce nel 1926 da una famiglia poverissima in un quartiere popolare di Bologna e a dodici anni è costretta a lasciare la scuola per iniziare a lavorare, prima in un laboratorio di ceramica e dal 1940 in una fabbrica di vetro: «Le condizioni di lavoro in fabbrica sono spaventose - scrive A. Letournel - ancora di più per una ragazzina di quattordici anni. Il calore che si sprigiona dalle fiamme e dal vetro incandescente, le fumate di monossido di carbonio, le polveri, l’odore, la promiscuità, rendono il lavoro molto faticoso». Nella non è che una «ragazzina dagli occhi pieni d’ombra», costretta a lasciare le «biglie» e i «bei libri pieni di promesse» per entrare in fabbrica, un’esperienza durissima, che la segnerà profondamente.
È una lirica di Ada Negri a farle scoprire la poesia, cui si dedica da subito con divorante passione, nelle pause del lavoro e nelle notti insonni: impara da sola il tedesco e l’inglese per poter leggere i poeti che ama, Rilke e la Dickinson in particolare. In poesia (e poi anche in prosa) racconta la sua “vita di dolori, angosce e minacce”, la durezza del lavoro in fabbrica, la sofferenza per le miserie umane, lo sconforto per i pregiudizi di cui cade vittima. Nel ’49 si trasferisce a Roma, dove pubblica il suo primo volume dal semplice titolo di Poesie: il successo è immediato, ma dovuto più alla sua particolare condizione di “poetessa operaia” che a un sincero riconoscimento del suo valore.
Per sfuggire a questo cliché poco gradito (si sentiva esibita "come un piccolo fenomeno da baraccone vestito da poetessa-operaia"), Nella si sposta qualche anno dopo a Parigi, la “città di carne”, dove per sopravvivere inventa una tecnica per incollare immagini di opere d’arte su oggetti come gemelli, portasigarette, specchi, scatole. Qui conosce la sceneggiatrice Edith Zha, che diviene sua compagna di vita e con la quale scrive il saggio Les femmes et l’amour homosexuel (Le donne e l’amore omosessuale), che suscita scandalo e riprovazione nei benpensanti. Pur se delusa dal giudizio negativo di Simone de Beauvoir sui suoi testi in francese (confluiti nella raccolta La jeune fille a l’usine, La ragazza in officina, 1978), continua a scrivere poesie, che saranno però in gran parte pubblicate postume, dopo il suicidio avvenuto nel 1985.
La sua scrittura è un “miracolo di amore e volontà”, densa di grazia scontrosa, spoglia e asciutta, a volte perfino banale nel suo realismo apparente, ma sempre carica di vitalità e brillantezza, non priva di una vena di surrealismo.
La necessità che Nella Nobili avverte di rompere il verso, di scomporlo e ricomporlo costantemente, la porta a costruire testi dialoganti, che si chiudono con clausole di rara acutezza e rigore. Versi spogli, brevi e asciutti come il vetro che soffiava, facili all’apparenza, ma ricchi di una vena di surrealismo che rinnova immagini semplici e quotidiane. La sua concezione di un universo “indifferente”, di una vita che le appare “buco nero assoluto”, si trasforma via via nella sua poesia in una ricerca affannata e implacabile “per raggiungere l’essenziale”, perché (come afferma con amarezza) “solo il vero conta”.
Nel 2018 è stato pubblicato per la Casa Editrice Solferino il libro Ho camminato nel mondo con l’anima aperta, che racco poesie scelte di Nella Nobili in italiano e in francese (con traduzione italiana), con una lunga e partecipe prefazione/introduzione di Maria Grazia Calandrone, la massima conoscitrice di questa poetessa così poco nota.
Lettera a Rossana
Così cantava la mia perla accesa
nella conchiglia come una lacrima –
Rossana, io vengo da un’altra terra
dove il sole ferisce a morte per il suo calore
dove nei campi infuria un’estate perfetta
e l’erba allegra canta come una bionda ragazza
e l’odoroso fieno è sacro come un Dio.
Rossana – vuoi venire nella mia terra?
Io sola qui piango e mi lamento
e la terra gaia mi allontana da sé –
sul confine dipinto di lacrime
io ti chiamo – ti chiamo – ti chiamo.
E nei miei occhi adagio si va spegnendo
la mia estate perfetta, l’estate di fuoco
e sulle mie labbra arse e ancora piene di sete
muoiono le canzoni come vergini colpite nei fianchi.
Un silenzio enorme dal ventre bianco
mi circonda e mi tenta –
Ma la tranquillità non la voglio vedere!
Mandatela via – è una donna pazza
ha ucciso sua madre e suo padre
e ora vuole bere l’estate del mio sangue
Rossana – il lungo giorno
sta per morirmi in mano…
My darling sister
Questa notte le campagne
accese di bagliori come vetri
hanno infranto ai miei piedi
l’esistenza millenaria.
Si udì la voce di una capra belare –
un ramo di sole nacque tenue come una carezza lunga –
udimmo il silenzio rigarsi di bianchi suoni di flauto –
poi – ad un tratto – come nata da un grido alto –
comparve lei – la sorella diletta.
Cantava leggermente
con allegrezza accesa dentro le pupille
dove si muovono fronde
come tante piccole mani.
Appena l’ebbi scorta
una primavera mi scoppiò nel petto –
mi fece male al cuore
come se dal mio ramo
si fosse staccata con breve rumore.
E la toccai leggera sui capelli.
Con mani trasparenti
la spogliai delle vesti.
Colma di giovinezza
sono stata il suo guanciale per tanto tempo.
Frammenti (del giorno)
Dove sarà la mia casa lontana
chiusa sul poggio incantato
l’acqua del fiume la bagna
e il vento canta sul ramo…
Dove sarà la mia ragazza
sempre fuggitiva la vedo
per la discesa del colle
nel lampo d’occhi a mandorla
e di capelli al vento…
Sembra una voce che venga
dal limite estremo del nord
questo raggio di luce che avanza
da aurore incredibili…
Ma il giorno finisce – la sera
mi piange sul cuore…
Bologna antica
Bologna
antica così ti lasciavo
ogni mattina dopo aver toccato
con
la punta delle dita le tue albe rose perla
perla per la mia
adolescenza austera
tesoro che portavo con me fino
all'ingresso
della fabbrica con le sue luci elettriche
accese
per l'eternità.
Se rifiuto
Se rifiuto di pensare in poesia
se rompo il verso, se lo scompongo
se ne faccio un’umile riga
descrittiva
e priva del profumo della fantasia
è per raggiungere l’essenziale
per collocarlo nel pensiero
al punto esatto, per fissarlo
ed infine per comunicarlo.
Ormai solo il vero conta.
Penetrare nel vero, affidarsi al senso più concreto
con i mezzi più concreti:
ogni uomo li possiede.
L’uomo è solo
L’uomo è solo. Dove
può andare a morire?
La sua
solitudine lascia
indifferente l’universo.
Chiedo a mia Madre
Chiedo a mia Madre
delle camicie per cambiare
tre quattro otto, una ogni ora
e ancora non basta
a tamponare il nostro sudore
a cancellare il nostro dolore
non basta. Per un po’ di fresco
è la pelle che dovremmo strappare
nell’inferno dell’officina.
Le bandiere
E
portarono le bandiere,
tanto lontano in un luogo segreto
al
quale nessuno potesse accedere.
Nel
vento
che sbatteva le tele erano pronti
per partire e per
morire. E così avvenne
che portati dallo slancio
comune
senza sapere dove correvano
uno dietro l’altro
perirono
nella fossa comune e giacquero immobili
le braccia
aperte verso i punti
cardinali. Crocifissioni
ideali.
Il figlio non nato
Ho
avuto un figlio nato prima del tempo.
Forse su questa creta
l’alito lieve
degli angeli non si posa. Aveva
una
tristezza immensa nel viso, una pena
troppo forte, un dolore
maturo
nel viso esperto e chiuso come adulto
segreto nella sua
morte incompresa
nudo in una nascita inespressa
simbolo di
sventura e di paura
nemico da schiacciare come una serpe.
La ragazza con gli occhi pieni di buio
Qui dove lavoro, proprio di fronte a me
c’è una ragazza con gli occhi pieni d’ombra
che non parla mai e che non ride mai.
I brevi sorrisi forzati li fa per compiacere
e quando noi ridiamo tanto forte.
Sembra una ragazza divisa a metà, in lei c’è solo la parte scura
eppure, è così giovane che porta ancora sulla fronte
sulle labbra, nelle mani, il marchio dell’infanzia.
Ho cercato, abbiamo cercato di farla parlare un po’
di se stessa, del suo dolore della sua assenza.
Fredda e distante lei è altrove e il suo mistero ci intriga
qui dove tutto è semplice senza ombra senza fantasia.
Poi un giorno la ragazza è andata via
nel suo altrove forse in un altro mondo.
Non ricordo più
Non ricordo più se era la neve o il sole
a rendere i nostri cuori così leggeri come se il sole
e la neve ci fossero stati infine concessi
e il vento e la pioggia e il giorno e la notte
fossero beni ai quali potevamo attingere
a piene mani con tutti i sensi
farne scorta
nelle tasche nelle mani nei polmoni
su tutta la superficie della pelle
nella bocca negli occhi
la voce del vento la voce dell’acqua.
Eravamo felici?
Eravamo felici.
Giorno dopo giorno dopo giorno
Giorno dopo giorno dopo giorno
l’eternità dietro di noi
davanti a noi la vita
la vita che va verso l’orizzonte
su una strada bianca
che non ha inizio né fine.
Città di carne
Ti
amo città di carne
sofferenza e meraviglia
del mio
sangue delle mie mani.
Vorrei
essere cieco per
percorrerti con le mie dita
aperte – per
entrare
in ogni crepa in ogni graffito
in ogni pietra
consumata
da altre mani.
La ballata
Madre - Voglio ballare!
Dammi il vestito rosso.
Voglio andare ballando
sulle rotaie del tram
per tutta la città.
Campanaro – suona un valzer
dal campanile grande –
Venite tutti in piazza
a cantare e a ballare.
Piangeremo domani.
La pianura è troppo grande, non la contengo più.
In tanto silenzio volevo lanciare il mio grido
rompere il quieto mattino, sorgere
con (tutta) la mia superbia, il mio orgoglio
in alto salire, lontano dalla terra –
lontano dalla terra – Silenzio.
Allucinato guardo in faccia al tempo
e non posso sostare – Si dilata
tra le due rive una distanza immane
dove si frantuma il mio chiamare.
[…]
Non cercarmi nell’ombra, ove i cipressi
si curvano al lungo vento.
Io ti direi che sono morta, e dolce
è questa morte come un sentimento
che solo può raggiungerti nel sogno.
Ma se le tue mani attenderanno sempre
chiuse contro la fronte pensosa –
Io ti raggiungerò nel gran silenzio
che mi attraversa e che mi rende luce
e suono – e tempo.
Ed essa passava
Ed essa passava ansiosa attraverso le canne
come per un furto, come una madre
che si reca guardinga sulla riva
e vi depone il figlio ultimo nato-
Che tensione nei giovani rami
e lungo le vene delle sue mani-
Moriva come un’immensa primavera
lo splendore del giorno – Si pativa
questa meraviglia come una pena
quando tu ti staccasti dalla riva.
Dodici poesie di lutto
V
Chi
riunirà gli amanti
morti abbracciati se non
l’alchimia
della materia
lo sgocciolare del tempo
il segreto delle
correnti
sotterranee?
XII
Questo sussurro la morte
questo splendore di luce
bianca? Qui giù
il nero del lutto accompagna
l’ineffabile mistero della
trasfigurazione-risurrezione
della carne. Voi che restate
piangete
il buco nero assoluto
è la vita.
È morta il 21 giugno scorso a 75 anni Patrizia Cavalli, nativa di Todi ma vissuta dal 1968 a Roma, dove ha animato i salotti letterari, proponendosi fin dalla sua raccolta d’esordio come una voce assolutamente nuova e fuori dagli schemi. «La poesia è prendere qualcosa e togliere il superfluo per farlo risplendere. Le parole devono avere una potenza intrinseca, il lavoro del poeta è sceglierle tra tante altre»: questa affermazione, data in un’intervista di qualche anno fa, descrive compiutamente la sua idea di poesia, che ella ha cercato di mettere in atto in quella prima silloge, Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974), che divenne immediatamente un caso letterario e la fece conoscere al grande pubblico, tanto che due anni dopo Biancamaria Frabotta la inserì nell'antologia Donne in poesia - Antologia della poesia femminile in Italia dal dopoguerra ad oggi, insieme ad autrici affermate come Maria Luisa Spaziani, Vivian Lamarque, Amelia Rosselli, Anna Maria Ortese. Da allora la sua vena poetica non si è esaurita, fino alla recente silloge Vita meravigliosa (2020) che è stato un po’ il suo testamento spirituale. La sua unica prova narrativa fu la raccolta di prose Con passi giapponesi, vincitrice nel 2019 del Premio Campiello.
Sostanzialmente fedele a se stessa, Patrizia Cavalli ha scelto di prosciugare costantemente la sua scrittura, evitando i manierismi e le mode del momento, nella ricerca incessante della felicità, che ha saputo trovare nel quotidiano degli oggetti e delle persone, nell’ambivalenza della perdita e del riconoscimento. La finissima ironia che la caratterizza contribuisce a ridurre a misura d’uomo anche i concetti più profondi, che si intrecciano con la contemplazione delle umili realtà di ogni giorno, in un ordito magico e affascinante. Certamente hanno contribuito ad arricchire il suo dettato poetico anche i molteplici registri stilistici utilizzati, i folgoranti aforismi e i monologhi di stampo quasi teatrale, le allegorie e le invettive costantemente presenti; mentre le scelte metriche, che si potrebbero definire classiche, lasciano comunque trasparire la volontà di rinnovare e nobilitare la scrittura poetica. Così un vocabolario di disarmante precisione accompagna lo stupore infantile delle immagini proposte, e attraverso la sua poesia il lettore può giungere a conoscere e capire il mondo in maniera più profonda.
Le realtà minime che troviamo nella poesia di Patrizia Cavalli, gli oggetti che lei interpella e di cui si serve per poi abbandonarle alla loro vita autonoma, sono tutte “cose vive”, elementi concreti, al limite del banale: ma sanno rivelare il senso ultimo dell’esistenza, la percezione esatta della vita e della morte nel loro costante intrecciarsi e confondersi. L’insegnamento che la sua poesia può dare è che l’umanità vera consiste nel cucire con le parole le cose perché non svaniscano, ammirandole con lo stupore di un bambino, riconoscendole elementi fondamentali della propria esistenza. La sua non è poesia astratta, ma concretissimo incontro di oggetti, persone, situazioni che vengono raccolte lungo il cammino, ed entrano a far parte del suo universo poetico, in maniera magari fortuita o problematica, suscitando nostalgia o felicità, desiderio o stupore.
Sempre alla ricerca del mistero “dentro” le cose, sempre in attesa di un’illuminazione improvvisa e imprevedibile, la poesia è per Patrizia Cavalli un ponte che unisce mistero e significato, un movimento costante e mai definitivo, un’incessante approssimazione alla verità che si incontra attraverso la bellezza. Una bellezza che non risiede tanto nell’oggetto nominato, quanto nello sguardo di chi nomina, nel valore che la poesia concede ad ogni minimo lacerto del mondo osservato, nella parola che dice più di quello che l’oggetto è, ricreandolo ogni volta come in una nuova creazione del mondo.
Qualcuno mi ha detto
che
certo le mie poesie
non
cambieranno il mondo.
Io
rispondo che certo sì
le
mie poesie
non
cambieranno il mondo.
Anche quando sembra che la giornata
Anche quando sembra che la giornata
sia passata come un’ala di rondine,
come una manciata di polvere
gettata e che non è possibile
raccogliere, e la descrizione
il racconto non trovano necessità
né ascolto, c’è sempre una parola
una paroletta da dire
magari per dire
che non c’è niente da dire.
E sempre dovrò partire
e fare i bagagli
e permettere al mio poco corpo
una corsa che non gli si addice
e prolungare gli inganni e demente
rincorrere tutte le storie anche quelle
che avrebbero preferito un silenzio.
Ma valorose sono le partenze
anche se un imbarazzo spesso le consuma.
Occhi miei aspettate e guardate
Occhi miei aspettate e guardate.
Corpo mio corpo non fuggire
verso casa tra una macchina
e un muro, non rubare mai più
l’ultimo suono dal gruppo di ragazzi
fermi sulla piazza non della prossima
strage stanno parlando
ma del prossimo film che vedranno.
Dolcissimo
è rimanere
e guardare nella immobilità
sovrana la
bellezza di una parete
dove il filo della luce e la
lampada
esistono da sempre
a garantire la loro
permanenza.
Montagna di luce ventaglio,
paesaggi paesaggi! come
potrò
sciogliere i miei piedi, come
discendere –
regina delle rupi
e degli abissi – al passo
involontario,
alla mano che apre una porta, alla voce
che
chiede dove andrò a mangiare?
Poco di me ricordo
io che a me sempre ho pensato.
Mi scompaio come l’oggetto
troppo a lungo guardato.
Ritornerò a dire
la mia luminosa scomparsa.
Ma prima bisogna liberarsi
dall’avarizia esatta che ci produce,
che me produce seduta
nell’angolo di un bar
ad aspettare con passione impiegatizia
il momento preciso nel quale
il focarello azzurro degli occhi
opposti degli occhi acclimatati
al rischio, calcolata la traiettoria,
pretenderà un rossore
dal mio viso. E un rossore otterrà.
Ah
sì, per tua disgrazia,
invece di partire
sono rimasta a
letto.
Io
sola padrona della casa
ho chiuso la porta
ho tirato le
tende.
E fuori i quattro canarini
ingabbiati sembravano quattro
foreste
e le quattromila voci dei risvegli
confuse dal ritorno
della luce.
Ma al di là della porta
nei corridoi bui,
nelle stanze
quasi vuote che catturano
i suoni più
lontani
i passi miserabili di languidi ritorni
a casa, si
accendevano nascite
e pericoli, si consumavano
morti losche e
indifferenti.
E
cosa credi che io non t’abbia visto
morire dietro un
angolo
con il bicchiere che ti cadeva dalle mani
il collo rosso
e gonfio
vergognandoti un poco
per essere stata sorpresa
ancora
una volta
dopo tanto tempo
nella stessa posizione nella stessa
condizione
pallida tremante piena di scuse?
Ma
se poi penso veramente alla tua morte
in quale letto d’ospedale
o casa o albergo,
in quale strada, magari in aria
o in una
galleria; ai tuoi che cedono
sotto l’invasione, all’estrema
terribile bugia
con la quale vorrai respingere l’attacco
o
l’infiltrazione, al tuo sangue pulsare indeciso
e forsennato
nell’ultima immensa visione
di un insetto di passaggio, di
una piega di lenzuolo,
di un sasso o di una ruota
che ti
sopravvivranno,
allora come faccio a lasciarti andar via?
Guardate come lei si lascia catturare
Guardate
come lei si lascia catturare
dal
bastone che si muove, dalla minuscola mossa
d’ala
di ogni mosca, dal rumore
di
ogni porta che si apre.
E
quando si mette sulle mia ginocchia
sembrerebbe
per sempre, le unghie
quasi
conficcate nella carne. Ma se passa
un
uccello alla finestra, addio baci
addio
carezze, lei vola via.
E
poi, forse, ritorna.
Essere
testimoni di se stessi
Essere
testimoni di se stessi
sempre in propria compagnia
mai lasciati
soli in leggerezza
doversi ascoltare sempre
in ogni avvenimento
fisico chimico
mentale, è questa la grande
prova
l’espiazione, è questo il male.
Adesso
che il tempo sembra tutto mio
e nessuno mi chiama per il pranzo e
per la cena,
adesso che posso rimanere a guardare
come si
scioglie una nuvola e come si scolora,
come cammina un gatto per
il tetto
nel lusso immenso di una esplorazione, adesso
che ogni
giorno mi aspetta
la sconfinata lunghezza di una notte
dove non
c’è richiamo e non c’è più
ragione
di spogliarsi in fretta per riposare dentro
l’accecante
dolcezza di un corpo che mi aspetta,
adesso che il mattino non ha
mai principio
e silenzioso mi lascia ai miei progetti
a tutte
le cadenze della voce, adesso
vorrei improvvisamente la prigione.
Nella
febbretta cuposa dei
risvegli
Nella
febbretta cuposa dei risvegli
il sudore del sonno si ingiallisce
e
cola addosso alle finestre, al cielo
anche se è azzurro. E
quando esco
dal sibilo dei sogni
che ha lasciato le mie
orecchie ottuse
intossicate dalla ripetizione e
riconquisto
lentamente i gesti
che mi portino a un’altra
posizione
(forse se metto una camicia a righe
e i pantaloni
bianchi, camminerò più in fretta,
avrò
un’andatura eretta) dove io non sia
il recinto inerme dei
terrori,
l’impresario di scontri clandestini
che alla
fine si innamora dei suoi attori,
trovo una mimosa oro antico
il
suo turno di splendore ormai finito,
il gregge come una nuvola
piatta e mobile
sul prato senza più la frangetta degli
agnelli
e il caprone capo col campanaccio al collo
abituato
ormai a credere
che muoversi sia il suono.
Sarebbe certo andato tutto bene
Sarebbe
certo andato tutto bene,
una passeggiata un caffè, al
cinema
qualche volta insieme, le cene
a casa o al ristorante;
sarebbe stato
insomma tutto regolare
se all’improvviso
togliendosi gli occhiali
non si fosse seduta sorridendo
con
un’aria leggermente impaurita
e i capelli un po’
spettinati
che la facevano sembrare appena uscita
da un sonno o
da una corsa.
Per
questo sono nata, per scendere
da una macchina dopo una corsa
in
una strada qualunque e trafficata
e guidata dagli angeli
piegarmi
attraverso il finestrino
sopra quei capelli e in
silenzio
sentire l’odore di quel viso
dove poco prima
avevo visto
come la bocca e gli occhi
si passavano un sorriso
che non si apriva mai
e correndo veloce scompariva
in un attimo
e tornava.
Guardate
come lei si lascia catturare
dal bastone che si muove, dalla
minuscola mossa
d’ala di ogni mosca, dal rumore
di ogni
porta che si apre. E quando si mette sulle mia ginocchia
sembrerebbe
per sempre, le unghie
quasi conficcate nella carne. Ma se passa
un
uccello alla finestra, addio baci
addio carezze, lei vola via.
E
poi, forse, ritorna.
Arrivano,
lentamente e pesanti da lontano
premendo contro il sole, spinte
dal silenzio,
mammone tettone; ma se resta anche solo un
pezzo
azzurro io, gelosa del vuoto, mi agito e le chiamo
alla
conquista e corro da una finestra
all’altra a spiare dietro
le cupole finché
un’antenna che trema mi promette la
tempesta
Addosso al viso mi cadono le notti
Addosso
al viso mi cadono le notti
e anche i giorni mi cadono sul viso.
Io
li vedo come si accavallano
formando geografie disordinate:
il
loro peso non è sempre uguale,
a volte cadono dall’alto
e fanno buche,
altre volte si appoggiano soltanto
lasciando un
ricordo un po’ in penombra.
Geometra perito io li misuro
li
conto e li divido
in anni e stagioni, in mesi e settimane.
Ma
veramente aspetto
in segretezza di distrarmi
nella confusione
perdere i calcoli,
uscire di prigione
ricevere la grazia di una
nuova faccia.
Io scientificamente mi domando
Io
scientificamente mi domando
com’è stato creato il mio
cervello,
cosa ci faccio io con questo sbaglio.
Fingo di avere
anima e pensieri
per circolare meglio in mezzo agli altri,
qualche
volta mi sembra anche di amare
facce e parole di persone,
rare;
esser toccata vorrei poter toccare,
ma scopro sempre che
ogni mia emozione
dipende da un vicino temporale.
Nascono
i bei pensieri sopra i ponti
e
sempre ci si ferma sopra i ponti
per
contenere quell’atomo di grazia
sospeso
in equilibrio
tra
gravità di sponde e cieca corsa d’acqua.
Ti
darò appuntamento sopra un ponte,
in
questa mezza terra di nessuno.
(…)
Sì, ma dov’era il sontuoso caldo,
la luce ardente che
mozza lo sguardo,
la lenta cerimonia che solenne accoglie
il
tempestoso viaggiatore stanco?
Dov’erano le offerte di
cuscini
su cui assorbire in silenzio il cibo santo?
Qual era
quella porta? Se c’era io l’avrei aperta. (…)
Mi
ero tagliata i capelli, scurite le sopracciglia,
aggiustata la
piega destra della bocca, assottigliato
il corpo, alzata la
statura. Avevo anche regalato
alle spalle un ammiccamento
trionfante. Ecco ragazza
ragazzo
di nuovo, per le strade, il
passo del lavoratore,
niente abbellimenti superflui. Ma non avevo
dimenticato
il languore della sedia, la nuvola della vista.
E
spargevo carezze, senza accorgermene. Il mio corpo
segreto
intoccabile. Nelle reni
si condensava l’attesa senza
soddisfazione; nei giardini
le passeggiate, la ripetizione dei
consigli,
il cielo qualche volta azzurro
e qualche volta no.
Prendimi adesso tra le tue braccia
Prendimi adesso tra le tue braccia
adesso sciolta da me raccoglimi
non per ridarmi forza
ma perché io possa arrendermi.
Bene, vediamo un po' come fiorisci
Bene,
vediamo un po' come fiorisci,
come ti apri, di che colore hai i
petali,
quanti pistilli hai, che trucchi usi
per spargere il
tuo polline e ripeterti,
se hai fioritura languida o violenta,
che portamento prendi, dove inclini,
se nel morire infradici
o insecchisci,
avanti su, io guardo, tu fiorisci.
Andando
dritti si va da qualche parte,
andare
dritti dunque non conviene.
Nel
cerchio circolando generavo
la
mia costituzione senza verso,
ero
lì ripetuta e ripetente
che
mi centellinavo, il tempo
era
un profumo sparso che annusavo
svogliatamente.
Ma prima di morire
forse potrò capire
la mia incerta e oscura condizione.
Forse per non morire
continuo a non capire
sicura in questa chiara confusione.
Domenico (Nico) Naldini (1929-2020) era cugino (molto meno noto) di Pier Paolo Pasolini; friulano come lui (era nato a Casarsa) fu da lui fatto conoscere già nel ’48 con un gruppetto di versi giovanili editi sotto il titolo Seris par un frut (Sere per un fanciullo). Li accomunava la passione per la poesia e per il dialetto friulano usato “di cà da l’aga” (“al di qua dell’acqua”, cioè sulla riva destra del Tagliamento), tanto che insieme avevano fondato nel ’45 l’Academiuta di lenga furlana (Piccola accademia di lingua friulana), «una specie di Arcadia, o con più gioia, una specie molto rustica invero, di salotto letterario», come scriverà in seguito Pasolini. A questa straordinaria esperienza si ispireranno importanti poeti friulani come Amedeo Giacomini, Umberto Valentinis, Novella Cantarutti, Leonardo Zanier.
La cultura di Naldini non fu peraltro provinciale e arretrata, ma si arricchì attraverso l’amicizia di uomini di cultura quali Giovanni Comisso, Sandro Penna, Goffredo Parise, Mario Soldati, Elsa Morante, Andrea Zanzotto, Biagio Marin: e le sue letture spaziavano nella letteratura italiana ed europea, da Machado a Rilke, da Marin a Dante, da Leopardi a Montale. E quando nel ’62 raggiunse il cugino a Roma, ebbe modo di frequentare altri importanti uomini di cultura come Federico Fellini, Carlo Emilio Gadda, Alberto Moravia.
I testi della prima raccolta confluirono, insieme a poesie in chioggiotto e in italiano, nel volume La curva di San Floreano (1988), cui seguirono a cadenze dilatate; la silloge di prose e poesie Meglio gli antichi castighi (1997), il poema Piccolo romanzo magrebino (2002), legato alla sua lunga esperienza nordafricana, I confini del paradiso (2004) e Una striscia lunga come la vita (2009), antologia di tutta la sua produzione poetica, caratterizzata dall’insistenza sul tema dell’omosessualità.
Al centro della produzione di Naldini si pone la raccolta Meglio gli antichi castighi (1997), un canzoniere in quattro sezioni dove prevale la tematica dell’amicizia con uomini di cultura; e dove ha particolare rilievo l’affetto per la madre e per quelli che Pasolini aveva definito “ragazzi di vita”.
Naldini è poeta spontaneo al limite della brutalità, ma anche ironico e leggero, ricco di gentilezza e altruismo, anche quando contesta la mentalità retriva dell’Italia d’allora: «Quando mi smarrisco dentro di me –affermava- trovo un po’ di gentilezza nella comprensione del mondo». Oltre che poeta fu scrittore, biografo (fondamentali le biografie di Pasolini, Leopardi, Comisso, De Pisis e Parise), consulente editoriale, giornalista per il «Corriere della Sera», «Il Manifesto», «Il Piccolo», memorialista: un uomo pienamente realizzato, che ha saputo attraversare la cultura del ‘900 senza mai cercare facile consenso o celebrità.
I
È arrivata la vecchiaia.
Dio mio, cosa ne farò?
La terrò al caldo, ma dove?
Andrò in giro a chiacchierare,
ma con chi?
Un ritaglio di natura serena,
un piccolo altare?
Non scherziamo!
Incidermi le vene?
È cerimoniale d’altri tempi.
Neanche la morte per gelo
in un giardino pubblico
va ora più bene;
con tante siringhe in giro
si è già tra larve.
Altri programmi per la vecchiaia?
I viaggi, una bella barba.
Ma forse mi farò trascinare
su e giù per il Mediterraneo
dalla motonave Habib.
Questo è più allettante.
Ma una volta in altomare
avrò lo sguardo fisso sul vuoto
oppure farò l’occhiolino ai marinai?
Sono così di bocca buona
che me lo permetteranno.
Già oggi sono sceso dalla rupe
di Cap Blanc
con passo artritico.
Come si adatta il piede
a strisciare sugli accidenti del terreno
le mani protese a un equilibrio
che è una vittoria.
Mahres ridendo
da una balza all’altra
in una luce
che di per sé era una ferita
mi offriva il suo sostegno.
Ma rideva troppo
benché non ce ne fosse la necessità.
E nel fondo
(ha diciannove anni
e una vita da affermare)
gli piaceva.
I RAGAZZI DEL PARCHEGGIO
Preambolo
Esco di casa, a quest’ora le strade
si riempiono di gioventù.
Alla stazione del trenino ne scendono grappoli
si disperdono qua e là
e come negli assembramenti delle formiche
non si esauriscono mai nell’andirivieni serale
festoso e senza scopo.
Mi aggancio le mani dietro la schiena
e avanzo posando qua e là il fuoco degli sguardi
a tratti tuttavia nascondendomi
dietro uno scudo di indifferenza
per lasciarmi assorbire dallo spettacolo.
C’è bisogno di metodo per osservare,
suddividere il mondo per categorie, ecco il punto.
La prima è quella dei ragazzi laboriosi.
Vengono poi quelli sempre seduti al caffè
e infine quelli che gironzolano
tra un treno e l’altro.
In quelli affaccendati la ricca capigliatura
di ricci crespi oppure ondulati
si è impastata con polvere grigia
da confondere ogni lustro di gioventù.
Ai piedi nudi anche d’inverno
hanno dei vecchi sandali di mare
e strascicandoli se ne vanno per le strade
diretti a una casa in costruzione.
Sono infatti i garzoni dei muratori.
Accanto a quella che sarà la nuova casa
una villa bianca e celeste con delle grate
per far scorrere il vento e festoni di buganvillea
che forniranno la musica del suo passaggio,
in un angolo appartato i ragazzi
hanno costruito un loro riparo.
Una casetta effimera di pochi mattoni
ma con tanto di porta che se rimasta aperta
lascia intravvedere un fornello per il mangiare
e dei vecchi drappi per dormire.
Da subito in quell’antro oscuro
cresciuto in una notte tra fioriti cespugli
ha cominciato a circolare aria di promiscuità
ma anch’essa così polverosa e improvvisata
da togliere ogni sospetto di piaceri nascosti.
Ai quali però, i nostri muratorini
non vogliono rinunciare.
In un angolo ancora più appartato
hanno fatto arrivare una canna d’acqua
per le abluzioni rituali
quando arriva il buio
sia pure con la pelle abrasa dalla calce
e le labbra inaridite dall’aria aperta
anch’essi agognano a qualche carezza.
Escono di soppiatto
ma non si mescolano agli altri ragazzi.
Sono infatti dei giovani stranieri
venuti dal Sud a cercare il soldo del Nord.
Ma come hanno saputo affrontare la vita
scambiando il mare col deserto
così non si lasciano sfuggire le sorprese
che sorgono nel buio.
La lunga astinenza scuote i loro corpi
quando si approssima una carezza
con brividi che diventano fremiti
e sintomi di ebbrezza,
ma poi il loro piacere è così breve
da corrispondere alla loro umiltà,
e poiché non se ne aspettano dell’altro
tornano nella loro capanna a dormire.
Ridah è il più intraprendente e ora
che una parete della villa è stata eretta
di sera se ne sta affacciato a un balconcino.
Che ne sa lui delle novelle orientali
eppure è là, con sorrisi e sussurri,
a rifarne un pezzo.
E come nelle novelle arabe
le rivelazioni salaci sono il clou del racconto,
così la fama di Ridah si è sparsa
dello spettacolo che può dare
con la nudità dell’inguine
al quale invia sorrisi di gratitudine
mentre lo trattiene per sé solo quel tanto
che serve ad offrirlo agli altri.
I suoi compagni se ne stanno rannicchiati
nel loro giaciglio.
Un falò acceso nel centro
getta l’ombra delle loro nuche sulle pareti
rivelandole più nobili dei tratti reali
troppo docili e dimessi
amalgamati ai loro stracci,
che per scuoterli e far sì che anch’essi
abbiano una parte di carezze,
bisogna essere dei santi intrepidi.
Ma lasciamoli dormire gli stanchi muratorini
domani il lavoro comincia presto.
Ma prima di addormentarsi ridono di qualcosa,
forse di un signore e di come li guarda
mentre sotto il getto della canna si inzuppano
le mutande che arrotolandosi sui fianchi
formano un panneggio squisito.
Abbiamo detto dei ragazzi seduti al caffè.
Sono quelli nati qui e padri e madri
più un nugolo di devota parentela
li tengono come sospesi nel calore
di una lunga gioventù.
Chiacchiere interminabili
saluti a chi sopraggiunge
come per un festoso ritrovamento,
si svolgono attorno a una fila
di bicchierini di tè alla menta.
Nessuno sa quale sia il domani
di questa gioventù.
Guarda l’ora che scorre
sotto le chiome degli aranci
che fanno da riparo al sole
in tutte le stagioni eccetto quando piove
e allora i ragazzi si ritirano all’interno
a fumare e giocare a carte.
Le loro chiacchiere volano come chimere
e i meandri dei loro racconti
si moltiplicano fino all’apparire
di uno spiritello che qui si chiama jin
e in ciascuno di loro annuncia
qualche nuova trovata del destino.
È arrivato il momento in cui le parole
cedono al linguaggio degli sguardi
scaturiti da quella forgia di intuizioni
che ciascun ragazzo segretamente tiene per sé
per seguire le trame inosservate del mondo.
D’estate tra quei tavoli
sale il vento fresco del mare,
d’inverno le ombre si stampano
nitide nel fulgore raddoppiato di quel mare
che lo si ritrova a ogni lato.
Di notte le chiacchiere si fanno più rade
ma l’istinto è tanto più rapace.
Nelle strade e nei sentieri
sempre più solitari risuonano passi
cui seguono altri passi finché congiunti
si confondono in una sola eco della notte.
Restano da raccontare
i grappoli di gioventù che scendono dal treno,
spettacolo gremito, intercambiabile
come le nuvole, un puzzle che si risolve
– quando si risolve –
con il guizzo di un corpo sconosciuto
che scarta il flusso ordinario
e si isola con un sorriso.
A una cert’ora della mattina
quando annunciato dallo scampanellio
si ferma il treno, ne scendono alcuni ragazzi
con un’aria un po’ speciale
per il passo svelto che sa dove andare.
Sono i lavoratori del parcheggio
addetti alle bancarelle dei souvenir.
Mescolati ogni giorno ai turisti
parlano gli idiomi di tutto il mondo.
Nel giorno di mancanza di turisti
offrono al passante ozioso
tanti e così ornati sottintesi
da farlo cadere in un groviglio delizioso.
Da qualsiasi parte lo si guardi
è un fiore della vita.
Anche quando si spoglia e gli è rimasta
solo una canottiera di colore indefinibile
che scendendo a metà coscia si solleva
senza che una mano si sia protesa a sollevarla.
Haykel. Quando lo incontro al parcheggio
ha negli occhi un cruccio lontano.
Me ne vado un poco offeso
ma non mi risparmio un’ultima occhiata
e dalla fessura dei suoi occhi
un bagliore mi raggiunge.
Sa di selva e se è un fiore
devo distinguere le sue parti
e non dire solo: gambe, braccia, ventre.
Ma dire: questo è il frutto del melograno maturo
che solo ad aprirlo rivela la sua dolcezza
e questa è un’oasi di montagna
dove le vergini vanno a sognare
e questo è un minareto piantato su due sfere gemelle
fin troppo pronto a donarsi in linfa.
I ragazzi, gli amici notturni, di giorno evitano ogni segnale di riconoscimento, tutt’al più accennano un sorriso, mormorano un saluto. Perché al cospetto degli amici – ciascuno dei quali è coinvolto nella medesima situazione – obbediscono al codice dell’occultamento, pena lo scadimento della loro personalità. Un comportamento così coatto non può dipendere che da un tabù; che però può essere infranto con l’impiego di qualche cautela. L’ipocrisia borghese in ogni caso non c’entra.
Choukri sottoposto allo stress del bac arriva con un fascio di libri sotto il braccio. Ha la faccia del bravo scolaro ma che peso quei libri, e infatti prendono subito il volo.
Il giovane che questa mattina faceva pascolare due pecore al limite di un prato per immolarle alla festa dell’Aid, ha dovuto anch’egli occultarsi trascorrendo tutto il prato fin dentro un boschetto di magnolie dove ha trovato assieme a chi lo seguiva, il più effervescente climax del mattino.
Molto bene accetti e qualche volta sollecitati sono i doni di corteggiamento che non consistono più come nell’antichità di galletti, lepri, cervi, ma jeans Levi’s, quelli originali americani con la targhetta Made in USA altrimenti è un dono svalutato, accolto con malumore.
Walid è scontento di tutto
anche delle molte cose che si concentrano
nella sua bellezza di denti, occhi e portamento.
Con andatura alata
balza da un gradino all’altro
perché è conformato alla souplesse degli stadi
dove per qualche stagione è stato un divo.
Ha ventun anni ma si sente sorpassato
e benché i suoi tratti siano inalterabili
egli stesso sta togliendo loro un poco alla volta
la felice fusione di un tempo.
«Voglio vedere come farai a diventare brutto»
gli ho detto e lui ha sorriso.
Poi il filo della scontentezza si è dipanato.
Domani arriva la sua fidanzata dalla Francia
e lui non ha i soldi per il benvenuto.
Ho risolto i suoi problèmes
ma addio per sempre, Walid.
Infatti è emigrato poco dopo in Francia, chissà in quale squallido ghetto, con quali discriminazioni, con documenti d’identità sempre suscettibili di controlli e contestazioni. Lui che era uno splendore quando usciva dalla sua casetta bianca immersa in un orto di ulivi. Si intravvedeva anche il burnùs bianco del padre. Le sue Nike cavalcavano lo spazio e veniva spontaneo farsi da parte per vedere verso quali mete procedeva la sua gioventù, che ora forse è rimasta viva solo nei miei ricordi.
Alle otto del mattino
sto riassettando la mia stanza e
raccogliendo la sabbia caduta sulla terrazza.
Scacciate le ultime nuvole
presto il carro del sole
salendo dietro il melograno
scalderà il sentiero
quello per il quale ieri sera
sono arrivati coloro che aspettavo
attraversando la foresta di mimose
con passo così cauto
che sembravano sospinti dagli aliti della notte.
Haykel è apparso
tra due quinte di cactus
ed è scomparso per la stessa strada
lasciando dietro di sé solo il rumore
di un ramo secco calpestato.
Rijad molto più bruno
si è confuso a lungo con la siepe
finché ha rivelato prima i colori
del maglione e poi del suo viso.
Ogni sentiero tracciato nella foresta
ha molteplici varianti
e a tentarle a caso c’è da perdersi
cento volte prima di ritrovarsi.
Rischio del tutto fuori luogo
per questi ragazzi
che non temono né trappole né labirinti.
Un rombo copre il cielo notturno
fino ai margini prossimi a incendiarsi.
Ogni notte e fino all’alba
c’è questo faticoso allacciarsi
dell’Oriente all’Occidente e gli aerei
giunti riarsi dall’aria del deserto
ora si tuffano nell’occhio tempestoso
del Mediterraneo. Sono i miei compagni notturni.
Ora sulla mia terrazza
la pallida aurora sta cadendo
di un giorno qualsiasi
nei fluidi delicati di un autunno
cui l’estate è rimasta avvinta distrattamente.
Nipote del più noto Clemente, Roberto Rebora (1910-1992) comincia a scrivere negli anni trenta, ma resta appartato e quasi sconosciuto al grande pubblico, fino a morire in estrema povertà. Due sono i drammatici eventi che segnano la sua visione del mondo: la morte precoce del padre, in seguito alla quale deve abbandonare gli studi e iniziare a lavorare come magazziniere alla Bovisa, e l’esperienza delle guerre, prima quella d’Etiopia, poi quella mondiale (con la conseguente prigionia in Germania), che lasciano tracce profonde sulle sue prime due raccolte poetiche, Misure (1940) e Dieci anni (1950).
Narratore (Prose disperse), traduttore e critico teatrale (Alfieri, Eliot, Brecht, Pirandello, Molière, Shakespeare, Goldoni, Artaud, Jonesco, Rosso di San Secondo) oltre che poeta, Rebora ha saputo attraversare il clima culturale del Novecento senza lasciarsi imprigionare in nessuna corrente letteraria, libero di spaziare tra piccole realtà quotidiane e grandi temi esistenziali. Ora un corposo volume raccoglie l’intera sua opera poetica edita più alcune poesie inedite in volume (Editore Mimesis, 2021).
La sua poesia è spesso legata alla quotidianità, ma l’apoditticità del dettato e la costante scarnificazione della parola la allontanano dal realismo, quasi sublimando i dati di partenza. Via via la ricerca di senso si fa in lui sempre più intensa: e questo setacciare la vita, questo tentativo di penetrare nei misteri della vita d’ogni giorno, riesce a donare al poeta almeno un barlume di serenità, poiché egli è zione «che la poesia, quando esista, è la sola arma per respingere l’infame armata della desolazione e della disperazione». Nella concezione di Rebora la storia è «sempre / sorprendente», e vale quindi la pena scrutarla per scoprirvi «ciò che non si perde», i colori e le sillabe che si richiamano reciprocamente, «gli scatti del pensiero» che indagano e scandagliano. E se anche al poeta non è dato trovare risposte definitive, gli resta pur sempre «il silenzio che ascolta», la pagina «furibonda di vita […] e di muta gioia».
Indubbiamente non giungono dalla poesia di Rebora certezze rasserenanti, risposte rassicuranti, perché è sempre solo l’«ombra / delle cose» a mostrarsi, l’ombra «che va e viene / e poi sparisce», la «luce indecisa» che non ce la fa ad illuminare compiutamente la realtà ultima delle cose; ma la vita, che il poeta indaga tenacemente e descrive con la parola e con il silenzio, riesce in ogni caso a rischiarare (anche se parzialmente e precariamente), la realtà: è «l’albero verde / lasciato dove / correrà la vita / per finire viva», è «l’amore imprevisto», è «una gioia repente», è «una voce sola / che accarezza e non cede». Perché la poesia (afferma Rebora) esiste per cercare degli obiettivi: e non è poi così importante che questi siano veramente raggiunti: spesso è la ricerca stessa che appaga la mente e il cuore.
Lasciami gridare, compagno,
verso chimerici segni.
Stride una linea nel tuo volto
abbandonando la luce
sopra i tetti morenti.
È inerte in te la notte.
Hai mani cieche
che ignorano l’amore
e non consentono paura di forme.
Non hai dolore nel mondo.
Pure è inflessibile la scia
che il giorno incide
nelle sue volte.
Un grido intatto
dalle prime sorgenti.
L’antica misura sopravvive
nella corsa del cielo.
Tschenstochau, ottobre 1943
Non forte il vento ha nascite lontane.
Lento il suo volto tocca la guancia
con amore imprevisto.
Un ramo spezzato
dentro il cuore mollemente casca
tra immagini apparse
suscitando parole concitate
e invisibili corse. Impietrisce la luna
sovrastando l’avanzare notturno.
Poco fa una voce avvertiva
dai tronchi remoti.
Sanbostel, giugno 1944
È una vita di pochi giorni
l’ho incontrata sul filo dell’aria
svoltando da una piazza solitaria
in un vicolo di misteri.
Misterioso semplicemente
mentre l’aria lo stava pulendo
lungo le pietre risalendo
con una gioia repente.
Non c’era nessuno nel vicolo
la gente si era dispersa
ma quell’aria non era persa
che nasceva con tanto impeto.
Era un vicolo misterioso
perché la vita vi appariva
era deserto e non moriva
accanto al mondo furioso.
Su quelle pietre voglio passare
e godere l’aria fina
non c’è bisogno di scrutare
il nero specchio dell’indovina.
L’indovina non vede nulla
solo un’immagine indecorosa
la sua bocca polverosa
definitivamente murata.
Ricordate il mio amico Giuseppe
che suona qualche volta la tromba
camminando verso la campagna?
Oggi un suono nuovo
accompagna il suo andare
e le sue soste dove tra le erbe
del campo mezzo cittadino
qualcuno tocca la terra.
Ha aggiunto alla sua vita
quattro note
che da tanto tempo
lo ferivano mute.
Conosce qualcosa che non so…
indugia per le strade secondarie
percorse dai ciclisti verso sera
poi se ne va come sempre.
Un
nome che si avventura
tra le foglie e si districa
via nello
spazio
una
storia di verbi
di qualche aggettivo
di attese
una
voce sola
che accarezza e non cede.
Se
mi chiedono perché
ho molte parole per la risposta
ma di
suono affaticato
o sono parole isolate
che non trovano l’altra…
Come
chi improvvisamente
spalanca la porta e non riconosce nulla
se
non l’invito ad avanzare
su un terreno troppo silenzioso…
oggi
è così
come sempre del resto
e allora raccolgo
l’invito
del vecchio e vedo una strada
la vedo proprio
con il suo carico
di lontananze e con le tracce
di chi è
passato.
Lascio l’albero nel campo
costantemente verde
tentato dalla luce
allarmato dai tuoni
attorcigliato alle radici
segnato dal furore e dalla gioia
forse è un fantasma
che porterò con me
lungo una strada improvvisa
accompagnato
da ciò che non si perde
pochi nomi
nel silenzio colmo di sé
parole staccate dallo spazio
da raccogliere nell’erba
e passi che si allontanano
l’albero verde
lasciato dove
correrà la vita
per finire viva.
Gelo sereno pioggia
sussulto dell’estate
dimenticata
brivido di stagioni
afa e vento
forse neve
tempo che scorre
e si divide
tormentosamente
una proposta bianca
da aiutare con urti
scoperte rivelate
futuri silenzi
se dopo la svolta
troverò orme
e segnali.
Se la malinconia ti culla
come un bambino spaventato
ed ora che sei con te stesso
fuggi anche il sonno
e non vuoi sentire altro
che sia diverso
dal suono di un mandolino
nascosto nella luce del giorno…
allora aspetta che ritorni quanto
non vuol cedere all’inganno che sfibra
la malinconia è un dolce veleno
se la cerchi e la vuoi
per non patire…
ma se la penetri camminando
come una volta nella piana ventosa
è qualcosa che ti avverte
incessantemente ripetuta
e non ti lascia privo
di te che aspetti
il suono del mandolino
non chiede nulla
ti accompagna a volte
e poi si apparta
dimenticato nel silenzio
dove ciò che manca
sarà la parola impronunciata.
Un suono passa
e sembra un segno
verso una luce indecisa
è il forse che subito tace
fermo tra l’inganno e la gioia
lunga attesa
con sussurri remoti
salvati dal frastuono del giorno
attesa che non chiede
e non sa
oppure non deve essere altro
che il dopo
dei giorni che s’inseguono
il segreto racchiuso
nella limpida luce
e nei lampi.
L’orizzonte suggerisce
lontanissime distese colorate
e due case bianche
c’è del rosso e del giallo
e sillabe da ascoltare
nascono dai cenni della luce
la storia di sempre
sorprendente.
Fra qualche tempo
ore anni minuti
non sarò neppure
capace di invecchiare
ma quanto
rimarrà di me
non vorrà avere età
per svanire
con qualche vanto
o pianto
di propositi perduti
vorrà forse mostrarsi
con il male ed il bene
da mettere a confronto
e un rimpianto solo
là in fondo
un puntino luminoso
che continuerà a brillare
dietro le ombre.
Dalla finestra
guardo
nell’aria bianca
dove cerco di seguire
gli scatti del pensiero
qualcosa in ombra
che va e viene
e poi sparisce
nella luce
che non vuole cancellarsi
un invisibile
uccello migratore
è come quell’ombra
che accenna e se ne va
torna e non c’è
ed ha lasciato
il muto
avvenimento delle cose.
Fra poco basta
e sarà allora
come lo spazio
inseguito per anni
con una parola
nascosta nella foglia
che si stacca
all’improvviso
e gira nell’aria
incerta ancora
nei suoi movimenti
contrari.
Non credo di dove rispondere
c’è il silenzio per questo
e ancora tace l’ombra
delle cose che si aggiungono
ad altre ombre in movimenti
svanenti ed in attese
non amo le suggestioni
del nulla e le parole
che non aspettano risposte
ma il silenzio che ascolta
il fragore della lontananza
l’impercettibile ronzio del tempo
nell’aria bianca
la pagina appena toccata
sempre immobile e pronta
furibonda di vita ancora
e di muta gioia
di aggrovigliati silenzi.
“Alle volte la poesia si fa riconoscere come un brillante: un gioielliere lo guarda e dice: è o non è vero”: questa definizione spiega molto della concezione che Sandro Penna (1906-1977) ha della scrittura poetica, che egli concepisce come una realtà la cui bellezza è evidente di per sé, la cui verità si impone indiscutibilmente, con assoluta limpidezza.
Poeta apparentemente facile, con i suoi versi regolari spesso rimati e un lessico piano e ordinato, Penna ha saputo rimanere fedele al suo dettato lineare e nitido mentre le mode rapidamente cambiavano. In vita pubblicò pochissime raccolte, da Poesie del 1939 a Una strana gioia di vivere (1956) e Croce e delizia (1958), fino a che l’intera sua opera, qualche anno prima della morte, venne raccolta in Tutte le poesie (1970), un corpus straordinariamente compatto, che da un lato delinea la figura di un poeta controcorrente (discorsivo e spontaneo, nell’epoca dell’ermetismo dominante); e dall’altro lato riesce ad offrire al lettore un intenso spaccato dell’Italia suburbana a cavallo della guerra, ricca di personaggi genuini e di situazioni apparentemente banali. Pur prendendo spunto da un dato realistico, però, in ogni sua lirica Penna apre all’eco di riflessioni più profonde, che tendono ad interrogare la varietà infinita della vita.
Cantore dell’amore omosessuale venne definito: ma in realtà lo sguardo con cui egli osservava fanciulli e giovinetti era completamente scevro di lussuria, si potrebbe definire piuttosto uno sguardo di contemplazione della bellezza in tutti i suoi aspetti (“il vento qui sull’erba ed i rumori / della città lontana / non sono anch’essi amore?). La bellezza della natura affascina il poeta, che ammirato e incantato la ripropone al lettore con totale innocenza. Che siano i collegiali nella loro nera divisa o il “romantico amico fiume lento”, le rondini a primavera o i “passi / incerti” di un fanciullo, “la luna di dicembre” o un “dolce animale / […] silenzioso”: quel che il poeta coglie è “un tumulto / di vita” che “ripete antica vita”, una intensa e affascinante realtà che si moltiplica all’infinito davanti ai suoi occhi. Spesso quella di Penna è una poesia del ricordo: ma nel ricordo estasi e sofferenza restano inscindibilmente presenti. Poeta eccentrico e perfettamente consapevole della sua “diversità”, egli ci parla col “realismo lirico” dei suoi versi, con la delicata dolcezza dei suoi brevi epigrammi.
Il suo linguaggio inizialmente colloquiale e piano (si potrebbe definire “post ermetico”, sulla linea che porta da Saba a Caproni) si è negli anni via via arricchito di figure retoriche utilizzate con arte sopraffina, dove l’aulicità si mescola alla quotidianità, mentre l’amarezza rimane nascosta tra le pieghe dei paesaggi e degli incontri, e la solitudine sfocia in pacata rivolta verso un mondo sentito come ostile e crudele. “Poeta di lacrime e sogni” lo definì Enzo Siciliano: sono però lacrime di un uomo che non si piange mai addosso, ma che sogna ad occhi aperti, pur restando del tutto convinto dell’irrealizzabilità delle sue speranze.
La grazia epigrammatica dei suoi testi può richiamare ariette settecentesche, idilli di raffinata delicatezza, dove si accampano sempre gli stessi, memorabili luoghi: le strade e le piazze di Roma, le sale dei cinematografi, i bar anonimi di periferia, i tram affollati, i «neri treni», la verde campagna, i bianchi marmi dei ponti, mentre il respiro del mare o il mormorio del fiume si spengono insieme con le luci tremolanti della sera.
Negli azzurri mattini le file svelte e nere dei collegiali. Chini su libri poi. Bandiere di nostalgia campestre gli alberi alle finestre.
Mi nasconda la notte e il dolce vento. Da casa mia cacciato e a te venuto mio romantico amico fiume lento. Guardo il cielo e le nuvole e le luci degli uomini laggiù così lontani sempre da me. Ed io non so chi voglio amare ormai se non il mio dolore. La luna si nasconde e poi riappare -lenta vicenda inutilmente mossa sovra il mio capo stanco di guardare.
Ride su me la primavera. Tornano le rondini, si sa. Volano via via le parole degli amici stolti. Ritornano, per me, ora le antiche parole dell’amore. In te, fanciullo, splendono. Giuocano nei tuoi passi incerti. Ma certa in me cammina solitaria e tranquilla la felicità.
Come è bella la luna di dicembre che guarda calma tramontare l’anno. Mentre i treni si affannano si affannano a quei fuochi stranissimi ella sorride.
Come è forte il rumore dell’alba! Fatto di cose più che di persone. Lo precede talvolta un fischio breve, una voce che lieta sfida il giorno. Ma poi nella città tutto è sommerso. E la mia stella è quella stella scialba mia lenta morte senza disperazione.
«Lasciami andare se già spunta l’alba.»
Ed io mi ritrovai solo fra i vuoti
capanni interminabili sul mare.
Fra gli anonimi e muti cubi anch’io
cercavo una dimora? Il mare, il chiaro
mare non mi voltò con la sua luce? Salva
era soltanto la malinconia?
L’alba mi riportò, stanca, una via.
La luna di settembre su la buia
valle addormenta ai contadini il canto.
Una cadenza insiste: quasi lento
respiro di animale, nel silenzio,
salpa la valle se la luna sale.
Altro respira qui, dolce animale
anch’egli silenzioso. Ma un tumulto
di vita in me ripete antica vita.
Più vivo di così non sarò mai.
Malinconia
d'amore, dove resta
bianco il sorriso del fanciullo come
un
ultimo gabbiano alla tempesta.
Ditemi, grandi alberi sognanti
Ditemi, grandi alberi sognanti,
a voi non batte il cuore quando amore
fa cantar la cicala, quando il sole
sorprende e lascia immobile nel tempo
il batticuore alla tenera lucertola
perduta fra due mani in un dolce far niente ?
Anche a me batte il cuore, e pur non sono
io del fanciullo vittima innocente.
Sul molo il vento soffia forte. Gli occhi
hanno un calmo spettacolo di luce.
Va una vela piegata, e nel silenzio
la guida un uomo quasi orizzontale.
Silenzioso vola dalla testa
di un ragazzo un berretto, e tocca il mare
come un pallone il cielo. Fiamma resta
entro il freddo spettacolo di luce
la sua testa arruffata.
«Poeta esclusivo d’amore»
m’hanno chiamato. E forse era vero.
Ma il vento qui sull’erba ed i rumori
della città lontana
non sono anch’essi amore?
Sotto nuvole calde
non sono ancora i suoni
di un amore che arde
e più non si allontana?
La mia poesia non sarà
un giuoco leggero
fatto con parole delicate
e malate
(sole chiaro di marzo
su foglie rabbrividenti
di platani di un verde troppo chiaro).
La mia poesia lancerà la sua forza
a perdersi nell’infinito
(giuochi di un atleta bello
nel vespero lungo d’estate).
Imbruna
l'aria, e il lume
del giorno a lui dintorno
lentissimo si
chiude.
Ma su l'umido fiume
cadono lente voci
di
uccelli. Su la via
dilagano festosi
saluti sconosciuti
nei
fischi dei ciclisti.
Gli invisibili treni
entro lucidi
appelli
stasera non avranno
la sua malinconia.
Vuoi baciare il tuo bimbo che non vuole:
ama guardare la vita, di fuori.
Tu sei delusa allora, ma sorridi:
non è l'angoscia della gelosia
anche se già somiglia egli all'altr'uomo
che per "guardar la vita, di fuori"
ti ha lasciata così...
Di febbraio a Milano
non c’erano le nebbie.
Ma numerosi sciami di ciclisti
andavano nel sole silenziosi.
E li fermava come in una gara
sospesa il suonatore siciliano.
Com'ero
lieto sotto un albero in fiore.
Credevo di soffrire ed ascoltavo
i fanciulli voler baciare un cane.
Rispondeva un guaito, - e
una risata
spavalda
mi faceva ancor più triste.
Tutto poi si perdeva nella luce
ed il bacio mi stava ad ascoltare.
Lumi del cimitero, non mi dite
che la sera d’estate non è bella.
E belli sono i bevitori dentro
le lontane osterie.
Muovonsi
come fregi
antichi sotto il cielo
nuovo di stelle.
Lumi
del cimitero, calmi diti
contano lente sere. Non mi
dite
che la notte d'estate non è bella.
Torna un pensier d'amore
Torna
un pensier d'amore
nel cuore stanco, come
nel
tramonto invernale
ritorna contro il sole
il
fanciullo alla casa.
Forse
la giovinezza è solo questo
perenne amare i sensi e non
pentirsi.
Forse
l'ispirazione è solo un urlo
confuso. Ma entro le colonne
della
legge, ridendo si masturba ogni fanciullo.
Appoggio
la mia fronte alla ringhiera
gelida del cancello. La mia
notte
ascolta dileguare ogni fanciullo.
Arso
completamente dalla vita
io vivo in essa felice e dissolto.
La
mia pena d'amore non ascolto
più di quanto non curi la
ferita.
Forse
è meglio soffrire che godere.
O forse tutto è
uguale. Anche la neve
è più bella del sole. Ma
l'amore...
Forse invecchio, se ho fatto un lungo viaggio
sempre seduto, se nulla ho veduto
fuor che la pioggia, se uno stanco raggio
di vita silenziosa... (gli operai
pigliavano e lasciavano il mio treno,
portavano da un borgo a un dolce lago
il loro sonno coi loro utensili).
Quando giunsi nel letto anch’io gridai:
uomini siamo, più stanchi che vili.
La produzione di Mario Tobino (Viareggio 1910 - Agrigento 1991) inizia in campo poetico negli anni trenta con le sillogi Poesie (1934), Amicizia (1939), Veleno e amore (1942); ma l’ambito più noto e significativo della sua opera è quello in prosa, che si articola in tre filoni principali in base ai temi trattati: narrazioni autobiografiche (sugli anni giovanili e sulle esperienze di guerra e resistenziali); romanzi e racconti incentrati sul tema della pazzia; scritti di viaggio.
L’esordio narrativo si ha con 1942 con il romanzo Il figlio del farmacista e i racconti La gelosia del marinaio, che già rivelano la forte vena autobiografica dell’autore. Ma la prima prova ragguardevole è Bandiera nera (1950), romanzo ambientato a metà degli anni trenta, che costituisce una feroce satira sull’inettitudine di un gerarca fascista, e finisce per coinvolgere in un giudizio fortemente negativo tutto il regime mussoliniano. L’anno seguente escono i racconti L’angelo di Liponard, che narrano la fantastica vicenda di marinai viareggini; e Il deserto della Libia, diario dei diciotto mesi vissuti da Tobino in Libia come ufficiale medico durante quella che egli definisce una «guerra ingiusta […] tra oasi, deserti, fuoco, sole, visioni del dolore». «È il primo mio libro libero», commenta l’autore nel diario: «il primo romanzo che esce in un paese libero».
Rientrato in Italia nell’ottobre1941 in seguito alle ferite riportate, Tobino aveva iniziato nel luglio 1942 a lavorare nell’Ospedale psichiatrico di Maggiano, presso Lucca, dove sarebbe rimasto per oltre quarant’anni. È proprio vivendo a stretto contatto con i ricoverati che l’autore matura una consapevolezza nuova, rendendosi conto dei grandi valori di umanità che possono albergare anche in quelli che allora con disprezzo erano semplicemente chiamati «matti».
Dalla primavera all’autunno del 1944 partecipa alla guerra di liberazione nazionale come partigiano: si tratta di un’esperienza che lo fa crescere come uomo e come scrittore, e sarà rievocata nel romanzo Il clandestino (1962), con il quale Tobino vincerà la XVI edizione del «Premio Strega». «Il periodo più bello della mia vita -confesserà un giorno- fu nel clandestino, nella lotta di liberazione nazionale, dove finalmente avevo la mia bandiera».
È del 1953 invece il romanzo Le libere donne di Magliano, incentrato sull’esperienza di psichiatra nel manicomio di Maggiano presso Lucca, dove Tobino realizza appieno la sua vocazione a metà strada tra professione medica e letteratura: «Avevo fin da ragazzo -dichiarerà- predilezione e interesse a capire i pensieri altrui. Così per poter vivere e fare lo scrittore sono divenuto psichiatra». Il romanzo è steso in un registro a cavallo tra diaristico e lirico: come afferma l’autore, «la mia vita è qui. Qui si snodano i miei sentimenti. Qui sincero mi manifesto. Qui vedo albe, tramonti, e il tempo scorre nella mia attenzione. Dentro una stanza del manicomio studio gli uomini e li amo. Qui attendo: gloria e morte. Di qui parto per le vacanze. Qui, fino a questo momento, sono ritornato. Ed il mio desiderio è di fare di ogni grano di questo territorio un tranquillo, ordinato, universale parlare».
Tobino descrive in questo romanzo la vita in manicomio del dottor Anselmo, personaggio chiaramente autobiografico, nel periodo che porta all’intenso dibattito sulla legge 180, proposta da Franco Basaglia. Ancora riferiti alla sua esperienza personale come psichiatra sono Per le antiche scale (1972) e Gli ultimi giorni di Magliano (1982), dove si rappresentano gli effetti drammatici della chiusura dei manicomi in seguito all’entrata in vigore della «legge Basaglia» (1978), i numerosi sucidi di ospiti fatti uscire dalla struttura protetta e lasciati poi soli con i loro fantasmi, paure, angosce insuperabili.
In queste opere Tobino descrive con nostalgia le dinamiche quotidiane del manicomio, diventato la sua casa per oltre quarant’anni. Egli esalta la follia come vera protagonista del mondo, ritenendola paradossalmente una via di espressione della personalità umana più sincera di ogni altra. Il malato, a suo parere, è più libero dietro le sbarre del manicomio, dove il mondo che lo circonda, con i suoi ritmi immutabili, lo tranquillizza, piuttosto che ritrovarsi fuori dal manicomio, «libero» di subire gli effetti diretti e indiretti degli psicofarmaci che in ogni caso deve assumere.
Altri testi autobiografici sono La brace dei Biassoli (1956), racconto degli ultimi giorni di vita della madre, vera saga della famiglia materna; e Tre amici (1988), che ripercorre uno spaccato di storia italiana durante la Resistenza, soffermandosi in particolare sulla terribile morte dell’amico Mario Masi, il partigiano «Montagna».
Letture decisive per la sua formazione erano stati i grandi autori italiani e stranieri, da Dante a Machiavelli, da Tacito ad Orazio, e poi i russi, i francesi, gli americani, e più tardi Arthur Rimbaud e Friedrich Nietzsche.
La lingua della sua prosa è insieme tradizionale e innovativa, con forti scarti rispetto alla lingua standard, con una sintassi elaborata e creativa, in grado di cogliere la verità più profonda dell’essere umano. Afferma infatti Tobino: «La fantasia mi è stata compagna comunque le cose del mio tempo si consumassero; ho trovato spiragli di allegria anche nei giorni più neri».
I romanzi di Tobino vanno ovviamente letti integralmente: si propone qui pertanto solo l’inizio di Per le antiche scale, romanzo autobiografico ambientato nell’immaginario manicomio di Magliano (ma autobiograficamente Maggiano, dove Tobino esercitò per oltre quarant’anni), dove il dottor Anselmo (cioè lo stesso Tobino) cura con affetto e comprensione i malati ricoverati, umanità autentica e sensibile.
Dentro la cerchia delle mura
I
Il dottor Anselmo abitava in manicomio. Mangiava alla mensa; aveva una stanza. Lo stipendio era gramo. Tutto era ristretto.
Solo chi c'è passato sa come fu il dopoguerra in Italia - quello della seconda guerra mondiale - per uno che durante la dittatura italiana aveva vivamente sperato: da ogni parte scenari che cadevano, trionfo della materia, il denaro e la carne più dominanti di prima. La nuova lussuria invogliare le masse alla completa servitù.
Anselmo si era ritirato; faceva vita di ospedale, di manicomio.
Giorno dopo giorno, in quelle ore, si era trovato ad occuparsi semplicemente dell'Istituto dove lavorava. Diverse volte nella giornata si soffermava in portineria per ragioni pratiche come la posta, il telefono, il parente di un malato che chiedeva informazioni: più spesso - specie verso sera - per chiacchierare col portiere D'Inzeo, ormai prossimo alla pensione, con Achille, il tecnico di Laboratorio, anche lui veterano.
Nei nebbiosi pomeriggi invernali le conversazioni si fecero sempre più fitte, confidenziali. E ogni volta, fatalmente, succedeva che il centro del discorso fosse il Bonaccorsi, il dottor Bonaccorsi, lui aveva guidato, dominato gli anni precedenti. Nell' ospedale si muoveva la sua leggenda.
Infatti anche gli altri infermieri ne parlavano con fervore e come ancora vivesse, lo si potesse incontrare da un momento all'altro per le corsie, tra i malati, nella sua camera-ufficio impregnata di acido fenico, e innanzitutto, attraverso il finestrone, lo si potesse intravedere nel Laboratorio, suo regno per più di trentacinque anni.
Anselmo un giorno tentò di collocare nel tempo il Bonaccorsi e domandò:
«È molto che è andato in pensione?»
Achille contò con le dita e: «Nove anni. Perbacco, come passano!».
«E ... quando è morto?»
«Due inverni fa, il 16 dicembre.»
Anselmo si accorse che quei due vecchi infermieri, coi quali così spesso parlava, solo ora si azzardavano - e in parte - a parlare con libertà sul dottor Bonaccorsi; quasi anche a loro sembrava di non esser proprio sicuri che non apparisse per i viali del manicomio, attraversasse in fretta il giardinetto davanti alla direzione.
Achille, che del Bonaccorsi era stato la vittima e il beneficiato, era quello che dava i dati più sicuri, di prima mano, testimonianza diretta.
Il portiere D'Inzeo comprovava, aggiungeva il suo tono a quella musica, e con una acutezza particolare, di chi ha osservato da lontano ma con più calma e attenzione, meno disturbato dalla vicinanza fisica.
Achille, il tecnico di Laboratorio, era stato dominato tutta la vita dal Bonaccorsi, dalla sua figura.
Negli ultimi anni però, quando il dottore era già in pensione, il ritratto gli si era offuscato, intinto di amaro. Achille aveva creduto di essere il suo beniamino, una eccezione tra tutti gli infermieri, e invece no, aveva battuto la testa nell'incontrario.
Quando il dottor Bonaccorsi andò in pensione - in uno dei quattro appartamenti della palazzina davanti al fiume- i nuovi dirigenti, per quel doveroso omaggio che tutti spontaneamente avevano per lui, incaricarono un infermiere di portargli ogni mese le riviste di psichiatria che mano-mano uscivano. Lo stesso infermiere doveva ritirarle, il mese trascorso, e portare le nuove.
Quando l'infermiere bussava alla porta, era la sorella del Bonaccorsi ad aprire. Il dottore non si faceva vedere, non si presentava, rannicchiato dietro la porta della sua stanza.
Se c'erano nuove istruzioni il Bonaccorsi le trasmetteva attraverso l'uscio alla sorella, e questa all'infermiere.
Achille ardeva dalla voglia di rivederlo almeno una volta, parlare con lui una volta almeno ancora, il suo maestro, dedicate a lui le sue ore più belle.
Benché il Bonaccorsi avesse dichiarato che mai più avrebbe ricevuto persona, Achille sperava, era sicuro, che per lui ci sarebbe stata l'eccezione.
La sorella apri. Appena il Bonaccorsi capì che invece del solito infermiere era venuto Achille, parlò ancora meno, da dietro la porta. Invano Achille si effondeva, chiedeva notizie sulla sua salute, che tutti lo ricordavano, il manicomio senza di lui un deserto.
Nulla. Di là, dietro la porta, non arrivò più neppure un mugolio. Achille si ritrovò sulla strada quasi in pianto.
Fu anche per questa sofferta amarezza che Achille prese sempre più a parlare con confidenza sul Bonaccorsi, a rispondere ad Anselmo che si insinuava con ogni sorta di domande.
E così accadde che in quei lunghi dopopranzi di portineria, Anselmo lentamente - una confidenza dopo l'altra, un episodio da Achille, una notizia da D'Inzeo - riuscì a carpire presso che tutto di quel tempo leggendario, del Bonaccorsi e degli altri.
II
Bonaccorsi era biondo, alto, gli occhi celesti, vigoroso, un che di longobardo; aveva una barbetta a punta che soleva in certi momenti stringere nel pugno. Un uomo attivissimo, brulicante di progetti, di azioni, di immediatezze. Numerosi medici della vicina città ancora se ne ricordano con gratitudine e ne parlano con eccitazione.
Quando Bonaccorsi sapeva che a Lucca c’era uno studente di medicina avido di apprendere, lo invitava, gli mandava un infermiere con un biglietto, che finiva: "Venga a studiare con me. L'aspetto". In questi casi era di estrema umiltà.
Lo studente arrivava con entusiasmo. Il Bonaccorsi proponeva:
«Se ci mettessimo al cervello? Lo ripassiamo insieme. Che voglia ho di rivedermelo tutto! Oppure vogliamo trattare il cuore? È anch'esso ben misterioso! Cosa preferisce?»
L'argomento era scelto, e allora: «Dovremmo cominciare di buon'ora perché poi ho da curare il Laboratorio. Venga domattina alle cinque. Andremo avanti per alcuni mesi, non trascureremo nulla.»
Così ogni mattina lo studente arrivava al manicomio; il Bonaccorsi era già in piedi, festoso per la prossima attività. I libri disposti, preparati sul piccolo tavolino della camera-studio. Il Bonaccorsi per due e tre ore illustrava l'anatomia, la fisiologia, la patologia, faceva una lezione a tu per tu, sommamente proficua. E se udiva di un altro o più studenti volenterosi anche questi erano invitati, accolti, spronati alla bellezza e serietà del sapere. Alle cinque del mattino - e d'estate ancora prima – nella cameretta del Bonaccorsi cominciavano a correre i nomi delle diverse branche della medicina.
Questo per gli studenti. Un'altra sua donazione, ed assai più importante, era per i medici, per gli alienisti, per chi aveva iniziato la carriera psichiatrica sia in un manicomio che in una clinica. Il Bonaccorsi donava i lavori scientifici, i lavori di psichiatria, neurologia, istologia.
Per i medici dello stesso ospedale ripetutamente accadeva così. Un giorno il Bonaccorsi incontrava uno di questi e, come distrattamente: «Ho scoperto un caso interessante. Ci potresti fare un lavoro». Il medico rizzava le orecchie, acchiappava la fortuna; tutti sapevano cosa voleva dire quell'invito. I lavori servivano per i concorsi.
«Il caso è questo. Vai nel tale reparto. Studialo, butta giù le tue riflessioni. Mi raccomando la bibliografia». Il medico faceva qualche mossa, usava un po' di finzione, simulava di aver sudato. E ritornava dal Bonaccorsi con due o tre paginette.
«Bene. Gli darò un'occhiata. Poi te le ripasso.»
Il Bonaccorsi sbrigava tutto, era assetato di attività, trovava appagamento nel portare a termine ogni faccenda. Appena quelle smilze paginette erano in mano sua, le trescava con letizia e animosità. Era un fiume di memoria, di associazioni di immagini, possedeva le notizie più fresche, internazionali, moderne. Scriveva con quella sua calligrafia rapida, in fuga. Più andava avanti, più il lavoro si arricchiva, altre idee nascevano; molto spesso la parte scritta veniva accresciuta, corredata, comprovata da preparati istologici, da microfotografie.
In pochi giorni quelle grame paginette consegnate dal timido dottore si erano trasformate in un poderoso lavoro psichiatrico, degno della rivista più qualificata.
“Margherita Guidacci ha inteso la poesia come scavo interiore, come esercizio di catarsi. Per lei, la poesia ha la capacità di indagare sul mistero della morte, dell’angoscia e della depressione. Istanze senza dubbio sofferte e insopprimibili accanto alle quali la Guidacci affianca, con estremo lindore e afflato sincero, una certa fedeltà, una passione per la vita, come anche la gioia e la grazia. Col suo incedere poetico, dove ogni singola parola è depositaria e custode di significato profondo, davvero meriterebbe di essere riscoperta, letta per l’eleganza dello stile, per il suo andamento assorto e quieto che indugia nella riflessione e nella meditazione. Una profondità spirituale, che non tocca soltanto corde esistenziali, ma anche sollecitazioni etiche, di impegno civile”. Così Grazia Frisina, squisita poeta siciliana, a proposito della fiorentina Margherita Guidacci (1921-1992), che –come lei segnala - è molto meno nota di quanto meriterebbe.
Insegnante, poeta, prosatrice, traduttrice (Emily Dickinson, Emmanuel Mounier, Georges Gissing, Ezra Pound, Jorge Guillen, Joseph Conrad, Mark Twain, Tao Huang Ming, Edith Louise Sitwell, John Donne, Thomas Stearns Eliot), la Guidacci è oggi trascurata sia a livello critico che di pubblico, nonostante le numerose e significative raccolte poetiche pubblicate. Timida e introversa, ha sempre vissuto l’esistenza come precarietà, indugiando sovente sul tema del dolore, senza però mai piangersi addosso, ma cercando risposte alla proprie domande esistenziali.
Cresciuta in campagna in compagnia del cugino, il poeta Nicola Lisi, si laurea in letteratura italiana all’Università di Firenze con una tesi su Giuseppe Ungaretti, specializzandosi poi in letteratura inglese ed americana. Insegnante liceale e poi universitaria, vive dopo i sessant’anni a Roma.
Il suo stile prosastico, limpido, narrativo, decisamente anti ermetico, la porta a isolarsi dalle mode correnti negli anni immediatamente precedenti alla seconda guerra mondiale: e forse è la causa principale dell’oblio che l’ha colpita anche successivamente.
Nei suoi testi affiora spesso la nostalgia per un mondo che si perde, il rimpianto per gli amici perduti e per la sofferenza che regna nel mondo; ma anche una ricerca, di cui non contano né la portata né l’approdo, che cerca nell’accostamento drammatico di significati, anziché in un accostamento magico di suoni, le risposte alle domande implicite. Da questa concezione prettamente «impura» della parola nasceva quindi come corollario una spiccata avversione al «frammento», una tendenza alla narratività che oggi andrebbe riscoperta.
Le sue raccolte poetiche principali sono: La sabbia e l’angelo (1946), libro d’esordio di cui lei dice: «non scriverlo sarebbe equivalso per me, letteralmente, a morire»; Morte del ricco (1954); Giorno dei santi (1957); Neurosuite (1970), una sorta di «radiografia dell'anima umana, colta tra dimensione cosciente e tensioni dell'inconscio», scaturita dalla dura esperienza della malattia e del conseguente soggiorno in un istituto psichiatrico, dove la meditazione sul dolore e sul destino degli uomini, sospesi fra l’ira per il proprio infelice destino e l’avvilimento della disperazione, è affidata alle parole dell’Inferno di Dante Alighieri; L’altare di Isenheim (1980); L’orologio di Bologna (1981) composta in occasione della strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, e che ha come chiave di lettura l’indole fratricida dell’umanità simboleggiata dal delitto originario di Caino; Il buio e lo splendore (1989) e Anelli del tempo, uscito postumo nel 1993. Nel 1990 era uscito il volume Le poesie a cura di Maura Del Serra, dove si trova raccolta quasi per intero la sua produzione poetica.
La sabbia e l’angelo
IV
Ora
il nostro amore si spanderà nella vigna e nel grano,
il
nostro veleno nei cactus e negli spini crudeli.
Si curveranno i
vivi alle sorgenti, diranno:
“Chi spinse verso noi l’acqua
da occulte vene del mondo?”
E molto prima che il freddo li
colga e la notte sul loro cuore s’adagi,
anche in un
meriggio d’api e di succhi ardenti,
conosceranno l’angoscia,
perché potenti noi siamo e vicini,
e non vi è fuga
dal cerchio in cui già li stringiamo,
con ogni stelo da noi
sorto e ogni frutto
che colmo e grave alla nostra terra s’inchina.
XVI
Se
tu mai sentissi la notte nei tuoi polsi tremare,
e trafiggerti con
gli aghi del sangue,
e i minuti del cuore sconvolgerti in
improvvise frane,
allora nemmeno comprenderai
che sia, di terra
farsi poi nardo e neve,
ed entrare in un tempo incorruttibile.
Una voce
Il vento che odora di morte
mi ha passato sul viso la sua viscida mano.
Ha toccato i vitigni marciti,
i muri sbavati di lumache,
lo zolfo e il muschio giallo tra le scaglie di pietra,
i bassi scogli rivomitati dalla marea
quando la notte emerge dalle acque
come il dorso di un pesce immenso.
Quale stagione viene ad annunziarmi?
Il mio cuore l’ignora,
pure me trema.
Nerosuite
Clinica
neurologica
qui giunto molte cose o pellegrino
puoi domandarti
ma una sola importa:
è l’ultima casa dei vivi
o la
prima dei morti?
Ostrica perlifera
Dio mi ha chiamata ad arricchire il mondo
decretandone il semplice strumento:
basta un opaco granello di sabbia
e intorno il mio dolore iridescente!
Stella cadente
Alcuni
desideri si adempiranno
altri saranno respinti. Ma io
sarò
passata splendendo
per un attimo. Anche se nessuno
mi avesse
guardata
risulterebbe ugualmente giustificato –
per quel
lucente attimo – il mio esistere.
Scrivo parole ogni
giorno.
Scrivo
parole ogni giorno.
Non so dove arriverò,
scrivendo.
So
che potrei tacere.
Colui che sa, non parla.
Muto nel ventre del
tempo
dove uomini gridano, anche.
Lo sguardo
basterà
per comprendere e dire
quanto la voce non dice.
Sfioro ogni
istante, ogni giorno
l’urlo e il tuono. Vivo intorno.
Potrei
fermarmi e attendere.
In silenzio.
Il tuo ricordo
Il
tuo ricordo, sul fondo
della mia solitudine,
ne rivela
l’ampiezza
e tuttavia la limita.
Così
un canto d’uccello
addolcisce l’immensità del
cielo
e una singola vela
rende umano il mare.
È come una mancanza di respiro
È
come una mancanza di respiro
e un senso di morire
quando mi
stringe improvviso
il desiderio di te tanto lontano
e nulla può
calmarlo, altro pensiero
non può occuparmi, tranne il
Paradiso
che sarebbe per me lo starti accanto.
Ma poiché
ciò m’è negato, più cara,
molto più
cara d’una fredda pace
mi è la stretta indicibile
-
quasi marchio di fuoco che proclami
ancora e sempre quanto
sono tua.
A nessun costo vorrei separarmi
da questo mio dolore.
La conchiglia
Non
a te appartengo, sebbene nel cavo
della tua mano ora riposi,
viandante,
né alla sabbia da cui mi raccogliesti
e dove
giacqui lungamente, prima
che al tuo sguardo si offrisse la mia
forma mirabile.
Io compagna d’agili pesci e d’alghe
ebbi
vita dal grembo delle libere onde.
E non odio né oblio ma
l’amara tempesta me ne divise.
Perciò si duole in me
l’antica patria e rimormora
assiduamente e ne sospira la mia
anima marina,
mentre tu reggi il mio segreto sulla tua palma
e
stupito vi pieghi il tuo orecchio straniero.
Lascia sia il vento
Lascia
sia il vento a completar le parole
che la tua voce non sa
articolare.
Non ci occorrono più le parole.
Siamo
entrambi il medesimo silenzio.
Come due specchi, svuotati d' ogni
immagine,
che
l'uno all'altro rendono
un semplice raggio. E ci basta.
Colore di Betelgeuse
Hanno il colore di Betelgeuse
(mi scrivi) i fiori che sono riuscita
finalmente a donarti. Tu che vedi
una Galassia in ogni fioritura
terrestre e un fiore in ogni stella, hai legato
così il mio dono al più amato, per me,
fra tutti gli astri, quello che tu stesso
m’indicasti, quando Orione scalava
l’orizzonte autunnale. Nel nuovo autunno i fiori
saranno morti e il confronto avverrà
tra una presenza e una memoria, o forse
tra due memorie: chi può infatti dire
con sicurezza che sia ancora viva
Betelgeuse? Forse noi vediamo solo
quanto di lei ricorda il cielo, a lungo
attraversato dall’antica luce
rosata in uno spazio così grande
che il viaggio continua, pur se la stella è spenta.
Ma resterà sempre il nostro fulgore
che abbiamo accolto, come l’altro, tenero,
dei fiori divenuti d’ombra. Che importa
il durare, se una risposta è suscitata,
di vita a vita, luce a luce? Avranno
le nostre stesse anime il colore
di Betelgeuse. Così
di riflesso in riflesso si propaga
un amore che custodisce il mondo.
Anelli del tempo
Degli
anelli del tempo, che si aggiungono
sempre nuovi, furono alcuni
così stretti
che ne ricordo solo l'orrore di soffocare.
In
altri, larghi e informi, vagai smarrita
senza un sostegno a cui
aggrapparmi. I più,
pallidamente indifferenti, si
ammucchiavano
gli uni sugli altri, subito saldandosi
senza
nemmeno un segno di sutura.
Solo a pochi e per poco è
tollerabile
riandare. Ma almeno questo, l'ultimo,
di cui oggi
si chiude il cerchio, resta perfetto
nel mio cuore: cornice d'oro
intorno
a uno specchio di gioia. Chiedo solo
di serbar
quest'immagine. E che a te
uno stesso fulgore la riveli
e la
circondi, allo scadere dell'ora,
nel tuo specchio gemello.
All'ipotetico lettore
Ho
messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole
altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la
sentirai fuggire. Fa' che siano
allora come foglie e come
vento,
assecondando il suo volo.
E sappi che l'affetto
nell'addio
non è minore che nell'incontro. Rimane
uguale
e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da
percorrere
in obbedienza al destino.
Alla fine dei secoli
Alla
fine dei secoli, quando
mi
chiamerà un’altra voce
e proverò per la
seconda volta
l’impeto di risurrezione
prego che come
questa volta,
quando sei stato tu a chiamarmi,
alzandomi
stupita dalla fossa
con le ossa che sentono la carne
stendersi
nuovamente su di loro,
con la carne che sente
in sé di
nuovo penetrare l’anima –
io possa, in quel tremendo
campo
dove avrà inizio l’eterno,
fissare il primo
sguardo su di te,
ritrovarti al mio fianco.
Gesualdo Bufalino, insegnante e scrittore
Gesualdo Bufalino nasce a Comiso nel 1920, figlio di un fabbro con una gran passione per la lettura, e si nutre dei volumi presenti nella biblioteca paterna. Dopo il Liceo si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia a Catania, ma nel ’42 deve interrompere gli studi perché richiamato alle armi: riuscirà a laurearsi solo nel ‘47, e da allora fino alla pensione insegnerà nell’Istituto Magistrale di Vittoria (RG). Muore in un incidente stradale nel 1996.
Appassionato di libri, cinema, musica, Bufalino è stato poeta e traduttore oltre che narratore: ma il suo primo grande romanzo (in realtà diario e confessione, più che romanzo in senso stretto), destinato a un successo straordinario, è pubblicato solo nel 1981 presso l’editore palermitano Sellerio. L’opera nasce dall’esperienza personale dell’autore, che nel 1944 si era ammalato di tubercolosi e aveva dovuto ricoverarsi prima a Scandiano, poi in un sanatorio della Conca d'Oro, dal quale era uscito guarito nel 1946. L’esperienza lo segnò profondamente e contribuì a farlo riflettere sui temi dell’amore e della morte, della malattia e dell’amicizia; in un’intervista del 1985 affermava: «la scrittura mi serve come medicina, come luogo di confessione, come possibilità di dialogo con me stesso».
La vicenda è così sintetizzata da Leonardo Sciascia, conterraneo e amico dell’autore: «Nel 1946, in un sanatorio della Conca d’oro – castello d’Atlante e campo di sterminio – alcuni singolari personaggi, reduci dalla guerra, e presumibilmente inguaribili, duellano debolmente con se stessi e con gli altri, in attesa della morte. Lunghi duelli di gesti e di parole; di parole soprattutto: febbricitanti, tenere, barocche – a gara con il barocco di una terra che ama l’iperbole e l’eccesso». Il protagonista è un giovane reduce che nel 1946 affronta, dopo quello della guerra, un nuovo «apprendistato di morte» nel sanatorio della Rocca sulle alture di Palermo, dove incontra altri reduci: il colonnello, Sebastiano, i due Luigi, l'Allegro e il Pensieroso, Giovanni, Angelo e frate Vittorio il cappellano. A curarli il medico del sanatorio, il nobiluomo Mariano Grifeo Cardona di Canicarao detto il Gran Magro, un alcolizzato, un «inquilino bisbetico» del mondo, disposto ad ammettere - con beffarde argomentazioni - l'esistenza di Dio, perché «non c'è colpa senza colpevole». Il protagonista si innamora di Marta, una ragazza dal passato equivoco, che aveva già rischiato la vita in quanto ebrea, e che ora si avvia inesorabilmente alla morte. Nel finale i due fuggono dal sanatorio: ma mentre la donna muore in un piccolo albergo del litorale, il protagonista avverte la vicinanza della guarigione «e rientrando nella vita di tutti, vi porta un’educazione alla catastrofe di cui probabilmente non saprà servirsi, ma anche la ricchezza di un noviziato indimenticabile nel reame delle ombre».
Del romanzo Bufalino dice: «L’ho pensato e abbozzato verso il ‘50, l’ho scritto nel ‘71. Da allora una revisione ininterrotta: fino alle bozze di stampa. Mi è venuto dall’esperienza di malato in un sanatorio palermitano: negli anni del dopoguerra, quando la tubercolosi uccideva e segnava ancora come nell’Ottocento. Il sentimento della morte, la svalutazione della vita e della storia, la guarigione sentita come colpa e diserzione, il sanatorio come luogo di salvaguardia e d’incantesimo (ma La montagna incantata, è evidente, non ha giocato per nulla). E poi la dimensione religiosa della vita, il riconoscersi invincibilmente cristiano. M’importava esorcizzare quell’esperienza; ma soprattutto mi urgeva coagulare eventi e persone intorno a un centro di parole che avevo dentro. Confesso che il primo capitolo che scrissi fu come un gioco serio: e consisteva nel trovare intrecci plausibili tra 50 parole scelte in anticipo per timbro, colore, carica espressiva. Qualcosa di meno maniacale delle scommesse di Roussel, essendo nel mio caso il legame tra le parole scelte non casualmente ritmico, né esoterico, ma insorgente da una parentela e coalizione espressiva e musicale, così come da un re, da un sol minore premeditato, nasce una sinfonia». L’opera rivela i sotterfugi, le illusioni, la perenne volontà di autoinganno, gli strazianti e ossessivi sentimenti di una rassegnata umanità, che si accalca nel tubercolosario palermitano in attesa della morte, il più probabile degli esiti. La malattia è vista come condizione esistenziale da Bufalino, che in un’intervista così commenta: «Cosa c’è di più iperbolico della morte? Cosa c’è di più eccessivo dell’estate, della Sicilia, di un sanatorio, di tutte e tre queste cose messe insieme?».
Dopo il successo di quest’opera, Bufalino nell’arco di un quindicennio pubblicò quasi maniacalmente una gran quantità di opere: poesie, (L'amaro miele, 1982), prose d'arte e di memoria (Museo d'ombre, 1982), testi narrativi (Argo il cieco, 1984, L'uomo invaso, 1986, Le menzogne della notte, 1988, Qui pro quo, 1991, Calende greche, 1992, Il Guerrin Meschino, 1993, Tommaso e il fotografo cieco, 1996), saggistica (Cere perse, 1985, La luce e il lutto, 1988, Saldi d'autunno, 1990, Il fiele ibleo, 1995), aforismi (Il malpensante, 1987, Bluff di parole, 1994), antologie (Dizionario dei personaggi di romanzo, 1982; Il matrimonio illustrato, 1989), senza più ottenere un successo paragonabile.
da Diceria dell’untore cap. XVI [l’ultimo]
Questo fu l'ultimo sorso di luce per Marta. Già lungo la via, sfiorandola per caso, m'ero accorto che avvampava di febbre. E i ronchi secchi e crepitanti della tosse che durante il giorno avevano chissà come taciuto, erano ora ininterrotti, strazianti. Cercai dove fermarmi. Tanto più che un difetto ai fari non m'avrebbe consentito, benché con l'aiuto della luna, di raggiungere la città. Alla costa comunque volevo arrivare, dove più fittamente si susseguivano i luoghi di villeggiatura e maggiori apparivano le possibilità di soccorso. Continuai dunque la corsa al mare, e che fosse vicinissimo, dietro quel velo d'ulivi, un ragazzo ce lo disse, che si levò con diffidenza da una soglia di sasso quando si senti chiamare. E subito vedemmo un gabbiano disperso, scuro e bianco come una rondine, volteggiare sul colmo di dune davanti a noi. Allora Marta volle, con una testardaggine innervosita, smontare dalla vettura e rimanere in piedi, nella frescura della sera, a guardare il mare. Era calata la sera, e il mare, che mille volte in passato m'era parso nascere dalla curva delle colline domestico e balneare come nelle guide, non ci fu verso qui che risparmiasse uno solo dei suoi veleni: né il borbottio dei suoi contrabbassi arrochiti; né le stereotipie delle onde contro la riva: né il secolare malodore di calafature e disastri. Più ancora mi sgomentò, entrando nel porticciuolo, scorgere attraverso gli usci semiaperti, a lume di candela, donne in cerchio sedute sui pavimenti di pece, che con mani eterne rammendavano reti.
«Atropo, Lachesi... dimentico sempre la terza...» mi sforzai di sorridere, senza che Marta mostrasse di capire, intenta com'era a fissare la spiaggia come si fissa un nemico.
Era decisamente un'ora povera, un’ora infelice. Com'è sempre nelle sere di moribondo settembre su un lido sporco di stracci d'alghe e di giornali d'agosto. Non indugiammo a soffrirla, ma, chiusa la macchina, ci avviammo, stampando pedate uguali sul bagnasciuga, alla ricerca di un alloggio, Marta s'era stretta dentro uno scialle e camminava con sforzo, appesa al mio braccio, lamentandosi a bassa voce. Io mi sentivo invece, dissipate le apprensioni della mattina, e i contraddittori ammaestramenti dello spettacolo, tutto preso da una nuova esultanza: sciolto nei miei moti acerbi, lievemente esaltato dalla minutaglia di gocciole che la brezza salina m’insinuava nelle narici, e in quell’istante finalmente sicuro di trovarmi sulla cresta di un riflusso amico che dal centro dell'imbuto d'abisso, dall'attirante vortice, per miracolo, m'allontanava. Me ne veniva a momenti uno stolido orgoglio, come una fisica arroganza, specie al paragone della creatura che stavo a passo a passo accompagnando alla fine. Per la cui sorte, tuttavia, un rigurgito di pena sopravveniva poi subito dal fondo più nascosto del sangue, mescolandosi a quel benessere e istigandolo a diventare vergogna.
Un bunker in abbandono, relitto delle previste difese contro l’invasione, su un piccolo dorso di promontorio, ci offerse fra i suoi calcestruzzi un po' di riparo e riposo, quando già appariva l'alberghetto sul mare, spopolato ormai d'avventori, in cui secondo le indicazioni del ragazzo, avremmo potuto far sosta, prima di rientrare l'indomani alla Rocca. Da esso rare figure e voci, che attraverso gli strombi del fortilizio pervenivano fino a noi, ci incoraggiarono a proseguire. Ma veramente Marta non poteva più muovere un passo. E piuttosto portandola in braccio che sorreggendola, riuscii a farle superare le interminabili decine di metri - baratri fra astri lontani - che la dividevano da un letto.
Vi si lasciò cadere vestita com'era, con la superstite grazia d'una figura di danza, ma del pasto freddo, che per sua volontà ordinai di portare, non toccò nulla salvo un pezzetto di pesca. Con lo scialle di cascemir buttato sopra le spalle, mi guardava dal letto mentre mangiavo. A un colpo più forte di tosse, come alzai gli occhi dal piatto per interrogarla, m’impose di voltarmi. Ma feci in tempo a scorgere sul fazzoletto, che riponeva in fretta dentro la guaina del cuscino, il colore portentoso del sangue.
Vi fu allora silenzio nella stanza come in un luogo dove non c’è nessuno. O piuttosto era il silenzio che accompagna le imboscate di mezzogiorno. Quando I’esecutore avverte nella vittima un sollievo e una pace che le cose, intorno, non posseggono più: chissà perché si agita nel sonno la capra; che malore gonfia la vigna come una fronte lebbrosa; perché impazzisce il cielo negli occhi dei volatili, li vedi d'un radere l'erba, precipitare.
Mi levai, accorsi accanto a lei, non sapevo che fare. Era chiaro dai suoi occhi atterriti, dalla plumbea tinta del viso, che qualcosa era imminente, stava bussando dietro un muro. Una paratia sottile, oh quanto sottile, resisteva ancora, lo vedevo, dentro di lei a una pressura di nascosta alluvione. Ma non c'era speranza che non cedesse da un momento all'altro. Intanto l'affanno cresceva, gli sputi sanguinosi si facevano più ricchi e frequenti. Finché mi trovai a reggerle il capo, come nelle sfide di carnevale alle matricole ubriache di triple-sec, mentre lei si sentiva salire alle labbra un irrefrenabile zampillo di rossa schiuma e di morte. Un sangue immenso, seminato di bollicine rotonde, le irruppe dal petto e allagò le lenzuola, enfatico, esclamativo.
«Marta, aiutami» gridai senza senso, mentre mi riempivo le mani inutilmente di catini, di asciugamani. Non durò molto, quando tornai a guardarla era morta. E mi venne di cercare dove fosse il coltello, tanti erano attorno a lei i segni di una selvaggia macelleria.
Era morta, questo era ora il suo stato naturale e pacifico. Come se non fosse stata mai altro: di botto impietrita, uccisa e neutra, una cosa.
Mi chinai a pulire con un lembo le labbra che grondavano ancora e mi sedetti accanto al capezzale. Non so immaginare perché. Capivo che avrei dovuto chiamare qualcuno, gridare, disperarmi. Invece in me c'era soltanto un sentimento di curioso languore, un ingorgo ch’era simile insieme a una sazietà e a una fame, quasi lo spasimo finto che si sente dove prima c’era un arto amputato. E tuttavia trovai la forza di chiuderle i due occhi e di mormorare in quell'atto, non una preghiera, non ne sapevo, ma il versetto di Bibbia trovato fra le carte di padre Vittorio e di cui sentivo ora l'annunzio rifiammeggiarmi nella memoria. Poiché veramente le cateratte del diluvio di Dio rombavano, cantavano in quelle lordate lenzuola, senza che da nessuna colomba potesse venire salvezza.
Infine le volsi le spalle, mi feci alla finestra a guardare il lido, dove non c’era anima viva, salvo quel ragazzo di prima, come mai non era andato a dormire, che giocava con l'ombra di una barca in secco. Alzai la fronte. Che rotonda moneta, lassù, la luna. E i colori e le ombre che ne piovevano, bianchi e neri di una pellicola muta, come davano alla scena l'inverosimiglianza di una neve sognata. Senonché un vento che sopravvenne dal largo cominciò a svegliare nella risacca, poco fa così fievole, una voce sempre più monotona e alta, di lamentela ferina, che al mio stesso cordoglio rassomigliava. E allora il pianto mi sciolse finalmente il groppo nel petto e mi ricondusse sulle labbra le vecchie cadenze di lutto imparate nell’infanzia da grandi contadine vestite di nero:
«Marta,» cominciai «Marta, ascoltami» dissi. «Dove sei ora, Marta, dove cammini? In quale notte? Con che nome mi chiami, con che nome devo chiamarti? Ci sono fiumi dove abiti ora? da varcare a nuoto? su passerelle che tremano? E sei sola, o siete tanti, ti ricordi ancora di me? Tornami in sogno, Marta. Anche se l’aria duole sotto i tuoi piedi scalzi, e non trovi labbra per dirmi le parole che vuoi. Guarda come mi lasci in mezzo alla via: una guasta semenza, una sconsacrata sostanza, un pugno di terra su cui casca la pioggia...»
Così in una cabaletta di parole a memora, come era giusto, finiva una storia di palcoscenico, stonata a turno, un po’ da ciascuno, da due moribondi inesperti. Di cui l'uno, mescolando sino alla fine in uno stesso vaso impostura e dolore, piagnucolava ora contro la notte, mentre l'altra - e quanto sangue capiva in un corpo così pallido - opponeva a quella nenia, di rimando, non so che parvolo invariabile broncio e nient' altro più che il vermiglio del suo vomito supremo. Spensi la luce per cancellarlo, e nella stanza, al chiarore della luna tornai a cercarla con gli occhi: sembrava dormire, come nella cuna d’una illesa natività; e sul cuscino, attorno al viso che vi posava senza imprimervi segno, tanto era leggero, I‘incurvatura a elmetto dei mozzi capelli componeva ancora un'aureola quasi di serpi pacificate.
«Erebo, Eros, Erinne», lo scioglilingua per Adelmo mi ritornò nel pensiero. Poiché ormai, sull'esempio del Magro, mi buttavo preferibilmente sul classico.
Delle ore che seguirono (che setaccio strano è la mente, come sceglie a caso quando ricorda!) mi restano solamente fotogrammi a pezzi, una specie di album incarbonito. Non la rivedo più, la cesura di una tela cerata si frappone ogni volta fra me e la sua faccia, esposta sul bigliardo, fra quattro ceri, all'agonia viscosa delle ultime mosche. Ma sopravvivono, e mi seguiranno per sempre, taluni ritagli d’ironica vivacità: la balbuzie del medico condotto, accorso dal capoluogo, per constatare il decesso; il foruncolo rigoglioso, malamente fasciato da una filaccia, sul collo del fornitore di cataletti. E risento la sete inestinguibile che mi prese durante la veglia, nel silenzio della notte marina, e mi durava ancora l'indomani, mentre aspettavo che il Gran Magro, il quale al telefono aveva accolto la notizia con una dolcezza che mi parve sospetta, mandasse dalla Rocca qualcuno a riportarci a casa, me e la morta. Nella cui borsa frugai poco dopo, quando l'albergatore me ne chiese, burocraticamente preoccupato, il cognome, e mi resi conto d'improvviso che a quel Blundo, sotto cui la schedavano alla Rocca, non avevo mai veramente creduto. Fu un responso quale da un pezzo temevo, né potevo più eluderlo, quello che il passaporto mi offrì, pescato fra bastoncini di rossetto e lime e fasci di dollari e am-lire: Levi, un cognome da mormorare all'orecchio. Non mi domandai fino a che punto esso quadrasse coi monconi di biografia che sapevo o credevo di sapere di lei; e quanto sinistramente quel bagliore di stella gialla potesse risarcirne il testo. Non era tempo di polizia ma di pietà. E da basso già chiamavano...
Ai funerali di Marta non volli assistere. Bensì al bruciamento delle cose di lei nel forno crematorio della Rocca. II Magro era al mio fianco, e insieme seguimmo con lo sguardo le vestaglie, le babbucce, i tutù della sua cassapanca d'attrice, spinti dall'attizzatoio dell'infermiere a pigiarsi nella cavità del congegno, ardere, crepitare, incenerirsi. Anche un mazzetto di foto, che avrei preteso di risparmiare, seguì la medesima sorte, e fra le molte una - dove era lei sulle ginocchia di oberleutnant in uniforme, con una dedica dietro «a Garance», firmata Von Tizio o Von Caio – m’inferse una punta di baionetta nel ventre, mentre s'attorcigliava fra le fiamme e il Magro la commentava (essendo che in lui ogni cosa, apoteosi o rovina, era sempre dannata a travestirsi in parole di libri) con una citazione di cui solo dopo mi parve di poter cogliere il senso:
così s'osserva in lor lo contrappasso.
Di ritorno nella mia stanza mi buttai sul letto a pensare e m’addormentai a tradimento, con un braccio serrato sugli occhi. La stanza era scura quando mi svegliai. Scura e umida. Guardai fuori e vidi un cielo tanto nero, non capivo cos'era. Quand'ecco un odore che avevo già sentilo prima, senza decifrarlo, entrare nel mio sonno, s’illuminò d’improvviso, e fu odore di piccola pioggia sull'erba, odore di nebbia, fioca aria di temporale lontano. Allora uscii sulla veranda e m'affacciai a guardare il giardino. Era buio, il giardino, ma distinsi il lustrare di una cesoia dimenticata nell'erba, percepii la soddisfazione delle radici dentro la terra bruna e bagnata. È piovuto, ecco dunque I’autunno. Bisogna che parta, mi dissi, troppo tempo ho perduto fra i morti, simulandomi morto, scordandomi dell'ironia. E ripensai a un vecchio del mio paese, un Ecce Homo da Venerdì Santo, che pagavano per mimare ogni anno sul sagrato una posticcia Mort’e Passione. Amava dopo la recita pavoneggiarsi un poco fra la folla nella divisa divina, prima di restituirsi alla sua bottiglia di peccatore feriale. Chissà se è morto, mi chiesi, chissà se la parte è vacante…
Intanto quieta quieta veniva giù di nuovo la pioggia. Io restavo col capo sporto fuori a metà, sotto l'acqua che gocciava dai coppi del tetto, e mi sentivo stranamente lieto. O pago, piuttosto, mentre guardavo nel giardino il prato imbeversi ancora e l'acqua battere il suo mite alfabeto sulle sedie di ferro rovesce, sul fogliame e gli aghi degli alberi. E mi dicevo che l'estate era finita, e la mia gloria insieme. E che di tante febbri, e frasi, e fazzoletti zuppi di lacrime e sangue, perfino il ricordo presto si sarebbe consumato, una vacanza era stata, una debolezza del cuore che voleva educarsi a morire. Come tutte le grandi pesti, anche questa mia finiva con una pioggia. In compagnia dell'acqua che mi colava dai capelli e mi rigava le gote, il male si scorporava da me, se ne andava. Ma con esso ogni resto d'orgoglio: con esso, forse, la gioventù. Mi attendevano altre strade, domani. Facili, rumorose, comuni. Le mezze fedi, le false bandiere. Mi ci sarei rassegnato, che altro potevo fare? Poiché la seduzione del nulla era inutile, riluttando il cuore per tanti segni a farsene persuadere. E l’infelicità, col suo miele amaro, neppure essa mi serviva più.
Di Donata Berra si era parlato già quattro anni orsono, ma oggi ne riparliamo in occasione dell’uscita di una significativa auto-antologia, che riprende buona parte delle quattro raccolte precedenti, ridistribuendo e in parte ritoccando i testi già editi, e con l’aggiunta di una quindicina di testi nuovi. Il titolo è significativo (La linea delle ali) perché sottolinea l’aspirazione della poetessa a librarsi sopra le ingiustizie e le miserie del mondo, per cercare in alto una possibile felicità: non per caso molte delle poesie hanno come protagonisti uccelli o altri animali che tendono verso l’alto, per esempio gli amati gatti. Si riconosce in questo volume (il primo edito in Italia) la vena ironica che ha da sempre caratterizzato la poetessa italo-svizzera, il lieve motteggio che colpisce spesso i personaggi maschili nella loro pretesa di superiorità (“maschi [che] millantano meraviglie”). Ed è un’ironia che si trasferisce poi su altri personaggi, oggetti e paesaggi quotidiani, di cui Berra sa cogliere con effetti stranianti aspetti inediti e stupefacenti. Possono essere le folaghe che portano “un lieve tocco d’ala / sul cuore”, civette e tassi, gatti sornioni o “grandi uccelli in fuga” che riattivano “la memoria dilatata e scomposta”, i gabbiani coi loro “tuffi ad ali chiuse” o “la lucertola a due code”: un bestiario delicato e variopinto, sul quale lo sguardo della poetessa indugia con simpatia e curiosità.
Accanto agli animali, in una sorta di erbario magico, si ritrovano poi frutti, piante e cespugli (l’elicriso e i “filari d’uva”, le “pigne” o l’erba “docile al fiato”, i fiori “privati dell’unico giorno di gloria”, gli ulivi e i rovi, resina e muschio, scagliola e pimpinella) che da “semplice verzura” si trasfigurano in messaggeri di misteriosi messaggi. Anche qui si può cogliere la fine ironia che giunge a far definire la corteccia delle betulle che i castori rosicchiano come “la più saporita”, quasi che anche la poetessa l’abbia assaggiata! Ed è lei stessa in un certo senso a farsi castoro, acero biondo, schiuma e risucchio, alga e medusa: attrice di una recita che affascina il lettore, trasportandolo in mondi improbabili, dove cercare una risposta che vada oltre il “brusio indecifrabile”, il rumore di fondo della vita.
In questa ricerca di senso, che rischia di essere illusoria, la poetessa brama però sempre il dialogo con un interlocutore, sia pur misterioso (o addirittura già morto, come in Requiem per una persona buona), che le renda possibile continuare a scandagliare la realtà sfuggente della vita. Anche se si tratta sempre di una realtà ambigua e ambivalente, dove amarezza e allegria, fiducia e disinganno, domande e silenzi, effimero e sempiterno si alternano senza fine. Ed è qui dove la duplicità della scrittura di Berra si mostra in tutto il suo fascino, perché ai contrasti alto / basso, luce / tenebra, presenti fin dalla prima raccolta, si affiancano ora contrapposizioni che potremmo definire “spaziali”: il dentro e il fuori, il sopra e il sotto, dimensioni metafisiche che moltiplicano lo spazio della vita, indirizzandoci verso un altrove misterioso, “un posto pensato, tra terra e cielo”.
E adesso vieni, entriamo insieme in questo inverno,
sarà stagione di abbandoni e reticenze,
guarda: le ombre che credevamo immaginate,
o risospinte ai margini del bosco,
vòltati: avanzano alle spalle.
Vieni, lascia scorrere il tuo corpo
dal vento acre di resina e di muschio,
lascia la scabra pelle rilevarsi
alle carezze mie, come fossi lei,
quella per cui fiorisce, e sa di cielo,
-dove tu solo sai, e mi conduci-
il fioco fiore giallo d’elicriso.
Scende al mare, s’immerge,
come fosse
dissolversi
non più chiamarti
non più saperti…
Valli marine, smeraldi ghiacciati,
rocce vergate d’arancio,
muschi ventose bocche
giù sempre più sotto fino
alle isole sommerse,
il corpo sempre più bianco, ma
su tutto il liscio della pelle
le tue mani, ancora,
schiuma e risucchio,
succo salino…
allora
entra, infrangi
lo scudo splendente del mare
tu donna tu alga medusa lunare
vibratile opalina orlata di viole
trafitta per sempre
dal rosso sperone di corallo.
Era un passaggio veloce di folaghe
non era la tua voce che smoriva,
o non ancora: l’ombra nera
ha posto solo un lieve tocco d’ala
sul cuore, che sa il vortice del volo.
No, perché? Era un giorno come gli altri,
segnato sullo stesso calendario
di una data qualunque.
Ma verso sera
sul piccolo, remoto palcoscenico
di una piazzetta fuorivia
si è aperto un sipario d’aria purpurea
ed è salito sulla scena,
emozionato per la recita
e vibrante d’attesa, come chi aspetta
il cenno del maestro di ballo
per un ultimo, rapido inchino
il vecchio acero biondo,
laccato d’oro
dai raggi del sole al tramonto.
E tu lo guardi, allora, come
non più il tempo tuo
vi portasse un domani.
Sei venuto di notte
la faccia splendente dell’amore.
Tu parli, e nel bosco
si fanno velluto le ombre
sotto gli occhi attenti delle civette.
Io guardo altrove, ma nel buio
si accende il ricordo ai filari d’uva
dove nel corso del lungo pomeriggio
i grappoli si sono inzuccherati al sole.
Tu ridi, e i tassi nel folto del bosco
si attestano in posizioni più sicure.
Al sole del caldo pomeriggio
le pigne crocchiando si sono spaccate,
io ho raccolto i pinoli
li ho ordinati in fila ad uno ad uno.
Tu guardi, e mille occhi si accendono,
sguardi inquieti posano su di te.
Io cerco una scusa, un’attenuante,
ma dalla memoria dilatata e scomposta
mi risponde un brusio indecifrabile.
Tu chiedi, e la tiepida notte
si strappa in nastri di lutto, ali
di grandi uccelli in fuga
sfrangiano l’aria, mentre
inesorabile mi possiede
il corpo vischioso del diniego.
Per la sete dell’erba, spossata
dalla mano feroce del sole,
per la sete dell’erba piagata, e i suoi fiori
privati dell’unico giorno di gloria
che loro era stato accordato
dal sempiterno giro delle stelle,
per quell’erba, docile al fiato che la spegne
e che nessuno mai coglierà
mai nessuno raccoglierà il suo perdono
per quell’erba e i suoi fiori io so che allora
quando ritagliavo il tuo annuncio di morte
stavo attentissima a seguire con la lama
il nero segno sottile
del margine, a sfiorare il segno, non inciderlo,
non intaccarlo, non intersecarlo
non tagliare dentro lo spazio circoscritto,
perdonando quei limiti.
a Gianna
Varcare dosso a dosso le colline
lungo muretti a secco, ulivi, rovi
finché si apre il golfo, riappare
la luce metallica del mare
e abbrunano ramati gli angiporti.
E dentro, dentro, che ne brucia l’ora
dentro fra gli altri ai tavoli dei bar
con gli occhi fissi all’indaco del fondo
che spiano l’avanzare della sera:
dentro fra i suoni fra gli stridi sbiechi
e i tuffi ad ali chiuse dei gabbiani
che pescan pesci sottopelle all’onda,
con gli occhi fissi dentro al fumo nero
della nave che salpa: eppure, ancora
no, non ti strappi all’unghia della notte.
E tu sei padre e figlio,
sei chi mai viene e poi
non sei più nulla
nell’ultima mia
scialbatura di memoria.
I frati piantano melissa nel chiostro riparato,
attendono la fioritura nei chiusi conventi.
Ricavano dai fiori un elisir per contrastare
col tenero dei boccioli e delle foglioline sessili
alla dovizia notturna (e diurna, anche: orante)
di stati di angoscia, ansia, cedimenti di nervi,
emicranie e battiti del cuore, ma irregolari.
Dicono: che serva anche contro il mal di donne.
Se ne colgano i petali labiati, molteplici, bianco pallido,
a infiorescenza glabra, unisessuati, dalle ligule molto corte.
Appaiono in estate, l’uno accanto all’altro, sugli pseudoverticilli.
Delle peculiari potenzialità del fiore si erano accorti
già molto tempo prima gli arabi: gli infedeli.
Andavan compitando per analogie
il mondo e i suoi effetti, loro inclusi
non meno, ché nel chiostro la dogliosa
fabulatoria dell’origo generis
che palpeggiava intorno alla matrice
si producesse nel contorto collo
del mostro inciso dentro al capitello.
Torcevano le membra pur sapendo
che la scrittura è germe dell’inconscio
eppure si ostinavan con protervia
nel disegnarli sempre a fargli l’ali.
Scrivevano in inchiostri rossi e d'oro
e debolmente rimediavano
al divino disordine.
No, tesoro, grazie, i nodi
lasciali sciogliere agli altri, io
per me, camminando qui al lungofiume
dove crescono scagliola e pimpinella
(semplice verzura, sai), qui dove
rosicchiano di notte i castori
la corteccia alle betulle (senza
confronto, credimi, la più saporita) e dove
ancora passa, se sei fortunata,
la lucertola a due code, che subito
sparisce per improvvisi gomiti, fratture,
io, per me, immedesimandomi, spero
che abbiano, i nodi, anche loro
un posto pensato, tra terra e cielo.
Il tempo passa, dicevi, resta
l'odore mielato dei rami
al riparo dal sole: l’ombra
delle ortensie azzurre dove
il primo giocare era da te
nascondino, ma qualcuno sempre
si incaricava di svelare me
e che la natura
è refrattaria alla metafisica.
Zolfo ci vuole per il blu dei corimbi:
questo so ora, che non voglio
nessuno mi cerchi:
per quel che vale
restar dentro a pensare.
Sommessamente
Non con trombe alte e tese
splende l’annuncio: l’angelo
è meglio raccolga i lembi
della lunga veste,
sieda e riposi.
Sommessamente nasce
la voce, solo, se mai, per sottrazione.
E scendono i sentieri
tra vasi di gerani rosa
tra giochi di bambini
secchielli palloncini strilli
da ridere giù per le altalene, e proprio ora
calma la voce dice "oggi
hai già dato da mangiare al gatto?"
mentre come allora
scorre sontuoso il fiume verso Köln.
Insomma lèvati se vuoi uscire
a che serve star dentro sonnecchiando
scendi agli umori, ingaggia marinai
salpa ancor oggi e poi
appena il vento infila
il piancito del ponte e incinge
alla vela di rada una gran pancia
esci, anche a sbalzo, e dillo
dillo questo nome.
E andando lasciava la nave sul liscio dell'acqua
un nastro a ricciolo largo,
allucciolato d'oro,
ricolmo di liquide stelle
inghiottite dall'onda e sempre riaccese,
e spumiglie e fiocchi di mare
emblemi di specchi ritorti
sparenti e riapparsi poi sciolti
in barbagli, in scaglie di luce;
e lasciava, la nave
il lungo profilo del suo lento passare,
e del nostro, più incerto,
a memoria di mare scritta serrata, ma poi
appena stretta la cima alla bitta, la nave
viene solo richiesta di pronta consegna
del pesce pescato
ai camion del ghiaccio.
Questioni. II
Dopo tante maledizioni
sapersi persi, non cedere
lasciando l’ultima riva
giocarsi tutto rischiare
compromettere la salvezza
esasperati di stare all’oscuro
spingere a fondo la domanda
che ci riguarda
ché di altro non sapremmo chiedere
e prendere atto piano piano
di una nota scura
cupa insistente
come di bordone
era la voce di Dio che diceva
è niente.
Nata in Sicilia e vissuta a lungo a Torino, Grazia Frisina è stata insegnante di Lettere, dal 2000 a Quarrata, nel cuore della Toscana, dove ha voluto trasfondere nei suoi alunni «l’amore per la poesia come sollecitazione dei sentimenti». La poesia è per lei infatti «sfida al nichilismo, alla depressione, a quelle Erinni, quelle oscure malie, che tentavano la mia anima».
Via via nel corso degli anni questa sfida ha prodotto memorabili raccolte poetiche, da Dell’imperfetto sentire (2006) a Foglie per maestrale (2009), da Questa mia bellezza senza legge (2012) a Innesti (2016), da Pietra su pietra (2021) fino al recentissimo Avrei voluto scarnire il vento (2022).
In quest’ultima raccolta sono raffigurate trentadue figure femminili tra mito, storia, religione, letteratura e arte: un gineceo immaginario che propone, col solo nome di battesimo, donne diversissime, unite però dal comune anelito ad esprimersi in libertà, a rivelare i propri traumi e i propri successi, la propria sensibilità e intelligenza. Non tutte sono esistite nella vita reale, non tutte sono famose, non tutte hanno lasciato un segno significativo nella vicenda umana: ma tutte hanno interpellato l’autrice («per me hanno avuto una loro significanza, profondamente calate nel destino umano») e ne sono state interrogate in profondità, fino a rivelare aspetti inattesi della loro personalità. Sono scrittrici come Virginia Woolf, Etty Hillesum, Alda Merini, Saffo; artiste come Frida Kahlo o Camille Claudel; donne del mito o della letteratura come Persefone e Dulcinea, Penelope e Filomela; figure dall’esistenza oscura come Baba, la domestica di Segantini, o la babysitter Vivian Maier, autrice misconosciuta di splendide fotografie.
A loro la Frisina ha dato voce facendo in modo che ognuna potesse raccontare la propria storia, la propria singolare essenza femminile, il difficile rapporto avuto con la società maschilista del tempo, i tentativi di ribellione e di riscatto, l’interiorità sofferta, le angosce e le gioie. «La donna – afferma la poetessa - nella società è meno valorizzata. Con i miei testi dedicati a donne che sono state famose nella storia, magari perché hanno avuto delle opportunità, voglio dare un omaggio al valore delle donne nel silenzio della casa, che restano nell’ombra ma spesso sono artefici di trasformazioni invisibili».
Nell’ultimo testo della raccolta, poi, il pronome di prima persona singolare svela la presenza dell’autrice stessa, che si pone accanto alle altre donne per continuarne la stirpe, per riconoscere in ognuna di loro un frammento della propria femminilità.
Particolare è la cura formale che la Frisina dedica ai testi, nelle scelte lessicali che tendono al neologismo, nell’alternanza della persona verbale da testo a testo, nella variazione della focalizzazione, nell’architettura sintattica e strutturale della raccolta.
Non
sono che una parola
da divenire – io
Grumo
d’insembianze
racchiusa nel bozzolo di un senso
protesa
al concepimento
Io
sono spigolatura di alfabeti
sillabe fonemi da intagliare
con
pugnali persuasi
nell’aria – Per dire per cantare
Da
sommare a storie di venti
a granelli di sale
da sciogliere nel
ritmo del sangue
da traversare sopra un assolo di goccia
Io sono la parola che invento
Parola
carnale – solletico dell’anima
Parola da toccare con
polpastrelli insonni
da morsicare tra i denti della solitudine
da
mescere alla saliva di tutte le cose
da spingere sull’altalena
dei giorni
da annegare come abisso
da liberare come fuga
Non
sono che nessuna parola
– io
Capo
chino
L’america è là squillante
fuori dal
vetro – prossima e nemica
Occhio
puntato
come chi voglia scandagliare
come chi dal microscopio
non desista
lei scrive – Visioni scrive
Scrive
lei tallonando
le ore e le ansie – insieme
lunghi righi –
vie d’accesso
alle impraticabili miniere
quarzite
osso elettrizzato shock
shock shock shock
lampi che bucano il
cranio
Lei
scrive
per capire
come sotto le cellule
s’accalchino
incanti e spaventi
brame e schianti
per scoprire
dove
avviene la germinazione
di quei tortuosi sonnambuli pensieri
che
come pipistrelli strapparono
le trecce alle biondebimbe
e
succhiarono come vermi il miele
tutto – nelle arnie delle
madriapi
tanto
da morirne – in un febbraio
livido – senza conforto
Con
minuzia d’archeologo
setaccia lei polvere di parole –
scava
dal pozzo il gorgoglìo lunare
il cristallo dal
precipizio dell’insonnia
dalle viscere il vagito sommerso
Per
l’urgenza scrive
– per placarla
Io – è vero – non sono stata
né montagna
né acquapiovana
Una cenciosa faccenda
invecchiata con la vanità
della rosa discinta
dal gemito maturata
Un rammendo non facile
a slabbrare
punti fittifitti
il cui filo lo strappo cuce
ricuce ric-ama
sotto il rovescio
d’una parola possente
Tra passato e presente
nell’ordito dei giorni
ne ho perse scommesse
ma ho anche rinvenuto
il coraggio di essere
splendore d’insania
Il mio erratico rammendo
- sappiate
sconfinante quasi
da ciò che ho traversato
Un’illecita vibrazione
spalmò il rossetto
di baie e poesie
sopra un bacio
senza causa – D’amore
totalmente intriso
Il sole seduceva la sabbia
che sfavillava
nella ragnatela di fiati e seni
In tal modo al mondo
rivelai l’indecenza
della mia sostanza
e
tu Anne – lavandaia di Sauve
il tuo soffio batti sulla
pietra
Résistez
Calò
sopra la nostra fede
il tuono di un giudizio
rimbombò di
ferri la notte
In questo duro utero di torre
Dentro noi –
Figlie e sorelle
L’una per l’altra madre
e tu Isabeau –
filatrice di Pranles
tra le crepe tessi fili
caparbi
Résistez
Se
dalla nicchia del lamento
spirava un lugubre di resa
la faccia
ai calabroni voltavamo
alle sentinelle al gelo venuti
a
succhiarci il sonno e la nostalgia
Fra noi l’alleanza illesa
rispose
e tu Jeanne – sarta
di Saint-Georges-les-Bains
a punto fiorito cuci sull’orlo dello
sconforto
Résistez
Di
riflessi tremava la cella
quando dalle feritoie il sole
col suo
salmo consolava d’alleluia
e noi appresso a lui non ci
spegnemmo
Non ai sinedri bensì al Signore
al silenzio e
ai figli s’espresse il cuore
e tu Suzanne – venditrice di fiori di
Nîmes
il tuo richiamo di lavanda nell’aria
ricomponi
Résistez
Ritte
in piedi di noi restava il torto
questo esserci con le mani
indivise
quel travalicare tutte le lacrime
Le grate rompemmo
avendo occhi
di pioggia sciamanti verso pascoli
a venire –
ove dissetare il riso deposto
e tu Marie –
moglie del mercante Michel
lo spago slega attorno ai
polsi
Résistez
Lo
spazio percorso fu di giorni qualsiasi
le vite nostre qualsiasi –
Nient’altro
che un rotondo cintato di pallori
d’ombre
partigiane – No tuttavia
no dicemmo – Mai ci
ripiegammo
né ci bagnammo nella macera fonte
dell’abiura
e tu Françoise – contadina di
Privas
le zolle delle ore cadute solca e
semina
Résistez
La
scure del carceriere
non sbiancherà l’incendio della
rosa
non innalzerà più steccati ai voli
Daranno
frutti le nostre ossa
come ciliegi in estate – Come
agli
uccelli il saluto mattutino
Marion
Jaquette Marguerite
Elisabeth
Résistez
Noi
siamo il canneto che rinasce dalla palude
al di là di
questa sepoltura di secoli sale
a un vento più forte di
libere nuvole
Io non so
chiedermi
io non so dire
qual è il silenzio che dal serto dell’alpe
s’allunga sino all’orizzonte
dove s’aggruma il mio presente
e ogni bisogno o fatica
in pula si disfa
piccolissima e vana
In questa vastità
sta la mia vita
Così disadorna
Così sacra
Sta
come se l’Eterno
in altro modo giacesse
respirasse accanto
in confidenza
Rovesciato addosso
con lo smalto del cielo e dell’erbe
a in
cantarmi
a disvelarmi
nel ruminio buono di tre pecore
la Devozione alla
Lenta
Rotazione
Delle Cose
Attendo che
l’anca stanca del tramonto
non s’attardi troppo sull’orma dell’ombra
che in seno batte
Più amabile è questa sulfurea flemma
che la baldanza della strada
là fuori
dove balordo è ogni lampione
che il nettare depreda
alla prima luna
Ma ecco che giunge
Giunge e sussurra
D’un Notturnale Evento
a me sussurra
un’inviolata mano di raso
Non so come abbracciarlo
ma è
l’ondosa sua fantasia
a fasciarmi
tutta
gioiosamente
i sensi spalancare
Di vertigine m’insemina
ogni sua carezza
Caverna ove pulsa il mio incendio
Ansa stretta allo sconoscimento
Di sogno – Amore – a notte
sei mia carne
………………………………..
e –
sciolti
dalle pastoie i malleoli
con un balzo di gatta
dal
suolo mi stacco
………………………………..
via! su! via!
cabrando
Cosce
a mezz’aria
alta
altissima
in solitaria
sulla rotta di nuvole
senza destinazione
Con l’esile
piumaggio dei pensieri
Una
rosa dei venti
fluttuante tra i capelli
Un mannello di
stelle
polari in brusio sottopelle
Niente
adesso m’è affanno
quello che prima era
fragore
guerre brandelli covo di ferocia
ora in basso è
solo un’inerme
afflosciata zitta giostra
Tradendo
gravità e correnti
azzardando oltre le quote dei
monti
trasvolate e peripli
impensate orbite
per una volta
sola
sono
a
vedere in giù la Terra
Mio Belvedere da quassù
Biglia nel blu
il pianeta roteare rot
eare rotea
re
in
placenta d’immenso
s
g u
a z
zare
Fui più volte
Emily Marina Sylvia
Elizabeth Anna e Virginia
Mossi incontro
a quelle elette stanze
senza bussare
M’apparvero
vestaglie sonnambule
andare in assoluta bellezza
con candele d’indugio
su libri lettere e quaderni
aghi e filtri di tè
fra casalinghi cicalecci
e specchi alchemici
Fra esse – nate per le comete
ero – non vista
gomito a gomito
felice straniera
Ragazza col cuore increspato
A tanta ronda perpetua
di parole – affiliata
devota
Imparai da loro a rintoccare
con voce di sciabola
il disordine che passava
giù per le costole
a levigare le ore con l’insolenza
di qualche verso caparbio
Poco importa se ora
ho sottili cartilagini
passi imprecisi
friabili arresi
impaludati nell’inciampo
se non so più scovare
in estate le tracce delle api
vorticose fra i papaveri
Poco importa se ora
resto muta
Allo specchio mi guardo
Grazia imbiancata
Senza ornamenti
Occhi che galoppano
ancora
Sono tortora
fronda di betulla
A loro – Menadi sciamanti
in gonne di rose
sorellamente legata
a quella stessa stregata
luna
che oscilla in secchi
insonni d’echi
«La parola poetica è una parola non ritrattabile, una parola d’onore. È una parola che nutre mescolandosi alla parte più vulnerabile di ciò che siamo (il sangue) ed è al tempo stesso la vita e la morte. Credo che tale parola nasca insieme a noi, fin dall’inizio, che si annidi in qualche parte oscura di noi e che a noi spetti il compito di tradurla, letteralmente: extra ducere, condurre fuori, permettere la sua vera nascita, l’ingresso nel tempo umano».
Queste parole indicano con chiarezza ciò che pensa Milo De Angelis (nato a Milano nel 1951) della sua attività di poeta, che nel 1976 lo vede esordire giovanissimo (ma già perfettamente padrone della lingua poetica) con la raccolta Somiglianze, sorta di canzoniere amoroso che scandaglia il disagio e l’inquietudine di un giovane uscito dal Sessantotto; tematica ripresa nel 1983 con Millimetri, raccolta di ventinove poesie dalla stupefatta sentenziosità.
A partire da Terra del viso (1985), e poi con Distante un padre (1989) e Biografia sommaria (1999), inizia ad avvertirsi una tendenza a distendere la misura dei testi, fino al vero e proprio poemetto, mentre permangono riferimenti all'adolescenza, che si affiancano alla celebrazione del gesto sportivo, tema che sarà d’ora in poi particolarmente caro al poeta.
Ma la raccolta più significativa giunge all’inizio del nuovo secolo: Tema dell'addio (2005), dedicato alla prematura scomparsa della moglie, dove il poeta è forzato ad affrontare i temi universali della malattia e della morte. Il distacco e l’addio, dopo un lungo cammino di comunanza, dopo la condivisione di gioie e dolori, inducono nel poeta memorie, emozioni, riflessioni, lo fanno indugiare fra illusioni di tregua e drammatica sensazione di impotenza, tra resistenza e devastazione.
Nel 2015 esce Incontri e agguati, dove ancora la presenza della morte invade l'io lirico in una lotta senza quartiere. Recentissima è infine Linea intera, linea spezzata (2021), raccolta con la quale De Angelis compie la sua descensio ad inferos, rievocando luoghi, amici, amori perduti.
I temi della poesia di De Angelis sono stati efficacemente sintetizzati in una nota critica di Daniele Piccini che così li identifica: «Il gesto atletico perfetto e fulminante, le presenze modeste e insieme oracolari, gli anni del liceo e le loro sconfinate promesse, i nomi legati ai luoghi coessenziali della poesia dell’autore (prima di tutto Milano ma anche il Monferrato)». A questo elenco si potrebbero aggiungere tematiche quali l’adolescenza, il ritorno e il destino; il rapporto tra l’io e l’altro, tra tempo e istante; e infine il tentativo di rappresentare la «dimensione del vuoto, del nulla, del niente», quella «sete d’infinito che la poesia conosce bene perché le appartiene fin dall’origine».
All’attività di poeta De Angelis ha da sempre affiancato quella di traduttore: dal francese di Racine, Baudelaire, Maeterlinck, Blanchot, Drieu La Rochelle, dal greco di Eschilo e dell'Antologia Palatina, dal latino di Virgilio, Claudiano e Lucrezio. A quest’ultimo in particolare ha dedicato “una lunga fedeltà” (come direbbe Contini), per una consonanza che nacque sui banchi del Liceo e lo ha accompagnato fino alla recentissima traduzione edita da Mondadori nell’aprile 2022. Per lui tradurre è entrare in sintonia, essere ospiti di un poeta e di un’epoca, e a vicenda ospitare nella propria epoca e nel proprio linguaggio quello che diventa un amico, un compagno di strada. «Tradurre significa questo, significa protrarre la finitezza di un incontro, farle oltrepassare le contingenze della sua giornata e aggiungere una tappa al suo cammino, trasportarlo nella nostra pagina e diventare il guardiano della soglia, vigilare che sia fruttuoso il passaggio da un’epoca all’altra. Ma perché avvenga questo passaggio, occorre ascoltare a fondo il respiro della scena tradotta, sentirne le pulsazioni, il battito cardiaco, il desiderio di prolungare la propria esistenza e pulsare in un luogo diverso dal suo, lanciarsi oltre la propria attualità, poter essere ascoltato da tutti e dovunque, da questa epoca e da quelle che verranno, in una sete d’infinito che la poesia conosce bene perché le appartiene fin dall’origine».
Ora che le canoe attraversano il fiume
movimenti
nel
sole festivo, mentre lo sguardo
si chiude sulle ragioni
dove
questa morte non è solo svanire
ma insieme, un poco,
esserci
alla periferia della gioia
che si apre, reca
l'offerta
leggera al brillare di una goccia
ed è escluso
il commento
quando le rive al mattino
portano la loro
forza
messaggera di un nome, in ascolto,
e traducono la volontà
del corpo, la carezza imminente
guardare vivendo qui
la
stagione intatta
che ha un tempo per durare
ma spinge più
in là
non fruga nelle macerie e chiede
una scrittura
inosservata.
La luce sulle tempie
Che strano sorriso
vive per esserci e non per avere ragione
in questa piazza
chi confida e chi consola di colpo tacciono
è giugno, in pieno sole, l’abbraccio nasce
non domani, subito
il pomeriggio, i riflessi
sui tavoli del ristorante non danno spiegazioni
vicino alle unghie rosse
coincidono con le frasi
questa è la carezza
che dimentica e dedica
mentre guarda dentro la tazzina le gocce
rimaste e pensa al tempo
e alla sua unica parola d’amore: «adesso».
Eppure era per la gioia.
Le luci tremano, nella vetrina,
e vorrebbero entrare in un significato.
Qui è impossibile
legare i minuti a qualcuno:
il tempo non si accorcia
con un progetto,
tutto ha la sua lunghezza.
Non coincide con ciò che pensa, non può.
Eppure era per la gioia
troppo viva per non crederci. Prendeva
con le mani amori e amori
che si convertivano in uno solo.
Appoggiata al vetro
una fronte gelida
(“farò della mia vita una porcheria”)
mentre una radio parla
lingue sconosciute
e nessuno dice il significato
che forse uscirà, a distanza, controvento.
La
coperta, la sua forza, mentre crescevamo.
O gli occhi
che ieri furono ciechi,
oggi tuoi, ieri l’inseparabile.
Le fiale,
il riso in bianco diventano l’unico
mondo
senza simbolo. Materia che
fu soltanto materia, nulla che
fu
soltanto materia. Vegliare, non vegliare, poesia,
cobalto,
padre, nulla, pioppi.
La
finestra è rimasta come prima. Il freddo
ripete
quell’essenza idiota di roccia
proprio mentre tremano le
lettere di ogni parola.
Con un mezzo sorriso indichi
una via
d’uscita, una scala qualunque.
Nemmeno adesso hai simboli
per chi muore.
Ti parlavo del mare, ma il mare è pochi
metri quadrati,
un trapano, appena fuori. Era anche, per
noi,
l’intuito di una figlia che respira
nei primi attimi
di una cosa. Carta per dire
brodo e riso, mesi per dire cuscino.
Gli azzurri mi chiamano
congelato in una stella fissa.
La
danza fiorisce, cancella il tempo e lo ricostruisce
come questo
sole invernale sui muri
dell’Arena illumina i gradoni,
risveglia insieme agli anni
gli dei di pietra arrugginita. «C’è
Donata De Giovanni?
Si allena ancora qui?» «Come no,
la Donatella,
la velocista, la sta semper de per lé.»
Mi
guardava fisso, con l’antica dolcezza milanese
che trema
lievemente, ma sorride. «Eccola, guardi,
nella rete del
martello…la prego…parli piano…
con una mano
disfa ciò che ha fatto l’altra mano.»
“chi
è costui? Un custode, un’ombra, un indovino…
quali
enigmi mi sussurra?” Si avvicinò
a Donata, raccolse
una scarpetta a quattro chiodi.
«La tenga lei, signore, si
graffia le gambe…
…povera Donata…è
così bella…lei l’ha vista…»
«Forse
il punto luminoso della pista
si è avvitato a un invisibile
spavento, forse
quest’inverno è entrato nella gola
insieme al cielo:
era sola, era il ventuno o il ventidue
gennaio
e ha deciso di ospitare tutto il gelo»
«O
forse, si dice, è successo quando ha perso
il posto
all’Oviesse, pare che piangesse
giorno e notte…per
non parlare di suo padre…
i dottori che ha chiamato…mezza
Milano»
«Io, signore, sbaglierò, le potrà
sembrare strano
ma dico a tutti di baciarla, anche se in
questo
quartiere è difficile, ci sono le carcasse
dell’amore
c’è di tutto dietro le portiere. Sì,
di baciarla
come un’orazione nel suo corpo, di baciare
le
ginocchia, la miracolosa forza delle ginocchia
quando sfolgora
agli ottanta metri, quasi al filo
e così all’improvviso
si avvera, come un frutto»
«Lo
dica già stasera, in cielo, in terra, dappertutto,
lo dica
alle persone di avvicinarsi: ne sentiranno
desiderio – è
così bella – e capiranno che la luce
non viene dai
fari o da una stella, ma dalla corsa
puntata al filo, viene da
lei, la Donatella».
La stessa voce asfaltata, la stessa
ferita dei secoli che qui non parlano
la stessa donna che respira
nei primi attimi di una cosa, una vita, una
voce ci addita, impronta digitale, impronta
divisa in grida, come un chilometro
nell’intervallo spalancato tra le tempie
come una primitiva
sostanza esterrefatta, chiedeva come
è accaduto amore mio, come
mai, come mai.
Vedremo domenica
Tutto era già in cammino. Da allora a qui.
Tutto
il tempo, luminoso, sfiorava le labbra. Tutti
i respiri
si riunivano nella collana. Le ombre
di Lambrate chiusero la
porta. Tutta la stanza,
assorta, diventò il primo battito.
Il nero
dei tuoi capelli contro il giallo dell’ultimo
raggio.
Da allora a qui. Era il primo giorno dell’estate.
Il
silenzio ci riempiva la fronte. Tutto era
già in cammino,
da allora, tutto era qui, unico
e perduto, nostro e remoto,
ardente. Tutto chiedeva
di essere atteso, di tornare nel suo vero
nome.
Scena Muta
Eri l’ultima
donna della vita, eri il
temporale
e la quiete, il luogo
dove la luce è
insanguinata
e il sangue fiorisce: pochi minuti,
pochi metri,
sempre lì,
nel cemento che parla, nella città
degli
amanti, nel silenzio
dei lavandini, il bacio
avvenne
e noi
non abbiamo
voluto più uscire.
Si muore così, all’ingresso
di una
scuola, un cerchio perfetto.
Hotel Artaud
Quando su un volto desiderato si scorge il segno
di
troppe stagioni e una vena troppo scura
si prolunga nella stanza,
quando le incisioni
della vita giungono in folla e il sangue
rallenta
dentro i polsi che abbiamo stretto fino all’alba,
allora
non è solo lì che la grande corrente
si ferma,
allora è notte, è notte su ogni volto
che abbiamo
amato.
Milano era asfalto
Milano era asfalto,
asfalto liquefatto. Nel deserto
di un giardino avvenne la carezza,
la penombra
addolcita che invase le foglie, ora senza
giudizio,
spazio assoluto di una lacrima. Un istante
in
equilibrio tra due nomi avanzò verso di noi,
si fece
luminoso, si posò respirando sul petto,
sulla grande
presenza sconosciuta. Morire fu quello
sbriciolarsi delle linee,
noi lì e il gesto ovunque,
noi dispersi nelle supreme
tensioni dell’estate,
noi tra le ossa e l’essenza
della terra.
Ho
saputo, amica mia,
che sei stata in un limite. Anch’io
negli
intervalli di una sola e grande morte
dormivo tra i casolari
dove
si raccolgono d’inverno
con la parola disunita e il
fitto
delle idee: entrava
un profumo di uva passa e la
neve
dell’incontro ha percepito
la mia notte nella tua.
Quando su un volto
Quando su un volto desiderato si
scorge il segno
di troppe stagioni e una vena troppo scura
si
prolunga nella stanza, quando le incisioni
della vita giungono in
folla e il sangue rallenta
dentro i polsi che abbiamo stretto fino
all’alba,
allora non è solo lì che la grande
corrente
si ferma, allora è notte, è notte su ogni
volto
che abbiamo amato.
Qui tutto diventa veloce,
troppo veloce,
la strada si allontana, ogni casa sembra una
freccia
che moltiplica porte e scale mobili e allora hai paura.
Senti i tuoi passi in migrazione,
vuoi rallentare, hai paura
e allora entri in questa sala di via Cadamosto,
saluti gli
ultimi giocatori di biliardo,
pronunci lentamente un commento
preciso sulle sponde
o sull’angolo di entrata, fai una
piccola scommessa
e sorridi e ti acquieta il panno verde
come
un prato dell’infanzia, ti acquietano i bordi
di legno che
ora contengono il tuo evento
e la forza centripeta conduce
l’universo
in un solo punto illuminato.
Dal balcone
Dal balcone dell’ultimo
piano ora guardi
la città notturna, l’infilata dei
grattacieli che sembrano
una barriera corallina e intorno i vecchi
palazzi
con i tetti impolverati, le chiese romaniche, le
colonne,
un concilio segreto di secoli che si parlano
sottovoce,
sussurrano al tempo di fermarsi e diventano
la
scorza staccata dal suo tronco, ciò che resta
dell’infinita
moltitudine in cui sei immerso anche tu,
e guardi lì sotto
il bar aperto, l’uomo con l’impermeabile
mentre
racconta una storia sempre uguale
alla ragazza vestita di rosso
che beve
dallo stesso bicchiere e sorride lievemente.
Per l’Adele
“Vedi, giungono da
un’altra mente,
le parole, una mente lontana che abitava
nel
miele delle arnie e tra i fili
del ragno sul soffitto. Arretrano
le nostre stagioni,
i passi diventano aria, sfumano gli
orizzonti
del viso, nulla ci appartiene se non questo
foglio
popolato di demoni.”
“Vedi, scrivo con
mani di rugiada e diventa sottile
il confine tra la gioia e il
grumo più buio, tra il rubino
della tua prima collana e il
mio miraggio
ogni pietra prende il colore del mattino.”
“Prendilo tu,
questo
fazzoletto che sa ancora di vaniglia, accendi
il rogo delle mille
estati trascorse, con il tuo gesto
musicale conduci il rosa
tenue
dei Castagnoni negli anni che sono rimasti
fuori dalla
morte.”
“Tu che hai sentito
scomparire il mondo
dentro un colpo senza origine, tu che sei
stata
un puro gemito tra le verbene, stamattina appari
in una
tazza di latte e la tua pupilla trucidata ricomincia a vedere, a poco
a poco,
raggiunge la dolce cantilena di un dialetto contadino
che
pronunciamo per l’ultima volta.”
Piscina Scarioni
Lo stile è sempre quello, da pura delfinista, la gambata
subacquea e potente, il corpo che disegna un movimento
ondulatorio, la respirazione frontale, la virata
sempre più perfetta a ogni allenamento, il minuto
da non superare.
E proprio lì, sui blocchi di partenza, la raggiunsi e le diedi
la notizia. Sorrise e mi disse soltanto “dovevi ritornare…
solo io… solo noi ti abbiamo atteso così profondamente”.
“Dovevo ritornare, lo so, ma non per te, mia invincibile amica,
e nemmeno per le vostre voci ritrovate... dovevo tornare
per un oscuro richiamo dei luoghi, per questo
rettangolo azzurro e per i suoi cinquanta metri
che innumerevoli corpi percorrono, per il tuffo
che illumina laggiù la piattaforma e il doppio avvitamento
sospeso nell’aria e nel brivido del tempo, per conoscere
ciò che mi aveva già conosciuto.”
La
serietà della morte ci ha accompagnato per tanti anni
con
le voci interiori che all’improvviso esplodevano
l’abbiamo
portata con noi nei supermercati e negli uffici postali
compilando
moduli con una mano fuori dal tempo, l’abbiamo
taciuta per
tanti anni tra i banchi di scuola e il campanello
dell’ultima
ora, l’abbiamo taciuta per tanti anni
mentre gridava nel
verde potente di un biliardo, l’abbiamo
sentita nella
stretta musicale di un abbraccio, la serietà
della morte,
ora ci attende con le sue mani oscure e un fermaglio
di legno nei
lunghi capelli e ora usciremo dal teatro
e cammineremo da soli nel
buio fino al luogo cruciale,
fino alla casupola vicino al fiume,
dove finiremo
attenti a non sporcare nulla di
sangue,
costringeremo il nulla a svelarsi.
Giovanna Sicari, tarantina (1954-2003), è stata la moglie di Milo de Angelis, ma ha avuto una sua precisa identità autonoma di poetessa e prosatrice fin dall’esordio nel lontano 1986 con la raccolta Decisioni, dove ha cercato di trasfigurare la realtà che osservava, di trasformare la disarmonia delle situazioni e delle parole in un vocabolario visionario, fortemente espressivo, quasi oracolare.
A partire dagli anni ottanta inizia a lavorare come insegnante nel penitenziario di Rebibbia, a Roma, mantenendo l’incarico fino al 1997, quando si ammala gravemente: ma anche di fronte alla malattia non si arrende, continua ad interrogarsi con coraggio e caparbietà sul senso della vita, del destino, della sofferenza umana. Dopo essersi sottoposta a interventi e cure prima a Roma, poi a Milano, dove nel frattempo si era trasferita col marito e il figlio, torna a Roma nell'estate del 2003, e muore nella notte tra il 30 e il 31 dicembre.
«Inventare altri nomi per le cose sembra l’unico atto di coraggio, l’unico grido possibile. Resistere è vedere un oggetto da ogni posizione e in ogni sua parte con lo strenuo rigore del monaco che continua a pregare mentre tutto intorno è assurda materia»: queste sue profetiche parole sono un’autopresentazione calzante, che identifica proprio la sua volontà di scrutare la realtà per coglierne tutte le sfumature possibili. La ricchezza di figure retoriche, di esclamazioni e interrogativi, l’incalzare delle strutture metriche e sintattiche ha contribuito a rendere la sua poesia capace di affondare nel cuore del dolore universale, combattuto con la sola fede nella parola disarmata.
Decisioni (1986), la prima raccolta, è un volume intenso e crudele, dove il verso lungo è usato per «scardinare» il linguaggio, per rifiutare le mode poetiche del tempo, votate all’intimismo e alla soggettività. La Sicari affronta invece tematiche latamente politiche, sulla scorta del suggerimento del grande poeta russo Osip Mandel’stam secondo il quale scopo «del poeta lirico è scambiare segnali con Marte». Ella cerca dunque di costruire una poesia che da un lato recuperi la liricità e la concretezza, dall’altro lato intenda comunicare con qualcuno che ha criteri di lettura del reale molto diversi da quelli di chi scrive.
Centrale nel suo percorso poetico è il volume Sigillo (1989), raccolta dedicata alla madre dove la liricità tende a prevalere sulla riflessione, la dizione è rallentata, il tono si fa riflessivo, il lessico si distende in forme metriche più discorsive e pregnanti.
Postuma esce infine la raccolta Poesie 1984-2003, a cura di Roberto Deidier (2006), che dà conto dell’intero percorso evolutivo della poesia sicariana, dove la musica è al tempo stesso violenza e dolcezza, fermissima lotta alla malattia e alla morte.
Impotente per imparare, per la maturità
del cielo incapace, per il rombo della
nave inerte, m’imbattevo solo nei fumi
di un gasdotto che bestemmiava l’accesso
ad un passaggio invalicabile.
La schiuma, gli amori mi aprono di nuovo
al sonno che m’ingoia, alla salda fessura dei salici.
Non ci sono più, non canta
e tu taci presenza invadente
ti prego più avanti,
senza misture e cataletti, dove rimane il profumo
dei lecci estranei alla foresta.
Tu vieni più presto ad impedirmi il riposo
di figlia evanescente, a cavalcare
mezzo raggio fra cosce di partorienti.
Calesse bianco, il tuo trillo di amore
insoluto
sembra di brina, capitolo di frecce verso il
cielo
capitale divertimento per cuori da clochard!
Ma che stavo
inventando per capire gli intrighi?
I signori della terra tendono
agguati, alzano per caso
le loro bandiere, è il caso di
diffondere
il mio pamphlet, gabbie di canne storte
molliche per
vertebrati, serre dalla luce irriflessa!
Oh il mio militare
silenzio, il mio pazzo distribuire
aureole che precedeva gli
eventi, clausole per dame
profumate, scappavano per un indizio,
come scippate
di un fiore a prova di bomba.
Hanno pagato i
banchetti, le cose hanno solo nomi
non frutti, essenza,
differenza. Banditore oscuro
è il caso dimesso, non le
messi, il seme, la terra.
Che azzurra veglia, che tiepida ossessione
il pendio ha la sua fine, il silenzio
fa cerchio al mormorio del solito eroe vacante
per avventura lo spazio traditore ci riscalda
mentre l’albergatore stordito affitta stanze
agli avventori. Andasse lui al galoppo
molleggiando bene la sua carne addosso
sussurrando l’immagine mia nella trama del pozzo
il deliquio sarebbe stato pieno, a riparo
l’albergo dagli indiscreti parlatori.
Appoggiata appena allo schienale
ero
là che invocavo tutti i santi
del paradiso, i divini, i
malcapitati
ammaliatori ostaggi dell’anno duemila.
Voce
d’aria, impero del coraggio
vi affranco da ogni
male
pescatemi ancora più giù nella
scarpata.
Avvolgevo la sorte e chiudevo
chiudevo per
folgorare
mescolando con me i canti dell’animale.
Frequente
rotta vedi qualcuno per domani?
Più che incerta sembrava la
guardia
gli altri finivano, erano curve
le loro vene, i
giardini
oh i giardini giravano dentro
sdoppiati, oltre ogni
misura scoppiavano.
Sognavo
che ero morta e camminavo
l’ignoto
scandiva impeti e campane
l’ignoto,
quando tutti seguono la legge
dà
la vertigine, una macchia il sole
all’improvviso,
ricordava tracce di ideali:
penitenti
bagnati sull’asfalto
accarezzano
aria.
Seguitemi
– dissi – ho mani divise
cerco
un insensato forte luogo
di
alghe e sesso
dove
lo scenario ha puri battiti sfrenati
coperte
nuziali ricamate di cielo.
Ortolana io scrivo per brama di
controversie
assembramento di tegole al liceo
tacchi a spillo,
mi davo un contegno.
Costretti a scappare, come se io fossi
una
maga, paura di tristi compromessi.
Documentari sfatammo tra le
foglie della
pestilenza. Dietro un’apparenza intrattabile
la
mia storia cadeva da una arte
come un filo grosso d’erba.
Troppo
cresceva, e le adunate
si mischiavano al delitto della terra.
Come
un groviglio ingoiavo, confondevo.
Mi appariva normale spiare la
musica
e i ponti, le camicie appese ai quadri.
Solo per un
attimo, fra le oche presenze
la sua, confusa nel respiro.
Mattino aperto è questo che si
vive come in guerra.
Per quanto si udisse dovevo starmene
nel
piede imbastito, dal correre per puro caso.
Nel racconto di
querce, un bacio, montagna di acqua-lucida,
luci da montagna,
frutto-granito di bambino quieto,
uomo leggero nella gabbia del
senso.
Dovevo starmene senza giudicare
un vano lago, corollario
di fango avvampavo la terra.
Lodarti, festeggiare un mistero,
una
preferenza infantile di roccia,
dispersa la traggo, io nuda senza
ritorno
in cerca di lava sotto il vulcano, fra le sue
mappe,
cosmico luogo per camminare ai bordi, in verticale.
Se
non fosse stato olio o resina o grazioso veliero,
non sarebbe
stato questo svegliarmi
alterno a leggende, meandri, paesi.
Da stasera posso sentirla
in un
arpeggio di parole
che non mi disconosce
e raccolgo le frange
di una storia
spezzata, curvata, stonata.
Anch’io di
marzo sono caduto
in un deserto di parole
senza limiti e
interferenze
mi chiedevo dove scorgere
le ombre malsane della
guerra
l’incapacità a decifrare gli ossi
ad
inseguir le tracce
ripercorrere le orme
di un ritorno estraneo
alla terra.
Spingo i passi fin dentro la bufera
e mi respinge
il fato:
non ho dove poggiare il piede
e mi spaventa la
desolazione.
ricomporrò i miei sogni accattivanti
per
intensificarne la memoria
che m’attraversa e non mi fa
domande.
Persino improtetta, facendo ricorso
Persino improtetta, facendo
ricorso
alla massa di luce del cielo, qualcosa
si accendeva
ribelle alla fine del male.
Si scartava il tempo di una
giornata
piovosa, il resto pioveva magnifico
fra le piante e il
ponte. Questo
costituiva il tempo, l’unità del tempo.
Vorrei baciarti il sangue
amore mio, e ancora fare andare
le dita nel vento, accarezzarti i capelli, la fronte
sentirti dentro l’aria
dentro il ventre, sentire
come è leggero il vento
e come apre le vie
e come tutto sembra possibile
sapere quanto possa
l’amore con la saliva e il silenzio
curare dalla fonte.
Ogni brindisi commuove, ogni anima tradisce
ogni viaggiatore rompe l’argine per sempre
e i fuochi alle finestre attendono
ciechi l’aprile.
Fosse rabbia fosse caldo questo continuo
sentirsi rapinati: ladro alle spalle
magazzino superfluo
e noi così superbo aspettando
l’ora di una comparsa
avremmo da dire
da fare, nelle mani
fretta, desiderio
fosse questo giorno chiaro di gennaio
il perno degli anni che non danno pace.
Solo una scia d’amore vorrei cantare
quando non sono né donna
né carne, né volo, né acqua
quando non sono quella
e il nulla pietrifica in una condizione
d’inferno: sconforto di tutti i giorni
dove tutto e niente sono
la cosa cieca della cosa viva.
Giuseppe Antonio Borgese, giornalista, critico e romanziere
Borgese fu scrittore di notevole spessore intellettuale in tutti i campi in cui si cimentò: giornalista, critico letterario, docente universitario, poeta e narratore, egli ebbe soprattutto un ruolo fondamentale nella rinascita del romanzo nei primi anni venti (dopo la stagione delle avanguardie), contribuendovi sia con scritti teorici che con opere d'inventiva.
Nato a Polizzi Generosa, in provincia di Palermo, nel 1882, a diciott’anni si trasferì a Firenze, dove compì gli studi universitari, seguendo i corsi di Pio Rajna, Pasquale Villari e Guido Mazzoni. Dopo l'esperienza di collaborazione alla rivista "Leonardo" (influenzata dal pensiero di Nietzsche e dall’estetismo dannunziano), nel 1904 fondò una propria rivista a carattere nazionalista, "Hermes", che proseguì le pubblicazioni fino al 1906. Come giornalista esordì sul "Mattino” di Napoli per continuare sulla "Stampa” di Torino, e nel 1910 approdò al “Corriere della Sera", dove pubblicò fino alla morte, sopraggiunta nel 1952. Fu inoltre docente di letteratura tedesca all'Università di Roma, e poi di Milano: ma quando, a causa del suo aperto antifascismo, non volle prestare il giuramento che le norme del regime imponevano ai docenti, dovette riparare esule in California e quindi a Chicago, dove riprese l'insegnamento universitario; rientrato in Italia nel 1946, ottenne la cattedra di estetica all'Università di Milano.
Crociano agli esordi, ben presto egli volle differenziarsi dal maestro, con il quale si mise anche in polemica, elaborando una propria teoria estetica basata sull'attenzione agli aspetti ideologici e al “movimento spirituale" dell’opera, che ebbe grande influenza sul gusto letterario primonovecentesco. Nello stesso modo egli superò anche la giovanile infatuazione per D'Annunzio, che definirà in seguito il rappresentante del "romanticismo giunto alla sua ultima crisi".
La sua attività di critico confluì nei primi anni dieci nelle raccolte La vita e il libro (1910, 1911, 1913): ma il principale merito di questa fase di produzione resta quello di aver guardato con attenzione alla poesia di Moretti, Martini e Chiaves, poeti per i quali coniò l’etichetta di “poeti crepuscolari”, tuttora in uso.
Fondamentale infine fu la pubblicazione del volume Tempo di edificare (1923), nel quale, rifacendosi al grande modello verghiano e all’esperienza contemporanea di Tozzi, rilevava la necessità di superare il frammentismo vociano e i preziosismi rondeschi (movimenti entrambi anti-narrativi e anti-romanzeschi), per tornare a "costruire” il romanzo in una misura compatta e autonoma. Proprio il caso di Tozzi, che Borgese vedeva come erede e continuatore del Verga, poteva servire come eccellente esempio del lavoro da farsi.
Alla ripresa della narrativa Borgese inoltre contribuì direttamente con il romanzo Rubè (1921) che ebbe una vasta risonanza negli anni trenta. L'opera narra le vicende di Filippo Rubè, intellettuale piccolo-borghese dal carattere velleitario, psicologicamente fragile, carico di contraddizioni, che durante la grande guerra assurge senza volerlo al ruolo di eroe. Sposatosi senza convinzione (anche con lo scopo di avvantaggiarsi nella carriera legale), Rubè diviene in seguito l'amante di una bella dama parigina: avendone causato involontariamente la morte, pur prosciolto da qualsiasi accusa, precipita nella coscienza della propria indifferenza e passività, e finisce ucciso per caso durante una manifestazione di anarchici cui non intendeva neppure partecipare.
Romanzo di una crisi ideologica, storica e intellettuale, di taglio sottilmente analitico e introspettivo, Rubè è l'acuta e consapevole rappresentazione, oltreché dei conflitti insanabili del protagonista, anche del disagio di tanti intellettuali borghesi dell'epoca e dell'incipiente e disordinata nascita del fascismo: in ciò riflette l'organica volontà dell'autore di usare la struttura romanzo per esprimere sia i fatti sia lo "spirito" del tempo. L'opera, che meriterebbe una rivalutazione critica, costituisce nel complesso un importante anello di congiunzione tra la produzione pirandelliana, sveviana e tozziana da un lato, e quella di Moravia e dei nuovi romanzieri degli anni trenta dall'altro, e resta una testimonianza fondamentale di un deciso mutamento di rotta nella nostra letteratura.
Borgese proseguì la sua opera di narratore con una decina di romanzi e raccolte di novelle, da I vivi e i morti (1923) a La Siracusana (1950), senza però più raggiungere risultati artistici pari. Minore resta anche la sua produzione poetica e drammaturgica, così come i libri di viaggio; mentre carica di interesse è la riflessione, scritta in inglese, sul fascismo: Goliath, the March of Fascism (Golia, la marcia del fascismo, 1937). Significative sono anche le traduzioni, in particolare quella del Werther goethiano e quella della Storia meravigliosa di Peter Schlemihl di Adalbert von Chamisso (1781-1838), esponente di spicco del secondo romanticismo tedesco.
Rubè, cap. I La vita di Filippo Rubè prima dei trent’anni non era stata apparentemente diversa da quella di tanti giovani provinciali che calano a Roma con una laurea in legge, un baule di legno e alcune lettere di presentazione a deputati e uomini d’affari. Veramente egli aveva portato qualcos’altro del suo, segnatamente una logica da spaccare il capello in quattro, un fuoco oratorio che consumava l’argomentazione avversaria fino all’osso e una certa fiducia d’essere capace di grandi cose, postagli in cuore dal padre; il quale era segretario comunale a Calinni, e, conoscendo bene l’Eneide in latino e la vita di Napoleone in francese, giudicava che tutti, a cominciare da se medesimo, fossero intrusi in questo mondo fuorché i geni e gli eroi. Ma l’essersi messo nello studio dell’onorevole Taramanna gli aveva più nociuto che giovato, tanta era l’oppressione di quell’uomo massiccio tutto scuro che lo soverchiava dalla spalla e gli toglieva il sole. Sebbene la sua eloquenza fosse più fine e la sua preparazione più esatta, si sentiva schiacciato da quell’uomo privo di grammatica e di scienza che traversava gli ostacoli, senza neanche guardarli, col passo di un elefante nella boscaglia e, quando il suo discepolo perorava in Tribunale come un Mirabeau, fabbricava barchette di carta con una negligenza spontanea non ispirata da invidia. Talvolta, la sera, Filippo gli esponeva accalorandosi la sua idea per vincere una lite o per decidere una lotta politica; ma Taramanna, che aveva fretta di giocare a poker, lo ascoltava restandosene in piedi e, lasciatolo arrivare al più bello, gli piantava la mano sulla spalla e con una risata di negro che non «Magnifico! Ma la vita non è fatta così». Come fosse fatta, e che cosa fosse propriamente la vita, Filippo si domandava la mattina dopo passando davanti allo specchio, con gli occhi che nella solitudine aveva un po’ cavi e allucinati, ma poi volontariamente ammansiva per apparire normale ai clienti e ai colleghi. La vita non era certo la professione; di cui gli restava nel cervello, dopo il sonno popolato d’immagini stracche, né più né meno di ciò che resta dentro la campana quando ha cessato di battere. Durante il giorno ci si riappassionava e spesso viveva qualche ora brillante; ma a tarda sera, mettendo la chiave nella serratura della camera mobiliata, lo poteva cogliere un subitaneo ribrezzo come se stesse per vedere l’anima sua simile a un anfiteatro dopo la rappresentazione del circo equestre: un infinito sbadiglio con cicche di sigarette e bucce di arance.
Altre volte la vita di cui avrebbe voluto rendersi ragione gli pesava come un involto che qualcuno gli avesse affidato senza dirgliene il contenuto né più ripassasse a ritirarlo; lo affliggeva come una lettera che ingiallisse reclamando risposta. Ma di rispondere non aveva tempo. Prima di guardare a comodo il panorama e di riconoscere i luoghi doveva finire quel pezzo di erta salita senz’ombra che si chiamava la conquista del pane e del companatico non meno indispensabile del pane. Il padre continuava a mandargli puntualmente due fogli da cento ogni mese perforandoli con uno spago di cui fissava i capi con dei bolli di ceralacca sulla busta dell’assicurata, così austeramente meticolosa che pareva un ammonimento e Filippo non la apriva finché non ne avesse bisogno. Ma stentava, malgrado tanti elogi dei magistrati e dei conoscenti, a triplicare quella somma, e se aveva il vestito nuovo il cappello era un po’ unto, e quando la cravatta era fresca le scarpe di coppale erano un po’ sgraffiate, sicché conveniva non accavallare comodamente le gambe stando a conversare la sera sui canapè fiorati di casa Taramanna per timore che il lucernario liberty ne illustrasse in pieno ogni ruga e magagna. Anche gli dispiaceva dopo mezzanotte, svoltando la cantonata della sua strada, la luce del pubblico fanale allumacata sui vetri chiusi della camera deserta, e avrebbe preferito vederne respirare il riflesso d’un paralume verde presso cui vegliasse aspettandolo una giovane moglie. Non c’era che da scegliere tra le cinque figlie di Taramanna; ma quando ridevano tutte in una volta, quasi distribuendosi le parti di un cànone, o quando sciamavano per le vie tutte vestite della stessa mussola di seta a ghirlande, pareva impossibile sposarne una sola senza accollarsi tutto il casato.
Insomma, dell’adolescenza si ricordava come d’un rombo di acque fra i monti, e ora gli pareva che quell’acque si fossero adagiate in un largo lago paludoso riflettendo presso le rive indistinte pallidi canneti. Spesso, soprattutto al rincasare, un oscuro rimescolío interno, ch’egli non voleva riferire al travaglio dello stomaco malaticcio, lo avvertiva che così non sarebbe durata e che prima o poi l’acque si sarebbero raccolte fra rive più strette e precise e il corso della sua vita avrebbe riacquistato una direzione ed un suono. Ma s’immaginava una passione d’amore o una fortunata campagna elettorale ora che aveva gli anni per presentarsi a Calinni, e restò sorpreso dei due fatti tanto inattesi e diversi che gli accaddero proprio sul fare dei trent’anni. Il primo fatto fu che morì quasi d’improvviso il padre, lasciando la vedova e due figlie che restavano zitelle (come pareva destino di casa Rubè) in condizioni di fortuna troppo meschine perché paresse ingiusto il privilegio con cui il morente faceva le tre donne usufruttuarie di tutto il suo, riservando a Filippo, oltre la nuda legittima, un orologio d’oro a chiavetta. La busta assicurata non arrivò il primo luglio e tardò dieci giorni, ma venne quella volta più gonfia, con sette biglietti da cento e uno da cinquanta e con quattro fogli di lettera della sorella Sofia, che narrava minuziosamente gli ultimi giorni del padre e descriveva piano piano la vita delle tre superstiti, la quale era molto scura pel dolore recente e pel disagio economico e per le dure faccende agricole e amministrative che gravavano sulle spalle della mamma. Una visita del fratello le avrebbe consolate, ma capivano che non aveva tempo e che le spese sarebbero state troppo forti. In un poscritto chiedeva notizie di quella mezza rivoluzione che c’era stata a Roma e in Romagna nel giugno. A Calinni era tutto quieto. Poi su un margine del foglietto aggiungeva sbadatamente per il lungo, come ricordandosene all’ultimo tuffo, che le settecentocinquanta lire gliele mandava la mamma, poveretta, per il lutto, e le rincresceva di non poter fare di più. Filippo credette di capire, e messo il gruzzolo alla Cassa postale di risparmio, quasi che di portare quella piccolezza a una banca si vergognasse, scrisse una letterina di due facciate in cui, con studiata concisione, pregava la madre di non scomodarsi più e rinunziava, finché non ne avesse bisogno per una sua propria famiglia di là da venire, anche al frutto della legittima.
Giovanni Testori, tra sperimentazione ed espressionismo
Giovanni Testori (1923-1993) fu attivo in molteplici campi: narratore, poeta, giornalista, critico d'arte e letterario, drammaturgo, sceneggiatore, regista teatrale e perfino pittore, egli seppe lasciare un segno in ognuna delle attività cui scelse di dedicarsi. L’esordio avvenne precocemente con opere teatrali minori, ma già nel 1954 il primo romanzo, Il dio di Roserio, dedicato al mondo delle corse ciclistiche, ottenne un notevole successo di pubblico e di critica, soprattutto perché fu pubblicato nella prestigiosa collana einaudiana dei “Gettoni” a cura di Elio Vittorini. Lontano dall’espressionismo che ne connoterà le opere mature, Testori utilizza qui uno stile asciutto, in certo modo vicino al neorealismo, ricco di lombardismi e con un costante ricorso al discorso indiretto libero; anche se si avverte tra le righe l’influsso dell’esuberante prosa gaddiana e degli scapigliati lombardi.
Anche nelle opere successive Testori restò fedele all’ambientazione lombarda, in particolare della periferia milanese, dove si muovono personaggi fragili e sconfitti, goffi e grossolani. Si possono ricordare in particolare le raccolte di racconti Il ponte della Ghisolfa (1958) e La Gilda del Mac Mahon (1959), i testi teatrali La Maria Brasca e L’Arialda (entrambi del 1960) e i due romanzi Il fabbricone (1961) e Nebbia al Giambellino (1995, postumo), che costituiscono un vero e proprio ciclo unitario, una “commedia umana” dal titolo I segreti di Milano.
I personaggi che Testori descrive sono spesso oppressi da oscure colpe, ma sempre alla ricerca di un riscatto dalla vita mediocre e insulsa che si trovano a vivere: questo vale in particolare per le donne, “offese eppure capaci d’infinito amore”, pateticamente sconfitte e deluse, oppresse e costrette all’infamia, ma costantemente aperte a un moto di rivincita o di ribellione.
È il caso dei due fratelli protagonisti della Gilda del Mac Mahon: Luisa, giovane vedova di un contrabbandiere, che si prostituisce per sbarcare il lunario, e Romeo, mantenuto di un misterioso ricco personaggio, che frequenta una società costituita da un’anonima folla di uomini vilipesi e oltraggiati, di donne inquiete o perverse.
Il compito che Testori si è assunto nella sua opera è quello di scrutare il segreto inconfessabile dei suoi personaggi più abietti, sempre schiacciati dal peso oscuro della colpa (delitto, tradimento, omosessualità, prostituzione, inganno), per presentarli con crudo realismo, senza falsi moralismi o reticenze, anche a costo di dar voce ai toni violenti e spietati del loro linguaggio, come quello di Romeo nei confronti della sorella: Tu, qui, […] la troia non la fai […] quando le gite al confine puzzavano […] Siediti, ho detto, o scema! […] Chiudi quella bocca o ti strozzo! […] lasciala far anche la troia). Ma si avverte comunque, al di là del linguaggio sguaiato e collerico, una vena di religiosa pietas, non indenne né da populismo né da decadentismo, verso la gente delle periferie urbane, quel sottoproletariato che anche Pasolini ritraeva in quegli stessi anni.
Si propone qui un breve brano tratto da La Gilda del Mac Mahon, ovvero il dialogo aspro e vendicativo tra i due fratelli: Luisa, che ha appena perso il marito, ucciso mentre fuggiva dalle forze dell’ordine, e Romeo, che si guadagna da vivere prostituendosi presso un ricco omosessuale.
Fu proprio in quel momento che il fratello, rimasto fin lì ad aspettar quieto in cucina, s’avvicinò alla porta, abbassò la maniglia ed aprì:
“Allora?” fece dopo un po’, vedendo che la Luisa, seduta sul letto, continuava a voltargli le spalle, fingendo di niente.
“Allora, cosa?”
“Ti decidi o no?”
“A fare?”
“Come a fare? A venir da noi. Non vorrai star qui anche stasera…”
“E perché?” rispose la Luisa, voltando la faccia verso di lui? “Hai forse paura che tornino qui un’altra volta? Non torneranno più; ormai han sistemato tutto; me l’ha detto il Raffaele. E anche se tornassero, credi che da sola non saprei difendermi? E poi cosa voglion trovare? L’han ben vista la miseria in cui mi ha lasciato…”
“Ho detto che stasera qui, a dormir sola, tu non ci stai…” Il Romeo lasciò una breve pausa, poi aggiunse: “Non vorrai far sempre di testa tua! Hai ben sentito cosa t’han detto dietro oggi con la tua mania d’andar al funerale come se andassi a una festa… Che sei una puttana, han detto!” Un’altra pausa, poi: “E tu continua, continua a far quello che vuoi! ...”
Perché, ho forse mai chiesto io a te cosa fai e dove vai a guadagnarteli, i tuoi soldi?”
Un altro, breve silenzio in cui fratello e sorella si guardaron con rabbia quasi per comandarsi l’un l’altra il rispetto più duro pei loro segreti; quindi il Romeo fece:
“Lo dico per te… Per me, figurati! ... Ma se vieni da noi puoi sentir dalla mamma qualcosa sul papà…”
Ecco: l’intruso che in quel momento lei non avrebbe certo voluto che le venisse proposto all’attenzione le era scivolato lì, davanti, coi suoi dolori da bestia e coi suoi giorni contati.
Perché c’era anche quello; come se la disgrazia, la perquisizione, l’interrogatorio e il funerale non fossero bastati…