Poesie di Ada Negri
Il prossimo 3 febbraio cadranno i 150 anni dalla nascita di Ada Negri, scrittrice lodigiana divenuta famosissima con la prima raccolta poetica e rimasta sulla cresta dell’onda fino alla morte. Da allora pregiudizi ideologici e malintesi critici l’hanno fatta cadere nell’oblio, ma pare giunto infine il momento di riconoscerne il reale valore.
L’esordio trionfale avviene con Fatalità (1892), una raccolta ancora acerba, che però propone un io poetante caparbio e determinato, che con giovanile vitalismo oppone la positività del proletariato al cinismo dei «borghesi astuti» e si ribella con vigore allo stereotipo che prevedeva allora per il genere femminile solo un ruolo subalterno e marginale. La subitanea fama della Negri deve molto al suo pensiero sociale, che scaturisce non solo dalle teorizzazioni in voga a fine secolo, ma soprattutto dalla sua esperienza personale, dai racconti della madre, operaia al lanificio, e della nonna, portinaia in una casa nobiliare di Lodi.
L’autobiografismo d’altronde è una costante che riaffiora carsicamente in questa come nella successive raccolte poetiche, da Tempeste (1895) a Maternità (1904), dal Libro di Mara (1919) ai Canti dell'isola (1924), fino a Vespertina (1930), Il dono (1936) e Fons amoris (1946), che viene a ricapitolare l’intero percorso poetico. Costante è l’espressione dell’affetto per gli amati paesaggi lombardi e il ricordo malinconico della gioventù lodigiana, cui si affianca un’amara riflessione “politica” su giustizia e ingiustizia, che trova infine risposta nella dimensione religiosa dell’esistenza, quando l’anelito di rivolta si riscatta e da convinzione ideologica si trasforma in consapevolezza teologica, portando Ada Negri a scoprire l’illusorietà del credo socialista vagheggiato in gioventù.
Io non ho nome. Io son la rozza figlia
dell’umida stamberga;
plebe triste e dannata è mia famiglia,
ma un’indomita fiamma in me s’alberga.
Seguono i passi miei maligno un nano
e un angelo pregante.
Galoppa il mio pensier per monte e piano,
come Mazeppa sul caval fumante.
Un enigma son io d’odio e d’amore,
di forza e di dolcezza;
m’attira de l’abisso il tenebrore,
mi commovo d’un bimbo alla carezza.
Quando per l’uscio de la mia soffitta
entra sfortuna, rido;
rido se combattuta o derelitta,
senza conforti e senza gioie, rido.
Ma sui vecchi tremanti e affaticati,
sui senza pane, piango;
piango su i bimbi gracili e scarnati,
su mille ignote sofferenze piango.
E quando il pianto dal mio cor trabocca,
nel canto ardito e strano
che mi freme nel petto e sulla bocca,
tutta l’anima getto a brano a brano.
Chi l’ascolta non curo; e se codardo
livor mi sferza o punge,
provocando il destin passo e non guardo,
e il venefico stral non mi raggiunge.
O grasso mondo di borghesi astuti
di calcoli nudrito e di polpette,
mondo di milionari ben pasciuti
e di bimbe civette;
o mondo di clorotiche donnine
che vanno a messa per guardar l’amante,
o mondo d’adulterî e di rapine
e di speranze infrante;
e sei tu dunque, tu, mondo bugiardo,
che vuoi celarmi il sol de gl’ideali,
e sei tu dunque, tu, pigmeo codardo.
che vuoi tarparmi l’ali?...
Tu strisci, io volo; tu sbadigli, io canto:
tu menti e pungi e mordi, io ti disprezzo:
dell’estro arride a me l’aurato incanto,
tu t’affondi nel lezzo.
O grasso mondo d’oche e di serpenti,
mondo vigliacco, che tu sia dannato!
fiso lo sguardo ne gli astri fulgenti,
io movo incontro al fato;
sitibonda di luce, inerme e sola,
movo. E più tu ristai, scettico e gretto,
più d’amor la fatidica parola
mi prorompe dal petto!...
Va, grasso mondo, va per l’aer perso
di prostitute e di denari in traccia:
io, con la frusta del bollente verso,
ti sferzo in su la faccia.
Ho quell’ore ne l’anima inchiodate:
la via deserta, sotto un ciel di piombo:
ad un tratto, da lungi, un sordo rombo
di folla, e un grandinar di fucilate.
Porte e finestre in un balen serrate
lugubremente - poi silenzio. Il rombo
già s’avvicina, sotto il ciel di piombo:
colpi, fischi di palle, urli, sassate.
Fin ch’io vivrò mi resterà ne l’ossa
quell’angoscia, quel soffio d’agonia
su gente inerme del suo sangue rossa;
e vedrò quel fanciul, senza soccorso
morente un bimbo!... in mezzo de la via,
china e intenta su lui come un rimorso.
Ponte di Lodi, i tuoi plumbei pilastri
abbracciati dall’impeto del fiume
rivedo, e i freschi spruzzi delle schiume
candide a fior dei vortici verdastri.
Come una volta ancor vorrei poggiarmi
alle tue sbarre, e riaver quel vento
in faccia; e mirar nuvole d’argento
specchiate in acqua, e d’esse sazïarmi.
Ma esser quella d’allora, con quel volto
e quell’anima, scarna adolescente
livida di superbia, impazïente
di vivere, con sensi aspri in ascolto:
e tutto innanzi a me: lo spumeggiante
fiume e la vita!... Ma su via trascorsa
non si ritorna. Il tempo spinge, in corsa:
altri fiumi, altri ponti, altri miraggi.
E vado e vado. Finché, un giorno. Addio
dirà l’anima al corpo. E sarà il fiume
natal, che, in sogno, sotto il ponte, a lume
d’astri, mi condurrà verso l’oblio.
Fluttuo con te, nel tuo sordo tumulto
perduta; e tu mi porti e tu mi spingi
e mi rigetti, e d’ignorarmi fingi,
ma ben m’abbranca il tuo potere occulto.
Sai di sudore umano, e di sporcizia
mascherata d’aromi, e del sentore
d’ogni travaglio: ogni odio ed ogni amore
per oscuro fermento in te s’inizia.
Mi piaci per l’enorme onda vitale
che tutta mi ravvoltola, muggente
e rischiumante, carne e cuore e mente
impregnando del tuo libero sale.
Ogni volto che a lampi appare e spare
forse è il mio: ché mio corpo non è questo
solo ch’io sento e curo e movo e vesto:
chi vi noma e vi scinde, onde del mare?...
D’essere innumerevole è mia gloria
e mia superbia; e multiforme, come
te, folla; e in preda a tutti i venti, come
te, che a folate scardini la storia;
e, se fremito passi di sommossa,
ingigantir con te, con te disvellere
i sassi e i cuori, ed oscurar le stelle
col divampar della mia furia rossa.
Quando il canto del gallo segò il cielo, ed ella ancor nel sonno a te sorrise, o amato.
L’uno dall’altro nasceste allora, in purità di corpo, in purità di spirito.
O voi beati, non espressi da grembo di madre, ma dalla meraviglia del vostro amore!
E vi levaste con atti limpidi, ed il primo mattino del mondo con voi si levò.
E nuovi furono agli occhi vostri i rosei cirri del cielo specchiati nei fiori dei peschi,
nuova l’erba intrisa di guazza, fresca alle mani come un lavacro,
divina in voi la dolcezza di scoprirvi un nell’altro presenti e viventi,
con anima per amare,
labbra per baciare,
voce per benedire.
Quando sarò sepolta nel paese di mia madre,
là dove la bruma confonde i fertili solchi terrestri coi solchi del cielo,
le rane ed i rospi dei fossi mi canteranno la nenia notturna.
Dagli acquitrini melmosi, filtrando fra il bianco umidor della luna,
in soavi cadenze di flauti, in tremolii lunghi di pianto sciogliendomi il cuore,
blandiranno il mio sogno, custodi della perenne malinconia.
Malinconia della patria, con sapore di terra bagnata e di grano maturo,
con quieto pudore di case ove accendon le madri pei figli la lampada al desco,
con fumo di tetti, ansare di fabbriche, radici dei vivi e dei morti,
a me verrà, con me dormirà, portata da canti di rane e di rospi,
quando sarò sepolta nel paese di mia madre.
Amo la libertà de’ tuoi romiti vicoli e delle tue piazze deserte, rossa Pavia, città della mia pace. Le fontanelle cantano ai crocicchi con chioccolio sommesso: alte le torri sbarran gli sfondi, e, se pesante ho il cuore, me l’avventano su verso le nubi. Guizzan, svelti, i tuoi vicoli, e s’intrecciano a labirinto; ed ai muretti pendono glicini e madreselve; e vi s’affacciano alberi di gran fronda, dai giardini nascosti. Viene da quel verde un fresco pispigliare d’uccelli, una fragranza di fiori e frutti, un senso di rifugio inviolato, ove la vita ignara sia di pianto e di morte. Assai più belli, i bei giardini, se nascosti: tutto mi pare più bello, se lo vedo in sogno. E a me basta passar lungo i muretti caldi di sole; e perdermi ne’ tuoi vicoli che serpeggian come bisce fra verzure d’occulti orti da fiaba, rossa Pavia, città della mia pace.
Padre, se mai questa preghiera giunga
al tuo silenzio, accoglila, ché tutta
la mia vita perduta in essa piange:
e s’io degna non son, per la grandezza
del ben che invoco fammi degna, Padre.
Quando morta sarò, non darmi pace
né riposo giammai ne le stellate
lontananze dei cieli. Sulla terra
resti l'anima mia. Resti fra gli uomini
curvi alla zolla, grevi di peccato: con essi vegli, in essi operi, ad essi
della tua grazia sia tramite e luce. Lascia ch'io compia dopo morta il bene
che nella vita compiere m'illusi, o me povera povera! e non seppi. Mi valga presso Te questo rimorso
ch'io ti confesso, e il mio soffrire, e il vano
fuoco di carità che mi distrugge. Giorno verrà, dal pianto dei millenni,
che amor vinca sull'odio, amor sol regni
nelle case degli uomini. Non può
non fiorire quell'alba: in ogni goccia
del sangue ond'è la terra intrisa e lorda
sta la virtù che la prepara, all'ombra
dolente del travaglio d'ogni stirpe.
Il dì che sorga, fa’ ch'io sia la fiamma
fraterna accesa in tutti i cuori; e i giorni
la ricevan dai giorni; e in essa io viva
sin che la vita sia vivente, o Padre.
Ottant’anni fa moriva a Milano, dove era nato nel 1886, Delio Tessa, il più grande poeta in dialetto che la città abbia avuto dopo Carlo Porta. Fu avvocato, ma esercitò pochissimo, dedicandosi piuttosto alla letteratura e al cinema. All'avvento del fascismo non nascose la sua radicale opposizione, il che gli rese ancor più difficile il lavoro e lo spinse ad appartarsi ulteriormente in un'esistenza schiva e senza eventi di rilievo. Morì di setticemia il 21 settembre 1939. Arguto e sensibile prosatore, nonché critico cinematografico, fin dal 1909 scrisse versi in milanese, ma in vita pubblicò (e solo per insistenza degli amici) un'unica raccolta, L'è el dì di Mort, alegher! (È il giorno dei morti: allegri! 1932). Postume apparvero invece nel 1947 le Poesie nuove ed ultime.
Partito dall'ambito del realismo scapigliato e del bozzettismo ottocentesco, ben presto Tessa si affrancò dall'angustia provinciale in cui era caduta la poesia dialettale di fine Ottocento, recuperando direttamente l'esperienza di Porta, del cui grande magistero risente indubbiamente il suo dialetto, che però non rifiuta di mescidarsi e modernizzarsi costantemente. Così entrano nel suo vocabolario le espressioni quotidiane del "popolo che parla”, riconosciuto come unico e indiscusso "maestro" di lingua: e accanto alle voci della vita delle classi più umili hanno cittadinanza perfino le voci gergali del mondo della malavita e dei bordelli, con la loro parlata colorita e fosca. Inoltre l’inserzione accanto al dialetto di lingue nobili (latino, inglese, francese, tedesco), di ritagli di voci popolari ascoltate per strada, la preferenza per il verso libero tendono a produrre nella sua poesia una musica interna tutt'altro che banale, cui egli dava il giusto vigore nelle sue sapienti letture pubbliche presso gli amici più cari, in ristrette serate milanesi. Stilisticamente prevalgono in lui una forte violenza linguistica e un espressionismo marcato, che trasformano le note di cronaca in fantasie allucinate, mentre l’uso frequente di un registro macabro e grottesco, e la struttura articolatissima e dinamica dei testi, evidente soprattutto nei poemetti narrativi, ne fa vere "narrazioni" a più voci e a più piani intrecciati.
I personaggi che popolano la Milano tessiana sono spesso emarginati e reietti: prostitute, tenutarie di case chiuse, ospiti del manicomio, vecchie agonizzanti, professionisti incartapecoriti. Costituiscono un mondo fosco, rintracciato da Tessa nel cuore della vecchia Milano e descritto con estrema precisione anche topografica. Ne scaturisce il ritratto di un universo dissonante, deformato, tragico, in cui l'uomo appare completamente solo, sradicato da società e natura, e sembra sopravvivere solo in attesa della morte liberatrice. Ma Tessa sa anche accogliere questa moltitudine disperata nel suo affetto privo di giudizio e di pregiudizi, dando della Milano d’allora un affresco amaramente comico ed estremamente variegato.
La pobbia de cà Colonetta
L’è creppada la pobbia de cà
Colonetta: tè chì: la tormenta
in sto Luj se Dio voeur l’à incriccada
e crich crach, pataslonfeta-là
me l’à trada chì longa e tirenta,
dopo ben dusent ann che la gh’era!
L’è finida! eppur... bell’e inciodada
lì, la cascia ancamò, la voeur nò
morì, adess che gh’è chì Primavera...
andemm... nà... la fa sens... guardegh nò!
Il pioppo di casa Colonnetti. È crepato il pioppo di casa Colonnetti: eccolo lì: l’uragano di questo luglio se Dio vuole ce l’ha fatta e cric crac, pataslonfeta-là me lo ha scaraventato qui lungo e disteso, dopo ben duecento anni che c’era! È finito! eppure... anche inchiodato lì, germoglia ancora, non vuol morire, adesso che viene la primavera... andiamo... via... fa pena... non guardarlo!
Pensa ed opra, varda e scolta,
tant se viv e tant se impara;
mi, quand nassi on’altra volta,
nassi on gatt de portinara!
Per esempi, in Rugabella,
nassi el gatt del sur Pinin...
... scartoseij de coradella,
polpa e fidegh, barettin
del patron per dormigh sora...
pisorgnitt del post disnaa,
tiraa adree finchè ven l’ora
de sarà el porton de straa!
Nanch quel crist d’on cava-oeucc,
con quell grand regoeuij ch’el fa
che, per solet, no ’l gh’à on boeucc
de fottà i client in cà;
nanch el sur Pinin, quell’omm
che in articol veggiaria
t’el pareggi ai preij del Domm,
e dalla portineria
alla cort granda, ai cortin,
ben d’avanz de quella megna
del padron, sui inquilin,
grand amis di gatt el regna;
nè a costù no manch, nè al Denti
quant a cuu no ’l ghe stà indree,
sto gatton per quell che senti!
Ah qui oeucc de forastee
che me guàrden, quell ciocchin
taccaa sù ch’el ciocca mai,
quell vess lì sul tavolin
semper lì, quell moeuves mai,
chè i magutt l’àn stremii sù
nè ’l va pu foeura de cà,
nanca el mogna, quant a lu,
mi l’óo mai sentii a mognà,
e... quell nient, quell vero nient...
lu per lu, sira e mattina
nient el fa, capisset, nient,
propri on nient de Vittorina!
Ah Rity, de quand la Frida
la t’à spaventaa la pilla,
ah che vita descusida,
dolorosa... dilla, dilla...
Es per adess, Rity, l’è tard,
ma per st’altra volta, impara,
ten a ment... daremm su i cart
per vess gatt de portinara!
Il gatto del signor Peppino. Pensa e opera, guarda e ascolta, tanto si vive e tanto si impara; io, quando nasco un’altra volta, nasco un gatto di portinaia! Per esempio, in via Rugabella nasco il gatto del signor Peppino... scartocci di coratella, polpa e fegato, berrettino del padrone per dormirci sopra... pisolini del pomeriggio, tirare a campare finché vien l’ora di chiudere il portone di strada! Nemmeno quel cristo d’un cava-occhi, con quella sua gran colletta, che, di solito, non ha più un buco dove ficcare i clienti in casa; neanche il signor Peppino, quell’uomo che quanto ad anticaglia lo metto alla pari delle pietre del Duomo, e che dalla portineria al cortile ai cortiletti regna sugli inquilini, grande amico dei gatti, molto più di quello spilorcio del padrone di casa; neanche a lui né al Denti, quanto a fortuna, non ha niente da invidiare ‘sto gattone, per quel che sento! Ah, quegli occhi di forestieri che mi guardano, quel sonaglino attaccato al collo che non suona mai, quello starsene lì sul tavolino sempre lì, quel non muoversi mai, perché i muratori lo hanno spaventato e non va più fuor di casa, non miagola nemmeno più, io non l’ho mai udito miagolare, e... quel niente, quel vero niente... lui da solo, sera e mattina non fa niente, capisci, niente, proprio un niente da Vittorina! Ah! Rity, da quando la Frida ti ha fatto sparire il grano, ah che vita scombinata, dolorosa... dillo, dillo... Adesso ormai è tardi, Rity, ma per quest’altra volta, impara, tieni a mente... faremo domanda per essere gatti di portinaia!
Foeura de porta Volta
de paes in paes
a la longa di sces
pedalavi in la molta
de la Comasna vuna
de sti mattinn passaa:...
me seri dessedaa
con tant de grinta, in luna
sbiessa e in setton sul lett
pensavi: «cossa femm
incoeu?... l’è festa... andemm...
aria!... de sti fodrett...
moeuvet! te sèntet no
la pendola? Madonna!
hin i noeuv or che sona
e sont in lett ammò!
giò con sti gamb... coragg,
ciappa la porta e proeuva
la bicicletta noeuva!»
A seri de vïagg
donca e de mja in mja
intant che pedalavi
quiettin... quiettin... vardavi
la campagna drevia,
vardavi i camp, i praa
noster chì de Milan,
qui cari patanflan
di noster praa, settaa
denter in la scighera,
denter a moeuj coi sò
fir de moron, coi sò
med de ganga... in filera
giò... giò... longa e longhera...
cassinn e cassinott,
paes e paesott
sgreg, pien de viran...
l’era
ona mattina grisa
d’ottober senza el vol
d’on passer, senza sol!...
... L’inverna ... qui de Pisa...
riven adess in troppa
e la terra per lor
la smonta de color!
(...un’utomôbel... s’cioppa!)
A manzina, chinscì,
che bella stradioeula!...
(... macchin ... macchin ... la spoeula
fan...) ... e voo giò de chì!
Gabb e gabbett... firagn;
terra sutta... che gira
intorna al milla lira
la pertega... dagn
per mi che ghe n’óo minga!
Anca a fa l’avvocatt
aaah... te gh’ee pocch de sbatt...
... client che te siringa,
l’Irma, el padron de cà,
la lus, el calorifer...
l’è la storta del chiffer
che besogna trovà,
la tetta de tettà!...
Cantell... cisto... Cantell...
zappà patati... quell
magara l’è de fà!
Torna come el Frigeri
alla scimma di scimm,
al caroeu dol Regimm...
al Viro... ai someneri
torna!
T’el là ol Pà-Bolla
o su l’uss ch’al temp ol stròlega!
a battegh la cattolega
proeuvi d’ona parolla!
«O vu Regió... disii
ch’a paes l’è cost chì?»
«A l’è Mombell... a l’è!»
Al di là del muro. Fuori da Porta Volta, di paese in paese, lungo le siepi, pedalavo nel fango della Comasina, una di queste mattine passate... mi ero svegliato con tanto di broncio, con la luna storta, e seduto sul letto pensavo: «cosa facciamo oggi? è festa... andiamo... aria! via da queste federe... muoviti! non senti la pendola? Madonna! sono le nove e sono ancora a letto! giù con queste gambe... coraggio, prendi la porta e prova la bicicletta nuova!». Ero in viaggio dunque e di miglio in miglio, intanto che pedalavo pianino pianino, guardavo la campagna intorno, guardavo i campi, questi nostri prati di Milano, quei cari macchioni dei nostri prati, seduti dentro la nebbia, dentro a mollo con i loro filari di gelsi, coi loro mucchi di letame... in fila giù giù... all’infinito... cascine e cascinotte, paesi e paesotti rustici, pieni di villani... era una mattina grigia d’ottobre, senza il volo di un passero, senza sole! ... L’inverno... quelli di Pisa... arrivano in folla adesso e la terra per loro stinge di colore! (... un’automobile... maledizione!) A sinistra, qui vicino, che bella stradicciola! (... macchine... macchine... fanno la spola...) ... e vado giù di qui! Salici e salicetti scapitozzati... filari; terra asciutta... che si aggira intorno alle mille lire la pertica... peggio per me che non ne ho! Anche a fare l’avvocato, aaah... hai poco da strafare... ... clienti che ti siringano, l’Irma, il padrone di casa, la luce, il calorifero; è la storta del chifel che bisogna trovare, la tetta da ciucciare!... Cantello... cisto... Cantello... zappar patate... quello magari è da fare! Ritorna, come il Frigerio, alla cima delle cime, al beniamino del Regime, al Viro... ritorna alle sementi! Eccolo là il Pà-Bolla che prevede il tempo sull’uscio! provo a chiedergli l’elemosina di una parola! «Oh voi, capo... dite, che paese è questo qui?» «È Mombello... è!».
È sera qualunque
traversata da tram semivuoti
in corsa a dissetarsi di vento.
Mi vedi avanzare come sai
nei quartieri senza ricordo?
Ho una cravatta crema, un vecchio peso
di desideri
attendo solo la morte
di ogni cosa che doveva toccarmi.
Sin tanto che don Oldani
e i venticinque esploratori
si rincorrono su queste lastre di piombo
io mi immagino il popolo di donne
della cerchia più antica della città.
Addormentate agli ultimi piani
in un letto di ferro
quante sognano la mia sciarpa di seta?
Guardo la città grigiorossa
domenicale, dal terrazzo del duomo
ma potessi volare
ai bei gerani sulle lunghe ringhiere
varcare porte, e a piedi nudi
camminare sugli esagoni rossi
poi vedermi alle vostre specchiere
brune ninette, che abitate il verziere!
Partono adesso i crociati
io rimango quassù
con una spia albanese
che fotografa torri e ciminiere.
Questo è un regno di pioggia, un mondo vizzo
di fantesche accodate ai music-halls,
di bambini sospesi a un palloncino
color lampone, vicino fuma il padre
ha le guance screziate dal rasoio.
Questo è un giorno di festa che ti esilia
alla soglia d'amore e dell'addio
a due mani di donna che tu hai visto
indugiare un istante tra le perle
di una breve collana
sembravan dire
per noi la vita è sempre mañana.
Si passano le stagioni
a scavare il tronco di un albero
per preparare la piroga
su cui c’imbarcheremo in autunno.
Ti ha portata novembre. Quanti mesi dell’anno durerà la dolceamara vicenda di due sguardi, di due voci?
Se io avessi una leggenda tutta scritta direi che questo tempo che ci sfiora ci appartiene da sempre. Ma non sono che un uomo tra mille e centomila ma non sei che una donna portata da novembre e un mese dona e un altro saccheggia. Sei una donna che oggi tiene un naufrago impaziente dimmi tu sei scoglio o continente?
La tua camicetta nuova, Mercedes
di cotone mercerizzato
ha il respiro dei grandi magazzini
dove ci equipaggiavano di bianchi
larghissimi cappelli per il mare
cara provvista di ombra! per attendervi
in stazioni fiorite di petunie
padri biancovestiti! per amarvi
sulle strade ferrate fiori affranti
dolcemente dai merci decollati!
E domani, Mercedes
sfogliare pagine del tempo perduto
tra meringhe e sorbetti al Biffi Scala.
Sembrava tutto possibile
lasciarsi dietro le curve
con un supremo colpo di freno
galoppare in piedi sulla sella
altre superbe cose
apparivano all’altezza degli occhi.
Ora gli anni volgono veloci
per cieli senza presagi
ti svegli da azzurre trapunte
in una stanza di mobili a specchiera
studi le coincidenze dei treni
passi una soglia fiorita di salvia rossa
leggi "Salve" sullo zerbino
poi esci in maniche di camicia
ad agitare l’insalata nel tovagliolo.
La linea della vita
deriva tace s’impunta
scavalca sfila
tra i pallidi monti degli dei.
Tu anche mi appari agli ultimi sogni e il giorno per te s’inizia con altro cielo. Sul treno delle vacanze cerco il tuo viso e le nostre stature il nostro respiro giovane oltre i larici. Mi ridico per ritrovare la tua voce di allora certi nomi di luoghi che pronunciavi indicandoli al di qua della valle. Amarti è questo, e piangere. Altro non so. La pena è certa è il rimorso.
Secondo Darwin avrei dovuto essere eliminato
secondo Malthus neppure essere nato
secondo Lombroso finirò comunque male
e non sto a dire di Marx, io, petit bourgeois
scappare, dunque, scappare
in avanti in dietro di fianco
(così nel quaranta quando tutti) ma
permangono personali perplessità
sono ad est della mia ferita
o a sud della mia morte?
Abitano mondi intermedi
spazi di fisica pura
le cose senza prestigio
gli oggetti senza design
la cravatta per il mio compleanno
le Trabant dei paesi dell'est.
Tèrbano, ma che vorrà dire?
Forse meglio di altri
esprimono una loro tensione
un’aura, si diceva una volta
verso quanto ci circonda.
Rema in piedi controcorrente
per salutare gli amici sopra il ponte
beve con noi un vino spesso e forte
seduti a un lungo tavolo di legno
appare e scompare in mezzo agli alberi
nel più fitto del bosco.
È il monaco che passa su un fiume gelato.
È il Figlio, nell'idea direi incompleta
che provo a farmi della Trinità.
Non sta scritto nemmeno negli apocrifi
che tu abbia mai riso né sorriso
si può solo intuire, ma è permesso?
dottrinalmente corretto?
forse te ne sto dando l’occasione
almeno per questo
ti prego di trovarmi, o lasciarti trovare
nei luoghi dell’assenza.
«La poesia è nulla, la registrazione del nulla, l’eterno invece è ancora l’archetipo di tutto. Quando mi sfugge dalle mani cerco in ogni caso di descriverlo, e di trasmettere a chi mi legge la sensazione che questa vana ricerca mi lascia nelle mani. Cerco di afferrarlo, l’eterno, ma quello che riesco ad afferrare è questo nulla». Non è una dichiarazione di fallimento questa che Luciano Erba (1922-2010) affida a un’intervista rilasciata pochi mesi prima della morte. È piuttosto l’umile convinzione di non avere risposte a tutte le domande: «la poesia è una ricerca, è un po’ come una ricerca religiosa, è cercare Dio […] Ricerca della verità, sapendo benissimo di non poterci arrivare, perché è una ricerca mai assertiva, sempre dubitativa, continua. La mia poesia l’ho trovata senza mai ottenere una risposta, oppure ho trovato risposte e allora non c’era la domanda». Anche quest’ultimo paradosso fa parte delle certezze del poeta lombardo, che proprio della moderazione, del rifiuto dell’enfasi declamatoria ha fatto la cifra del suo poetare, lontano tanto dall’ermetismo quanto dall’estetismo. La sua lingua poetica tersa e rigorosa, alleggerita da una profonda ironia (e autoironia) rende il dettato limpido e appassionato. Ma l’ironia non è per lui semplice artificio retorico, bensì vero e proprio strumento di conoscenza, in grado di esprimere il desiderio di trascendenza, la tensione verso l’assoluto, senza che questo diventi mai dogmatismo o fanatismo religioso. Afferma il poeta: «a me sembrava che il domandarsi da dove nasce il mondo, la bellezza di questo domandarsi, sia cosa legittima anche in un’epoca come la nostra dove tutto è stato più o meno spiegato».
Il suo esordio poetico avviene nel 1951 con Linea K, dove è riletta la tragica esperienza dei campi di lavoro in Svizzera durante la guerra; seguono, tra le raccolte più significative, Il bel paese (1955), che allude ironicamente a una Lombardia perduta, Il male minore (1960), che riassume la prima fase della sua produzione, Il nastro di Moebius (1980), L’ippopotamo (1989), L’ipotesi circense (1995); Remi in barca (2006). È soprattutto in questa ultima fase che la “caccia spirituale” di Erba assume definitivamente i connotati della ricerca religiosa, grazie alla capacità delle cose più umili di «riempire il nulla». Erba ci svela il senso profondo di tanti oggetti insignificanti, «le cose senza prestigio, / gli oggetti senza design [che] meglio di altri / esprimono una loro tensione, / un’aura, si diceva una volta / verso quanto qui ci circonda» (Un cosmo qualunque). E a questi affianca personaggi “marginali”, di scarsa rilevanza sociale, in grado però di rivelare la vera essenza del mondo più di teorie filosofiche o asserti teologici.
Poeta lombardo fu certamente Erba, che però alle immagini della Milano in cui visse affianca scenari lacustri e alpestri cui aggrapparsi per trovare certezze, convinto in ogni caso che la verità ultima è sempre oltre. Il compito che egli si era assegnato era quello di trascrivere in poesia ciò che altrimenti avrebbe rischiato di passare inosservato: umili realtà che diventano semi di trascendenza, quasi eliotiani “correlativi oggettivi”, in grado di svelare, grado per grado, il senso vero della vita.
Prati
Forse non è nemmeno vero
quel che a volte ti senti urlare in cuore:
che questa vita è,
dentro il tuo essere,
un nulla
e che ciò che chiamavi la luce
è un abbaglio,
l'abbaglio supremo
dei tuoi occhi malati –
e che ciò che fingevi la meta
è un sogno,
il sogno infame
della tua debolezza.
Forse la vita è davvero
quale la scopri nei giorni giovani:
un soffio eterno che cerca
di cielo in cielo
chissà che altezza.
Ma noi siamo come l'erba dei prati
che sente sopra sé passare il vento
e tutta canta nel vento
e sempre vive nel vento,
eppure non sa così crescere
da fermare quel volo supremo
né balzare su dalla terra
per annegarsi in lui.
Milano, 31 dicembre 1931
Così sia
Poi che anch'io sono caduta
Signore
dinnanzi a una soglia –
come il pellegrino
che ha finito il suo pane, la sua acqua, i suoi
sandali
e gli occhi gli si oscurano
e il respiro gli strugge
l'estrema vita
e la strada lo vuole
lì disteso
lì morto
prima che abbia toccato
la pietra del Sepolcro –
poi che anch'io sono caduta
Signore
e sto qui infitta
sulla mia strada
come sulla croce
oh, concedimi Tu
questa sera
dal fondo della Tua
immensità notturna –
come al cadavere del pellegrino –
la pietà
delle stelle.
9 aprile 1933
Lamentazione
Che cosa mi ha dato
Signore
in cambio
di quel che ti ho offerto?
del cuore aperto
come un frutto –
vuotato
del suo seme più puro –
gettato
sugli scogli
come una conchiglia inutile
poi che la perla è stata
rubata –
che cosa mi hai dato
in cambio
della mia perla perfetta
diletta?
quella che scelsi
dal monile più splendente
come sceglievano i pastori
antichi
nel gregge folto
l'agnello più lanoso più robusto più bianco
e l'immolavano
sopra il duro altare?
Che cosa hai fatto tu
se non legarmi
a questo altare
come ad una eterna
tortura? –
Ed io ti ho dato
la mia creatura
unica
la mia ansia materna
inappagata
il sogno
della mia creatura non creata
il suo piccolo viso senza
fattezze
la sua piccola mano senza
peso –
Sulle rovine della mia casa non nata
ho sparso
cenere e sale –
E tu
che cosa mi hai dato
in cambio
della mia dolce casa
immacolata?
se non questo deserto
Signore
e questa sabbia che grava
le mie mani di carne
e m'intorbida gli occhi
e m'insudicia le piaghe
e m'infossa
l'anima –
non ci sono più nembi
nel tuo cielo
Signore
perché si lavi
in uno scroscio
tutta questa
miseria?
Milano, 6 maggio 1933
Minacce
Campane
frane lente di suoni
giù dai pascoli
dentro valli di nebbia.
Oh, le montagne,
ombre di giganti,
come opprimono
il mio piccolo cuore.
Paura. E la vita che fugge
come un torrente torbido
per cento rivi.
E le corolle dei dolci fiori
insabbiate.
Forse nella notte
qualche ponte verrà
sommerso.
Solitudine e pianto –
solitudine e pianto
dei làrici.
Breil, 3 agosto 1934
Altura
La glicine sfiorì
lentamente
su noi.
E l'ultimo battello
attraversava il lago in fondo ai monti.
Petali viola
mi raccoglievi in grembo
a sera:
quando batté il cancello
e fu oscura
la via al ritorno.
11 maggio 1935
Morte di una stagione
Piovve tutta la notte
sulle memorie dell'estate.
A buio uscimmo
entro un tuonare lugubre di pietre,
fermi sull'argine reggemmo lanterne
a esplorare il pericolo dei ponti.
All'alba pallidi vedemmo le rondini
sui fili fradice immote
spiare cenni arcani di partenza –
e le specchiavano sulla terra
le fontane dai volti disfatti.
Pasturo, 20 settembre 1937
Maria Corti, la grande italianista, affermava di Antonia Pozzi che «il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull'orlo degli abissi. Era un'ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica». Quando a ventisei anni, nel dicembre 1938, decise di togliersi la vita dichiarando di non aver più la forza di lottare, lasciò in eredità ai posteri poesie e fotografie che rispecchiano il suo animo esacerbato e nello stesso tempo la costante ricerca di armonia nel creato.
Alla poesia in particolare Antonia dedicò lo spazio più intimo del suo essere, sempre in bilico tra attaccamento alla terra e indomabile anelito verso l’altezza, sia in senso fisico (l’amore per le montagne, su cui compiva frequenti scalate con la guida alpina Emilio Comici) sia metafisico (la smania di assoluto che la dilaniava). Scalare una montagna equivaleva per lei ad espiare la colpa e poter incontrare nella solitudine il Dio che accoglie e consola. Sulla sommità della montagna le pareva di unirsi panicamente con la natura e con la divinità, in un amore sublime e atemporale («Anima, sii come la montagna: / che quando tutta la valle / è un grande lago di viola / e i tocchi delle campane vi affiorano / come bianche ninfee di suono, / lei sola, in alto, si tende / ad un muto colloquio col sole»).
Però l’angoscia che l’accompagnò costantemente si fece negli anni sempre più cruda e violenta: man mano affiorava nella sua poesia una luce sempre più crepuscolare, una luce di tramonto che non sarà seguito da nessuna alba, da nessuna rinascita: «scende la notte- / nessun fiore è nato- / è inverno -anima- / è inverno». L’incontro con la notte fu per lei un ritorno verso l’ombra, verso il traguardo odiato e desiderato, verso l’annullamento che attraverso «lunghe scale» la portò a dissolversi: a testimoniare un’anima che non ha saputo vincere il peso della vita resta la sua poesia.
Il suo stile è personalissimo, ricco di suggestioni bibliche sfocianti in preghiera, alla costante ricerca di risposte che non giungono; per lei solo la poesia può alleviare (ma non cancellare) la sofferenza di chi non trova il senso ultimo dell’esistere. Come scrisse in una lettera «la poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci rimbalza nell'anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell'arte, così come sfociano i fiumi nella celeste vastità del mare».
È morto lo scorso 9 settembre Nico Naldini, cugino di Pier Paolo Pasolini; friulano come lui (ma molto meno noto) e da lui fatto conoscere già nel ’48 con un gruppetto di versi giovanili editi sotto il titolo Seris par un frut (Sere per un fanciullo). Li accomunava la passione per la poesia e per il dialetto friulano usato “di cà da l’aga” (“al di qua dell’acqua”, cioè sulla riva destra del Tagliamento), tanto che insieme avevano fondato nel ’45 l’Academiuta di lenga furlana (Piccola accademia di lingua friulana), «una specie di Arcadia, o con più gioia, una specie molto rustica invero, di salotto letterario», come scriverà poi Pasolini. A questa straordinaria esperienza si ispireranno importanti poeti friulani come Amedeo Giacomini, Umberto Valentinis, Novella Cantarutti, Leonardo Zanier.
La cultura di Naldini non fu peraltro provinciale, ma si arricchì attraverso l’amicizia di uomini di cultura quali Filippo De Pisis, Giovanni Comisso, Sandro Penna, Goffredo Parise, Mario Soldati, Elsa Morante, Andrea Zanzotto. E le sue letture spaziavano nella letteratura italiana ed europea, da Dante a Leopardi, da Machado a Rilke, da Marin a Montale, dagli spagnoli ai felibristi provenzali.
La sua vena poetica fu offerta con parsimonia, a cadenze dilatate: Un vento smarrito e gentile (1958), con testi in friulano, veneto e italiano, i testi della prima raccolta insieme ad altre poesie in chioggiotto e in italiano nel volume La curva di San Floreano (1988), nel ’97 Meglio gli antichi castighi, cinque anni dopo il poema Piccolo romanzo magrebino (2002), legato alla sua lunga esperienza nordafricana, poi I confini del paradiso (2004) e la raccolta Una striscia lunga come la vita (2009), caratterizzata più delle altre dall’insistenza sul tema dell’omosessualità.
Al centro della produzione di Naldini si pone la silloge Meglio gli antichi castighi, un canzoniere in quattro sezioni nella prima delle quali prevale la tematica dell’amicizia con uomini di cultura come De Pisis, Comisso, Parise, Pasolini, Zanzotto; seguono le sezioni dominate dall’affetto per quelli che Pasolini avrebbe definito “ragazzi di vita”, e dall’amore per la madre, ad esprimere compiutamente la “disperazione amorosa” dello scrittore.
Naldini è poeta spontaneo al limite della brutalità, ma anche ironico e leggero, ricco di gentilezza e altruismo, anche quando contesta la mentalità retriva dell’Italia d’allora: «Quando mi smarrisco dentro di me –affermava- trovo un po’ di gentilezza nella comprensione del mondo». Oltre che poeta fu scrittore, biografo, consulente editoriale, giornalista per il “Corriere della Sera”, “Il Manifesto”, “Il Piccolo”, memorialista, regista: un uomo che ha saputo attraversare la cultura del ‘900 con determinazione e coraggio, senza mai cercare il facile consenso.
Un sofli di vint al è nassùt
da che nula nera:
i fii di erba ‘a àn trimàt.
Tal lac ingrisignìt li’ nulis
‘a si spielin sensa colòurs.
Il vint al ven dai mons a la planura:
tai ciantòns da li’ stradis
li’ giostris di ciartis e polvar
‘a maravein i frus.
Un soffio di vento è nato / da quella nuvola nera: / i fili d’erba hanno tremato. // Nel lago raggricciato le nuvole / si specchiano senza colori. // Il vento viene dai monti alla pianura: / agli angoli delle strade / le giostre di carte e polvere / meravigliano i fanciulli.
È arrivata la vecchiaia.
Dio mio, cosa ne farò?
La terrò al caldo, ma dove?
Andrò in giro a chiacchierare,
ma con chi?
Un ritaglio di natura serena,
un piccolo altare?
Non scherziamo!
Incidermi le vene?
È cerimoniale d’altri tempi.
Neanche la morte per gelo
in un giardino pubblico
va ora più bene;
con tante siringhe in giro
si è già tra larve.
Altri programmi per la vecchiaia?
I viaggi, una bella barba.
Ma forse mi farò trascinare
su e giù per il Mediterraneo
dalla motonave Habib.
Questo è più allettante.
Ma una volta in altomare
avrò lo sguardo fisso sul vuoto
oppure farò l’occhiolino ai marinai?
Sono così di bocca buona
che me lo permetteranno.
Già oggi sono sceso dalla rupe
di Cap Blanc
con passo artritico.
Come si adatta il piede
a strisciare sugli accidenti del terreno
le mani protese a un equilibrio
che è una vittoria.
Mahres ridendo
da una balza all’altra
in una luce
che di per sé era una ferita
mi offriva il suo sostegno.
Ma rideva troppo
benché non ce ne fosse la necessità.
E nel fondo
(ha diciannove anni
e una vita da affermare)
gli piaceva.
Preambolo
Esco di casa, a quest’ora le strade
si riempiono di gioventù.
Alla stazione del trenino ne scendono grappoli
si disperdono qua e là
e come negli assembramenti delle formiche
non si esauriscono mai nell’andirivieni serale
festoso e senza scopo.
Mi aggancio le mani dietro la schiena
e avanzo posando qua e là il fuoco degli sguardi
a tratti tuttavia nascondendomi
dietro uno scudo di indifferenza
per lasciarmi assorbire dallo spettacolo.
C’è bisogno di metodo per osservare,
suddividere il mondo per categorie, ecco il punto.
La prima è quella dei ragazzi laboriosi.
Vengono poi quelli sempre seduti al caffè
e infine quelli che gironzolano
tra un treno e l’altro.
[…]
Walid è scontento di tutto
anche delle molte cose che si concentrano
nella sua bellezza di denti, occhi e portamento.
Con andatura alata
balza da un gradino all’altro
perché è conformato alla souplesse degli stadi
dove per qualche stagione è stato un divo.
Ha ventun anni ma si sente sorpassato
e benché i suoi tratti siano inalterabili
egli stesso sta togliendo loro un poco alla volta
la felice fusione di un tempo.
«Voglio vedere come farai a diventare brutto»
gli ho detto e lui ha sorriso.
Poi il filo della scontentezza si è dipanato.
Domani arriva la sua fidanzata dalla Francia
e lui non ha i soldi per il benvenuto.
Ho risolto i suoi problèmes
ma addio per sempre, Walid.
Alle otto del mattino
sto riassettando la mia stanza e
raccogliendo la sabbia caduta sulla terrazza.
Scacciate le ultime nuvole
presto il carro del sole
salendo dietro il melograno
scalderà il sentiero
quello per il quale ieri sera
sono arrivati coloro che aspettavo
attraversando la foresta di mimose
con passo così cauto
che sembravano sospinti dagli aliti della notte.
Haykel è apparso
tra due quinte di cactus
ed è scomparso per la stessa strada
lasciando dietro di sé solo il rumore
di un ramo secco calpestato.
Rijad molto più bruno
si è confuso a lungo con la siepe
finché ha rivelato prima i colori
del maglione e poi del suo viso.
Ogni sentiero tracciato nella foresta
ha molteplici varianti
e a tentarle a caso c’è da perdersi
cento volte prima di ritrovarsi.
Rischio del tutto fuori luogo
per questi ragazzi
che non temono né trappole né labirinti.
Un rombo copre il cielo notturno
fino ai margini prossimi a incendiarsi.
Ogni notte e fino all’alba
c’è questo faticoso allacciarsi
dell’Oriente all’Occidente e gli aerei
giunti riarsi dall’aria del deserto
ora si tuffano nell’occhio tempestoso
del Mediterraneo. Sono i miei compagni notturni.
Ora sulla mia terrazza
la pallida aurora sta cadendo
di un giorno qualsiasi
nei fluidi delicati di un autunno
cui l’estate è rimasta avvinta distrattamente.
E non appena il sole avrà compiuto il suo giro
predisponendo di nuovo il cielo
a quel rombo astrale,
due o tre ragazzi uno dopo l’altro
si presenteranno nell’inquadratura della mia porta
dando al loro ritratto l’aspetto di un viandante
che si è concessa una sosta furtiva.
Mi aveva allevato in un nido
caldo e sicuro, reso più vasto
dai sogni che vi si facevano.
È vero che ogni tanto mi obbligava
ad affrontare il mondo
abbandonandomi sulla soglia
dell’asilo infantile,
ma anch’io ben presto presi gusto
di quell’aria soavemente aspersa
e una notte violai le regole della tribù.
Nessun trauma, per carità, anzi
mi godevo quella parte che sentivo
essermi stata promessa
già ai miei esordi in quel nido.
Spesso ancora nei sogni
m’innalzo allo sconforto
del nostro solaio,
all’accumulo del nostro passato
caduto in tanta polvere
sotto la vertigine delle travi
frementi a ogni temporale.
Lassù volati
i detriti delle nostre vite
ancora non tralasciano
il loro lamento.
Poesie di Mariangela Gualtieri
Nata a Cesena nel 1951, laureata in Architettura, la Gualtieri fonda nel 1983 con Cesare Ronconi il Teatro Valdoca, tra i più importanti teatri di sperimentazione, e con Milo De Angelis vi fa nascere una Scuola di Poesia dove ha modo di confrontarsi con alcune delle più importanti voci poetiche del secolo: Fortini, Luzi, Bigongiari, Franco Loi, Amelia Rosselli, Alda Merini. Esordisce tardi in poesia con Antenata (1992), cui seguono negli anni Fuoco centrale (1995), Nei leoni e nei lupi (1997), Senza polvere senza peso (2006), Bestia di gioia (2010), Le giovani parole (2015), Quando non morivo (2019).
La sua parola, sempre alla ricerca di echi e suggestioni che vadano oltre il significato immediato dei termini scelti, si affianca al silenzio degli spazi bianchi, in un rapporto di circolarità che reciprocamente li illumina: «la poesia – afferma ha proprio questa peculiarità: è parola che tiene con sé il silenzio, parola che ha al proprio centro il silenzio». È una ricerca non formale, che vuole ridare vita alle parole: «forse la poesia, forse tutta l’arte nasce da questa insufficienza della lingua corrente, che finge di poter dire ciò di cui davvero ci importa, per poi lasciarci sempre inappagati, delusi. Certo è viva in me l’esigenza di rinominare le cose, di richiamare alla vita o alla vivezza le parole, strappandole dal luogo logoro in cui sono relegate».
Il sentimento che domina ovunque nella sua produzione è pertanto lo stupore, l’attesa dello svelamento di ciò che sta dietro la parola, e che solo la poesia è in grado di scoprire. Proprio per raggiungere questo livello profondo del senso, Gualtieri stravolge il linguaggio comune, violando la semantica, trasgredendo le regole grammaticali e sintattiche, incidendo sulla lingua quelle che lei definisce «ferite perfette»: lapsus, deviazioni, deformazioni semantiche che mirano a un’idea di perfezione che vince la logica. In questa esplorazione verso una sempre più perfetta (ma irraggiungibile) comunione con tutte le entità dell’universo, hanno cittadinanza nella poesia di Mariangela Gualtieri gli oggetti più svariati: fiumi e porte, aghi e candele, ponti e coltelli, persone e animali, in un caleidoscopio di apparizioni che interpellano la lingua stessa che le nomina. Ne scaturisce una scrittura contemplativa che si nutre di osservazione, di approfondimento, ma anche di assenza, di domande che cercano invano risposte pienamente soddisfacenti.
Il linguaggio non segnava vantaggi, ma si scolava via come buccia e sottosopra con feroce spolpo andava vuotamente più del sibilo su tutte le cose. Dal loro fondo liso le parole straccetto hanno un alito amaro, le parole fagotto, le care parole cadute giù. Ho parole stampelle, parole porte parole ali sotto i vestiti, parole strade e fiumi parole barche affilate. Ho solo parole e ali incerte – ali incerte e parole. io sono senza aggettivi, io sono senza predicati, io indebolisco la sintassi, io consumo le parole, io non ho parole pregnanti, io non ho parole cangianti, io non ho parole mutevoli, non ho parole perturbanti, io non ho abbastanza parole, le parole mi si consumano, io non ho parole che svelino, io non ho parole che puliscano, io non ho parole che riposino, io non ho mai parole abbastanza, mai abbastanza parole, mai abbastanza parole…
Io sento il piangere delle cose. Sento il piangere di tutte le cose. Strazio sento delle. Pianto sento delle Io sento Delle. Io pianto pianto. Delle cose. Piangono. Sì. Fatica sento sì. Arrancatura. Sì.
La candela dice: io mi consumo senza lamentele che pena, quel tuo chiedere durata la pianura dice: io accolgo, accolgo largamente e l’ago dice: perdermi mi piace, stare dimenticato nelle fessure, essere ignorato. E tu? e il coltello dice io taglio i ponti divido un pezzo dall’intero so dare ferite perfette. E tu.
C'è nel riso dell'uomo la meraviglia sotto la pelle dei pezzi di pane da mangiare subito si vedono le corde vive nei bracci poi verrà la pioggia a lavare le schiene infilare la tosse nei petti
Se questo è amore, mi dico. Ma sì, questo è l’amore che conosciamo. Ora. Amore appiccicato, che incolla quel poco di ala modesta sulla schiena. Amore legato. In cui si ripete la solfa del tu e dell’io. Non siamo capaci di essere insieme acqua e moto, sale e onda, unica impresa spettacolare. Come il mare laggiù, lo vedi?
C’è nella tristezza un contagio amore mio, e da questo si vede che abbiamo fatto comune cuore e siamo uno che appare due. Allora io insemino la gioia in questa cosa che non consiste però esiste e tiene entrambi appesi. La gioia ce la metto io.
Volevo tutte le sbandate essere viva fino allo scortico essere tavolo pietra bestiale essere bucare la vita coi morsi infilare le mani in suo pulsare di vita scavare la vita scrostarla sfondarla spericolarla battermi con lei fino ai suoi sigilli. Per amore – per amore – tutto per amore.
Noi tutti non siamo solo
terrestri. Lo si vede da come
fa il nido la ghiandaia
da come il ragno tesse il suo teorema
da come tu sei triste
e non sai perché. Noi
tutti, noi forse ritornati,
portiamo una mancanza
e ogni voce ha dentro una voce
sepolta, un lamentoso calco di suono
che un po’ si duole anche quando
canta. Te lo dico io
che ascolto
il tonfo della pigna e della ghianda
la lezione del vento
e il lamento della tua pena
col suo respiro ammucchiato sul cuscino
un canto incatenato che non esce.
Ascoltare anche ciò che manca.
L’intesa fra tutto ciò che tace.
Sii dolce con me. Sii gentile. È breve il tempo che resta. Poi saremo scie luminosissime. E quanta nostalgia avremo dell’umano. Come ora ne abbiamo dell’infinità. Ma non avremo le mani. Non potremo fare carezze con le mani. E nemmeno guance da sfiorare leggere. Una nostalgia d’imperfetto ci gonfierà i fotoni lucenti. Sii dolce con me. Maneggiami con cura. Abbi la cautela dei cristalli con me e anche con te. Quello che siamo è prezioso più dell’opera blindata nei sotterranei e affettivo e fragile. La vita ha bisogno di un corpo per essere e tu sii dolce con ogni corpo. Tocca leggermente leggermente poggia il tuo piede e abbi cura di ogni meccanismo di volo di ogni guizzo e volteggio e maturazione e radice e scorrere d’acqua e scatto e becchettio e schiudersi o svanire di foglie fino al fenomeno della fioritura, fino al pezzo di carne sulla tavola che è corpo mangiabile per il mio ardore d’essere qui. Ringraziamo. Ogni tanto. Sia placido questo nostro esserci - questo essere corpi scelti per l’incastro dei compagni d’amore. nei libri.
Febbraio dice
parole di tramestio nelle tane
e in ogni radice cresce
un formicolío di valvole accese.
Ascolta. Una cocciutaggine d’intesa
prelude piano piano la ripresa
il perdifiato dei fiori. Saranno qui
fra poco. Di nuovo nuovi. Intatti.
Scandalosi.
Io non vi credo cose che vedo
perché chiudendo gli occhi
una vitalità di costellazioni
d’altro mondo
vi sopravanza
e la supremazia del visibile
s’incrina in felicità.
Non c’è spina
oltre le vostre sponde
niente confina o crolla
niente s’impolvera
in quella luce.
Questo giorno che ho perso
ed ero nell’esilio
dentro panni che non erano miei
e scarpe che mi disagiavano
e tasche che non riconoscevo
e correvo correvo puntuale
senza neanche un dono
per nessuno. Solo un vuoto, corto
respirare. A conferma che nel disamore
il fare anche se fai resta non fatto.
La gioia si condensa in particelle legate, si fa sfera rotante e firmamento, si getta nella vita danzante senza perire, senza esaurire, immutata, intoccata, seducente. Conduce a sé e il morire dei corpi non è che l'entrare fuori misura. Senza chili, senza metri, senza particelle. Alleluiare.
È morto all’inizio di quest’anno, novantenne, Franco Loi, poeta in dialetto milanese che ha maturato nel corso degli anni una religiosità molto personale, anarchica, se vogliamo, ma appassionata e autentica. La sua prima produzione poetica nacque tutta in un decennio cruciale, tra il 1965 e il 1974, ed è così rievocata dal poeta: "Scrivevo versi per quattordici ore filate al giorno [...] Camminavo per la mia stanza ridendo, piangendo, recitando [...] ma nella stanza c'era un sé che dettava, qualcuno che mi dettava dentro: una presenza che avvertivo sul capo come un calore e che mi osservava indifferente a quanto mi accadeva. Ecco perché mi sono sempre considerato amanuense di Qualcuno".
Da I cart (Le carte, 1973) a Poesie d'amore (1974) a Stròlegh (Astrologo, 1975), “visione in quarantadue passaggi”, tappa fondamentale della sua produzione, la sua poesia è stata fin dall’inizio visionaria e allusiva, un sogno ad occhi aperti, una speranza irrazionale, una ricerca ininterrotta.
Lo stile potentemente espressionistico che l’ha sempre caratterizzata scaturiva da una violenta combinazione di registri, che spaziavano dal grottesco al sarcastico dall’ironico al satirico; il dialetto usato nella vasta produzione è un milanese “reinventato”, mescidato di altri dialetti, intriso di forestierismi e latinismi, arcaismi e neologismi: un idioma personalissimo e inimitabile. Temi ricorrenti della sua poesia sono il trauma della guerra e delle violenze nazifasciste, la drammatica scoperta della presenza insopprimibile del male nella storia, l’osservazione accorata degli umili trascurati dalla storia: ma da questa dolorosa concezione dell'esistenza scaturisce in Loi un’invocazione costante, quasi una preghiera laica alla ricerca del senso della vita.
La fase centrale della sua produzione inizia con L’Angel (1981), romanzo in versi magmatico e potente che traccia il singolare ritratto di “un eroe italiano” (questo avrebbe dovuto esserne il titolo), un uomo che si crede un angelo in esilio dal Paradiso e vive la sua vicenda umana con intensa passione. Su questa stessa linea si collocano le altre raccolte, uscite a ritmo incalzante negli anni ottanta e novanta: Lűnn (Lune, 1982), dalla fascinosa ambientazione notturna; Bach (1986), dominata dalla ricerca del dialogo con la morte e dal desiderio di recuperare il valore della vita; Liber (1988: Libro, ma anche Libero/Liberi), dove ricompare l’utopia di una palingenesi rivoluzionaria in grado di liberare l'uomo moderno; Umber (Ombre, 1992), che vede ulteriormente incrinarsi il rapporto tra società e poeta; Amur del temp (1999), memoriale della donna amata e del tempo che fugge lasciandoci “furest a nűm, a lur, al so insugnàss (forestieri a noi, a loro, al loro sognarsi)”. Forse meno significativa è stata la produzione poetica dell’ultimo ventennio, durante il quale però Loi ha continuato a essere presente sulla scena culturale italiana con importanti saggi, racconti e traduzioni.
Oh quanta gent che morta sü ‘na strada
la storia l’è passada sensa véd,
quèl ref de la speransa generusa
che l’umbra mia de mì sia pü de lé,
oh quanta gent che morta sü ‘na strada
par che la spetta e la spetta pü,
e passa l’aria e la curr luntan
due che la gent s’insogna che la vita
se tègn scundüda, e che la turnarà.
Oh, quanta gente che morta su una strada / la storia è passata senza vedere, / quel filo della speranza generosa / che l’ombra mia di me sia più della storia, / oh quanta gente che morta su una strada / sembra che aspetti e non aspetta più, / e passa l’aria e corre via lontano / dove la gente sogna che la vita / si tiene nascosta, e che ritornerà.
Se scriv perchè la mort, se scriv 'me sera quan' l'òm el cerca nient nel ciel piuü, se scriv perchè sèm fjö o chi despera, o che 'l miracul vegn, forsi vegnü, se scriv perchè la vita la sia vera, quajcòss che gh'era, gh'è, forsi ch'è pü.
Si scrive perché la morte, si scrive come sera / quando l'uomo cerca niente nel cielo piovuto, / si scrive perché siamo ragazzi o chi dispera, / o che il miracolo venga, forse venuto, / si scrive perché la vita sia più vera, / qualcosa che c'era, c'è, forse non c'è più.
Puèta, disen, d'òm inamurâ, puèta, disen, a chi piang la sera, e la matina s'alsa desperâ. Ma anca al legriusà se dis puèta, a chi sa ben parlà, bev e magnà, e a quel che canta i donn, e amô puèta disen la giuentü che sa encantass. Ma quèj che fan murì cun la puesia ligada sü, ciavada, e fan negà nel liber de la vita... Avemaria! În no puèta, în no òmm de lüstrà. Je ciàmen massa e ciau, e cusì sia.
Poeta, dicono d'uomo innamorato, / poeta, dicono, a chi piange la sera / e la mattina s'alza disperato. / Ma anche al rallegrarsi si dice poeta, / a chi sa ben parlare, bere e mangiare, / e a quello che canta le donne, e ancora poeta / dicono la gioventù che sa meravigliarsi. / Ma quelli che fanno morire con la poesia / legata dentro, chiusa a chiave, e fanno annegare / nel libro della vita... Avemaria! / non sono poeti, non sono uomini da onorare. / Li chiamano massa e ciao, e così sia.
Ranza de lüna che scunfüsa al piang
va cume dü che mai s’encuntrarà,
quèl veder de fenestra me sluntana
la tua giuinessa trista de lassàm…
Oh ranza del pü nient, blö lüna sfrusa!
bel ültum veder, tas‘d’un respiràm!
Mì t’û vardada, e ’dèss l’è cume tusa
che per la strada va sensa vultàss.
Falce di luna che confusa al piangere / vai come due che mai s’incontreranno, / quel vetro di finestra mi allontana / la tua giovinezza triste nel lasciarmi… / Oh falce del più niente, blu luna che fuggi! bell’ultimo vetro, zitta d’un respirarmi! / Io ti ho guardata, e adesso è come una ragazza / che per la strada va, senza voltarsi.
Forsi û tremâ cume de giass fa i stèll, no per el frègg, no per la pagüra, no del dulur, legriâss o la speransa, ma de quel nient che passa per i ciel e fiada sü la tèra che rengrassia… Forsi l’è stâ cume che trèma el cör, a tí, quan’ne la nott va via la lüna, o vegn matina e par che ‘l ciar se mör e l’è la vita che la returna vita… Forsi l’è stâ cume se trèma insèm, inscí, sensa savèl, cume Diu vör…
Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle, / non per il freddo, non per la paura, / non del dolore, del rallegrarsi o della speranza, / ma di quel niente che passa per i cieli / e fiata sulla terra che ringrazia... / Forse è stato come trema il cuore, / a te, quando nella notte va via la luna, / o viene mattina e pare che il chiarore si muoia / ed è la vita che ritorna vita... / Forse è stato come si trema insieme, / così, senza saperlo, come Dio vuole…
Vòltess, sensa dagh pés, cume se fa quand ch’i penser ne l’aria slisen via, vòltess per abitüden lenta, sensa sâ, cume quj donn che per la strada i gira la testa per un òm, in câ, o sü la porta, vòltess per simpatia d’un rümur luntan, o d’una rùnden sü nel ciel stravolta, vòltess sensa savè, per vuluntâ d’un quaj penser bislàcch, o per busia, vòltess per returnà, che smentegâ sun mì che dré di spall te rubarìa quel nient del camenà, quel tò ’ndà via.
Vòltati, senza dar peso, come si fa / quando i pensieri nell'aria scivolano via, / voltati per abitudine, lenta, senza senso / come quelle donne che per strada girano / la testa per un uomo, in casa, o sulla porta, / voltati per simpatia d'un rumore lontano, / o d'una rondine su nel cielo stravolta, / voltati senza sapere, per volontà / d'un qualche pensiero bizzarro, o per bugia, / voltati per ritornare, che dimenticato / ci son io dietro le spalle per rubarti / quel niente del camminare, quel tuo andare via.
Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient, forsi memoria sèm, un buff de l’aria, umbría di òmm che passa, i noster gent, forsi ‘l record d’una quaj vita spersa, un tron che de luntan el ghe reciàma, la furma che sarà d’un’altra gent… Ma cume fèm pietâ, quanta cicoria, e quanta vita se la porta el vent! Andèm sensa savè, cantand i gloria, e a nüm de quèl che serum resta nient.
Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente, / forse memoria siamo, un soffio dell'aria, / ombra degli uomini che passano, i nostri parenti, / forse il ricordo d'una qualche vita perduta, / un tuono che da lontano ci richiama, / la forma che sarà di altra progenie... / Ma come facciamo pietà, quanto dolore, / e quanta vita se la porta il vento! / Andiamo senza sapere, cantando gli inni, / e a noi di ciò che eravamo non è rimasto niente.
Serum de aria int un ciel de frasca e da la müra l'erga a ridascià, e l'aria l'era el temp, e lé diseva: "La mia paüra l'è quèl tò tucàm!" Passa 'na nevura e vardi i mè penser, 'n üsèll sifula, e senti 'me 'n tremà. Û tegnü 'l cor, e lé diseva: "Jer la mia giuinessa la te muriva in brass". Nient alter me pareva de scultà. Taseva el temp, e me tegnivi bass.
Eravamo d'aria in un cielo di frasche / e dalla mura l'edera a ridacchiare, / e l'aria era il tempo, e lei diceva: / "La mia paura è quel tuo toccarmi!" / Passa una nuvola e guardo i miei pensieri, / un uccello zufola, e sento come un tremare. / Ho trattenuto il cuore, e lei diceva: "Ieri / La mia giovinezza ti moriva in braccio". / Null'altro mi pareva di ascoltare. / Taceva il tempo, e mi tenevo basso.
Pruà la mort sarà cume mè mader:
tremava el ment, la bucca vèrta a pèss,
el fiâ de la caverna tra quj làver
e j öcc vultâ a l’indré sensa pü vèss,
sarà cume mè mader, che vardavi
e la pareva ’n’ altra, e l’era un crèss
de l’ansia che nel spià faseva morta
e pö la biasegava i sò silens,
cume mè mader, da la bucca tòrta,
la flebo al brasc, quèl slentàss del temp,
che l’era lì, la mort, e la spetavi
ma nel rivà i lensö cuàtten el temp.
Provare la morte sarà come mia madre: / tremava il mento, la bocca aperta a pesce, il fiato della caverna tra quelle labbra / e gli occhi rovesciati all’indietro senza più essere, / sarà come mia madre, che guardavo / e sembrava un’altra, ed era un crescere / dell’ansia che nello spiare la credeva morta / e poi biascicava i suoi silenzi, / come mia madre, dalla bocca tòrta, / la flebo al braccio, / quell’allentarsi del tempo, / che era lì, la morte, e l’attendevo / ma nel sopraggiungere le lenzuola coprono il tempo.
Me se regordi pü se chí, a Milan,
ghe sia ’na piassa cun l’aria sensa temp,
che dré ’n cantun me sun pruȃ de andà
e i gent ne l’acqua passàven cume ’l vent.
E dré ’l cantun una camisa bianca
pareva lí a spetàm, e gh’era nient.
La piassa sensa temp, ’na dòna stanca,
j òmm che van sarȃ nel sentiment.
Sù no due seri mì. Gh’era ’na panca
e mì che camenavi tra la gent,
e quèl cantun, che mai ghe se rivava,
l’era la vita che de luntan se sent.
Non mi ricordo più se qui, a Milano, / ci sia una piazza con l’aria senza tempo, / che dietro un angolo mi son provato ad andare / e le genti nella pioggia passavano come il vento. / E dietro l’angolo una camicia bianca / sembrava lì ad attendermi, e non c’era niente. / La piazza senza tempo, una donna stanca, / gli uomini che trascorrono chiusi nel sentimento. / Non so dov’ero io. C’era una panca / e io che camminavo tra la gente, / e quell’angolo, cui mai si arrivava, / era la vita che da lontano si avverte.
Tra nüm e Diu gh’è cume un vöj de aria,
penser, un nient, un sass surd e luntan…
E möv el sass l’è cume la busia
che quan’ se dìs par nient, ma la sta là,
ferma, ‘n ingumber, cume sta ne l’aria
la nevura che scund la veritâ.
Tra noi e Dio c’è come un vuoto d’aria, / pensieri, un nulla, un sasso sordo e lontano…/ E muovere il sasso è come la bugia / che quando si dice sembra niente, ma sta là, / ferma, un ingombro, come sta nell’aria / la nuvola che nasconde la verità.
Cent’anni fa, l’8 gennaio 1921, nasceva a Racalmuto Leonardo Sciascia, maestro scomodo che in tutta la sua produzione intese denunciare senza mezzi termini i mali della società italiana e specialmente di quella siciliana. “Mi guidano la ragione – affermava l'illuministico sentire dell'intelligenza, l'umano e cristiano sentimento della vita, la ricerca della verità e la lotta alle ingiustizie, alle imposture e alle mistificazioni». Pur innamorato della sua terra, egli non accettò mai di chiudere gli occhi sull’illegalità, sulla menzogne, sugli abusi del potere che in essa scopriva, attirandosi in tal modo anche l’ostilità di molti conterranei, gli stessi che magari oggi lo celebrano e lo esaltano.
Ben conosciuto per la sua attività di giornalista, saggista (Pirandello, Manzoni, Stendhal, Voltaire, Diderot, Montaigne), commediografo, sceneggiatore, pamphlettista (La corda pazza, La scomparsa di Maiorana, L’affaire Moro) e soprattutto narratore (Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il mare colore del vino, Todo modo, Morte dell’inquisitore), Sciascia compose però anche una molto meno nota raccolta di ventiquattro poesie intitolata La Sicilia, il suo cuore (1952), che fin dal titolo rivela l’amore che inscindibilmente lo legavano a quella terra. “Qui la Sicilia ascolta la sua vita” recita l’ultimo verso del testo eponimo: e Sciascia a sua volta nella sua silloge giovanile si ritrova ad ascoltare e osservare con empatia e disincanto la vita di quest’isola, traguardata dall’orizzonte minimo della sua Racalmuto, facendone erompere un ritratto affascinante e malinconico.
La Sicilia che emerge dalle sue pagine è infatti una terra assolata e passionale, una terra senza mitologia (“le ninfe inseguite / qui non si nascosero agli dèi”), dove la negatività sembra sempre sul punto di sopraffare il poeta, che trova però ogni volta la forza di ricominciare, di riprendere con caparbia il cammino interrotto. La Sicilia è in queste poesie una terra che si staglia in tutta la sua bellezza seducente, nonostante le innumerevoli drammatiche contraddizioni che la caratterizzano.
Sciascia utilizza in questi testi una lingua asciutta e compatta, di vago sapore ermetico (che molto deve a Quasimodo e al primo Luzi), capace di colpire il lettore con immagini pregnanti e ricche di emozione. A caratterizzare la raccolta è la costante compresenza di termini antitetici, dialetticamente bilanciati: combattono la morte e la vita, mentre il poeta si percepisce “vivo come non mai” presso i suoi morti; il silenzio e l’oscurità predominano in una “perpetua stagione di morte”, ma non prevalgono, perché compito del poeta è “mutare il nulla in parola”; il paesaggio “s’incanta di luce” fino all’“ultima notte del mondo”, la “nave di malinconia” ha “vele d’oro”, dalla “rabbia dei lampi” riemerge “un umido sguardo azzurro”, dal silenzio scaturisce un “cuore di musica”. Un ritratto dell’isola e dei suoi abitanti dipinto alla Chagall (come ci avvisa il primo testo della raccolta), sognante e concreto allo stesso tempo, ricco d’amore e di nostalgia.
Come Chagall, vorrei cogliere questa terra dentro l’immobile occhio del bue. Non un lento carosello di immagini, una raggiera di nostalgie: soltanto queste nuvole accagliate, i corvi che discendono lenti; e le stoppie bruciate, i radi alberi, che s’incidono come filigrane. Un miope specchio di pena, un greve destino di piogge: tanto lontana è l’estate che qui distese la sua calda nudità squamosa di luce – e tanto diverso l’annuncio dell’autunno, senza le voci della vendemmia. Il silenzio è vorace sulle cose. S’incrina, se il flauto di canna tenta vena di suono: e una fonda paura dirama. Gli antichi a questa luce non risero, strozzata dalle nuvole, che geme sui prati stenti, sui greti aspri, nell’occhio melmoso delle fonti; le ninfe inseguite qui non si nascosero agli dèi; gli alberi non nutrirono frutti agli eroi. Qui la Sicilia ascolta la sua vita.
L’inverno lungo improvviso si estenua nel maggio sciroccoso: una gelida nitida favola che ti porta, al suo finire,
la morte – così come i papaveri accendono ora una fiorita di sangue. E le prime rose son presso le tue mani esangui, le prime rose sbocciate in questa valle di zolfo e d’ulivi, lungo i morti binari, vicino ad acque gialle di fango che i greci dissero d’oro. E noi d’oro diciamo la tua vita, la nostra che ci rimane – mentre le rondini tramano coi loro voli la sera, questa mia triste sera che è tua.
I morti vanno, dentro il nero carro incrostato di funebre oro, col passo lento dei cavalli: e spesso per loro suona la banda. Al passaggio, le donne si precipitano a chiudere le finestre di casa, le botteghe si chiudono: appena uno spiraglio per guardare al dolore dei parenti, al numero degli amici che è dietro, alla classe del carro, alle corone. Così vanno via i morti, al mio paese; finestre e porte chiuse, ad implorarli di passar oltre, di dimenticare le donne affaccendate nelle case, il bottegaio che pesa e ruba, il bambino che gioca ed odia, gli occhi vivi che brulicano dietro l’inganno delle imposte chiuse.
Dal vecchio chiostro entro nel silenzio
dei tuoi viali, tra i marmi
che affiorano come rovine
nel rigoglio verdissimo dell’erba;
e un marcio odore di terra e di foglie
mi chiude nell’autunno che in te stagna,
anche se il sole
folgora sulle lapidi e sui cippi
o inverno abbrividisce nei cipressi.
Perpetua stagione di morte: e mi ritrovo
vivo, gremito di parole
come l’istrione sulla fossa d’Ofelia;
vivo come non mai, presso i miei morti.
Mi è riposo il ricordo dei tuoi giorni grigi,
delle tue vecchie case che strozzano strade,
della piazza grande piena di silenziosi uomini neri.
Tra questi uomini ho appreso grevi leggende
di terra e di zolfo, oscure storie squarciate
dalla tragica luce bianca dell’acetilene.
E l’acetilene della luna nelle tue notti calme,
nella piazza le chiese ingramagliate d’ombra;
e cupo il passo degli zolfatari, come se le strade
coprissero cavi sepolcri, profondi luoghi di morte.
Nell’alba, il cielo come un freddo timpano d’argento
a lungo vibrante delle prime voci; le case assiderate;
in ogni luogo la pena di una festa disfatta.
E i tramonti tra i salici, il fischio lungo dei treni;
il giorno che appassiva come un rosso geranio
nelle donne affacciate alla prora aerea del viale.
Una nave di malinconia apriva per me vele d’oro,
pietà ed amore trovavano antiche parole.
Il riso stridulo della Notte
si è aperto nel silenzio
come una vena fatale.
E sono stato nascosto in me,
cieca preda spaurita,
senza memoria né speranza di luce.
Ora, in quest’alba che hanno le case,
il paese è come un vascello che salpa:
nella sua nitida alberatura
per me s’impiglia una vela di morte.
Sto a far camorra sulle cose, seduto al sole d’aprile che in me torna a un suo azzardo di risentimenti e di inganni. Guardo accendersi il gioco dei ragazzi,
una rissa leggera che s’incanta di luce, cerca un suo cuore di musica; forse un suo cuore di pena. Il paese, non lontano, sembra affondare nel verde: di là da questo gioco pieno di voci, è solo un paese di silenzio.
La casa splende bianca in riva al mare;
e la palma che svetta nell’azzurro, il verde trapunto dal giallo dei limoni, la fredda ombra sotto la trama dei rami. I suoni stridono sul cristallo del giorno, una barca rossa si allontana piena di voci. La ragazza che esce sulla spiaggia ha dimenticato i sussurrati segreti della notte; saluta con la mano alta i clamori della barca, l’azzurro giorno marino, il sole già alto; poi si china armoniosa a slacciare i sandali vivaci.
Le gru rigano lente il cielo,
più avido è il grido dei corvi;
e il primo tuono rotola improvviso
tra gli scogli lividi delle nuvole,
spaurisce tra gli alberi il vento.
La pioggia avanza come nebbia,
urlante incalza il volo dei passeri.
Ora scroscia sulla vigna, tra gli ulivi;
per la rabbia dei lampi preghiere
cercano le vecchie contadine.
Ma ecco un umido sguardo azzurro
aprirsi nel chiuso volto del cielo;
lentamente si allarga fino a trovare
la strabica pupilla del sole.
Una luce radente fa nitido
il solco dell’aratro, le siepi s’ingemmano;
tra le foglie sempre più rade
splende il grappolo niveo dei pistacchi.
Dopo la raccolta, ragazzi scalzi invadono i mandorleti: scettri di miseria le lunghe canne tentennanti. I loro occhi acuti s’incrunano tra le rame, scoprono la nuda mandorla lasciata. Mi giunge il picchio delle canne,
il lieve tonfo sulla zolla: suoni dell’estate che muore, dell’autunno delle piogge e dei poveri.
La notte frana cieca sulle case.
In lei resta della nostra vita
un calco atroce: l’ultimo nostro volto
nell’ultima notte del mondo.
SANSONE: RACCONTO E SIGNIFICATO - 1
Perché mai un personaggio come Sansone, «gigante amorale pervaso da furori e cupidigia» (come lo definisce un dizionario della Bibbia), deve avere un ruolo e uno spazio così importante nell’Antico Testamento? Come può un personaggio mitologico (quale in prima battuta era certamente Sansone, sul modello del semidio mesopotamico Gilgamesh o dell’Ercole della mitologia greca) essere così importante da meritare quattro interi capitoli del Libro dei Giudici, molto più di qualsiasi altro protagonista di quel libro biblico? Secondo David Grossman, il noto romanziere e saggista israeliano
Sansone è simbolo dello Stato di Israele che usa la forza che possiede in modo sproporzionato, quasi senza averne coscienza e che, sotto le violenze che compie, nasconde un’insicurezza profonda e un indomabile timore della propria precarietà[1].
La sua figura risulterebbe quindi una sorta di metafora politica, valida nel remoto passato, quando Israele era un piccolo popolo bellicoso in lotta con altre popolazioni palestinesi, ma ancor più azzeccata oggi che Israele fa la voce grossa nella tormentata area mediorientale. Forse però è più corretto pensare che la sua strana e paradossale vicenda sia una risposta a domande esistenziali profonde, quasi «uno specchio immutabile della contraddizione umana» (come scrive sempre Grossman).
Ma, innanzitutto, che cos’è il Libro dei Giudici, dove è narrata la vicenda di Sansone?
Il titolo del libro, redatto in ebraico, è intitolato שופטים (Shofetìm), che nella traduzione greca dei Settanta diventa twn Kritwn e in latino Liber Judicum, da cui l’italiano Libro dei Giudici. Ma Shofet viene dal cananeo shopet che significa capo, principe, governatore: per cui i giudici di cui si parla sono in realtà i capi del popolo scelti in diverse occasioni da singole tribù o da un’alleanza occasionale di tribù nata per fronteggiare aggressioni, per guidare il popolo in guerra o per difendersi da eventuali attacchi nemici.
La composizione di questo libro è in gran parte opera dei circoli della scuola deuteronomista, che raccoglie le memorie di clan, tribù e santuari e le dispone in forma di racconto romanzato, secondo un preciso schema narrativo/teologico che vede quattro fasi ricorrenti nella vicenda del popolo d’Israele:
· peccato
· castigo
· pentimento e invocazione di aiuto
· liberazione da parte di JHVH per mano del giudice prescelto a tale compito.
Il libro, come anche gli altri cosiddetti storici, è quindi il frutto di una riflessione sulla storia d'Israele attuata molti secoli dopo le vicende narrate, e vuol mostrare come la realizzazione della promessa dipenda esclusivamente dal rapporto del popolo con Dio: quando il popolo è infedele, viene oppresso dai suoi vicini (cfr. l’inizio della vicenda di Sansone: «Gli Israeliti tornarono a fare quello che è male agli occhi del Signore e il Signore li mise nelle mani dei Filistei per quarant'anni»); ma se il popolo torna al Signore e invoca il suo aiuto, egli lo libera attraverso l’intervento di un personaggio fuori dal comune, appunto un giudice.
Il periodo storico
Lo sfondo storico di queste vicende è la cosiddetta età del ferro, un periodo rivoluzionario che a partire dal XII secolo a.C. vede nel bacino del Mediterraneo la trasformazione dei mezzi di comunicazione (navi e carri più leggeri e veloci), nuove tecniche di combattimento (armi più leggere e nascita del carro da guerra), più elevati tenori di vita (moltiplicazione dei mercati e modernizzazione degli attrezzi agricoli). È questo il periodo in cui gli Israeliti si insediano nella terra di Canaan, grosso modo il territorio dell’attuale Libano, della Palestina e di alcune parti della Siria e della Giordania, trovandosi a convivere con popolazioni politeiste.
La prima parte (1, 1 - 2, 5), che fa da introduzione, offre un quadro generale della situazione delle tribù d'Israele in terra di Canaan dopo la morte di Giosuè. Si tratta in sostanza di una rivisitazione della storia di Israele fatta forse quando il popolo era già stato deportato a Babilonia (VI sec a.C.) e doveva far convivere la sua religione con religioni politeiste che rischiavano di sopraffarla: si rilegge dunque in quest’ottica anche la prima fase dell’insediamento ebraico in Canaan, dove pure erano presenti e potenti altri culti idolatrici, cui gli stessi Israeliti rischiavano di convertirsi. I nemici Cananei (o i Gebusei) più volte citati non vanno allora forse intesi in senso etnico, ma ideologico: sono quelli che non condividono la fede di Israele, i «popoli avversi alla promessa di JHVH» che minacciano la purezza di Israele, seducendolo con proposte religiose incompatibili. Ma essi esistono perché Israele è stato infedele alla promessa fatta nel deserto, quando JHVH aveva stipulato il patto dell’antica Alleanza: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei all'infuori di me». È proprio la disubbidienza a questa promessa la causa di tutte le sventure narrate nel Libro dei Giudici.
La parte centrale (2, 6 - 16, 31) riferisce le imprese dei Giudici. Le prime redazioni della scuola deuteronomista parlavano di soli sei giudici (Otniel, Eud, Debora [e Barak], Gedeone, Iefte, Sansone); successivamente, per raggiungere il numero simbolicamente pieno di dodici, furono aggiunti e interposti gli altri sei (Samgar, Tola, Iair, Ibsan, Elon, Abdon) e Sansone fu spostato alla fine dell’intera sezione. C’è chi sostiene che al conteggio andrebbe aggiunto anche Samuele, che con Barak, braccio armato di Debora, porta il numero totale alla cifra, altrettanto simbolica, di quattordici (sette + sette). Di alcuni di questi capi, guide spirituali e politiche, si danno solo il nome e pochissime notizie biografiche; di altri, come ad esempio di Gedeone, Iefte e Sansone, si raccontano ampiamente le imprese, proprio per mostrare come Dio libera il suo popolo dai nemici scegliendo e mandando uomini che realizzano concretamente la liberazione. Il libro rappresenta un passaggio e un ponte fra la preistoria d’Israele e i primi cenni storici che saranno precisati con i libri successivi (I e II Libro di Samuele, I e II Libro dei Re). Anche quello che oggi è chiamato Libro di Ruth faceva originariamente parte di questa sezione, ma, all’incirca nel 450 d.C., venne separato e posto immediatamente dopo il Cantico dei Cantici e non sono considerati fra i libri storici. Questa sezione è la rielaborazione di antichi racconti che potremmo definire mitologici, in quanto ne era protagonista un eroe autore di imprese quasi incredibili: forse questi erano narrati solo localmente, ma vennero inseriti nel disegno generale in una precisa sequenza anche cronologica e nazionalizzati, cioè diventarono patrimonio comune dell’intero popolo ebraico. Si tratta di storie ricche e variegate, spesso fantasiose e paradossali, ma sempre con una funzione pedagogica ben precisa. Il libro non vuole dunque glorificare gli antichi eroi delle varie tribù d'Israele, ma evidenziare come la vittoria e la salvezza siano opera esclusiva del Signore, che suscita i giudici, salvatori sempre nuovi e soltanto provvisori, e li anima con il suo spirito.
La terza e ultima parte (17,1 – 21,25) rievoca, a mo' di appendice, alcuni episodi che mettono in rilievo il disordine che regnava prima dell'instaurazione della monarchia: vicende sgradevoli che dimostrano l’idolatria religiosa diffusa, come quella di Mica e del santuario della tribù di Dan; i racconti del delitto di Gabaa; la guerra con Beniamino. L’ultimo libro, il ventunesimo, prepara la necessità di una monarchia, tanto che si conclude con questa considerazione: «In quel tempo non c'era un re in Israele; ognuno faceva quel che gli pareva meglio» (Giudici 21,25).
SANSONE: RACCONTO E SIGNIFICATO - 2
Il Libro dei Giudici, dove è narrata la vicenda di Sansone, risulta, come abbiamo visto, piuttosto eterogeneo, composto da una giustapposizione di racconti assai arcaici e di rielaborazioni più tarde, di episodi storici fedelmente tramandati e di costruzioni mitologiche, di prosa asciutta ed essenziale e di stupendi passi poetici. L'introduzione è duplice: una storico-geografica e una di tipo dottrinale, cui segue la narrazione di una lunga serie di smacchi e di umiliazioni subite dal popolo nei lunghi decenni durante i quali Israele non era ancora una nazione, ma solo una blanda confederazione di tribù, spesso in aspra contesa tra di loro.
Una nascita preannunciata
E veniamo a Sansone. Il suo nome (Shimshon) richiama quello del dio babilonese del sole, in accadico Shemesh; la sua capigliatura d’altronde evoca i raggi del sole; e, come il sole, Sansone incendia le messi. Rabbi Yochanan, il grande rabbino ebreo del I secolo d.C., così commentava il suo nome: «Dio è sole e scudo. Come Dio protegge il mondo, così Sansone proteggeva il popolo di Israele».
In effetti, che questo bambino sia destinato a un grande avvenire lo si intuisce fin dall'annunciazione della sua nascita, che richiama da vicino quelle di Isacco, di Samuele, di Giovanni Battista e in certo modo anche quella di Gesù: in tutti questi casi un angelo dal nome misterioso annuncia ai genitori la nascita di un bambino destinato da Dio a grandi cose; per lo più l’annuncio è dato alla madre, che per vari motivi ha difficoltà ad avere figli. I genitori a questo punto di solito dubitano (si veda Sara, la moglie di Abramo, che ride al pensiero di diventare madre alla sua età; o Zaccaria, che non crede alla rivelazione e pertanto resta muto fino alla nascita di Giovanni).
Quando il bimbo nasce, viene consacrato a Dio, che deve farne qualcosa di eccezionale. Ecco perché egli deve diventare nazireo (nazir Elohim), con l’impegno di fedeltà al Signore, la rinuncia agli alcolici e l’obbligo di non radersi mai i capelli. Il nazireato di solito era temporaneo (cfr. Numeri 6,2-8[2]), ma in tempi particolarmente difficili poteva diventare permanente. È questo il caso di Sansone, anche se bisogna notare che – stranamente - non è l’angelo a dare questa indicazione, ma la madre stessa, quasi decidesse in autonomia (l’Angelo dice: «il fanciullo sarà un nazireo consacrato a Dio fin dal seno materno»; la donna riferisce al marito che l’angelo le ha detto: «il fanciullo sarà un nazireo di Dio dal seno materno fino al giorno della sua morte»). Questo carattere di perpetuità del nazireato si trova anche in Samuele, giudice e profeta a sua volta (cfr. I Samuele 1,11[3]); e anche Giovanni Battista fu in un certo senso un nazireo permanente (cfr. Luca 1,15 «egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre»), poiché gli toccò di vivere in un tempo di rovina di Israele, che raggiungerà il colmo con il rigetto di Cristo da parte dei suoi stessi correligionari.
Nel caso di Sansone c’è un’altra stranezza: è la donna a dare il nome al figlio, mentre questo compito era normalmente riservato al padre (e di solito il primogenito prendeva il nome del padre stesso); inoltre in questo caso l’angelo non aveva indicato il nome da dare al fanciullo, come avviene invece in quasi tutti gli altri casi (Gen. 16,11 «lo chiamerai Ismaele»; 17,19 «lo chiamerai Isacco»; Isaia 7,14 «la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele», Mt. 1,21 «Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù»).
Anche Sansone dunque dovrebbe essere nazireo per sempre, perché il tempo in cui vive è drammatico: il nemico è dentro i confini stessi d’Israele, i Filistei dominano e opprimono il popolo ebraico e ne minacciano l’integrità religiosa. È giusto quindi che le circostanze della nascita di questo eroe siano speciali, anche perché straordinariamente lungo è stato il periodo di traviamento del popolo: quarant’anni (e si noti il numero, fortemente simbolico nell’intera Bibbia).
Ma questa straordinarietà fa da subito problema alla coppia genitoriale, che sembra tentennare, dubitare, addirittura voler tentare Dio chiedendo sempre nuove conferme di ciò che le viene proposto. L’ultima inesaudibile richiesta è di poter conoscere il nome dell’Angelo annunziante, il quale ovviamente si rifiuta di rivelarlo: e sembra quasi sul punto di escludere i due dall’evento miracoloso. Insomma, Sansone è un figlio ingombrante, un figlio scomodo prima ancora di nascere: e creerà problemi ancora più gravi ai due poveri vecchi una volta divenuto adulto.
Sansone dovrebbe dunque riscattare il suo popolo, ma pare che il suo interesse principale non sia la battaglia e la vittoria sui nemici, bensì la donna; era probabilmente ancora molto giovane quando «vide una donna tra le figlie dei Filistei […] e disse al padre e alla madre: «Ho visto a Timna una donna, una figlia dei Filistei; prendimi quella, perché mi piace [letteralmente: ‘è piacevole ai miei occhi’]». Eppure subito prima si era detto che «lo spirito del Signore cominciò a investirlo quando era a Macane-Dan, fra Zorea ed Estaol». Sembra strano che lo Spirito di Dio inviti Sansone a prendersi la prima donna che gli piace, per giunta appartenente al popolo nemico! Ed è perlomeno singolare che il ragazzo si rivolga ai suoi genitori con una sorta di ultimatum, espresso con brutale stringatezza[4], mentre è nella cultura dell’epoca che il matrimonio sia deciso dai genitori.
I genitori tentano di dissuadere il figlio, usando parole di saggezza, rifacendosi alla tradizione giudaica[5], ma tutte le loro suppliche restano senza esito: Sansone avrà quel che gli piace, il suo capriccio verrà esaudito. È vero che l’autore conclude sottolineando che «Suo padre e sua madre non sapevano che questo era voluto dal Signore, il quale cercava pretesto di lite dai Filistei»: ma ciò che segue non sembra comunque aprire uno scenario di liberazione del popolo. Il matrimonio dunque si farà, ma della donna il racconto biblico tace il nome.
Ma nel frattempo, il libro presenta un altro episodio strano: l’uccisione a mani nude di un leone. Non è però la stupefacente forza fisica manifestata da Sansone che ci colpisce, quanto l’atteggiamento che egli tiene in seguito: un nazireo non deve toccare un corpo morto, ma lui affonda le mani nella carcassa del leone per mangiare il miele che le api vi avevano prodotto[6]. Non solo poi mangia ciò che è proibito a tutti gli Israeliti[7], ma ne dà a suo padre e sua madre, senza dir loro la provenienza di quel cibo, coinvolgendoli quindi nell’impurità rituale. Sembra quasi che si prenda gioco della loro religiosità, delle loro convinzioni religiose.
Comunque sia, il matrimonio si celebra, con un grande banchetto e una festa di sette giorni in cui il vino scorre a fiumi (non si dice espressamente che Sansone ne beva, però qualche dubbio resta…). I Filistei non sembrano tanto convinti della sincerità di Sansone, temono forse che il matrimonio sia un trucco per infiltrarsi nei loro ranghi e attentare alla loro vita: ecco perché allo sposo vengono affiancati «trenta compagni»: chi sono costoro? guardie del corpo, spie, compagni di gioco? Sta di fatto che Sansone con loro gioca a fare il saggio: propone un indovinello, sicuro che sia impossibile risolverlo, e per questo scommette d’azzardo (trenta vesti contro una!).
Ma questa volta (e non sarà l’ultima) è la donna a prevalere, sfruttando il suo fascino (e costretta dall’ultimatum dei suoi correligionari: «Induci tuo marito a spiegarti l'indovinello; se no daremo fuoco a te e alla casa di tuo padre»). Sansone è sconfitto e deve pagar pegno. Ma come lo fa? Ancora una volta il testo sembra attribuire tutte le azioni di Sansone a Dio, perché ribadisce che «lo spirito del Signore lo investì ed egli scese ad Ascalon», dove, per suggerimento di Dio, ucciderà trenta uomini innocenti a cui toglierà gli abiti per darli ai Filistei vincitori della sfida secondo il patto giurato. Sembra alquanto strano questo suggerimento di Dio, specie se consideriamo che strappando le vesti ai cadaveri egli viola ancora una volta la proibizione valida per ogni Israelita e ancor più vincolante per un nazireo.
SANSONE: RACCONTO E SIGNIFICATO - 3
Dopo il grande innamoramento e il matrimonio, Sansone, abbandonata (ripudiata?) la moglie, sembra dimenticarsene, finché «dopo qualche tempo» (settimane, mesi, anni?) decide di andarsela a riprendere. La trova però sposata e, rifiutando qualunque compromesso (peraltro ragionevole) proposto dal suocero, scatena nuovamente la sua vendetta: e non contro la donna o il suo nuovo marito, bensì contro chiunque indiscriminatamente[8]. È vero che anche la reazione dei Filistei sembra un tantino fuori luogo: subìto il disastro, anziché prendersela con Sansone che ha bruciato ogni loro coltivazione, decidono di bruciare la donna e suo padre, che pure appartengono al loro popolo, come avevano già minacciato di fare durante il banchetto.
Energumeno vendicativo
La faida non si interrompe, perché Sansone fa strage a mani nude dei Filistei, uccidendone un numero imprecisato[9]. Poi si ritira in una grotta, quasi a far pentimento, a vivere da eremita. Ma adesso è la volta dei Filistei a cercare vendetta: essi salgono in gran numero per trovare Sansone e fanno strage di Giudei innocenti, i quali a questo punto, per non pagare le colpe del loro capo, decidono di consegnarlo, accordandosi addirittura con lui per evitare che la collera dei Filistei dominanti si accanisca contro il popolo: vanno in tremila (non si sa mai…) e gli offrono una dignitosa via d’uscita: «ti legheremo soltanto e ti metteremo nelle loro mani; ma certo non ti uccideremo». E Sansone accetta: sembra l’unica decisione saggia della sua vita scriteriata. Ma le cose non vanno come si aspettavano i Filistei. Anche questa volta, a quanto pare, Dio non si è stancato di proteggere il suo campione:
lo spirito del Signore lo investì; le funi che aveva alle braccia divennero come fili di lino bruciacchiati dal fuoco e i legami gli caddero disfatti dalle mani. Trovò allora una mascella d'asino ancora fresca, stese la mano, l'afferrò e uccise con essa mille uomini»[10].
Altri mille uomini (ormai abbiamo perso il conto!). E uccisi con la mascella di un asino morto: ancora una volta Sansone non rispetta le ferree leggi israelitiche e tocca un cadavere.
A questo punto il nostro eroe, che si sentiva disidratato e forse era anche febbricitante, per placare la sete invoca il Signore: è la prima volta che la Bibbia riferisce di una sua preghiera, ma più che chiedere umilmente, egli pretende un miracolo come quello concesso a Mosè nel deserto[11]. Dio però è misericordioso[12]: concede a Sansone ciò che voleva, e in cambio non riceve nemmeno un ringraziamento. Forse è qui la svolta: quando alla presunzione e all’irruenza caratteriale si aggiungono l’ingratitudine, l’indifferenza verso il Creatore. Sansone non cambia mai, è veramente incorreggibile.
E noi non possiamo non chiederci: ma Sansone è davvero un eroe? Per l’Antico Testamento un eroe non è tale perché ha una grande forza, ma lo è se riesce a conquistare anzitutto sé stesso, a resistere ai propri istinti, a rinunciare a qualcosa che desidera (dicevano i rabbini «la Torà rende più deboli coloro che la studiano», sostenendo in tal modo che la forza fisica è inutile per chi ha la forza dalla Parola). Sotto questo profilo Sansone si dimostra l’antieroe per eccellenza, incapace perfino di resistere alla sete! Eppure subito al versetto successivo si legge: «Sansone fu giudice d'Israele, al tempo dei Filistei, per vent’anni». Ma come? un energumeno presuntuoso e vendicativo, un figlio irriconoscente e riottoso, un marito ingiusto e fedifrago, un prescelto da Dio che si dimostra ingrato e indifferente al suo Signore, viene scelto come giudice/capo di Israele per la bellezza di vent’anni? Sembra che tutta la vicenda di Sansone sia molto intricata e difficilmente giustificabile sotto un profilo strettamente teologico.
L’autore sacro ci ha appena confermato che Sansone fu giudice d’Israele per vent’anni, e al versetto successivo, con noncuranza, ci racconta che «a Gaza vide una prostituta e andò da lei»! La donna è ancora un problema per lui! Oltretutto è un azzardo per Sansone venire a Gaza, territorio abitato prevalentemente da Filistei, i quali, difatti, si preparano ad arrestarlo. Ma non hanno fatto i conti con l’incredibile forza del nostro, che sradica le porte della città e le porta in cima a una montagna (qui Sansone sembra anche un tantino esibizionista…).
Ancora una volta senza lasciarci il tempo di capire quel che sta succedendo, l’autore sacro ci comunica che «In seguito [quanto tempo può essere passato? qualche giorno? qualche mese?] si innamorò di una donna della valle di Sorek, che si chiamava Dalila». Dalila la languida, la delicata (come sembrerebbe indicare il suo nome), o forse Dalila la piccola (ma affascinante, irresistibile); o anche colei che impoverisce: fu lei, infatti, come dice il midrash, «a rendere più poveri il cuore, la mente e l’anima di Sansone». Eppure l’attrazione è irresistibile; solo qui, infatti, il testo dice che «se ne innamorò». C’è un’altra cosa strana in questo episodio: l’incontro avviene nella valle di Sorek, cioè la valle delle viti pregiate[13]: ancora una volta il vino pare inquinare le scelte del nostro nazireo.
Questa volta la donna non sembra neppure affascinata da Sansone e dalla sua straordinaria forza fisica, ma piuttosto sobillata dai suoi correligionari, che le propongono un buon affare: «Seducilo e vedi da dove proviene la sua forza così grande e come potremmo prevalere su di lui per legarlo e domarlo; ti daremo ciascuno mille e cento sicli d'argento»[14].
Sansone in realtà non si fida ciecamente di Dalila, anzi sembra giocare al gatto con il topo: per tre volte la mette alla prova rivelandole dati falsi, e per tre volte scopre che lei lo sta imbrogliando; eppure insiste nel tenerla accanto a sé, e «poiché essa lo importunava ogni giorno con le sue parole e lo tormentava, egli ne fu annoiato fino alla morte» le rivela il segreto della sua forza nei capelli mai tagliati. Inevitabile è la conseguenza: il tradimento, la rasatura, la perdita della forza e l’accecamento a opera dei Filistei. Dice un midrash che Sansone venne accecato perché «aveva commesso i suoi peccati con i suoi occhi, e i suoi occhi furono puniti». Ma non è chi non veda come questa punizione è la naturale conseguenza dell’essersi fidato di un essere umano anziché di Dio (dice infatti il testo: «il Signore si era ritirato da lui»). Grossman però aggiunge un’ulteriore riflessione:
C'è un passaggio nella storia di Sansone, quando egli si addormenta sulle ginocchia di Dalila, in cui pare concentrarsi l'intero racconto. Sansone in quell'istante sembra tornato bambino, neonato quasi, libero dagli scoppi di violenza, dagli istinti che gli hanno sconvolto la vita, devastandola. Questo, naturalmente, è anche un momento fatidico, perché Dalila ha già in mano le sue trecce e il rasoio, mentre fuori i Filistei assaporano la vittoria. Di lì a poco a Sansone verranno cavati gli occhi e la sua forza svanirà. Di lì a poco verrà gettato in prigione e i suoi giorni saranno contati. Eppure, proprio in quel momento, forse per la prima volta in vita sua, egli raggiunge la pace[15].
È una lettura quasi psicanalitica, che giustifica l’amore cieco di Sansone per Dalila come un tentativo di ricreare la paradisiaca intimità dell’infanzia, la relazione impossibile con la madre perduta.
SANSONE: RACCONTO E SIGNIFICATO - 4
Abbiamo conosciuto un Sansone mitico – lo diciamo anche noi -, l’uomo bello e forte che piace al popolo e alle donne, sempre eccessivo per dare epicità, per creare curiosità e sorpresa, con allusioni simboliche e cultuali che ci sfuggono, mentre i numeri dei morti non hanno nessuna verosimiglianza, servono soltanto ad esaltare la bravura del protagonista (si può pensare a qualcosa di simile nei poemi cavallereschi della nostra letteratura o addirittura nelle figure fumettistiche dei supereroi).
E siamo alla conclusione. Sansone ha perduto tutto: Dalila, i suoi occhi, la sua forza, la libertà, la dignità; soprattutto ha perduto il suo Signore. Ma in un ultimo soprassalto di consapevolezza, si rivolge a Lui (notiamo che è solo la seconda volta che lo fa in tutto il racconto). Non si dice se Dio gli abbia dato ascolto o no: Sansone sembra anzi restare solo anche nell’ultimo atto della sua vita, che è comunque ancora una volta un atto fuori dal comune, come lo era stata tutta l’esistenza del nostro eroe: altre tremila persone uccise. Bisogna però riflettere che si tratta per lo più di persone innocenti, venute al tempio per pregare; e che Sansone non vuole in realtà riprendere il suo mandato di giudice giusto che salva Israele, ma solo vendicarsi, ancora una volta. Così infatti egli prega: «Dammi forza per questa volta soltanto, Dio, e in un colpo solo mi vendicherò dei Filistei per i miei due occhi!» (Giud 16, 28). Sansone è consapevole che quest’ultima impresa gli costerà la vita: ma davvero solo furore e ansia di vendetta o un sacrificio per far strage di Filistei?
Sansone muore in mezzo a tremila nemici, ma muore solo. Sarà anche fortissimo, ma perché è sempre solo, senza amici, senza donne fedeli, senza compagni d’arme? Perché non raduna mai un esercito da guidare alla vittoria? Sembra quasi che le sue imprese le compia non per aiutare il suo popolo, ma per mettersi in mostra davanti a qualcuno (possibilmente una donna!) Come commenta Elie Wiesel, quello di Sansone è veramente un personaggio ambiguo:
È rimasto un nazireo, ma gozzoviglia con i suoi amici. È un combattente, e per di più invincibile, ma la sua forza fisica proviene sempre dallo spirito di Dio. È un ebreo, ma il più delle volte lo vediamo nel territorio dei Filistei. È consacrato a Dio, ma nei pensieri e nelle azioni se ne va a caccia di donne pagane[16].
Dunque al termine della sua vita egli distrugge l’immenso tempio di Dagon a Gaza (forse è un destino che Gaza sia tuttora sinonimo di distruzione…). E solo dopo morto sarà preso in considerazione dai suoi, che gli daranno sepoltura «fra Zorea ed Estaol» (Giud 16, 31), cioè nello stesso territorio dove era nato (cfr. Giud 13, 25): la sua storia si conclude circolarmente. Ma che cosa ha ottenuto in vent’anni di potere? Commenta Vogels:
Questo Tarzan biblico è stato un fallimento totale in quanto giudice […] ha trascurato gli obblighi della sua consacrazione. Peggio ancora, Sansone sembra non aver imparato nulla dalle sue brutte esperienze […] ha offeso Dio, ha fatto soffrire i genitori, ha usato diverse donne per soddisfare le proprie passioni […] ha ucciso migliaia di Filistei, ma senza ottenere una qualche pace durevole. Che vita sciupata, e che morte inutile! Sansone non è un eroe ma un pazzo[17].
E allora torna la perplessità iniziale. Possibile mai che un personaggio cui sono dedicati quattro interi capitoli del Libro dei Giudici[18] sia un pazzo scriteriato? possibile che Sansone sia un fallito, un capriccioso energumeno e nulla più?
Notiamo a questo punto che Sansone discende, per parte di madre, dalla tribù di Giuda e per parte di padre dalla tribù di Dan: e siccome si legge in Deut 34, 1-3
il Signore mostrò [a Mosè] tutto il paese: Gàlaad fino a Dan, tutto Nèftali, il paese di Efraim e di Manasse, tutto il paese di Giuda fino al Mar Mediterraneo e il Negev, il distretto della valle di Gerico, città delle palme, fino a Zoar
il midrash Sifre trae queste considerazioni: «Dio indicò a Mosè il futuro salvatore di Israele… E chi era costui? Sansone figlio di Manoach». Ma anche David discenderà da queste due tribù: dunque il futuro salvatore di Israele è lui. Questa è la versione ebraica, naturalmente. Per i cristiani c’è la necessità di andare oltre, di cercare oltre David, un suo discendente: Gesù di Nazareth! Gesù fu il vero nazireo, senza le caratteristiche e gli obblighi esteriori del nazireato terreno, perché Egli stesso era, nella sua essenza, come dice la lettera agli Ebrei, «santo, innocente, immacolato, separato dai peccatori ed elevato al di sopra dei cieli» (Ebrei 7:26): questo è il nuovo nazireato, che supera anche quello di Giovanni Battista, «il più grande fra i nati da donna» (Mt 11, 11).
C’è un’altra osservazione da fare. Ciò che sotto la legge era riservato a una ristretta classe di persone, diventa sotto la grazia la parte di tutti. Il sacerdozio, appannaggio di una sola famiglia, diventa privilegio universale di tutti i figli di Dio (1 Pietro 2, 5-9). Il nazireato, seguito nell’Antica Alleanza da pochi uomini e donne, diventa il carattere permanente di tutti i fedeli. E il motivo è che la separazione per Dio deve essere il segno distintivo dei veri testimoni della sua venuta di Salvatore. Questo è il nazireato della Nuova Alleanza, inaugurato dal Cristo. Sotto la legge, un nazireo, uomo o donna che fosse, si separava da alcune cose per un certo tempo per consacrarsi a Dio. Nel regno dell’amore, tutti sono chiamati a separarsi definitivamente dalle realtà terrene per accogliere da Dio il centuplo.
E Sansone, allora? Possiamo provare a trovare un senso anche in questo bizzarro racconto!
Al di fuori del Libro dei Giudici, di Sansone si parla nei midrashim, come abbiamo visto, e nel Talmud, interpretazioni, commenti elaborazioni prossime alla Scrittura, ma una sola volta nella Bibbia, ovvero nel capitolo XI della Lettera agli Ebrei dove comunque è citato fra gli uomini di fede; leggiamone il testo:
[1] La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono. [2] Per mezzo di questa fede gli antichi ricevettero buona testimonianza. [3] Per fede noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sì che da cose non visibili ha preso origine quello che si vede. [4] Per fede Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino e in base ad essa fu dichiarato giusto, attestando Dio stesso di gradire i suoi doni; per essa, benché morto, parla ancora. [5] Per fede Enoch fu trasportato via, in modo da non vedere la morte [32] E che dirò ancora? Mi mancherebbe il tempo, se volessi narrare di Gedeone, di Barak, di Sansone, di Iefte, di Davide, di Samuele e dei profeti, [33] i quali per fede conquistarono regni, esercitarono la giustizia, conseguirono le promesse, chiusero le fauci dei leoni, [34] spensero la violenza del fuoco, scamparono al taglio della spada, trovarono forza dalla loro debolezza, divennero forti in guerra, respinsero invasioni di stranieri.
Per concludere
Ci troviamo di fronte a un personaggio sconcertante e contraddittorio: violento, vendicativo, egoista, ma pur sempre consacrato al Signore e (pur nelle frequenti trasgressioni) fedele a Dio e difensore del suo popolo. Della sua attività di giudice d’Israele – al tempo l’autorità suprema - la Bibbia non dice nulla, ma il Talmud parla del suo governo saggio, rispettoso della giustizia, e senza alcuna pretesa per sé. Dunque Sansone ha molte facce: il racconto, in cui convergono diversi miti, riguarda tempi antichissimi, crudeli e brutali, da guardare con una mentalità lontana sia dalla nostra concezione della storia, sia dalla nostra idea di spiritualità. La Bibbia non è un catechismo organico e neppure un manuale di morale, ma una lunga serie di racconti che parlano di donne e di uomini, con le loro passioni e sregolatezze, la loro sapienza e generosità.
Ecco allora la conclusione che possiamo trarre da questa contraddittoria vicenda umana: Sansone con tutti i suoi difetti, con tutta la sua impulsività e ingenuità, con la sua assurda boria e l’invincibile vendicatività, è un po’ come Raab la prostituta, come il re Davide che tolse moglie e vita a un suo generale, come la Maddalena pentita nel Vangelo (e che dire poi di Giuda?): tutte persone lontane dall’ideale morale che dovrebbe essere modello per noi e neppure tutte persone per bene, non scelte da Dio per i loro meriti, ma pur sempre tutte in grado di diventare strumento di salvezza.
E Cristo d’altronde si fa uomo proprio nell’estrema debolezza della carne per salvare la debolezza dell’uomo, anche quando questo è gravemente peccatore. Pure noi allora possiamo guardare fiduciosi al Cristo come al nostro Salvatore, perché molti personaggi della Bibbia, anche fra i protagonisti, non sono certo modelli di fedeltà, di coerenza, di giustizia, di mitezza: ma sono pur sempre figure che ci guidano verso l’unico vero nazireo. Tanti uomini e donne imperfetti, di cui la Bibbia ci propone la vita (non certo esemplare) per farci pregustare qualche aspetto di quello che sarà perfettamente la vita e l’opera di Gesù Cristo: e tra questi c’è anche Sansone!
[1] David Grossman, Il miele del leone. Il mito di Sansone. Traduzione di Alessandra Shomroni, Rizzoli, Milano 2005.
[2] «Quando un uomo o una donna farà un voto speciale, il voto di nazireato, per consacrarsi al Signore, si asterrà dal vino e dalle bevande inebrianti; non berrà aceto fatto di vino né aceto fatto di bevanda inebriante; non berrà liquori tratti dall'uva e non mangerà uva, né fresca né secca. Per tutto il tempo del suo nazireato non mangerà alcun prodotto della vigna, dai chicchi acerbi alle vinacce. Per tutto il tempo del suo voto di nazireato il rasoio non passerà sul suo capo; finché non siano compiuti i giorni per i quali si è consacrato al Signore, sarà santo; si lascerà crescere la capigliatura. Per tutto il tempo in cui rimane consacrato al Signore, non si avvicinerà a un cadavere; si trattasse anche di suo padre, di sua madre, di suo fratello e di sua sorella, non si contaminerà per loro alla loro morte, perché porta sul capo il segno della sua consacrazione a Dio. Per tutto il tempo del suo nazireato egli è consacrato al Signore».
[3] Anna promette al Signore: «se vorrai considerare la miseria della tua schiava e ricordarti di me, se non dimenticherai la tua schiava e darai alla tua schiava un figlio maschio, io lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua vita e il rasoio non passerà sul suo capo».
[4] Giova a questo punto ricordare un altro grande personaggio la cui reazione si avvicina molto a quella di Sansone: il re David, che «dall'alto di quella terrazza vide una donna che faceva il bagno: la donna era molto bella di aspetto. David mandò a informarsi chi fosse la donna. Gli fu detto: “È Betsabea figlia di Eliàm, moglie di Uria l'Hittita”. Allora David mandò messaggeri a prenderla» (2 Sam. 11, 2-4).
[5] Anche Abramo aveva cercato per il figlio Isacco una donna proveniente dal suo clan, escludendo qualunque donna cananea, conscio che un simile legame avrebbe potuto costituire un pericolo per l’integrità religiosa di Isacco. Si veda Deut. 7, 3-4: «Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farli servire a dei stranieri, e l'ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe»; cfr. anche Prov. 2, 1.16.19.
[6] Si noti che solitamente nella Bibbia il leone e le api simboleggiano il nemico mandato dal Signore verso chi non rispetta la sua santità.
[7] cfr. Levitico 11,24-28 e 31-40 dove si dice tra l’altro: «chiunque li toccherà morti, sarà immondo fino alla sera. Ogni oggetto sul quale cadrà morto qualcuno di essi, sarà immondo».
[8] È l’episodio delle trecento volpi e della devastazione che ne consegue: Giud. 15, 1-8.
[9] Giud. 15, 6-8.
[10] Giud. 15, 14-17.
[11] Cfr. Num. 20,11: «Alzò la mano, percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e tutto il bestiame».
[12] Come commenta Vogels: «Egli non vuole che Sansone muoia di sete o sia ucciso dai Filistei. È un Dio che accoglie la persona per quello che è, con tutte le sue imperfezioni, e che ascolta la preghiera umana, anche di genere piuttosto egoistico» (Walter Vogels, I falliti della Bibbia, San Paolo, Torino 2008).
[13] Cfr. Isaia 5,2.
[14] Il siclo in Mesopotamia era il salario mensile di un operaio. Qui si tratta di oltre 10 chili d’argento per ognuno dei capi delle cinque città principali dei Filistei, quindi una sessantina di chili in totale: una bella somma!
[15] David Grossman, Il miele del leone. Il mito di Sansone, cit.
[16] Elie Wiesel, Le storie dei saggi, Garzanti, Milano 2006.
[17] Walter Vogels, I falliti della Bibbia, San Paolo, Torino 2008.
[18] Quattro interi capitoli sono dedicati a lui, quando ad altri giudici si dedica una frase soltanto: per esempio in Giud. 10, 1-4 di due giudici si dice: «Dopo Abimèlech, sorse a salvare Israele Tola, figlio di Pua, figlio di Dodo, uomo di Issacar. Dimorava a Samir sulle montagne di Efraim; fu giudice d'Israele per ventitré anni, poi morì e fu sepolto a Samir. Dopo di lui sorse Iair, il Galaadita, che fu giudice d'Israele per ventidue anni; ebbe trenta figli che cavalcavano trenta asinelli e avevano trenta città, che si chiamano anche oggi i Villaggi di Iair e sono nel paese di Gàlaad. Poi Iair morì e fu sepolto a Kamon».
Chi di noi ha più di sessant’anni non potrà fare a meno di ritrovare, nella nuova silloge appena edita da Davide Puccini, gli odori, i sapori, i colori della sua gioventù, di quegli anni del primo dopoguerra e del boom economico che paiono così lontani dalla contemporaneità. Animali diversi ed altri versi è una raccolta scandita in undici sezioni tematicamente unitarie, che tracciano con delicatezza scenari carichi di spensierata nostalgia. Si inizia con quindici ritratti di Animali diversi: un topolino dal musetto grazioso e un cavalluccio marino, un geco e un piccione, una chiocciolina e una farfalla, un gatto e un riccio di mare, altri animali di piccole dimensioni che portano “un messaggio d’amore” inatteso; destinato subito dopo a riproporsi nella visione di Alberi foglie fiori frutti che stupiscono il poeta, perché rappresentano quasi uno “spreco di bellezza”.
La terza sezione è un elogio del mare, amato e goduto da Puccini nella sua “ampiezza infinita”; seguono le sezioni dedicate al corpo, alla vita e alla morte, autoritratti (diretti e indiretti) che ci offrono l’immagine di un poeta a suo agio nel “camminare silenziosamente”, nell’attraversare l’esistenza con appartata delicatezza.
La sesta sezione ci riporta Dal passato il racconto di eventi, situazioni, giochi che erano sepolti nella nostra memoria e si riaffacciano gioiosamente con la loro carica di gioventù; e trova ripresa nell’ultima sezione, dedicata ad alcuni Dolci ricordi: la penitenza che inesorabilmente punteggiava i nostri giochi infantili e la raccolta di francobolli, la scatoletta della liquirizia e il carretto del gelato, i dolci regionali e le carrube sgranocchiate al cinema, i ricciarelli di Natale e le “palline di vetro colorato” di proustiana memoria. Sono oggetti e occasioni che ci riportano in un mondo fiabesco, perché secondo il poeta “le cose possiedono un’anima”: sono luoghi, oggetti, situazioni di un passato che forma il sapore dolce della nostra infanzia e giovinezza. Resta da dire della nona sezione, forse la più importante, intitolata Epicedi, dove Puccini rievoca amici e amiche perdute di cui ricostruisce tessere vitali pregne di affetto e malinconia.
Un’ultima considerazione merita lo stile, sempre curato e nello stesso tempo leggiadro, ricco di finezze ineguagliabili, rime equivoche, enjambement, calembour che dimostrano la grande dimestichezza di Puccini con la letteratura di tutti i secoli: il culmine della perfezione si ritrova nella Sestina dei sogni (posta non a caso esattamente al centro della raccolta), dove la canonica retrogradazione incrociata è splendido supporto alla testimonianza di vita del poeta.
Aliando lieve una farfalla viene
un attimo a posarsi
sulla mia spalla. Cara,
che tu mi abbia scambiato per un fiore
è un tenero segnale
di amore universale.
Libera la libellula librata
nel fremito vibratile delle ali;
enormi occhi con vista panoramica
rispetto ai quali l'uomo è quasi cieco,
rosso o smeraldo misto ad oro il corpo:
gioiello senza eguali di un tesoro
di grazia e leggerezza proverbiali
.
È triste questo spreco di bellezza
per un insetto: a cosa può servire?
Ma la bellezza è spreco o non esiste.
Sopra un folto tappeto
di fogliette carnose
che coprono il pendio e si protendono
come mani che chiedono,
si aprono i pugni che verdi racchiudono
le macchie colorate degli amanti
del sole, la corolla
si allarga allegra nel flagrante viola,
mostra il cuore dorato
che è subito assaltato
da nugoli frementi
che suggono voraci
e ingordi si cospargono di spore
avviando un processo
di furibondo eppure casto sesso.
Fratelli nello spirito,
la vostra breve vita la passate
tutta in omaggio a colui che portate
con coraggio nel nome altisonante;
vi offrite confidenti,
appassite dolenti
di non poter godere ancora un poco
del suo fecondo amplesso.
Il mare è calmo sotto il cielo grigio.
Una leggera brezza di grecale
muove blanda corrente che si placa
lentamente nell'aria che ristagna.
Ora nulla disturba questa quiete.
Ma ecco un primo soffio che lieve alita
appena percettibile sul volto.
Ne cerco il segno in acqua: ecco s'increspa
al largo con un brivido che subito
s'affievolisce e posa, ecco riprende
dove non c'è il ridosso delle rocce,
di nuovo perde lena e ammutolisce.
Il sole che s'insinua fra le nubi
solleva ancora un poco di respiro
nell'ampio seno che mai non riposa
e come un fiume placido si sposta
la vasta massa in senso orizzontale:
finché ad un tratto, trionfante forza,
si leva maestoso il maestrale.
Io che scrivo con questa stilografica
di segno fine sono - nomen, omen -
un uomo d'acqua. Inconsistente scorro
come l’inchiostro liquido bluastro,
trascorro la mia vita sulla ruga
di una sottile lamina di carta,
pallido astro che rapido declina,
lasciando appena un'orma diluita
che si trasforma in labili parole:
il sole la prosciuga ed è finita.
A Stefano Carrai,
in debito di un ricordo
Il gioco era un pretesto
per dare penitenza
a chi ne usciva vinto
soprattutto se nella lieta frotta
qualche bella bambina lievitava
e per incantamento
la lotta si accaniva:
dire fare baciare...
Eravamo in attesa dell'evento,
materiale in fermento,
incuranti di quel che minacciava
l'avvenire in agguato dietro l'angolo.
Ora che invece il gioco
ha perso ogni attrattiva e lo rimpiango,
non mi resta più alcuna alternativa:
… lettera testamento.
Le cose sono spietate.
Le cose non conoscono
la discrezione di morire.
Le cose sopravvivono
sempre e comunque, anche malridotte
Le cose stanno immobili
con la loro muta presenza
implacabili come dei rimorsi.
Hai sfidato la morte a viso aperto
sul suo terreno: alle prime avvisaglie
del cancro l'hai virato in arte pura
facendo diventare la sua immagine
terrificante un gioco di colori
affascinante nella sua astrattezza.
Se il fumo era la causa evidente,
non ti sei mai pentito e fino all'ultimo
senza piegare il capo, renitente,
sei rimasto fedele al caro vizio.
Sapevi bene di non poter vincere,
ma con ostinazione hai combattuto
senza paura finché hai potuto.
Non ho memoria dei banchi di scuola
dove insieme sedemmo da ragazzi,
ma ancora vedo un tuo disegno a cera
(una candela illumina la scena:
natura morta con verde bottiglia)
su carta nera a lungo appeso al muro
nel corridoio di casa di allora.
Mi torni a mente nella tua durezza
con affetto dettato da amicizia
che negli anni si perde eppure resta
capace di capirne la dolcezza.
Nei pomeriggi estivi, dopo il mare,
il gelato arrivava in bicicletta
su di un carretto spinto dai pedali
preannunciato da scampanellio
tanto sonoro da chiamare in frotta
i ragazzi del vasto vicinato.
Ad officiare il rito sempre uguale
con in testa un berretto bianco a barca
rovesciata a coprire la pelata
il caro Ponzio col sorriso strano
di chi possiede pochi denti in bocca
e povere parole smozzicate:
sollevando il coperchio di lucente
acciaio apriva l'intimo caveau
da cui traeva con una paletta
il tesoro di crema e cioccolato
murato con due tocchi in cima a un cono
sfilato dalla sfilza un po’ ricurva
impilata alla meglio sul ripiano.
Andava trangugiato senza indugio
per non farlo squagliare sotto il sole.
Il gelato costava dieci lire.
Il sentimento che ci spinge a amare
tutto il bello che vive sotto il sole,
portato dall'istinto al proprio fine
di trovare l'oggetto dei suoi sogni,
può diventare amaro come il sale
se gli manca la meta per cui parte.
Tutte le volte che spontaneo parte
alla ricerca del cuore da amare
attraversa deserte e buie sale
prima di risalire verso il sole
che riesca a dorare un poco i sogni,
nella mente dell'uomo unico fine.
Ma se il dolore che segna la fine
di ciò che della vita è tanta parte,
l’iridescente trappola dei sogni,
bagna i nostri occhi di lacrime amare,
lascia libere le sole
parole che ci fanno arido sale.
E mentre la marea schiumando sale,
l’acre soffrire sembra senza fine
persino quando fuori splende il sole
che riscalda la terra in ogni parte,
perché ci sono troppe cose amare
che offuscano la luce alta dei sogni.
Nostri alleati traditori, sogni,
per vostra colpa inanimato sale
diviene ciò che noi potremmo amare
e che sarebbe il nostro solo fine
se non ci distogliesse dalla parte
giusta il vostro mutare ad ogni sole.
Inutile sperare che col sole
del nuovo giorno finalmente i sogni
consunti da vecchiezza faccian parte
di un'esistenza concreta che sale
verso il destino d'avere la fine
che tocca al corpo che è buttato a mare.
E ancora ciò che ci fa amare il sole,
il fine e acuto stimolo dei sogni,
sale in scena a dire la sua parte.
«Scrivendo mi sento ogni volta portato in salvo»: questa rasserenante affermazione fu fatta a novant’anni da Giancarlo Majorino, uno dei protagonisti della poesia italiana del Novecento, morto a Milano, la sua città, nel maggio scorso. Dopo l’esordio con il racconto in versi La capitale del nord (1959), per sessant’anni egli ha dialogato nella sua opera con la storia personale e universale, sempre nella convinzione che la poesia avesse una responsabilità insostituibile nel mettere in luce e condannare tutte le contraddizioni dell’esistenza. Si definiva “insofferente di ingiustizie”, quindi “di sinistra”, senza essere mai stato iscritto a un Partito: il suo impegno civile doveva trovare voce solo nella scrittura. Una scrittura che ha saputo esprimere fedelmente la sua inquietudine, l’insofferenza per ogni forma di sopraffazione, grettezza, ipocrisia; ma anche la ricerca di strumenti espressivi articolati e poliedrici, capaci di comunicare al meglio la complessità e l’inafferrabilità dell’esistenza.
Nelle raccolte più tarde, da La solitudine e gli altri (1990) a Le trascurate (1999), da Viaggio nella presenza del tempo (2008) a La gioia di vivere (2018), lo stile si fa ancor più spigoloso e trasgressivo, teso ad interpretare la realtà dell’oggi, sempre più cupa, caotica, quasi inconoscibile. Eppure coesistono, in questi testi magmatici e problematici, da un lato il tentativo di esprimere la disorganicità dell’esistenza, il giudizio negativo sulla realtà contemporanea, l’angoscia per le vicende brutali che ogni giorno si ripropongono: ma nello stesso tempo la folle speranza di poter modificare il mondo, di poter incidere in maniera positiva sulla sua evoluzione. In tal modo l’apparente impoeticità di certi testi risulta coerente con il tentativo di costruire una scrittura sempre più aderente alla metamorfosi continua della vita: la poesia di Majorino, in sostanza, si sforza costantemente di cercare un accordo, una sintonia tra arte espressione e vita quotidiana, anche a patto di risultare antipoetica.
O mia città vedo le porte gli archi
che un tempo limitavano il tuo cauto
intrecciarsi di case strade parchi
oggi spezzarti come una frontiera
o come una catena di pontili
congiungere le tue zone più vili
ai box del centro dove grandi banche
rivali o consociate in busta chiusa
dan vita o morte in crediti d'usura
legate col cordone ombelicale
del capitale e in loro trasformate
e quelle in queste ritmica simbiosi
le sedi razionali dell'industria
con l'asino alla mola e i nuovi impianti
la rapida salita - la discesa
più rapida - la sedia dei trent'anni
intorno curve schiene di negozi
la Galleria col tronco fatto a croce
in fondo oltre la Scala la gran piazza
Cavour congestionata la questura
la pietra dell'Angelicum trapassi
violenti e luminosi in via Manzoni
il tufo è ancora base ai grattacieli?
contro il centro e soltanto qualche raro
sabato sera in blu nei suoi ritrovi
s'addensa l'altra razza la sicura
nemica della pace dei signori
e topi sul formaggio ogni mattina
dalla Nord da Varese dalle strade
fitte di bici e scooter le tribù
compagne di lavoro o traversanti
le piazze con stendardi per San Siro
o incolonnate per dimostrazioni
"da quanto tempo il tavolo rotondo
della terra è quadrato?"
"per quanto tempo ancora notte e giorno
saranno scarpe al piede dei padroni?"
nel mezzo come un uomo tra due fuochi
uno che brucia l'altro che risplende
il ceto medio spirito e materia
all'ombra dei potenti per la pace
per lunga convenienza e religione
contro di loro nella propria essenza
costretto a verità di sottomesso
se fedele dev'essere il poeta
al tempo scriveremo di partenze
frenate di ricorsi in cassazione
di lenze che catturano usignoli
gettati in acqua ritornati pesci
con versi che la biro dell'ufficio
(la marca della ditta l'attraversa)
la vespa delle ferie la ragazza
di tutti e rabbia/amore detteranno.
Contorto ritorno ad
Itaca, a casa
Gagliardi conti la tua mania tessendo
Penelope
cui non torna Ulisse detto Nessuno
rubandoti alla ditta
contabile
di sé sparecchiato continua
lungo elenco di cifre
dopocena
allegra e circondati come siamo
di figli non nati
nell’inquieta
cucina certe inutili poppe che hai
senza i
figlioli i fagioli
per giocare con la morte a tombola
ugualmente utili che
hai
nel letto mi ricordo che cantavano
certe sirene dal visino
aguzzo
che finivano in triangolo laggiù
e trentadue
incisivi ora mentre giri
il fianco con i fori delle iniezioni.
l'Enrica dorme:
posa la faccia
sul cuscino che torna
petto di mamma
nel buio
in quella calma
avvicina il mento all'intestino
le ginocchia al mento
nell'acqua della stanza
nuotano pesciolini.
Pacata mente sgrano gli occhi dei minuti
e riconosco il Caso: nientetutto:
potresti scomparire sei comparsa
tantopiena, cosìfrutto.
potresti scomparire sei comparsa
Misurata, carina, scesa - è chiaro -
da un'educazione paleopatrizia.
Prima della classe, non sa
cosa significhi lotta di classe.
Ma lo imparerà! urla la Lòvere;
invece forse no. Comunque
ringrazia, uscendo,
chi glielo spiegherà.
Adora i concerti ed è priva,
per ora (pensa?), di carnalità.
Le sue calzette bianche
inebriano le affaticate, stanche
proff. a mezzo servizio.
La comunista invece le dà quattro:
ringrazia anche la comunista, sa
che lo scrutinio la favorirà;
lo scrutinio di classe generale
non può farle del male.
Sit-in
Ma
c’era qualcuno, in quella folla di giovani
vibratili e
prefiguranti la nuova brughiera,
così usciti dall’ ossessione d’eros, belle e belli,
uniti nel volere e nel recitare la Rivoluzione,
è
triste scriverlo, c’era qualcuno, io,
che sbirciava cosce
seni labbra, pare incredibile
tu che guardi
la purezza delle cose
la loro sicurezza
tu che guardi
alterata dall'ignoto
che fa da tuorlo al corpo
pure porgendo il profilo inviti a qualcosa
d'intensamente stabile e fluttuante
quindi con la voce battezzante
nomini dividi esponi l'ombra
sorella misteriosa
persona corporale più ricca di ogni cosa
Primo canto
luna
più della luna in cielo stava
sull’intero ma poco
guardata poco
in postazione cellule tuttora silenziose
dove
confluiscono si flettono e si abbandonano
sinergie svaganti
e
si riprendono
macchie interne o vichi foreste o avi bestia
ma la potenza dello
spazio tempato
ha la meglio, crèdimi credètemi
luna più della
luna in cielo stava
non ci si può togliere da un piangere,
non
ci si può togliere da un piangere da un ridere
e i
lumi si smagriscono, si spengono
è la città
indiretta
dove accucciati sleali si vestono e andiamo
luna più della
luna in cielo stava
e sull’intero ma poco mirata poco
e
non era bello ma era necessario lasciare l’io
lo
sbriciolato incerottato coi cerotti a pezzi
allontanarsi dalle
fiammelle grette
e volare a sogno volare introiettando bassi
bassi
il cemento, remoto il confine dell’erba
È l’immediato che mi sorprende sempre:
ecco il libro che si sta formando
Enrica insegue col bicchierino
altri ultimi Tivù con un po’ di mondo
ecco l’alba di toni che sta riprendendosi
il mondo salvato dagli adulti liberi
lo sforzo della poesia
vari passati tornano presenti
ancor via i santi di potere stupido
il mondo salvato dalle donne libere?
aiutare i politici ne han bisogno
tanto da invecchiare prima di morire
l’ignoranza non cede, è troppo nutrita
permetter anche all’interrogato d’interrogare
e su sé e sugli altri
Poesia e Conoscenza gran titolo!
come già ci fosse una vita in comune
sentendomi un singolo-di-molti
progettare scuole di materie nuove
i trascorsi? da sapere, non sapere
sobbalzi continuanti cervello domina
a tagliar fogli di mondo un vero dòmino
gioco in cima? forse sì, anche una fratellanza
però da bocc’aperta da occhi aperti da
e di tutto
e stai provando come turno tutto il vivere – scrivere
tastandone vari lati varietà
parte di equilibrio sgrana Enrì
l’appartamento è grande!?
dodici ore scatteranno una via l’altra.
Poeta e critico letterario, Piero Bigongiari (1914-1997) ha costituito fin dagli anni trenta con Luzi e Parronchi la “triade dei poeti ermetici toscani” (come la definì Carlo Bo). La sua poesia suggestiva e raffinata è costantemente impregnata di interrogativi esistenziali, che la luce del paradosso contribuisce a illuminare: la ricerca della verità nascosta sotto gli oggetti, divenuti simboli di un altrove che sfugge inesorabilmente (“la verità che nello stesso / errore è celata”), spinge infatti il poeta a scoprire che “il mistero è uno, e solo l’uomo unanime può opporsi ad esso e di esso far poesia”. La sua scelta di scrivere nasce dunque dalla convinzione che solo la poesia, “come il frutto delizioso del melarancio”, è capace di cogliere la dimensione ‘vera’, ‘essenziale’ della realtà, che nella quotidianità risulta quasi illeggibile. Solo la poesia può vincere l’assenza, superare la contraddittorietà del mondo e cogliere il senso più profondo dell’esistenza, oltre il caos apparente.
Questo è stato sempre l’obiettivo di Bigongiari nelle sue numerose raccolte poetiche, tra cui giova ricordare almeno La figlia di Babilonia (1942), romanzo in versi dedicato a un’amata perduta, Il corvo bianco (1955) e Antimateria (1972), dove predominano i temi dell’assenza e del mistero, La legge e la leggenda (1992), poema che rilegge i miti classici, ricco di un’aggettivazione densa e straniante, e infine Dove finiscono le tracce (1996), uscito pochi mesi prima della morte, quasi un testamento spirituale, compendio della sua particolare concezione della vita.
Il poeta ha raffinato nel corso degli anni il suo linguaggio potentemente allusivo (“il ticchettio delle parole”), giungendo a una limpidezza di dizione che non rinuncia in ogni caso alla profondità della riflessione, alla ricerca del superamento dell’opacità del linguaggio: ne scaturisce un dettato dove le parole hanno un ruolo fondamentale per rendere leggibile la realtà.
Più uno, meno uno
La
poesia che nasce nella tua stanza
è come il frutto
delizioso del melarancio,
odo nel ticchettio delle parole
il
carosello perduto e melanconico
un notturno riassorbersi
d'aconito,
nel tuo slancio d'amore, queste sere.
Non mancan le
parole per godere,
mancan le parole per non soffrire.
La
farfalla di luce sul candeliere
sugge l'ultima cera, la più
calda,
la più molle e volatile, sul fondo.
Come in
miasmi di luce, anch'io m'effondo,
non mancan le parole per
soffrire
in questa mia stanza di fantasmi.
Assenza
Non ha il cielo un segreto che ti culmini,
le tue risa s'iridano al vetro
della sera dolcissima di fulmini.
Al cielo sale nel tuo gesto effimero
la riga d'un diamante, lo smeriglio
ricalcola all'assenza una giunchiglia
morta nel sonno e al tenero fermaglio
del tuo dolore che non si può chiudere
geleranno dagli astri luci blu,
luci sorte alla piega delle labbra
che rimormorano arse cielo al cielo.
Dove un rapido greto si distrugge,
dove odorano (al tuo braccio?) gaggie,
segreto faccio
mia la tua pena che non ti raggiunge.
Eco di un’eco
Ti
perdo per trovarti, costellato
di passi morti ti cammino
accanto
rabbrividendo se il tuo fianco vacuo
nella notte ti
finge un po’ rosa.
Quali
muri mutevoli, tu sposa
notturna, quale spazio
abbandonato
arretri al niveo piede, al collo armato
del
silenzio dei cerei paradisi
che
in festoni di rose s’allontanano?
Eco in un’eco, mi
ricordo il verde
tenero d’uno sguardo che dicevi
doloroso,
posato non sai dove
di
te, scoccato dentro il misterioso
pianto ch’era il tuo
riso. Oh, non io oso
fermarti! non i muri che dissipano
di
bocci fatui un’ora inghirlandata.
Odi
il tempo precipita: stellata,
non so, ma pure sola Arianna
muove
dalla sua fedeltà mortale verso
dove il passo
ritrova l’altra danza.
Non so
Nell’umido
brillare dei tetti,
nel calare del sole tra scogliere
di
strade, non so cos’altro aspetti,
s’altro dichiari
con parole rade
ai passanti, ai vetri ciechi del tram,
e a un
tratto molto so della speranza,
ma non so neppure cosa si
perde
nell’ansimo dell’aria, quasi un
battito
accelerato di motore,
quasi tacchi più fitti,
una catena
che si tende, gli occhi un poco più desti.
Ma
lo sguardo è dentro le cose
a cercarvi la buccia tra la
polpa,
e non v’è colpa sufficiente per la nostra
gioia,
nemmeno la speranza e la solitudine:
tu sai che non so,
tu sai che puoi chiedere.
La tempesta
Forse è questa l'ora di non vedere
se tutto è chiaro, forse questa è l'ora
ch'è solo di sé paga, ed il tuo incanto
divaga nell'inverno della terra,
nell'inferno dei segni da capire.
Ma non farti vedere dimostrare
ancora le tue formule, è finita
l'orgia dei risultati rispondenti
alle cause. Sei sola, batti i denti
accosto ai vetri nevicati, tetri.
Divergono in un morbido riaccendersi
d'altro sangue i destini che ci unirono.
Tu li ricordi come - in queste tarde
ore che riscoccano dalla pendola -
in un fuoco di tocchi, in un orrendo
scatenarsi, dai tuoi armadi, di bambole.
La nostra vita, catturata, vedi,
mentr'era armata solo di silenzio,
come dai parafulmini ridesti
da un lampo, trova il filo da seguire
per non morire restando se stessa.
Lied
Un'altra rosa oscilla addolorata,
la vite in fumo raspa dietro i vetri,
i ginepri smentiscono la mano
evanescente che li addita amari,
il verde scende a valle avvelenato,
a mulinello il vento te lo porta
presso il cane fedele stilla porta
di casa tra il prillio lungo dei pioppi,
le rondini ritessono la notte
dalle punte solari delle tuie
alle buie pupille che l'attendono,
il pipistrello scava la miniera
dell'ombra come una farfalla nera,
di fiele gronda la sua bocca. Spera!
Nessuno in cammino
Eccola, la città in penombra,
la città della tolda e della sclera,
spenta di marmi nella lenta sera
che intorno a lei s'aggira a cercarmi.
O a cercare se stessa nel mio occhio
che vede come cera all'orizzonte
disfarsi un porto, là innalzarsi un ponte
su cui passa un fanciullo, la chimera
tenendo in pugno della propria vita.
Se troppo ho osato, è che non fu Nessuno
che il suo pianto più alato come il grido
che a perdifiato spargono le rondini
sul tetto patrio dove sono stato
insieme un figlio e un padre.
Sono stato
chi sono? Sono quello che sarò?
Fuoco rarningo che cerca la stoppia
dove accendersi della propria storia?
Il dono è da accettare a mani aperte,
ma quanto esse stringono, cos'è?
E dov'è il nido? Non nella memoria...
Le rondini lo sanno. Io lo cerco
nella grigia alternanza della cenere
dove il fuoco nascosto a un tratto sprizza.
Senz'ali ma col vento e la pazienza
delle cose che non cercano di essere
la ripicca della dimenticanza.
L'ombra della luna
Nulla, più nulla, un suono non ti regge
assetata stasera al plenilunio,
é finita la vita oltre la tua legge,
questo vento s'immischia dentro il bruno
tuo pallore, come vano!
Si voltano le pergole, le azzurre
cenerarie dolorano:
se fuma un'ala lungo la facciata
tu perseguine l'ombra fino a dove
si spegne senza luna.
Tra la legge e la leggenda
Amo
perdere qualcosa, più che per ritrovarlo,
per
lasciare una traccia a chi m’insegue,
forse
perché amo farmi là raggiungere
dove
non sono, mentre guardo il mare
che
insinua tra le sue macerie il grido
del
gabbiano e un nido tra la ruggine
perduto
che galleggia tra le schegge,
al
contrario del gran depistatore,
perché
so che è difficile seguire
chi,
indeciso sulla propria meta,
ma
forse proprio in essa pesticciando,
si
distrae dietro un viso, si nasconde
dietro
il dito che indica le onde
che
asciugano e bagnano la riva
del
paese natale, la deriva
della
luce che liquida ne assale
le
sponde e nella mente la ravviva.
Amo
confondere il cricchio del tarlo
a
un andante di Mozart…, mescolare
il
passo del viandante per la via
con
quello di chi risale le scale
a
semicerchio della nostalgia.
Amo
dimenticare il profumo della cedrina
su
quello della tua pelle. Del tutto
ricordare
la parte più obliata,
del
frutto il seme ch’entro sé difende
la
sua amarezza in duro tegumento.
Ma
se mento, non mento che a me stesso
per
dirti la verità che nello stesso
errore
è celata, difesa, abbandonata
a
crescere in se stessa, nelle proprie
contraddizioni
elementari – è lì
che
ogni due si unifica, nei suoi
seminali
abbandoni.
Amo
guardarti
mentre
riveli in te una dolcezza
che
è quella della fata che nascosta
tra
gli alberi occheggia che nessuno
la
segua andando verso il suo tugurio
arredato
come una reggia se tu
ne
precorri l’augurio coi tuoi occhi,
scheggia
impazzita tra gli altri balocchi
del
destino che l’uomo chiama vita.
Cammino
dietro a poche cose, quelle
meno
necessarie, le più volatili,
le
meno rare. Forse in mano ad esse
è
il codice per leggere il messaggio
che
la legge ha lasciato sul tuo tavolo,
semiaperto,
semicancellato,
fra
terribilità e dolcezza.
Ma
se tengo le mani ad un tempo
sui
due telai, è che amo riprendere
dal
secondo la tela che Penelope
sta
sfacendo: è solo con quel filo
–
altro
non ne ho: l’aspo ne fu rapito –
che
sull’altro ritesso la leggenda.
Tu
che la leggi strappane la benda
dei
segni che l’accertano o la mettono
in
forse, perché, vedi, sotto sanguina.
Nella Nobili nasce nel 1926 da una famiglia poverissima in un quartiere popolare di Bologna e a dodici anni è costretta a lasciare la scuola per iniziare a lavorare. È una lirica di Ada Negri a farle scoprire la poesia, cui si dedica da subito con divorante passione, nelle pause del lavoro e nelle notti insonni: impara da sola il tedesco e l’inglese per poter leggere i poeti che ama, Rilke e la Dickinson in particolare. In poesia (e poi anche in prosa) racconta la sua “vita di dolori, angosce e minacce”, la durezza del lavoro in fabbrica, la delusione per le miserie umane, lo sconforto per i pregiudizi di cui cade vittima. Nel ’49 si trasferisce a Roma, dove pubblica il suo primo volume dal semplice titolo di Poesie: il successo è immediato, ma dovuto più alla sua condizione di “poetessa operaia” che a vero riconoscimento del suo valore. Per sfuggire a questo cliché poco gradito (si sentiva esibita "come un piccolo fenomeno da baraccone vestito da poetessa-operaia"), Nella si sposta qualche anno dopo a Parigi, la “città di carne”, dove per sopravvivere inventa una tecnica per incollare immagini di opere d’arte su oggetti come gemelli, portasigarette, specchi, scatole. Qui conosce la sceneggiatrice Edith Zha, che diviene sua compagna di vita e con la quale scrive il saggio Les femmes et l’amour homosexuel. Pur se delusa dal giudizio negativo di Simone de Beauvoir sui suoi testi in francese (La jeune fille a l’usine, 1978), continua a scrivere poesie, che saranno in gran parte pubblicate postume, dopo il suicidio avvenuto nel 1985.
La sua scrittura è un “miracolo di amore e volontà”, densa di grazia scontrosa, spoglia e asciutta, a volte perfino banale nel suo realismo, ma sempre carica di vitalità e arguzia, non priva di una vena corposa di surrealismo.
La necessità di rompere il verso, di scomporlo e ricomporlo costantemente, la porta a costruire testi dialoganti che si chiudono con clausole di rara acutezza e rigore. La sua concezione di un universo “indifferente”, di una vita che le appare “buco nero assoluto”, si trasforma via via nella ricerca affannata e implacabile di “raggiungere l’essenziale”, perché “solo il vero conta”: un vero che unicamente la poesia può rivelare.
Così cantava la mia perla accesa
nella conchiglia come una lacrima –
Rossana, io vengo da un’altra terra
dove il sole ferisce a morte per il suo calore
dove nei campi infuria un’estate perfetta
e l’erba allegra canta come una bionda ragazza
e l’odoroso fieno è sacro come un Dio.
Rossana – vuoi venire nella mia terra?
Io sola qui piango e mi lamento
e la terra gaia mi allontana da sé –
sul confine dipinto di lacrime
io ti chiamo – ti chiamo – ti chiamo.
E nei miei occhi adagio si va spegnendo
la mia estate perfetta, l’estate di fuoco
e sulle mie labbra arse e ancora piene di sete
muoiono le canzoni come vergini colpite nei fianchi.
Un silenzio enorme dal ventre bianco
mi circonda e mi tenta –
Ma la tranquillità non la voglio vedere!
Mandatela via – è una donna pazza
ha ucciso sua madre e suo padre
e ora vuole bere l’estate del mio sangue
Rossana – il lungo giorno
sta per morirmi in mano…
Questa notte le campagne
accese di bagliori come vetri
hanno infranto ai miei piedi
l’esistenza millenaria.
Si udì la voce di una capra belare –
un ramo di sole nacque tenue come una carezza lunga –
udimmo il silenzio rigarsi di bianchi suoni di flauto –
poi – ad un tratto – come nata da un grido alto –
comparve lei – la sorella diletta.
Cantava leggermente
con allegrezza accesa dentro le pupille
dove si muovono fronde
come tante piccole mani.
Appena l’ebbi scorta
una primavera mi scoppiò nel petto –
mi fece male al cuore
come se dal mio ramo
si fosse staccata con breve rumore.
E la toccai leggera sui capelli.
Con mani trasparenti
la spogliai delle vesti.
Colma di giovinezza
sono stata il suo guanciale per tanto tempo.
Madre - Voglio ballare!
Dammi il vestito rosso.
Voglio andare ballando
sulle rotaie del tram
per tutta la città.
Campanaro – suona un valzer
dal campanile grande –
Venite tutti in piazza
a cantare e a ballare.
Piangeremo domani.
Dove sarà la mia casa lontana
chiusa sul poggio incantato
l’acqua del fiume la bagna
e il vento canta sul ramo…
Dove sarà la mia ragazza
sempre fuggitiva la vedo
per la discesa del colle
nel lampo d’occhi a mandorla
e di capelli al vento…
Sembra una voce che venga
dal limite estremo del nord
questo raggio di luce che avanza
da aurore incredibili…
Ma il giorno finisce – la sera
mi piange sul cuore…
In tanto silenzio volevo lanciare il mio grido
rompere il quieto mattino, sorgere
con (tutta) la mia superbia, il mio orgoglio
in alto salire, lontano dalla terra –
lontano dalla terra – Silenzio.
Allucinato guardo in faccia al tempo
e non posso sostare – Si dilata
tra le due rive una distanza immane
dove si frantuma il mio chiamare.
[…]
Non cercarmi nell’ombra, ove i cipressi
si curvano al lungo vento.
Io ti direi che sono morta, e dolce
è questa morte come un sentimento
che solo può raggiungerti nel sogno.
Ma se le tue mani attenderanno sempre
chiuse contro la fronte pensosa –
io ti raggiungerò nel gran silenzio
che mi attraversa e che mi rende luce
e suono – e tempo.
Bologna
antica così ti lasciavo
ogni mattina dopo aver toccato
con
la punta delle dita le tue albe rose perla
perla per la mia
adolescenza austera
tesoro che portavo con me fino
all'ingresso
della fabbrica con le sue luci elettriche
accese
per l'eternità.
Ed essa passava ansiosa attraverso le canne
come per un furto, come una madre
che si reca guardinga sulla riva
e vi depone il figlio ultimo nato-
Che tensione nei giovani rami
e lungo le vene delle sue mani-
Moriva come un’immensa primavera
lo splendore del giorno – Si pativa
questa meraviglia come una pena
quando tu ti staccasti dalla riva.
Se rifiuto di pensare in poesia
se rompo il verso, se lo scompongo
se ne faccio un’umile riga
descrittiva
e priva del profumo della fantasia
è per raggiungere l’essenziale
per collocarlo nel pensiero
al punto esatto, per fissarlo
ed infine per comunicarlo.
Ormai solo il vero conta.
Penetrare nel vero, affidarsi al senso più concreto
con i mezzi più concreti:
ogni uomo li possiede.
L’uomo è solo. Dove
può andare a morire.
la sua
solitudine lascia
indifferente l’universo.
Chiedo a mia Madre
delle camicie per cambiare
tre quattro otto, una ogni ora
e ancora non basta
a tamponare il nostro sudore
a cancellare il nostro dolore
non basta. Per un po’ di fresco
è la pelle che dovremmo strappare
nell’inferno dell’officina.
Ti
amo città di carne
sofferenza e meraviglia
del mio
sangue delle mie mani.
Vorrei
essere cieco per
percorrerti con le mie dita
aperte –
per entrare
in ogni crepa in ogni graffito
in ogni pietra
consumata
da altre mani.
Chi
riunirà gli amanti
morti abbracciati se non
l’alchimia
della materia
lo sgocciolare del tempo
il segreto delle
correnti
sotterranee?
Questo sussurro la morte
questo splendore di luce
bianca? Qui giù
il nero del lutto accompagna
l’ineffabile mistero della
trasfigurazione-risurrezione
della carne. Voi che restate
piangete
il buco nero assoluto
è la vita.
«La poesia è prendere qualcosa e togliere il superfluo per farlo risplendere. Le parole devono avere una potenza intrinseca, il lavoro del poeta è sceglierle tra tante altre»: questa affermazione di Patrizia Cavalli (1947-2022) in un’intervista di qualche anno fa ben descrive la sua idea di poesia, che ella ha cercato di realizzare fin dalla prima raccolta poetica, Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974), che suscitò a suo tempo un intenso dibattito, e ha poi perseguito in quasi cinquant’anni di scrittura, fino all’ultima silloge del 2020, Vita meravigliosa.
Sostanzialmente fedele a se stessa, aliena da ogni rigida presa di posizione ideologica, Patrizia Cavalli ha scelto di prosciugare costantemente la sua scrittura, evitando i manierismi e le mode del momento, nella ricerca incessante della felicità, che ha saputo trovare nel quotidiano degli oggetti e delle persone, nell’ambivalenza della perdita e del riconoscimento. La finissima ironia che la caratterizza contribuisce a ridurre a misura d’uomo anche i concetti più profondi, che si intrecciano con la visione delle umili realtà di ogni giorno, in un ordito inscindibile. Certamente hanno contribuito a ciò anche i molteplici registri stilistici utilizzati, i folgoranti aforismi che punteggiano la sua poesia, i monologhi di stampo quasi teatrale, le allegorie e le invettive; mentre le scelte metriche, che si potrebbero definire classiche, lasciano comunque trasparire una precisa volontà di rinnovare e nobilitare la scrittura poetica. Così un vocabolario di disarmante precisione accompagna lo stupore infantile delle immagini proposte, e attraverso la poesia il lettore giunge a conoscere e capire il mondo nel modo più efficace e trasparente.
Sempre alla ricerca del mistero “dentro” le cose, sempre in attesa di un’illuminazione improvvisa che dia ordine al disordine, la poesia è stata per Patrizia Cavalli un ponte che unisce mistero e significato, un movimento costante e mai definitivo, un’incessante approssimazione alla verità che si incontra solo attraverso la bellezza. Una bellezza che non risiede tanto nell’oggetto nominato, quanto nello sguardo di chi nomina, nel valore che la poesia concede a ogni minimo lacerto del mondo osservato, nella parola che dice più di quello che l’oggetto è, ricreandolo ogni volta come in una nuova creazione del mondo.
Qualcuno mi ha detto
che
certo le mie poesie
non
cambieranno il mondo.
Io
rispondo che certo sì
le
mie poesie
non
cambieranno il mondo.
Anche quando sembra che la giornata
sia passata come un’ala di rondine,
come una manciata di polvere
gettata e che non è possibile
raccogliere, e la descrizione
il racconto non trovano necessità
né ascolto, c’è sempre una parola
una paroletta da dire
magari per dire
che non c’è niente da dire.
E sempre dovrò partire
e fare i bagagli
e permettere al mio poco corpo
una corsa che non gli si addice
e prolungare gli inganni e demente
rincorrere tutte le storie anche quelle
che avrebbero preferito un silenzio.
Ma valorose sono le partenze
anche se un imbarazzo spesso le consuma.
Occhi miei aspettate e guardate.
Corpo mio corpo non fuggire
verso casa tra una macchina
e un muro, non rubare mai più
l’ultimo suono dal gruppo di ragazzi
fermi sulla piazza non della prossima
strage stanno parlando
ma del prossimo film che vedranno.
Dolcissimo
è rimanere
e guardare nella immobilità
sovrana
la bellezza di una parete
dove il filo della luce e la
lampada
esistono da sempre
a garantire la loro
permanenza.
Montagna di luce ventaglio,
paesaggi paesaggi!
come potrò
sciogliere i miei piedi, come
discendere –
regina delle rupi
e degli abissi – al passo
involontario,
alla mano che apre una porta, alla voce
che
chiede dove andrò a mangiare?
Poco di me ricordo
io che a me sempre ho pensato.
Mi scompaio come l’oggetto
troppo a lungo guardato.
Ritornerò a dire
la mia luminosa scomparsa.
Guardate
come lei si lascia catturare
dal
bastone che si muove, dalla minuscola mossa
d’ala
di ogni mosca, dal rumore
di
ogni porta che si apre.
E
quando si mette sulle mia ginocchia
sembrerebbe
per sempre, le unghie
quasi
conficcate nella carne. Ma se passa
un
uccello alla finestra, addio baci
addio
carezze, lei vola via.
E
poi, forse, ritorna.
Essere testimoni
di se stessi
Essere
testimoni di se stessi
sempre in propria compagnia
mai
lasciati soli in leggerezza
doversi ascoltare sempre
in ogni
avvenimento fisico chimico
mentale, è questa la grande
prova
l’espiazione, è questo il male.
Adesso
che il tempo sembra tutto mio
e nessuno mi chiama per il pranzo e
per la cena,
adesso che posso rimanere a guardare
come si
scioglie una nuvola e come si scolora,
come cammina un gatto per
il tetto
nel lusso immenso di una esplorazione, adesso
che
ogni giorno mi aspetta
la sconfinata lunghezza di una notte
dove
non c’è richiamo e non c’è più
ragione
di spogliarsi in fretta per riposare dentro
l’accecante
dolcezza di un corpo che mi aspetta,
adesso che il mattino non ha
mai principio
e silenzioso mi lascia ai miei progetti
a tutte
le cadenze della voce, adesso
vorrei improvvisamente la prigione.
Sarebbe certo andato tutto bene
Sarebbe
certo andato tutto bene,
una passeggiata un caffè, al
cinema
qualche volta insieme, le cene
a casa o al ristorante;
sarebbe stato
insomma tutto regolare
se all’improvviso
togliendosi gli occhiali
non si fosse seduta sorridendo
con
un’aria leggermente impaurita
e i capelli un po’
spettinati
che la facevano sembrare appena uscita
da un sonno
o da una corsa.
Per questo sono
nata
Per
questo sono nata, per scendere
da una macchina dopo una corsa
in
una strada qualunque e trafficata
e guidata dagli angeli
piegarmi
attraverso il finestrino
sopra quei capelli e in
silenzio
sentire l’odore di quel viso
dove poco prima
avevo visto
come la bocca e gli occhi
si passavano un sorriso
che non si apriva mai
e correndo veloce scompariva
in un
attimo e tornava.
Addosso
al viso mi cadono le notti
Addosso
al viso mi cadono le notti
e anche i giorni mi cadono sul
viso.
Io li vedo come si accavallano
formando geografie
disordinate:
il loro peso non è sempre uguale,
a volte
cadono dall’alto e fanno buche,
altre volte si appoggiano
soltanto
lasciando un ricordo un po’ in penombra.
Geometra
perito io li misuro
li conto e li divido
in anni e stagioni,
in mesi e settimane.
Ma veramente aspetto
in segretezza di
distrarmi
nella confusione perdere i calcoli,
uscire di
prigione
ricevere la grazia di una nuova faccia.
Io
scientificamente mi domando
com’è
stato creato il mio cervello,
cosa
ci faccio io con questo sbaglio.
Fingo
di avere anima e pensieri
per
circolare meglio in mezzo agli altri,
qualche
volta mi sembra anche di amare
facce
e parole di persone, rare;
esser
toccata vorrei poter toccare,
ma
scopro sempre che ogni mia emozione
dipende
da un vicino temporale.
Nascono
i bei pensieri sopra i ponti
e
sempre ci si ferma sopra i ponti
per
contenere quell’atomo di grazia
sospeso
in equilibrio
tra
gravità di sponde e cieca corsa d’acqua.
Ti
darò appuntamento sopra un ponte,
in
questa mezza terra di nessuno.
Prendimi adesso tra le tue braccia
adesso sciolta da me raccoglimi
non per ridarmi forza
ma perché io possa arrendermi.
Bene,
vediamo un po' come fiorisci,
come ti apri, di che colore hai i
petali,
quanti pistilli hai, che trucchi usi
per spargere il
tuo polline e ripeterti,
se hai fioritura languida o violenta,
che portamento prendi, dove inclini,
se nel morire infradici
o insecchisci,
avanti su, io guardo, tu fiorisci.
Andando
dritti si va da qualche parte,
andare
dritti dunque non conviene.
Nel
cerchio circolando generavo
la
mia costituzione senza verso,
ero
lì ripetuta e ripetente
che
mi centellinavo, il tempo
era
un profumo sparso che annusavo
svogliatamente.
Ma prima di morire
forse potrò capire
la mia incerta e oscura condizione.
Forse per non morire
continuo a non capire
sicura in questa chiara confusione.
Roberto Rebora (1910-1992) comincia a scrivere negli anni trenta, ma resta appartato e quasi sconosciuto al grande pubblico, fino a morire in estrema povertà. Due sono i drammatici eventi che segnano la sua visione del mondo: la morte precoce del padre, in seguito alla quale deve abbandonare gli studi e iniziare a lavorare come magazziniere alla Bovisa, e l’esperienza delle guerre, prima quella d’Etiopia, poi quella mondiale (con la conseguente prigionia in Germania), che lasciano tracce profonde sulle sue prime due raccolte poetiche, Misure (1940) e Dieci anni (1950).
La sua poesia è spesso legata alla quotidianità, ma l’apoditticità del dettato e la costante scarnificazione della parola la allontanano dal realismo, quasi sublimando i dati di partenza. Via via la ricerca di senso si fa sempre più intensa: e questo setacciare la vita, questo tentativo di penetrare nei misteri della quotidianità, riesce a donare al poeta almeno un barlume di serenità, nella convinzione «che la poesia, quando esista, è la sola arma per respingere l’infame armata della desolazione e della disperazione». Nella concezione di Rebora la storia è «sempre / sorprendente», e vale quindi la pena scrutarla per scoprirvi «ciò che non si perde», i colori e le sillabe che si richiamano reciprocamente, «gli scatti del pensiero» che indagano e scandagliano. E se anche al poeta non è dato trovare risposte definitive, gli resta pur sempre «il silenzio che ascolta», la pagina «furibonda di vita […] e di muta gioia».
Indubbiamente non giungono dalla poesia di Rebora certezze rasserenanti, perché è sempre solo l’«ombra / delle cose» a mostrarsi, l’ombra «che va e viene / e poi sparisce», la «luce indecisa» che non ce la fa a illuminare compiutamente la realtà ultima delle cose; ma la vita, che il poeta indaga tenacemente e descrive con la parola e con il silenzio, riesce in ogni caso a rischiarare (anche se parzialmente e precariamente), la realtà: «l’albero verde / lasciato dove / correrà la vita / per finire viva». Perché la poesia (afferma Rebora) esiste per cercare degli obiettivi: e non è poi così importante che questi siano veramente raggiunti.
Lasciami gridare, compagno,
verso chimerici segni.
Stride una linea nel tuo volto
abbandonando la luce
sopra i tetti morenti.
È inerte in te la notte.
Hai mani cieche
che ignorano l’amore
e non consentono paura di forme.
Non hai dolore nel mondo.
Pure è inflessibile la scia
che il giorno incide
nelle sue volte.
Un grido intatto
dalle prime sorgenti.
L’antica misura sopravvive
nella corsa del cielo.
(Tschenstochau, ottobre 1943)
È una vita di pochi giorni
l’ho incontrata sul filo dell’aria
svoltando da una piazza solitaria
in un vicolo di misteri.
Misterioso semplicemente
mentre l’aria lo stava pulendo
lungo le pietre risalendo
con una gioia repente.
Non c’era nessuno nel vicolo
la gente si era dispersa
ma quell’aria non era persa
che nasceva con tanto impeto.
Era un vicolo misterioso
perché la vita vi appariva
era deserto e non moriva
accanto al mondo furioso.
Su quelle pietre voglio passare
e godere l’aria fina
non c’è bisogno di scrutare
il nero specchio dell’indovina.
L’indovina non vede nulla
solo un’immagine indecorosa
la sua bocca polverosa
definitivamente murata.
Se mi chiedono
perché
ho molte parole per la risposta
ma di suono
affaticato
o sono parole isolate
che non trovano l’altra…
come chi
improvvisamente
spalanca la porta e non riconosce nulla
se non
l’invito ad avanzare
su un terreno troppo silenzioso…
oggi
è così
come sempre del resto
e allora raccolgo
l’invito
del vecchio e vedo una strada
la vedo proprio
con il suo carico
di lontananze e con le tracce
di chi è
passato.
Lascio l’albero nel campo
costantemente verde
tentato dalla luce
allarmato dai tuoni
attorcigliato alle radici
segnato dal furore e dalla gioia
forse è un fantasma
che porterò con me
lungo una strada improvvisa
accompagnato
da ciò che non si perde
pochi nomi
nel silenzio colmo di sé
parole staccate dallo spazio
da raccogliere nell’erba
e passi che si allontanano
l’albero verde
lasciato dove
correrà la vita
per finire viva.
Se la malinconia ti culla
come un bambino spaventato
ed ora che sei con te stesso
fuggi anche il sonno
e non vuoi sentire altro
che sia diverso
dal suono di un mandolino
nascosto nella luce del giorno…
allora aspetta che ritorni quanto
non vuol cedere all’inganno che sfibra
la malinconia è un dolce veleno
se la cerchi e la vuoi
per non patire…
ma se la penetri camminando
come una volta nella piana ventosa
è qualcosa che ti avverte
incessantemente ripetuta
e non ti lascia privo
di te che aspetti
il suono del mandolino
non chiede nulla
ti accompagna a volte
e poi si apparta
dimenticato nel silenzio
dove ciò che manca
sarà la parola impronunciata.
L’orizzonte suggerisce
lontanissime distese colorate
e due case bianche
c’è del rosso e del giallo
e sillabe da ascoltare
nascono dai cenni della luce
la storia di sempre
sorprendente.
Dalla finestra
guardo
nell’aria bianca
dove cerco di seguire
gli scatti del pensiero
qualcosa in ombra
che va e viene
e poi sparisce
nella luce
che non vuole cancellarsi
un invisibile
uccello migratore
è come quell’ombra
che accenna e se ne va
torna e non c’è
ed ha lasciato
il muto
avvenimento delle cose.
Fra poco basta
e sarà allora
come lo spazio
inseguito per anni
con una parola
nascosta nella foglia
che si stacca
all’improvviso
e gira nell’aria
incerta ancora
nei suoi movimenti
contrari.
Non credo di dover rispondere
c’è il silenzio per questo
e ancora tace l’ombra
delle cose che si aggiungono
ad altre ombre in movimenti
svanenti ed in attese
non amo le suggestioni
del nulla e le parole
che non aspettano risposte
ma il silenzio che ascolta
il fragore della lontananza
l’impercettibile ronzio del tempo
nell’aria bianca
la pagina appena toccata
sempre immobile e pronta
furibonda di vita ancora
e di muta gioia
di aggrovigliati silenzi.
“Alle volte la poesia si fa riconoscere come un brillante: un gioielliere lo guarda e dice: è o non è vero”: questa definizione spiega molto della concezione che Sandro Penna ha della scrittura poetica, che egli concepisce come una realtà la cui bellezza è evidente di per sé, la cui verità si impone con assoluta limpidezza.
Poeta apparentemente facile, con i suoi versi regolari spesso rimati e un lessico piano e ordinato, Penna ha saputo rimanere fedele al suo dettato lineare e nitido mentre le mode rapidamente cambiavano. In vita pubblicò pochissime raccolte, da Poesie del 1939 a Una strana gioia di vivere (1956) e Croce e delizia (1958), fino a che l’intera sua opera, qualche anno prima della morte, venne raccolta in Tutte le poesie (1970), un corpus straordinariamente compatto, che da un lato delinea la figura di un poeta controcorrente (discorsivo e spontaneo, nell’epoca dell’ermetismo dominante); dall’altro lato riesce a offrire al lettore un intenso spaccato dell’Italia suburbana a cavallo della guerra, ricca di personaggi autentici e di situazioni ordinarie. Pur prendendo spunto da un dato realistico, però, ogni sua lirica si apre all’eco di riflessioni più profonde, che tendono a interrogare la varietà infinita della vita.
Cantore dell’amore omosessuale venne definito: ma in realtà lo sguardo con cui egli osserva fanciulli e giovinetti è completamente scevro di lussuria, è piuttosto uno sguardo di contemplazione della bellezza in tutti i suoi aspetti (“il vento qui sull’erba ed i rumori / della città lontana / non sono anch’essi amore?), che viene ammirata e proposta al lettore con totale innocenza. Che siano i collegiali nella loro nera divisa o il “romantico amico fiume lento”, le rondini a primavera o i “passi / incerti” di un fanciullo, “la luna di dicembre” o un “dolce animale / […] silenzioso”, quel che il poeta coglie è “un tumulto / di vita” che “ripete antica vita”: e nel ricordo estasi e sofferenza restano inscindibili.
Il linguaggio inizialmente colloquiale e piano (si potrebbe definire “postermetico”, sulla linea che porta da Saba a Caproni) si è negli anni arricchito di figure retoriche utilizzate con arte sopraffina, dove l’aulicità si mescola alla quotidianità, mentre l’amarezza rimane nascosta tra le pieghe dei paesaggi e degli incontri, e la solitudine sfocia in pacata rivolta verso un mondo sentito come ostile e crudele. “Poeta di lacrime e sogni” lo definì Enzo Siciliano: ma sono lacrime di un uomo che non si piange mai addosso, che sogna ad occhi aperti, ma pienamente convinto dell’irrealizzabilità delle sue speranze. La grazia epigrammatica dei suoi testi può richiamare ariette settecentesche, idilli di raffinata delicatezza, dove si accampano sempre gli stessi, memorabili luoghi: le strade e le piazze di Roma, le sale dei cinematografi, i bar anonimi di periferia, i tram affollati, i «neri treni», la verde campagna, i bianchi marmi dei ponti, mentre il respiro del mare o il mormorio del fiume si spengono insieme con le luci tremolanti della sera.
Negli azzurri mattini le file svelte e nere dei collegiali. Chini su libri poi. Bandiere di nostalgia campestre gli alberi alle finestre.
Mi nasconda la notte e il dolce vento. Da casa mia cacciato e a te venuto mio romantico amico fiume lento. Guardo il cielo e le nuvole e le luci degli uomini laggiù così lontani sempre da me. Ed io non so chi voglio amare ormai se non il mio dolore. La luna si nasconde e poi riappare -lenta vicenda inutilmente mossa sovra il mio capo stanco di guardare.
Ride su me la primavera. Tornano le rondini, si sa. Volano via via le parole degli amici stolti. Ritornano, per me, ora le antiche parole dell’amore. In te, fanciullo, splendono. Giuocano nei tuoi passi incerti. Ma certa in me cammina solitaria e tranquilla la felicità.
Come è bella la luna di dicembre che guarda calma tramontare l’anno. Mentre i treni si affannano si affannano a quei fuochi stranissimi ella sorride.
Come è forte il rumore dell’alba! Fatto di cose più che di persone. Lo precede talvolta un fischio breve, una voce che lieta sfida il giorno. Ma poi nella città tutto è sommerso. E la mia stella è quella stella scialba mia lenta morte senza disperazione.
«Lasciami andare se già spunta l’alba.»
Ed io mi ritrovai solo fra i vuoti
capanni interminabili sul mare.
Fra gli anonimi e muti cubi anch’io
cercavo una dimora? Il mare, il chiaro
mare non mi voltò con la sua luce? Salva
era soltanto la malinconia?
L’alba mi riportò, stanca, una via.
La luna di settembre su la buia
valle addormenta ai contadini il canto.
Una cadenza insiste: quasi lento
respiro di animale, nel silenzio,
salpa la valle se la luna sale.
Altro respira qui, dolce animale
anch’egli silenzioso. Ma un tumulto
di vita in me ripete antica vita.
Più vivo di così non sarò mai.
Malinconia
d'amore, dove resta
bianco il sorriso del fanciullo come
un
ultimo gabbiano alla tempesta.
Ditemi, grandi alberi sognanti,
a voi non batte il cuore quando amore
fa cantar la cicala, quando il sole
sorprende e lascia immobile nel tempo
il batticuore alla tenera lucertola
perduta fra due mani in un dolce far niente ?
Anche a me batte il cuore, e pur non sono
io del fanciullo vittima innocente.
Sul molo il vento soffia forte. Gli occhi
hanno un calmo spettacolo di luce.
Va una vela piegata, e nel silenzio
la guida un uomo quasi orizzontale.
Silenzioso vola dalla testa
di un ragazzo un berretto, e tocca il mare
come un pallone il cielo. Fiamma resta
entro il freddo spettacolo di luce
la sua testa arruffata.
«Poeta esclusivo d’amore»
m’hanno chiamato. E forse era vero.
Ma il vento qui sull’erba ed i rumori
della città lontana
non sono anch’essi amore?
Sotto nuvole calde
non sono ancora i suoni
di un amore che arde
e più non si allontana?
La mia poesia non sarà
un giuoco leggero
fatto con parole delicate
e malate
(sole chiaro di marzo
su foglie rabbrividenti
di platani di un verde troppo chiaro).
La mia poesia lancerà la sua forza
a perdersi nell’infinito
(giuochi di un atleta bello
nel vespero lungo d’estate).
Imbruna
l'aria, e il lume
del giorno a lui dintorno
lentissimo si
chiude.
Ma su l'umido fiume
cadono lente voci
di
uccelli. Su la via
dilagano festosi
saluti sconosciuti
nei
fischi dei ciclisti.
Gli invisibili treni
entro lucidi
appelli
stasera non avranno
la sua malinconia.
Vuoi baciare il tuo bimbo che non vuole:
ama guardare la vita, di fuori.
Tu sei delusa allora, ma sorridi:
non è l'angoscia della gelosia
anche se già somiglia egli all'altr'uomo
che per "guardar la vita, di fuori"
ti ha lasciata così...
Di febbraio a Milano
non c’erano le nebbie.
Ma numerosi sciami di ciclisti
andavano nel sole silenziosi.
E li fermava come in una gara
sospesa il suonatore siciliano.
È bello lavorare
nel buio di una stanza
con la testa in vacanza
lungo un azzurro mare.
Com'ero
lieto sotto un albero in fiore.
Credevo di soffrire ed ascoltavo
i fanciulli voler baciare un cane.
Rispondeva un guaito, e
una risata
spavalda
mi faceva ancor più triste.
Tutto poi si perdeva nella
luce
ed il bacio mi stava ad ascoltare.
Lumi del cimitero, non mi dite
che la sera d’estate non è bella.
E belli sono i bevitori dentro
le lontane osterie.
Muovonsi
come fregi
antichi sotto il cielo
nuovo di stelle.
Lumi
del cimitero, calmi diti
contano lente sere. Non mi
dite
che la notte d'estate non è bella.
Torna
un pensier d'amore
nel cuore stanco, come
nel
tramonto invernale
ritorna contro il sole
il
fanciullo alla casa.
Forse invecchio, se ho fatto un lungo viaggio
sempre seduto, se nulla ho veduto
fuor che la pioggia, se uno stanco raggio
di vita silenziosa... (gli operai
pigliavano e lasciavano il mio treno,
portavano da un borgo a un dolce lago
il loro sonno coi loro utensili).
Quando giunsi nel letto anch’io gridai:
uomini siamo, più stanchi che vili.
E adesso vieni, entriamo insieme in questo inverno,
sarà stagione di abbandoni e reticenze,
guarda: le ombre che credevamo immaginate,
o risospinte ai margini del bosco,
vòltati: avanzano alle spalle.
Vieni, lascia scorrere il tuo corpo
dal vento acre di resina e di muschio,
lascia la scabra pelle rilevarsi
alle carezze mie, come fossi lei,
quella per cui fiorisce, e sa di cielo,
-dove tu solo sai, e mi conduci-
il fioco fiore giallo d’elicriso.
Scende al mare, s’immerge,
come fosse
dissolversi
non più chiamarti
non più saperti…
Valli marine, smeraldi ghiacciati,
rocce vergate d’arancio,
muschi ventose bocche
giù sempre più sotto fino
alle isole sommerse,
il corpo sempre più bianco, ma
su tutto il liscio della pelle
le tue mani, ancora,
schiuma e risucchio,
succo salino…
allora
entra, infrangi
lo scudo splendente del mare
tu donna tu alga medusa lunare
vibratile opalina orlata di viole
trafitta per sempre
dal rosso sperone di corallo.
Era un passaggio veloce di folaghe
non era la tua voce che smoriva,
o non ancora: l’ombra nera
ha posto solo un lieve tocco d’ala
sul cuore, che sa il vortice del volo.
No, perché? Era un giorno come gli altri,
segnato sullo stesso calendario
di una data qualunque.
Ma verso sera
sul piccolo, remoto palcoscenico
di una piazzetta fuorivia
si è aperto un sipario d’aria purpurea
ed è salito sulla scena,
emozionato per la recita
e vibrante d’attesa, come chi aspetta
il cenno del maestro di ballo
per un ultimo, rapido inchino
il vecchio acero biondo,
laccato d’oro
dai raggi del sole al tramonto.
E tu lo guardi, allora, come
non più il tempo tuo
vi portasse un domani.
Sei venuto di notte
la faccia splendente dell’amore.
Tu parli, e nel bosco
si fanno velluto le ombre
sotto gli occhi attenti delle civette.
Io guardo altrove, ma nel buio
si accende il ricordo ai filari d’uva
dove nel corso del lungo pomeriggio
i grappoli si sono inzuccherati al sole.
Tu ridi, e i tassi nel folto del bosco
si attestano in posizioni più sicure.
Al sole del caldo pomeriggio
le pigne crocchiando si sono spaccate,
io ho raccolto i pinoli
li ho ordinati in fila ad uno ad uno.
Tu guardi, e mille occhi si accendono,
sguardi inquieti posano su di te.
Io cerco una scusa, un’attenuante,
ma dalla memoria dilatata e scomposta
mi risponde un brusio indecifrabile.
Tu chiedi, e la tiepida notte
si strappa in nastri di lutto, ali
di grandi uccelli in fuga
sfrangiano l’aria, mentre
inesorabile mi possiede
il corpo vischioso del diniego.
Per la sete dell’erba, spossata
dalla mano feroce del sole,
per la sete dell’erba piagata, e i suoi fiori
privati dell’unico giorno di gloria
che loro era stato accordato
dal sempiterno giro delle stelle,
per quell’erba, docile al fiato che la spegne
e che nessuno mai coglierà
mai nessuno raccoglierà il suo perdono
per quell’erba e i suoi fiori io so che allora
quando ritagliavo il tuo annuncio di morte
stavo attentissima a seguire con la lama
il nero segno sottile
del margine, a sfiorare il segno, non inciderlo,
non intaccarlo, non intersecarlo
non tagliare dentro lo spazio circoscritto,
perdonando quei limiti.
a Gianna
Varcare dosso a dosso le colline
lungo muretti a secco, ulivi, rovi
finché si apre il golfo, riappare
la luce metallica del mare
e abbrunano ramati gli angiporti.
E dentro, dentro, che ne brucia l’ora
dentro fra gli altri ai tavoli dei bar
con gli occhi fissi all’indaco del fondo
che spiano l’avanzare della sera:
dentro fra i suoni fra gli stridi sbiechi
e i tuffi ad ali chiuse dei gabbiani
che pescan pesci sottopelle all’onda,
con gli occhi fissi dentro al fumo nero
della nave che salpa: eppure, ancora
no, non ti strappi all’unghia della notte.
E tu sei padre e figlio,
sei chi mai viene e poi
non sei più nulla
nell’ultima mia
scialbatura di memoria.
I frati piantano melissa nel chiostro riparato,
attendono la fioritura nei chiusi conventi.
Ricavano dai fiori un elisir per contrastare
col tenero dei boccioli e delle foglioline sessili
alla dovizia notturna (e diurna, anche: orante)
di stati di angoscia, ansia, cedimenti di nervi,
emicranie e battiti del cuore, ma irregolari.
Dicono: che serva anche contro il mal di donne.
Se ne colgano i petali labiati, molteplici, bianco pallido,
a infiorescenza glabra, unisessuati, dalle ligule molto corte.
Appaiono in estate, l’uno accanto all’altro, sugli pseudoverticilli.
Delle peculiari potenzialità del fiore si erano accorti
già molto tempo prima gli arabi: gli infedeli.
No, tesoro, grazie, i nodi
lasciali sciogliere agli altri, io
per me, camminando qui al lungofiume
dove crescono scagliola e pimpinella
(semplice verzura, sai), qui dove
rosicchiano di notte i castori
la corteccia alle betulle (senza
confronto, credimi, la più saporita) e dove
ancora passa, se sei fortunata,
la lucertola a due code, che subito
sparisce per improvvisi gomiti, fratture,
io, per me, immedesimandomi, spero
che abbiano, i nodi, anche loro
un posto pensato, tra terra e cielo.
I lettori del “Gallo” hanno già avuto modo di conoscere Donata Berra cinque anni fa (aprile 2018): la ritrovano ora in occasione dell’uscita di un’auto-antologia, La linea delle ali, che riprende buona parte delle quattro raccolte precedenti, ridistribuendo e in parte ritoccando i testi già editi, con l’aggiunta di una quindicina di testi nuovi.
Si riconosce in questo volume (il primo edito in Italia) la vena ironica che ha da sempre caratterizzato la poetessa italo-svizzera, il lieve motteggio che colpisce spesso i personaggi maschili nella loro pretesa di superiorità (“maschi [che] millantano meraviglie”). Ed è un’ironia che si trasferisce poi su altri personaggi, oggetti e paesaggi quotidiani, di cui Berra sa cogliere con effetti stranianti aspetti inediti e stupefacenti. Possono essere le folaghe che portano “un lieve tocco d’ala / sul cuore”, civette e tassi, gli amati gatti, oppure “grandi uccelli in fuga” che riattivano “la memoria dilatata e scomposta”, i gabbiani coi loro “tuffi ad ali chiuse” o “la lucertola a due code”: un bestiario variegato, sul quale lo sguardo della poetessa indugia con simpatia e curiosità.
Accanto agli animali, in una sorta di erbario magico, si ritrovano poi frutti, piante e cespugli (l’elicriso e i “filari d’uva”, le “pigne” o l’erba “docile al fiato”, i fiori “privati dell’unico giorno di gloria”, gli ulivi e i rovi, resina e muschio, scagliola e pimpinella) che da “semplice verzura” si trasfigurano in messaggeri di misteriosi messaggi. Anche qui si può cogliere la fine ironia che giunge a far definire la corteccia delle betulle che i castori rosicchiano come “la più saporita”, quasi che anche la poetessa l’abbia assaggiata! Ed è lei stessa in un certo senso a farsi castoro, acero biondo, schiuma e risucchio, alga e medusa: attrice di una recita che affascina il lettore, trasportandolo in mondi improbabili, dove cercare una risposta che vada oltre il “brusio indecifrabile”, il rumore di fondo della vita.
In questa ricerca di senso, che rischia di essere illusoria, la poetessa ricerca però sempre il dialogo con un interlocutore, sia pur misterioso (o addirittura già morto, come in Requiem per una persona buona), che le renda possibile continuare a scandagliare la realtà sfuggente della vita. Anche se si tratta sempre di una realtà ambigua e ambivalente, dove amarezza e allegria, fiducia e disinganno, domande e silenzi, effimero e sempiterno si alternano senza fine. Ed è qui dove la duplicità della scrittura di Berra si mostra in tutto il suo fascino, perché ai contrasti alto / basso, luce / tenebra, presenti fin dalla prima raccolta, si affiancano ora contrapposizioni che potremmo definire “spaziali”: il dentro e il fuori, il sopra e il sotto, dimensioni metafisiche che moltiplicano lo spazio della vita, indirizzandoci verso un altrove misterioso, “un posto pensato, tra terra e cielo”.
“Sfida al nichilismo, alla depressione, a quelle Erinni, quelle oscure malie, che tentavano la mia anima”: questa la definizione di poesia che dà Grazia Frisina, siciliana di origini e toscana di adozione, che ha voluto trasfondere nei suoi alunni “l’amore per la poesia come sollecitazione dei sentimenti”. Via via nel corso degli anni questa sfida ha prodotto memorabili raccolte poetiche, da Dell’imperfetto sentire (2006) a Foglie per maestrale (2009), da Questa mia bellezza senza legge (2012) fino al recentissimo Avrei voluto scarnire il vento (2022), dove sono ritratte trentadue figure femminili tra mito, storia, letteratura e arte. Un gineceo ideale che propone, col solo nome di battesimo, donne diversissime fra loro, ma unite dal comune anelito ad esprimere in libertà la propria sensibilità e intelligenza, a rivelare le proprie sofferenze e conquiste. Non tutte sono esistite, non tutte sono famose, non tutte hanno lasciato un segno nella vicenda umana: ma tutte hanno interpellato l’autrice ("per me hanno avuto una loro significanza, profondamente calate nel destino umano ") e ne sono state interrogate in profondità, fino a rivelare aspetti inattesi della loro personalità. Sono scrittrici come Virginia Woolf, Etty Hillesum, Alda Merini, Saffo; artiste come Frida Kahlo o Camille Claudel; donne del mito o della letteratura come Persefone e Dulcinea, Penelope e Filomela; figure dall’esistenza oscura come Baba, la domestica di Segantini, o la babysitter Vivian Maier, autrice misconosciuta di splendide fotografie.
A loro è stata data voce perché ognuna raccontasse la propria essenza femminile, il difficile rapporto con la società maschilista, la ribellione e il riscatto, l’interiorità sofferta, le sofferenze e le gioie. “L’idea è stata quella di tentare di dar voce alle donne attraverso il mio sguardo – racconta Frisina –Insomma, un omaggio che faccio a tutte loro con riconoscenza”.
Nell’ultimo testo della raccolta, poi, il pronome di prima persona singolare svela la presenza della stessa autrice, che si pone accanto alle altre donne per continuarne la stirpe, per riconoscere in ognuna di loro un frammento della propria femminilità.
Non sono che una
parola
da divenire – io
Grumo
d’insembianze
racchiusa nel bozzolo di un senso
protesa
al concepimento
Io sono spigolatura di
alfabeti
sillabe fonemi da intagliare
con pugnali
persuasi
nell’aria – Per dire per cantare
Da
sommare a storie di venti
a granelli di sale
da sciogliere nel
ritmo del sangue
da traversare sopra un assolo di goccia
Io sono la parola che invento
Parola carnale –
solletico dell’anima
Parola da toccare con polpastrelli
insonni
da morsicare tra i denti della solitudine
da mescere
alla saliva di tutte le cose
da spingere sull’altalena dei
giorni
da annegare come abisso
da liberare come fuga
Non sono che nessuna
parola
– io
Io – è vero – non sono stata
né montagna
né acquapiovana
Una cenciosa faccenda
invecchiata con la vanità
della rosa discinta
dal gemito maturata
Un rammendo non facile
a slabbrare
punti fittifitti
il cui filo lo strappo cuce
ricuce ric-ama
sotto il rovescio
d’una parola possente
Tra passato e presente
nell’ordito dei giorni
ne ho perse scommesse
ma ho anche rinvenuto
il coraggio di essere
splendore d’insania
Il mio erratico rammendo
- sappiate
sconfinante quasi
da ciò che ho traversato
Un’illecita vibrazione
spalmò il rossetto
di baie e poesie
sopra un bacio
senza causa – D’amore
totalmente intriso
Il sole seduceva la sabbia
che sfavillava
nella ragnatela di fiati e seni
In tal modo al mondo
rivelai l’indecenza
della mia sostanza
Io non so
chiedermi
io non so dire
qual è il silenzio che dal serto dell’alpe
s’allunga sino all’orizzonte
dove s’aggruma il mio presente
e ogni bisogno o fatica
in pula si disfa
piccolissima e vana
In questa vastità
sta la mia vita
Così disadorna
Così sacra
Sta
come se l’Eterno
in altro modo giacesse
respirasse accanto
in confidenza
Rovesciato addosso
con lo smalto del cielo e dell’erbe
a in
cantarmi
a disvelarmi
nel ruminio buono di tre pecore
la Devozione alla
Lenta
Rotazione
Delle Cose
Attendo che
l’anca stanca del tramonto
non s’attardi troppo sull’orma dell’ombra
che in seno batte
Più amabile è questa sulfurea flemma
che la baldanza della strada
là fuori
dove balordo è ogni lampione
che il nettare depreda
alla prima luna
Ma ecco che giunge
Giunge e sussurra
D’un Notturnale Evento
a me sussurra
un’inviolata mano di raso
Non so come abbracciarlo
ma è
l’ondosa sua fantasia
a fasciarmi
tutta
gioiosamente
i sensi spalancare
Di vertigine m’insemina
ogni sua carezza
Caverna ove pulsa il mio incendio
Ansa stretta allo sconoscimento
Di sogno – Amore – a notte
sei mia carne
Fui più volte
Emily Marina Sylvia
Elizabeth Anna e Virginia
Mossi incontro
a quelle elette stanze
senza bussare
M’apparvero
vestaglie sonnambule
andare in assoluta bellezza
con candele d’indugio
su libri lettere e quaderni
aghi e filtri di tè
fra casalinghi cicalecci
e specchi alchemici
Fra esse – nate per le comete
ero – non vista
gomito a gomito
felice straniera
Ragazza col cuore increspato
A tanta ronda perpetua
di parole – affiliata
devota
Imparai da loro a rintoccare
con voce di sciabola
il disordine che passava
giù per le costole
a levigare le ore con l’insolenza
di qualche verso caparbio
Poco importa se ora
ho sottili cartilagini
passi imprecisi
friabili arresi
impaludati nell’inciampo
se non so più scovare
in estate le tracce delle api
vorticose fra i papaveri
Poco importa se ora
resto muta
Allo specchio mi guardo
Grazia imbiancata
Senza ornamenti
Occhi che galoppano
ancora
Sono tortora
fronda di betulla
A loro – Menadi sciamanti
in gonne di rose
sorellamente legata
a quella stessa stregata
luna
che oscilla in secchi
insonni d’echi
Insegnante,
poeta, prosatrice, Margherita Guidacci ha vissuto l’esistenza
come precarietà, indugiando sovente sul tema del dolore,
senza però mai commiserarsi, senza mai cercare facili
risposte alla sue domande esistenziali, evidenziando una
straordinaria passione per la vita. Nei suoi testi affiora spesso la
nostalgia per un mondo che si perde e per gli amici che spariscono,
l’angoscia per la sofferenza che regna nel mondo; ma vi
traspare anche un’intensa ricerca, di cui non contano
in fondo né la portata né l’approdo, ma l’atto
stesso di scavare nel vissuto con una fortissima tensione religiosa:
“Anche se nessuno / mi avesse guardata / risulterebbe
ugualmente giustificato – /
per quel lucente attimo –
il mio esistere”.
Dopo La sabbia e l’angelo (1946), libro d’esordio di cui lei dice: «qualunque siano i suoi difetti ed errori, avrò sempre la giustificazione suprema dell’istinto di conservazione e della “legittima difesa”: non scriverlo sarebbe equivalso per me, letteralmente, a morire», le raccolte poetiche principali sono state: Neurosuite (1970), una sorta di «radiografia dell'anima umana, colta tra dimensione cosciente e tensioni dell'inconscio», scaturita dalla dura esperienza della malattia e del conseguente soggiorno in un istituto psichiatrico, dove la meditazione sul dolore e sul destino degli uomini, sospesi fra l’ira per il proprio infelice destino e l’avvilimento della disperazione, è affidata alle parole dell’Inferno di Dante Alighieri; L’orologio di Bologna (1981), silloge composta in occasione della strage della stazione, che ha come chiave di lettura l’indole fratricida dell’umanità simboleggiata dal delitto originario di Caino; Il buio e lo splendore (1989), raccolta che partendo dall’ammirazione per il cielo stellato giunge a riflessioni metafisiche; e infine Anelli del tempo, uscito postumo nel 1993.
Il suo stile prosastico, limpido, narrativo, decisamente anti ermetico, la portò a isolarsi dalle mode correnti negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale: e forse è questa la causa principale dell’oblio che l’ha colpita anche successivamente. Ma la sua passione per la poesia non è mai scemata; in un’intervista del 1980 ebbe a dire: “se la poesia sarà vera, per il solo fatto di esistere ammonirà e consolerà, sarà messaggio e guida; come lo sono gli alberi, dalle radici alla cima, i fiumi, dalla sorgente alla foce e, sebbene in modo più difficile da interpretare, perfino il cielo e le pietre”.
Ora
il nostro amore si spanderà nella vigna e nel grano,
il
nostro veleno nei cactus e negli spini crudeli.
Si curveranno i
vivi alle sorgenti, diranno:
“Chi spinse verso noi l’acqua
da occulte vene del mondo?”
E molto prima che il freddo li
colga e la notte sul loro cuore s’adagi,
anche in un
meriggio d’api e di succhi ardenti,
conosceranno
l’angoscia, perché potenti noi siamo e vicini,
e non
vi è fuga dal cerchio in cui già li stringiamo,
con
ogni stelo da noi sorto e ogni frutto
che colmo e grave alla nostra terra s’inchina.
Se
tu mai sentissi la notte nei tuoi polsi tremare,
e trafiggerti
con gli aghi del sangue,
e i minuti del cuore sconvolgerti in
improvvise frane,
allora nemmeno comprenderai
che sia, di
terra farsi poi nardo e neve,
ed entrare in un tempo
incorruttibile.
Il vento che odora di morte
mi ha passato sul viso la sua viscida mano.
Ha toccato i vitigni marciti,
i muri sbavati di lumache,
lo zolfo e il muschio giallo tra le scaglie di pietra,
i bassi scogli rivomitati dalla marea
quando la notte emerge dalle acque
come il dorso di un pesce immenso.
Quale stagione viene ad annunziarmi?
Il mio cuore l’ignora,
pure ne trema.
Clinica
neurologica
qui giunto molte cose o pellegrino
puoi domandarti
ma una sola importa:
è l’ultima casa dei vivi
o
la prima dei morti?
Dio mi ha chiamata ad arricchire il mondo
decretandone il semplice strumento:
basta un opaco granello di sabbia
e intorno il mio dolore iridescente!
Alcuni
desideri si adempiranno
altri saranno respinti. Ma io
sarò
passata splendendo
per un attimo. Anche se nessuno
mi avesse
guardata
risulterebbe ugualmente giustificato –
per quel
lucente attimo – il mio esistere.
Scrivo
parole ogni giorno.
Scrivo parole ogni
giorno.
Non so dove arriverò,
scrivendo.
So che
potrei tacere.
Colui che sa, non parla.
Muto nel ventre del
tempo
dove uomini gridano, anche.
Lo sguardo
basterà
per comprendere e dire
quanto la voce non dice.
Sfioro ogni
istante, ogni giorno
l’urlo e il tuono. Vivo
intorno.
Potrei fermarmi e attendere.
In silenzio.
Il
tuo ricordo, sul fondo
della mia solitudine,
ne rivela
l’ampiezza
e tuttavia la limita.
Così
un canto d’uccello
addolcisce l’immensità del
cielo
e una singola vela
rende umano il mare.
È
come una mancanza di respiro
e un senso di morire
quando mi
stringe improvviso
il desiderio di te tanto lontano
e nulla
può calmarlo, altro pensiero
non può occuparmi,
tranne il Paradiso
che sarebbe per me lo starti accanto.
Ma
poiché ciò m’è negato, più
cara,
molto più cara d’una fredda pace
mi è
la stretta indicibile -
quasi marchio di fuoco che
proclami
ancora e sempre quanto sono tua.
A nessun costo
vorrei separarmi
da questo mio dolore.
Non
a te appartengo, sebbene nel cavo
della tua mano ora riposi,
viandante,
né alla sabbia da cui mi raccogliesti
e dove
giacqui lungamente, prima
che al tuo sguardo si offrisse la mia
forma mirabile.
Io compagna d’agili pesci e d’alghe
ebbi
vita dal grembo delle libere onde.
E non odio né oblio ma
l’amara tempesta me ne divise.
Perciò si duole in me
l’antica patria e rimormora
assiduamente e ne sospira la
mia anima marina,
mentre tu reggi il mio segreto sulla tua
palma
e stupito vi pieghi il tuo orecchio straniero.
Lascia
sia il vento a completar le parole
che la tua voce non sa
articolare.
Non ci occorrono più le parole.
Siamo
entrambi il medesimo silenzio.
Come due specchi, svuotati d' ogni
immagine,
che
l'uno all'altro rendono
un semplice raggio. E ci basta.
Hanno il colore di Betelgeuse
(mi scrivi) i fiori che sono riuscita
finalmente a donarti. Tu che vedi
una Galassia in ogni fioritura
terrestre e un fiore in ogni stella, hai legato
così il mio dono al più amato, per me,
fra tutti gli astri, quello che tu stesso
m’indicasti, quando Orione scalava
l’orizzonte autunnale. Nel nuovo autunno i fiori
saranno morti e il confronto avverrà
tra una presenza e una memoria, o forse
tra due memorie: chi può infatti dire
con sicurezza che sia ancora viva
Betelgeuse? Forse noi vediamo solo
quanto di lei ricorda il cielo, a lungo
attraversato dall’antica luce
rosata in uno spazio così grande
che il viaggio continua, pur se la stella è spenta.
Ma resterà sempre il nostro fulgore
che abbiamo accolto, come l’altro, tenero,
dei fiori divenuti d’ombra. Che importa
il durare, se una risposta è suscitata,
di vita a vita, luce a luce? Avranno
le nostre stesse anime il colore
di Betelgeuse. Così
di riflesso in riflesso si propaga
un amore che custodisce il mondo.
Degli
anelli del tempo, che si aggiungono
sempre nuovi, furono alcuni
così stretti
che ne ricordo solo l'orrore di soffocare.
In
altri, larghi e informi, vagai smarrita
senza un sostegno a cui
aggrapparmi. I più,
pallidamente indifferenti, si
ammucchiavano
gli uni sugli altri, subito saldandosi
senza
nemmeno un segno di sutura.
Solo a pochi e per poco è
tollerabile
riandare. Ma almeno questo, l'ultimo,
di cui oggi
si chiude il cerchio, resta perfetto
nel mio cuore: cornice d'oro
intorno
a uno specchio di gioia. Chiedo solo
di serbar
quest'immagine. E che a te
uno stesso fulgore la riveli
e la
circondi, allo scadere dell'ora,
nel tuo specchio gemello.
Ho
messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non
vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la
sentirai fuggire. Fa' che siano
allora come foglie e come
vento,
assecondando il suo volo.
E sappi che l'affetto
nell'addio
non è minore che nell'incontro. Rimane
uguale
e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da
percorrere
in obbedienza al destino.
Alla
fine dei secoli
Alla fine dei secoli,
quando
mi
chiamerà un’altra voce
e proverò per la
seconda volta
l’impeto di risurrezione
prego che come
questa volta,
quando sei stato tu a chiamarmi,
alzandomi
stupita dalla fossa
con le ossa che sentono la carne
stendersi
nuovamente su di loro,
con la carne che sente
in sé di
nuovo penetrare l’anima –
io possa, in quel tremendo
campo
dove avrà inizio l’eterno,
fissare il primo
sguardo su di te,
ritrovarti al mio fianco.
Che strano sorriso
vive per esserci e non per avere ragione
in questa piazza
chi confida e chi consola di colpo tacciono
è giugno, in pieno sole, l’abbraccio nasce
non domani, subito
il pomeriggio, i riflessi
sui tavoli del ristorante non danno spiegazioni
vicino alle unghie rosse
coincidono con le frasi
questa è la carezza
che dimentica e dedica
mentre guarda dentro la tazzina le gocce
rimaste e pensa al tempo
e alla sua unica parola d’amore: «adesso».
La
coperta, la sua forza, mentre crescevamo.
O gli occhi
che ieri furono ciechi,
oggi tuoi, ieri l’inseparabile.
Le fiale,
il riso in bianco diventano l’unico
mondo
senza simbolo. Materia che
fu soltanto materia, nulla che
fu
soltanto materia. Vegliare, non vegliare, poesia,
cobalto,
padre, nulla, pioppi.
La
finestra è rimasta come prima. Il freddo
ripete
quell’essenza idiota di roccia
proprio mentre tremano le
lettere di ogni parola.
Con un mezzo sorriso indichi
una via
d’uscita, una scala qualunque.
Nemmeno adesso hai simboli
per chi muore.
Ti parlavo del mare, ma il mare è pochi
metri quadrati,
un trapano, appena fuori. Era anche, per
noi,
l’intuito di una figlia che respira
nei primi
attimi di una cosa. Carta per dire
brodo e riso, mesi per dire
cuscino. Gli azzurri mi chiamano
congelato in una stella fissa.
La
danza fiorisce, cancella il tempo e lo ricostruisce
come questo
sole invernale sui muri
dell’Arena illumina i gradoni,
risveglia insieme agli anni
gli dei di pietra arrugginita. «C’è
Donata De Giovanni?
Si allena ancora qui?» «Come no,
la Donatella,
la velocista, la sta semper de per lé.»
Mi
guardava fisso, con l’antica dolcezza milanese
che trema
lievemente, ma sorride. «Eccola, guardi,
nella rete del
martello…la prego…parli piano…
con una mano
disfa ciò che ha fatto l’altra mano.»
“chi
è costui? Un custode, un’ombra, un indovino…
quali
enigmi mi sussurra?” Si avvicinò
a Donata, raccolse
una scarpetta a quattro chiodi.
«La tenga lei, signore, si
graffia le gambe…
…povera Donata…è
così bella…lei l’ha vista…»
«Forse
il punto luminoso della pista
si è avvitato a un
invisibile spavento, forse
quest’inverno è entrato
nella gola insieme al cielo:
era sola, era il ventuno o il
ventidue gennaio
e ha deciso di ospitare tutto il gelo»
«O
forse, si dice, è successo quando ha perso
il posto
all’Oviesse, pare che piangesse
giorno e notte…per
non parlare di suo padre…
i dottori che ha chiamato…mezza
Milano»
«Io, signore, sbaglierò, le potrà
sembrare strano
ma dico a tutti di baciarla, anche se in
questo
quartiere è difficile, ci sono le carcasse
dell’amore
c’è di tutto dietro le portiere.
Sì, di baciarla
come un’orazione nel suo corpo, di
baciare
le ginocchia, la miracolosa forza delle ginocchia
quando
sfolgora agli ottanta metri, quasi al filo
e così
all’improvviso si avvera, come un frutto»
«Lo
dica già stasera, in cielo, in terra, dappertutto,
lo dica
alle persone di avvicinarsi: ne sentiranno
desiderio – è
così bella – e capiranno che la luce
non viene dai
fari o da una stella, ma dalla corsa
puntata al filo, viene da
lei, la Donatella».
Tutto era già in cammino.
Da allora a qui. Tutto
il tempo, luminoso, sfiorava le labbra.
Tutti
i respiri si riunivano nella collana. Le ombre
di
Lambrate chiusero la porta. Tutta la stanza,
assorta, diventò
il primo battito. Il nero
dei tuoi capelli contro il giallo
dell’ultimo raggio.
Da allora a qui. Era il primo giorno
dell’estate.
Il silenzio ci riempiva la fronte. Tutto
era
già in cammino, da allora, tutto era qui, unico
e
perduto, nostro e remoto, ardente. Tutto chiedeva
di essere
atteso, di tornare nel suo vero nome.
Eri l’ultima
donna
della vita, eri il temporale
e la quiete, il luogo
dove la
luce è insanguinata
e il sangue fiorisce: pochi
minuti,
pochi metri, sempre lì,
nel cemento che parla,
nella città
degli amanti, nel silenzio
dei lavandini,
il bacio
avvenne
e noi non abbiamo
voluto più
uscire.
Si muore così,
all’ingresso
di una scuola, un cerchio perfetto.
Quando su un volto desiderato si
scorge il segno
di troppe stagioni e una vena troppo scura
si
prolunga nella stanza, quando le incisioni
della vita giungono in
folla e il sangue rallenta
dentro i polsi che abbiamo stretto
fino all’alba,
allora non è solo lì che la
grande corrente
si ferma, allora è notte, è notte
su ogni volto
che abbiamo amato.
Milano
era asfalto, asfalto liquefatto. Nel deserto
di un giardino
avvenne la carezza, la penombra
addolcita che invase le foglie,
ora senza giudizio,
spazio assoluto di una lacrima. Un istante
in
equilibrio tra due nomi avanzò verso di noi,
si fece
luminoso, si posò respirando sul petto,
sulla grande
presenza sconosciuta. Morire fu quello
sbriciolarsi delle linee,
noi lì e il gesto ovunque,
noi dispersi nelle supreme
tensioni dell’estate,
noi tra le ossa e l’essenza
della terra.
Ho
saputo, amica mia,
che sei stata in un limite. Anch’io
negli
intervalli di una sola e grande morte
dormivo tra i casolari
dove
si raccolgono d’inverno
con la parola disunita e il
fitto
delle idee: entrava
un profumo di uva passa e la
neve
dell’incontro ha percepito
la mia notte nella tua.
Qui
tutto diventa veloce, troppo veloce,
la strada si allontana,
ogni casa sembra una freccia
che moltiplica porte e scale mobili
e allora hai paura.
Senti i tuoi passi in migrazione,
vuoi
rallentare, hai paura
e allora entri in questa sala di via
Cadamosto,
saluti gli ultimi giocatori di biliardo,
pronunci
lentamente un commento preciso sulle sponde
o sull’angolo
di entrata, fai una piccola scommessa
e sorridi e ti acquieta il
panno verde
come un prato dell’infanzia, ti acquietano i
bordi
di legno che ora contengono il tuo evento
e la forza
centripeta conduce l’universo
in un solo punto illuminato.
Dal
balcone dell’ultimo piano ora guardi
la città
notturna, l’infilata dei grattacieli che sembrano
una
barriera corallina e intorno i vecchi palazzi
con i tetti
impolverati, le chiese romaniche, le colonne,
un concilio segreto
di secoli che si parlano sottovoce,
sussurrano al tempo di
fermarsi e diventano
la scorza staccata dal suo tronco, ciò
che resta
dell’infinita moltitudine in cui sei immerso
anche tu,
e guardi lì sotto il bar aperto, l’uomo
con l’impermeabile
mentre racconta una storia sempre
uguale
alla ragazza vestita di rosso che beve
dallo stesso
bicchiere e sorride lievemente.
“Vedi,
giungono da un’altra mente,
le parole, una mente lontana
che abitava
nel miele delle arnie e tra i fili
del ragno sul
soffitto. Arretrano le nostre stagioni,
i passi diventano aria,
sfumano gli orizzonti
del viso, nulla ci appartiene se non questo
foglio
popolato di demoni”
“Vedi,
scrivo con mani di rugiada e diventa sottile
il confine tra la
gioia e il grumo più buio, tra il rubino
della tua prima
collana e il mio miraggio
ogni pietra prende il colore del
mattino”
“Prendilo
tu,
questo fazzoletto che sa ancora di vaniglia, accendi
il
rogo delle mille estati trascorse, con il tuo gesto
musicale
conduci il rosa tenue
dei Castagnoni negli anni che sono
rimasti
fuori dalla morte.”
“Tu
che hai sentito scomparire il mondo
dentro un colpo senza
origine, tu che sei stata
un puro gemito tra le verbene,
stamattina appari
in una tazza di latte e la tua pupilla
trucidata
ricomincia a vedere, a poco a poco,
raggiunge la dolce cantilena
di un dialetto contadino
che pronunciamo per l’ultima
volta”
«La parola poetica è una parola non ritrattabile, una parola d’onore. È una parola che nutre mescolandosi alla parte più vulnerabile di ciò che siamo (il sangue) ed è al tempo stesso la vita e la morte. Credo che tale parola nasca insieme a noi, fin dall’inizio, che si annidi in qualche parte oscura di noi e che a noi spetti il compito di tradurla». Con questa affermazione Milo De Angelis chiarisce il senso della sua poesia, dopo l’esordio precoce di Somiglianze (1976), canzoniere amoroso che scandaglia il disagio e l’inquietudine di un giovane uscito dal Sessantotto; tematica che sarà ripresa con Millimetri (1983), ventinove poesie dalla stupefatta sentenziosità.
A partire da Terra del viso (1985), e poi con Distante un padre (1989) e Biografia sommaria (1999) inizia ad avvertirsi una tendenza a distendere la misura dei testi, fino al vero e proprio poemetto, mentre permangono i riferimenti all'adolescenza accanto alla celebrazione del gesto sportivo, tema particolarmente caro al poeta.
Una svolta si ha con Tema dell'addio (2005), dedicato alla prematura scomparsa della moglie, dove sono affrontati i temi universali della malattia e della morte, del distacco dopo un lungo cammino di condivisione di vita.
Nel 2015 esce Incontri e agguati, dove ancora domina la presenza della morte; e infine Linea intera, linea spezzata (2021), raccolta con la quale De Angelis compie la sua descensio ad inferos, rievocando luoghi, amici, amori perduti.
I temi della sua poesia sono efficacemente sintetizzati in una nota critica di Daniele Piccini che così li identifica: «Il gesto atletico perfetto e fulminante, le presenze modeste e insieme oracolari, gli anni del liceo e le loro sconfinate promesse, i nomi legati ai luoghi coessenziali della poesia dell’autore». A ciò si potrebbero aggiungere le tematiche dell’adolescenza, del rapporto tra io e altro, tra tempo e istante, e il tentativo estremo di rappresentare la «dimensione del vuoto, del nulla, del niente», quella «sete d’infinito che la poesia conosce bene perché le appartiene fin dall’origine».
Impotente per imparare, per la maturità
del cielo incapace, per il rombo della
nave inerte, m’imbattevo solo nei fumi
di un gasdotto che bestemmiava l’accesso
ad un passaggio invalicabile.
La schiuma, gli amori mi aprono di nuovo
al sonno che m’ingoia, alla salda fessura dei salici.
Non ci sono più, non canta
e tu taci presenza invadente
ti prego più avanti,
senza misture e cataletti, dove rimane il profumo
dei lecci estranei alla foresta.
Tu vieni più presto ad impedirmi il riposo
di figlia evanescente, a cavalcare
mezzo raggio fra cosce di partorienti.
Calesse
bianco, il tuo trillo di amore insoluto
sembra di brina, capitolo
di frecce verso il cielo
capitale divertimento per cuori da
clochard!
Ma che stavo inventando per capire gli intrighi?
I
signori della terra tendono agguati, alzano per caso
le loro
bandiere, è il caso di diffondere
il mio pamphlet, gabbie
di canne storte
molliche per vertebrati, serre dalla luce
irriflessa!
Oh il mio militare silenzio, il mio pazzo
distribuire
aureole che precedeva gli eventi, clausole per
dame
profumate, scappavano per un indizio, come scippate
di un
fiore a prova di bomba.
Hanno pagato i banchetti, le cose hanno
solo nomi
non frutti, essenza, differenza. Banditore oscuro
è
il caso dimesso, non le messi, il seme, la terra.
Che azzurra veglia, che tiepida ossessione
il pendio ha la sua fine, il silenzio
fa cerchio al mormorio del solito eroe vacante
per avventura lo spazio traditore ci riscalda
mentre l’albergatore stordito affitta stanze
agli avventori. Andasse lui al galoppo
molleggiando bene la sua carne addosso
sussurrando l’immagine mia nella trama del pozzo
il deliquio sarebbe stato pieno, a riparo
l’albergo dagli indiscreti parlatori.
Appoggiata
appena allo schienale
ero là che invocavo tutti i
santi
del paradiso, i divini, i malcapitati
ammaliatori
ostaggi dell’anno duemila.
Voce d’aria, impero del
coraggio
vi affranco da ogni male
pescatemi ancora più
giù nella scarpata.
Avvolgevo la sorte e chiudevo
chiudevo
per folgorare
mescolando con me i canti dell’animale.
Frequente
rotta vedi qualcuno per domani?
Più che incerta sembrava
la guardia
gli altri finivano, erano curve
le loro vene, i
giardini
oh i giardini giravano dentro
sdoppiati, oltre ogni
misura scoppiavano.
Sognavo
che ero morta e camminavo
l’ignoto
scandiva impeti e campane
l’ignoto,
quando tutti seguono la legge
dà
la vertigine, una macchia il sole
all’improvviso,
ricordava tracce di ideali:
penitenti
bagnati sull’asfalto
accarezzano
aria.
Seguitemi
– dissi – ho mani divise
cerco
un insensato forte luogo
di
alghe e sesso
dove
lo scenario ha puri battiti sfrenati
coperte
nuziali ricamate di cielo.
Ortolana
io scrivo per brama di controversie
assembramento di tegole al
liceo
tacchi a spillo, mi davo un contegno.
Costretti a
scappare, come se io fossi
una maga, paura di tristi
compromessi.
Documentari sfatammo tra le foglie della
pestilenza.
Dietro un’apparenza intrattabile
la mia storia cadeva da
una arte
come un filo grosso d’erba.
Troppo cresceva, e
le adunate
si mischiavano al delitto della terra.
Come un
groviglio ingoiavo, confondevo.
Mi appariva normale spiare la
musica
e i ponti, le camicie appese ai quadri.
Solo per un
attimo, fra le oche presenze
la sua, confusa nel respiro.
Mattino
aperto è questo che si vive come in guerra.
Per quanto si
udisse dovevo starmene
nel piede imbastito, dal correre per puro
caso.
Nel racconto di querce, un bacio, montagna di
acqua-lucida,
luci da montagna, frutto-granito di bambino
quieto,
uomo leggero nella gabbia del senso.
Dovevo starmene
senza giudicare
un vano lago, corollario di fango avvampavo la
terra.
Lodarti, festeggiare un mistero,
una preferenza
infantile di roccia,
dispersa la traggo, io nuda senza ritorno
in
cerca di lava sotto il vulcano, fra le sue mappe,
cosmico luogo
per camminare ai bordi, in verticale.
Se non fosse stato olio o
resina o grazioso veliero,
non sarebbe stato questo
svegliarmi
alterno a leggende, meandri, paesi.
Da
stasera posso sentirla
in un arpeggio di parole
che non mi
disconosce
e raccolgo le frange di una storia
spezzata,
curvata, stonata.
Anch’io di marzo sono caduto
in un
deserto di parole
senza limiti e interferenze
mi chiedevo dove
scorgere
le ombre malsane della guerra
l’incapacità
a decifrare gli ossi
ad inseguir le tracce
ripercorrere le
orme
di un ritorno estraneo alla terra.
Spingo i passi fin
dentro la bufera
e mi respinge il fato:
non ho dove poggiare
il piede
e mi spaventa la desolazione.
ricomporrò i
miei sogni accattivanti
per intensificarne la memoria
che
m’attraversa e non mi fa domande.
Persino
improtetta, facendo ricorso
alla massa di luce del cielo,
qualcosa
si accendeva ribelle alla fine del male.
Si scartava
il tempo di una giornata
piovosa, il resto pioveva magnifico
fra
le piante e il ponte. Questo
costituiva il tempo, l’unità
del tempo.
Vorrei baciarti il sangue
amore mio, e ancora fare andare
le dita nel vento, accarezzarti i capelli, la fronte
sentirti dentro l’aria
dentro il ventre, sentire
come è leggero il vento
e come apre le vie
e come tutto sembra possibile
sapere quanto possa
l’amore con la saliva e il silenzio
curare dalla fonte.
Ogni brindisi commuove, ogni anima tradisce
ogni viaggiatore rompe l’argine per sempre
e i fuochi alle finestre attendono
ciechi l’aprile.
Fosse rabbia fosse caldo questo continuo
sentirsi rapinati: ladro alle spalle
magazzino superfluo
e noi così superbo aspettando
l’ora di una comparsa
avremmo da dire
da fare, nelle mani
fretta, desiderio
fosse questo giorno chiaro di gennaio
il perno degli anni che non danno pace.
Solo una scia d’amore vorrei cantare
quando non sono né donna
né carne, né volo, né acqua
quando non sono quella
e il nulla pietrifica in una condizione
d’inferno: sconforto di tutti i giorni
dove tutto e niente sono
la cosa cieca della cosa viva.
Babbo,
vorrei comprarti
tutte queste piccole cose
esposte al
mercato,
cose piccole, inutili:
arnesi, cianfrusaglie,
biglietti.
Vorrei farti felice con questo niente
che colma il
vuoto
con quest’amore che ripara,
tu solo annaffi le
piante lievi
lavi e curi ogni cosa
e scavi nella
compostezza
della vita, con decisione
raccogli foglioline e
altro
tu solo puoi entrare nell’infinito.
«Inventare altri nomi per le cose sembra l’unico atto di coraggio, l’unico grido possibile. Resistere è vedere un oggetto da ogni posizione e in ogni sua parte con lo strenuo rigore del monaco che continua a pregare mentre tutto intorno è assurda materia»: queste profetiche parole possono essere considerate un’autopresentazione di Giovanna Sicari, che in tal modo definisce la propria volontà di scrutare a fondo la realtà per coglierne tutte le possibili sfumature. Poetessa e prosatrice (ma anche insegnante nel penitenziario di Rebibbia), la Sicari non si è mai arresa, nemmeno di fronte alla malattia, continuando a interrogarsi con coraggio e caparbietà sul senso della vita, del destino, della sofferenza umana.
L’esordio nel 1986 con la raccolta Decisioni mostra già la irriducibile volontà di trasfigurare la realtà osservata, di trasformare la disarmonia delle situazioni e delle parole in un vocabolario visionario, fortemente espressivo, quasi oracolare. La ricchezza di figure retoriche, l’enfasi di esclamativi e interrogativi, l’incalzare delle strutture metriche e sintattiche contribuisce a rendere la sua poesia in grado di introdursi nel cuore del dolore universale, combattuto con la sola fede laica nella parola disarmata. La prima raccolta è un volume intenso e crudele, dove il verso lungo è usato per «scardinare» il linguaggio, per rifiutare le mode poetiche del tempo, votate all’intimismo e alla soggettività. La Sicari affronta invece tematiche latamente politiche, sulla scorta del paradosso proposto dal grande poeta russo Osip Mandel’stam, secondo il quale scopo «del poeta lirico è scambiare segnali con Marte». Ella cerca dunque di costruire una poesia che da un lato recuperi la liricità e la concretezza, ma dall’altro lato si sforzi di comunicare con tutti coloro che hanno criteri di lettura del reale molto diversi da quelli di chi scrive.
Centrale nel suo percorso poetico è poi il volume Sigillo (1989), raccolta dedicata alla madre, dove la liricità tende a prevalere sulla riflessione, mentre la dizione è rallentata, il tono si fa riflessivo, il lessico si distende in forme metriche più discorsive e pregnanti.
Postuma esce infine nel 2006 la raccolta Poesie 1984-2003 curata da Roberto Deidier, che dà conto dell’intero percorso evolutivo della poesia sicariana, dove la musica è al tempo stesso violenza e dolcezza, fermissima lotta alla malattia e alla morte, alle sofferenze e alle ingiustizie del mondo: una poesia che ella stessa definisce «un talismano contro l’infelicità e il dolore».