«Gruppo 63 è una sigla di comodo di cui spiegheremo un po' più avanti l'origine. Di fatto dietro a questa sigla c'era un movimento spontaneo suscitato da una vivace insofferenza per lo stato allora dominante delle cose letterarie: opere magari anche decorose, ma per lo più prive di vitalità e di rilievo stilistico innescavano prolungati dibattiti critici. Un blando romanzo tradizionale come Metello di Pratolini, uscito nel 1955, fornì agli addetti ai lavori l'occasione di eccitate analisi e discussioni che divamparono per mesi e mesi. Furono l'ultima fiammata del neorealismo in letteratura, fioca eco populista della grande stagione cinematografica dei Rossellini e dei De Sica». Così uno dei suoi fondatori, Nanni Balestrini, spiegava la nascita del movimento, la cui gestazione va ricercata nell’invito fatto nel 1962 dal musicologo siciliano Francesco Agnello a Balestrini stesso di organizzare per l’anno successivo un’iniziativa letteraria che si integrasse con il festival di musica contemporanea d’avanguardia che egli organizzava annualmente.
E a Palermo, all’Hotel Zagarella, dal 3 all’8 ottobre 1963, venne formalizzato quello che sarebbe stato il primo congresso del “Gruppo 63”, cui parteciparono i poeti Nanni Balestrini, Corrado Costa, Alfredo Giuliani, Francesco Leonetti, Giulia Niccolai, Elio Pagliarani, Lamberto Pignotti, Walter Pedullà, Antonio Porta, Amelia Rosselli, Edoardo Sanguineti, Giuliano Scabia, Adriano Spatola, Patrizia Vicinelli; i critici Luciano Anceschi, Renato Barilli, Fausto Curi, Gillo Dorfles, Umberto Eco, Angelo Guglielmi; i prosatori Alberto Arbasino, Gianni Celati, Giorgio Celli, Furio Colombo, Enrico Filippini, Franco Lucentini, Luigi Malerba, Giorgio Manganelli, Nico Orengo, Giuseppe Pontiggia, Sebastiano Vassalli; l’editore Inge Feltrinelli; l’architetto Vittorio Gregotti; il regista Luigi Gozzi; e gli autori della “Scuola di Palermo” Roberto Di Marco, Michele Perriera e Gaetano Testa.
Un gruppo numeroso ed eterogeneo, come si può notare, che aveva come principale bersaglio la mancanza di impegno civile e politico degli autori in voga a quel tempo. Scriveva infatti nel 1960 Renato Barilli, polemizzando con Italo Calvino, a proposito degli intellettuali italiani: «Quando, in questo dopoguerra, essi hanno avvertito la necessità di uscire dalla lunga clausura e di partecipare, di assumere un pubblico impegno, hanno preteso di riportarsi nel vivo della corrente, di colpo, senza passare attraverso pazienti mediazioni […] di rinvigorire la ragion pratica, la ragione etico-politica, dimenticando del tutto gli altri aspetti dell’orizzonte culturale: aspetti psicologici, gnoseologici, concezioni del vedere, del percepire, del sentire, che pure per un artista costituiscono la via principale per integrare il suo primo nucleo poetico e prendere a partecipare a una cultura».
Si trattava quindi, per questi poeti della Neoavanguardia, di tagliare i ponti con il passato, di rifiutare mode, etichette, stili affermati, di porsi in aperta lotta con la tradizione poetica simbolista ed ermetica che aveva dominato la prima metà del XX secolo, per dedicarsi a una poesia impegnata, che agisse direttamente sulla vitalità del lettore per sconvolgerlo e farlo riflettere, per distruggere le sue false sicurezze e spingerlo a una valutazione più moderna e “politica” del reale.
Fu il compositore Luigi Nono a suggerire il nome del gruppo, facendo riferimento a quegli scrittori tedeschi del “Gruppo 47” che nella Germania del dopoguerra si erano incaricati di ricostruire una tradizione letteraria spezzata dal nazismo e dalla guerra, tramite uno strumento di lavoro semplice, agile e facile da allestire periodicamente: un seminario annuale in cui gli scrittori confrontavano i loro lavori in corso, leggendoli e criticandoli reciprocamente, per rifondare in tempi brevi la loro letteratura. Da Günter Grass a Ingeborg Bachmann, da Enzensberger a Peter Handke, per molti anni gli scrittori tedeschi si misurarono in questo laboratorio d'emergenza.
E questo doveva essere anche il compito dei partecipanti al “Gruppo 63”, che nel 1964 si ritrovarono a Reggio Emilia, nel ’65 di nuovo a Palermo, nel ’66 a La Spezia e l’anno dopo a Fano: ma ormai incombeva il Sessantotto, e le parole erano destinate a lasciare il posto al piombo…Dal 1967 al 1969 peraltro molti di loro collaborarono alla rivista mensile “Quindici”, mentre, una volta scioltosi il gruppo, ognuno continuò individualmente la sua esperienza creativa, allontanandosi per lo più dalle prime prove cariche di dissenso e di contestazione.
A differenza di gran parte dei gruppi delle avanguardie storiche, il “Gruppo 63” ebbe il limite di non porsi obiettivi omogenei e definiti: tutti erano solidali nel rifiuto del panorama culturale presente, ma non vi era in loro la capacità di elaborare nuovi progetti culturali coinvolgenti. Scriveva Alfredo Giuliani: «Il tipo di letteratura che chiamiamo tradizionale accetta l'esistenza della lingua colta corrente nelle sue strutture semantiche e sintattiche e ne accetta l'esistenza come una garanzia. Al contrario, il tipo di letteratura che chiamiamo d'avanguardia non accetta l'esistenza della lingua colta corrente come una garanzia e non considera le sue strutture come razionali, ma semplicemente come storiche. (...) Per dirlo in una maniera molto sintetica, penso che la letteratura d'avanguardia sia caratterizzata dall'esibire la propria struttura arbitraria e maniaca quale forma eteronoma rispetto alla percezione del mondo: mostrando immediatamente i tralicci e sapendo di essere letteratura, essa rimanda all'apparenza reale in una maniera diversa dalla letteratura comune, che è sempre un tipo di letteratura mimetico, o esplicativo, o semplicemente razionale nel senso illuministico o naturalistico della parola».
La loro era dunque una poesia che intendeva dialogare con i cambiamenti epocali che avevano travolto l’Italia nel secondo dopoguerra (il boom economico, il tramonto della civiltà contadina, i trasferimenti di massa dal Sud, la società dei consumi…), ma che si doveva muovere anche su tematiche più comuni, come quella amorosa, svuotandola però dall’interno, mutandone le forme, sventrandone le abitudini metriche e stilistiche.
Fu quindi un’esperienza fondamentale per il rinnovamento della poesia italiana, da cui non si può assolutamente prescindere, se si vuole avere una corretta percezione della poesia del ‘900.
Vorrei in conclusione proporre (sperando di non scandalizzare nessuno…) alcuni testi del “Gruppo 63” che ben illustrano la volontà di rottura e di rinnovamento stilistico e tematico che esso si proponeva.
Il primo testo è di Edoardo Sanguineti, tratto da Erotopaegnia: «in te dormiva come un fibroma asciutto, come una magra tenia, un sogno; / ora pesta la ghiaia, ora scuote la propria ombra; ora stride, / deglutisce, orina, avendo atteso da sempre il gusto / della camomilla, la temperatura della lepre, il rumore della grandine, / la forma del tetto, il colore della paglia: / senza rimedio il tempo/ si è rivolto verso i suoi giorni; la terra offre immagini confuse; / saprà riconoscere la capra, il contadino, il cannone? / non queste forbici veramente sperava, non questa pera, / quando tremava in quel tuo sacco di membrane opache».
Ecco poi Elio Pagliarani, con un testo tratto da Inventario Privato: «Sotto la torre, al parco, di domenica, / con pacata follia, per ore e ore/ immobile a guardarti. Avevo gli occhi/ gonfi, e il sesso, e il cuore./ Infastidita / i tuoi polsi snervati dalla mia / estasi, “lasciami” hai detto, di fuggirti/ mi hai consigliato. Sono egoista e/ lo spirito umano ha più bisogno di piombo, che di ali».
Infine Antonio Porta, da Week-End: «i piedi affondano nella terra molle/ i piedi si dimenticano dentro la terra molle/ smemorato si allontana con le stampelle di legno/ le gambe cedono a una svolta del sottobosco/ qui il suolo rifiorisce tutto a tappeto/ c’è una testa appoggiata al davanzale / una lingua si sporge per sete/ stracolmo di inganni/ paese di Primavera/ ricordate».
Eugenio Montale (1896-1981), uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano, Premio Nobel nel 1975, ha regalato ai suoi lettori nel corso di mezzo secolo poche ma raffinatissime raccolte, da Ossi di seppia (1925) alle Occasioni (1939) a La bufera e altro (1956) fino a Satura (1971); solo negli ultimi dieci anni di vita la sua produzione è divenuta più incalzante, da Diario del '71 e del '72 (1973), a Quaderno di quattro anni (1977) e Altri Versi (1980); senza contare il Diario postumo del 1996, quasi certamente opera apocrifa astutamente assemblata da Annalisa Cima. Ma mentre le prime tre raccolte si possono leggere in continuità, nel solco della grande tradizione che da Leopardi porta a Ungaretti e all’Ermetismo, sia pur con scelte stilistiche sempre innovative e polimorfe, Satura sembra aprire una stagione totalmente nuova nella poesia italiana e suscita nella critica e nel pubblico giudizi contrastanti, che vanno dall’incondizionato apprezzamento al completo rifiuto.
A cogliere immediatamente la novità dell’opera è Romano Luperini, che così scrive: «Il ritorno alla poesia avviene con Satura, nel 1971, su basi in gran parte nuove. Dal punto di vista dei contenuti, si assiste a una violenta critica dei miti e dei tic della società di massa, attraverso l’uso prevalente dell’ironia e del sarcasmo. Dal punto di vista formale, è abbandonato il tono alto e spesso impegnato che aveva caratterizzato la poesia di Montale fino alla Bufera: il lessico si apre ai linguaggi speciali e ai termini di moda, la metrica tradizionale è respinta oppure esibita nelle sue forme più elementari con intenzione di parodia e di caricatura, lo stile alterna il parlato della prosa a citazioni di sublime con scopo straniante. Secondo una calzante metafora dello stesso autore, come i primi tre libri sembrano scritti in frac, il quarto sembra scritto in pigiama, o quantomeno in abito da passeggio».
D’altronde è lo stesso Montale ancora negli anni sessanta a spiegare i motivi della svolta poetica che conta di attuare, e che gli è ispirata dal Sereni degli Strumenti umani, la fondamentale raccolta edita nel 1965, che così Montale commentava: «Una poesia così fatta, che dovrebbe tendere logicamente al mutismo, è pur costretta a parlare. Lo fa con un procedimento accumulativo, inglobando e stratificando paesaggi e fatti reali, private inquietudini e minimi eventi quotidiani, senza dimenticare che nel passaggio dell’uomo strumentalizzato l’officina e la macchina sostituiscono il già obbligato fondale della natura. Il linguaggio è ovviamente dimesso, colloquiale pur consentendo parole tecniche, allitterazioni interne e rapide interiezioni intese come altrimenti inesprimibili salti d’umore». Il giudizio su Sereni si attaglia benissimo alle nuove prove montaliane, a partire da Satura, dove assistiamo a una svolta stilistica e tematica che si riallaccia per certi versi al nuovo clima culturale del dopoguerra, prima con il Neorealismo (nel cinema e in letteratura), poi con le provocazioni del Gruppo 63 e delle neo-avanguardie.
Il dilagare della società dei consumi, l’inflazione della scrittura poetica nel mercato letterario di massa, l’ipertrofia ideologica e verbale che straripa da destra e da sinistra non possono lasciare indifferente il poeta, che si trova quindi costretto a stigmatizzare i nuovi comportamenti morali, sociali e politici dell’epoca. In Satura assistiamo quindi a uno sfilacciamento della struttura tematica e ideologica che viene, in un certo senso, frammentata e trasfigurata sotto il velo del simbolo e dell’allegoria.
Il titolo del libro deriva dal termine latino che designa “il piatto ricolmo di vari frutti offerti agli Dèi (Satura Lanx)”, ma si può anche riferire a un genere letterario di tono sarcastico o satirico, dove il miscuglio di temi, stili, linguaggi diversi rivela una carica satirica, aggressiva e nello stesso tempo conviviale. Montale, in proposito, in una nota intervista radiofonica confessava: “io ho giocato, per il titolo, un po’ sull’equivoco, ma non escluderei che significasse anche satira: però le poesie satiriche in realtà sono poche, diciamo così. Invece come presentazione di poesia di tipo diverso, di intonazione e argomento diverso, allora come, oserei dire, miscellanea, la parola poteva andare”.
Si tratta dunque di una poesia quasi prosastica, ad andamento colloquiale, che rinuncia alla finezza metaforica per perseguire una freddezza lapidaria, sentenziosa e anticonvenzionale, visibile non solo nei testi più squisitamente “politici”, ma anche in quella sorta di canzoniere tragico che è Xenia, la doppia sezione dedicata alla moglie morta nel 1963, quella Drusilla Tanzi ribattezzata Mosca per i grossi occhiali che era costretta a portare. Sono componimenti brevi che traggono spunto da eventi quotidiani apparentemente insignificanti, ma che acquistano spessore e valore sentimentale nel rimpianto del poeta (talora innervato di ironia ed emozione).
Satura è edito da Mondadori nel 1971 e contiene 103 poesie divise in quattro grandi sezioni (Xenia I e Xenia II; Satura I e Satura II), introdotte da due poesie “in limine” (Il tu e Botta e risposta I) che costituiscono una sorta di “ponte di liane” lanciato tra il cosiddetto “primo tempo” montaliano (quello che giunge fino a La Bufera e altro) e il nuovo stile degli anni settanta. Ogni poema ha una forma composta e unitaria, con versi liberi ma pieni di allitterazioni e un ritmo andante, talora cantilenante; e in tutte il poeta tende ad esprimere il suo pungente giudizio sui fatti della società del suo tempo, oppure riporta antichi ricordi personali e ripropone temi già noti presentandoli sotto una luce nuova e straniante. Come commenta Francesco Puccio: «Fra sottile umorismo, evidenza vitale ed esistenziale degli oggetti dietro la loro apparente desublimazione, stati nostalgici, toni dimessi e colloquiali, Montale rievoca semplici ma toccanti momenti di vita quotidiana in una continua dialettica vita-morte, tempo-eternità. Esprimendosi con forma discorsiva ma commossa, parla con la moglie assente spinto dal desiderio di perpetuare la loro comunione spirituale e tentando di esorcizzare il senso di vuoto e di smarrimento causato dalla sua mancanza».
Emerge in Satura con tutta evidenza la Weltanschauung montaliana, che già nelle prime raccolte si permeava di profondo pessimismo antropologico, ma che qui risulta ancor più cupa e priva di prospettive. Ed è con spirito sarcastico e canzonatorio che Montale ironizza sulle filosofie contemporanee, sul materialismo storico, su tutte le ideologie filosofiche e religiose dell’ultimo Novecento. Si veda ad esempio la poesia Fanfara:
lo
storicismo
dialettico
materialista
autofago
progressivo
immanente
irreversibile
sempre
dentro
mai fuori
mai fallibile
fatto da noi
non
da estranei
propalatori
di fanfaluche credibili
solo
da pazzi
la meraviglia sintetica
non idiolettica
né
individuale
anzi universale
il digiuno
che nutre
tutti
e nessuno
il salto quantitativo
macché
qualitativo
l'empireo
la tomba
in casa senza
bisogno
che di se stessi e nemmeno
perché c'è
chi provvede
ed è il dispiegamento
d'una
morale
senza puntelli eccetto
l'intervento
eventuale
di
un capo carismatico
finché dura
o di diàdochi
non
meno provvidenziali
l'eternità
tascabile
economica
controllata
da
scienziati
responsabili e bene
controllati
la
morte
del buon selvaggio
delle opinioni
delle incerte
certezze
delle epifanie
delle carestie
dell'individuo
non funzionale
del prete dello stregone
dell'intellettuale
il
trionfo
nel sistema trinitario
dell'ex primate
su se
stesso su tutto
ma senza il trucco
della crosta in
ammollo
nella noosfera
e delle bubbole
che spacciano i
papisti
modernisti o frontisti
popolari
gli
impronti!
la guerra
quando sia progressista
perché
invade
violenta non violenta
secondo accade
ma sia
l'ultima
e lo è sempre
per sua costituzione
tu
dimmi
disingaggiato amico
a tutto questo
hai da fare
obiezioni?
Ma un recupero della grande linea poetica delle prime raccolte è rintracciabile anche in questi testi tardivi, soprattutto laddove il poeta celebra le figure femminili, dalla domestica Gina, che lo accudì fino alla fine («sacerdotessa in gabardine e sandali» la dice Montale, assegnandole una funzione quasi divina), che rappresenta un ponte tra il poeta e la moglie scomparsa, alla Adelheit di Diamantina, che incarna uno dei temi più importanti del Diario, quello della vita come sussistenza biologica, inconsapevole (nella vita reale Diamantina era Adelaide Bellingardi, una donna che Montale conobbe a Roma, dove lavorava in una gioielleria) fino ad Annetta, una delle figure più squisite dell’ultimo Montale, che (come già Silvia e Nerina per Leopardi) simboleggia gli anni di gioventù del poeta e muore giovane, come chi è caro agli dèi.
Annetta
Perdona Annetta se dove tu sei
(non certo tra di noi i sedicenti
vivi) poco ti giunge il mio ricordo.
Le tue apparizioni furono per molti anni
rare e impreviste, non certo da te volute.
Anche i luoghi (la rupe dei doganieri,
la foce del Bisagno
dove ti trasformasti in Dafne)
non avevano senso senza di te.
Di certo resta il gioco della sciarade incatenate
o incastrate che fossero di cui eri maestra.
Possiamo concludere questo breve panorama sull’ultimo Montale con due giudizi: uno del poeta stesso, che nel ’76 scriveva: «L'argomento della mia poesia (...) è la condizione umana in sé considerata: non questo o quello avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col transitorio (...). Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia» (E. Montale in Confessioni di scrittori (Intervista con se stessi), Milano 1976); uno di Andrea Zanzotto, che lapidariamente definì Satura «un grande testamento imperniato sull’idea della vita come detrito».
Mario Luzi (1914-2005), scrittore, docente e saggista fiorentino recentemente scomparso, è stato probabilmente il più grande poeta del XX secolo in Italia, capace di articolare e approfondire costantemente, nell’arco di oltre settant’anni di carriera poetica, un’incessante ricerca del senso della vita (anzi, per dirla con le sue parole, la ricerca del “giusto della vita”, la riscoperta di una fede “bevuta col latte materno”, che si è fatta via via più salda e convinta, che si è fatta canto di lode necessario intorno all’indecifrabile enigma della creazione e della redenzione).
Come scrive Alessandra Giappi in un recente saggio, “la verticalità della poesia di Luzi presuppone […] sempre la dimensione orizzontale, il senso della natura e della storia, della creaturalità degli esseri. La vita umana, secondo Luzi, nel suo alterno annullarsi e rigenerarsi, riproduce i cicli instancabili di una natura percorsa e guidata dal senso del sacro, che qui si impone come principio intelligente, perché divino, più dell’idea hegeliana che attraversa la storia”. Uno dei punti di maggior contiguità tra la poesia luziana e la sua esperienza di fede fu certamente la Via Crucis richiestagli da Giovanni Paolo II, che fu poi recitata nel 1999 a Roma durante la cerimonia del Venerdì Santo: essa è concepita come un lungo monologo di Cristo, che confida al Padre le sue riflessioni, la sua angoscia, la sua percezione del tempo “troppo umano” che si trova a vivere, in contrasto con l’eternità della sua esistenza divina:
Padre mio, mi sono affezionato alla terra
quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra,
Io ci sono nato quasi di nascosto,
ci sono cresciuto e fatto adulto
in un suo angolo quieto
tra gente povera, amabile e esecrabile.
Mi sono affezionato alle sue strade,
mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti
le vigne, perfino i deserti
[...]
La vita sulla terra è dolorosa,
ma è anche gioiosa: mi sovvengono
i piccoli dell’uomo, gli alberi gli animali
[...] Sono stato troppo uomo tra gli uomini
o troppo poco?
Questo Cristo che Luzi ci offre non è, come si vede, un Dio lontano e indifferente, ma un Dio fattosi uomo, che interroga l’uomo e che si interroga a sua volta , che non vive nella gloriosa certezza della sua divinità, ma intreccia la propria esistenza fin nel più profondo della debolezza umana. Niente, suggerisce Luzi, va perduto sulla Terra (tanto meno il dolore), tutto agisce nel mondo, anche se in maniera difficile da decifrare: e questo proprio perché Dio è indissolubilmente unito alla sua creazione, agisce attivamente in essa, e chiama costantemente l’uomo a contribuire alla costruzione del futuro del mondo.
Per sua stessa ammissione, Luzi si sente più vicino ai Vangeli che all’Antico Testamento: ma è affezionato ad alcune figure veterotestamentarie, in particolare a quella di Giobbe, di cui apprezza la pazienza eroica e la costanza della fedeltà a Dio. Egli ritiene che, come Giobbe, ogni uomo sia chiamato ad aderire a un progetto più grande di lui, e a riscoprire in tal modo che il male è l’inevitabile contrappunto della vita. E a Giobbe rinvia un testo poetico del 2004, tratto dal volume Dottrina dell’estremo principiante, dove è ben visibile il riferimento al libro sapienziale: “Uomo, / è vero, tutta la tua storia è un soffio / sulla sabbia o sul basalto, / pure lasciane ad altri la misura, / giubila di quando in quando”.
Luzi invita l’uomo a lottare incessantemente, e gli offre la sua parola poetica, che è sì umana, ma può diventare voce di un Dio onnipresente, se sa confrontarsi con il mondo, se sa accogliere nel proprio cuore tutti gli aspetti positivi e negativi, gioiosi e dolorosi dell’esistenza umana, nel suo rapporto con il divino. È questa la virtù di Maria, donna semplice e profondamente umana e nello stesso tempo unica e inarrivabile madre di Dio: figura particolarmente amata da Luzi, che ne rilegge l’Annunciazione in uno splendido testo di Avvento notturno, dove ella è colta nella genuinità della sua vita terrena alla prova suprema della risposta da dare alla chiamata divina: «Poi fu il tempo che il tuo volto sorrise / lieve sui luminosi erebi d’ansia». A lei il poeta domanda di capire la debolezza dell’umanità e l’immensità della vocazione a figli di Dio.
Significativo può risultare anche il confronto tra due poesie dedicate a distanza di molti anni alla stessa tematica, quella dell’Epifania. Il primo testo, del 1955, sottolineava la ricerca del senso della vita, la scoperta di “semi che morivano, di grani che scoppiavano”, minimi frammenti destinati però a crescere e a fiorire in un futuro vivido, ancorché inconoscibile:
Epifania
In una notte come questa,
in una notte come questa l’anima,
mia compagna fedele inavvertita
nelle ore medie
nei giorni interni grigi delle annate,
levatasi fiutò la notte tumida
di semi che morivano, di grani
che scoppiavano, ravvisò stupita
i fuochi in lontananza dei bivacchi
più vividi che astri. Disse: è l’ora.
Ci mettemmo in cammino a passo rapido,
per via ci unimmo a gente strana.
Ed ecco
il convoglio sulle dune dei magi
muovere al passo dei cammelli verso
la Cuna. Ci fu ressa di fiaccole, di voci.
Vidi gli ultimi d’una retroguardia frettolosa.
E tutto passò via tra molto popolo
e gran polvere. Gran polvere.
Lo stesso episodio è riletto oltre trent’anni dopo ne I Magi (testo sul quale probabilmente influisce anche la suggestione dei Magi di Eliot), dove si avverte un’ancor maggiore consapevolezza del mistero e un’ancor più profonda umiltà del poeta di fronte all’insondabilità del disegno divino sul mondo:
I Magi
Andavano cauti loro, i Magi,
occhiuto era il viaggio
in avanti
o a ritroso? procedendo
o tornando
ai luoghi
d’un’ignota profezia?
Non è ricaduta
inerte nel passato
e neppure regressione
nel guscio delle cose già sapute questo
ritorno della strada
spesso
su se medesima,
ma nuova
conoscenza, forse,
ed illuminazione
di un bene avuto e non ancora inteso –
dice
uno di loro
e gli altri lo comprendono
sì e no, ma sanno
ed ignorano all’unisono...
e proseguono
insieme,
vanno e vengono
insieme nel va e vieni del viaggio.
Possiamo concludere questo breve viaggio nell’universo della fede luziana con un testo tratto sempre dalla raccolta Frasi e incisi di un canto salutare, dove il riferimento al roveto ardente di Mosè, segno e nascondiglio del divino, esprime l’ardua e mai compiuta ricerca del divino nell’umano:
Non startene nascosto
Non startene nascosto
nella tua onnipresenza. Mostrati,
vorrebbero dirgli, ma non osano.
Il roveto in fiamme lo rivela,
però è anche il suo
impenetrabile nascondiglio.
E poi l’incarnazione – si ripara
dalla sua eternità sotto una gronda
umana, scende
nel più tenero grembo
verso l’uomo, nell’uomo... sì,
ma il figlio dell’uomo in cui deflagra
lo manifesta e lo cela...
Così avanzano nella loro storia.
Gli uomini secondo Luzi avanzano nella storia, ma anche se credono di poterla dominare, in realtà capiscono solo alcuni aspetti del mistero divino: resta per loro inconoscibile il mistero dell’incarnazione, che pure è la sorgente della loro libertà. La veste umana del Cristo, infatti, ne rivela ma nello stesso tempo ne nasconde la divinità, che si può cogliere solo per fede o per amore: unici elementi in grado di colmare il baratro che si apre tra la vita e la morte, tra il tempo e l’eternità.
Nato a Livorno nel 1912, Giorgio Caproni si trasferisce con la famiglia a Genova dal 1922; diplomatosi maestro elementare, nel 1935 inizia ad insegnare in Val Trebbia, dove dal ‘43 entra nelle formazioni partigiane. Le prime raccolte poetiche confluiscono nella silloge Il passaggio di Enea, pubblicata a Firenze nel 1956: il titolo, come ricorda lo stesso poeta, "nacque guardando il classico monumentino ad Enea che, col padre sulle spalle e il figlioletto per la mano, stranamente e curiosamente, dopo varie peregrinazioni, a Genova è finito in Piazza Bandiera presso l'Annunziata, una delle piazze più bombardate della città." Enea diviene dunque metafora dell'uomo che recupera il passato e affronta impavido il futuro, alla ricerca di un difficile "passaggio" verso una vita nuova da ricostruire, dopo le rovine della guerra.
La prima raccolta del dopoguerra è Il seme del piangere (il titolo rimanda esplicitamente a una citazione dantesca: "udendo le sirene sie più forte,/ pon giù il seme del piangere ed ascolta" Purgatorio XXXI, 45-46) nata per rievocare con dolorosa passione la vita e le opere della madre, Anna Picchi, di cui la prima sezione, intitolata Versi livornesi, ricostruisce una sorta di biografia immaginaria, in una Livorno incantata e magica che ella allieta con la sua presenza schiva e serena.
Nel Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (1965) e negli intensi epigrammi de Il muro della terra (1975) Caproni raggiunge forse il punto più alto del suo lavoro poetico, accentuando il tema cruciale del "viaggio", che è anche cammino verso la morte e il nulla.
Nelle ultime raccolte (Il franco cacciatore, 1982, e Il Conte di Kevenhüller, 1986) il poeta prosegue la sua ricerca senza speranza di un senso della vita, aggirandosi in un arido paesaggio metafisico sempre più evanescente: i testi, per lo più molto brevi, sono ora aggregati in una complessa partitura musicale, con un fitto gioco interno di recuperi, rimandi ed echi.
Splendide sono anche le traduzioni di Caproni, prevalentemente dal francese (Proust, Apollinaire, Frénaud, Céline, Cendrars), e le ancor poco note e studiate prose e pagine critiche. A Roma Caproni è morto nel 1990. Postuma è uscita nel 1991la raccolta Res amissa.
I temi della poesia caproniana (come sottolinea Giovanni Raboni) sono pochi, ma strettamente intrecciati e connessi, fino a formare una tessitura inscindibile: la città, la madre e il viaggio.
Le città amate, Livorno e Genova, fanno costantemente da sfondo, colte nei loro colori e profumi caratteristici, nel quotidiano svolgersi della vita e delle attività dei popolani che le animano, divenendo ben presto mito poetico, luogo di una geografia sentimentale indimenticabile. C'è una Genova di Caproni (come c'è una Trieste di Saba) vista come città dai grandi spazi aperti sul mare, ma anche come "città tentacolare", recepita prima nell'incanto della sua fisicità, poi, quando il poeta si trasferisce a Roma, come " rimpianto di un amore" (la definizione è di Raboni).
Altro passione tanto intensa quanto irrealizzabile è quella per la madre, che Caproni rievoca giovanetta spensierata per le strade di Livorno e poi affranta viaggiatrice nell'oltretomba. Con tratti scopertamente edipici egli vorrebbe farne la propria fidanzata, e rivivere con lei gli anni precedenti alla propria stessa nascita. Tema più latamente esistenziale è quello del viaggio, che solca tutta la sua produzione poetica, dalle Stanze della funicolare al Congedo del viaggiatore cerimonioso, dal Muro della terra al Franco cacciatore: si tratta di un viaggio esplicitamente allegorico, in quanto l'esistenza è vista come un cammino da una stagione all'altra, fino all'esodo oltre la vita, verso un misterioso e inconoscibile futuro.
Nell’ultima stagione poetica Caproni tenta vanamente una via verso la significatività dell’esistenza, approdando però a un’amara e disincantata consapevolezza, espressa soprattutto negli aforismi che egli intitola Versicoli del contro Caproni, dove l’inutile attesa di una rivelazione si può paragonare a quella del Godot beckettiano.
Dal punto di vista stilistico Caproni si situa in un ambito appartato, lontano dalle scuole poetiche e dalle mode novecentesche; la sua poesia delicata e musicale lo avvicina piuttosto ad alcuni grandi eccentrici come Umberto Saba o Sandro Penna.
Lo stile personalissimo di Caproni parte da un'accurata ricostruzione della metrica tradizionale, che viene però immediatamente rinnovata e trasfigurata dall'interno: frequenti le inversioni sintattiche e gli enjambements (è questa una costante di tutta la sua produzione) che danno vita a un ritmo pausato e musicalmente cadenzato, mentre l'uso cospicuo di rime, assonanze e consonanze, talora dissimulate tal'altra chiaramente in vista, e gli attacchi esclamativi e sonanti contribuiscono a rendere quella "strascicata e trascinante dolcezza nevrotica" che soprattutto Raboni ha messo in luce. Nelle prove migliori Caproni raggiunge una grazia rarefatta utilizzando strumenti stilistici e linguistici di apparente estrema semplicità. Nelle sue prime prove troviamo spesso la forma chiusa del sonetto, sapientemente articolato, e della canzonetta in versi brevi rimati, con un lessico quotidiano e trasognato. Dopo la guerra prevale invece il poemetto narrativo, quasi sempre scandito in strofette di frammenti raffinati e musicali, mentre nasce una maggior adesione a temi latamente sociali: il dolore per le sofferenze prodotte dalla guerra, la celebrazione dell'umile vita dei popolani e dei loro sentimenti genuini e incontaminati. Partito da modelli pre-ermetici (genericamente tardo-ottocenteschi), egli ha recepito soprattutto la suggestione della proposta sabiana di prosaicità e l'influsso della "linea ligure" (che non a caso ha contribuito a qualificare criticamente), in particolare di Sbarbaro. Ma l'impressionismo che ne derivava non è mai stato in lui causa di compiacimento idillico, perché‚ sempre più egli si è indirizzato verso una sorta di "epopea casalinga" (De Robertis) concentrata su sentimenti e luoghi familiari e quotidiani, eppur scevra di ogni provincialità.
Dopo gli anni quaranta si può notare un abbandono del lirismo e l'approdo a "esiti decisamente narrativi" (V. Mengaldo) in coincidenza con l'approfondimento dei temi autobiografici. Le ultime prove, infine, hanno proposto un Caproni ancor più epigrammatico e geometrizzante, che alcuni hanno accostato al Montale delle raccolte tarde per i toni fortemente "satirici" e raziocinanti.
Proponiamo testi che possono dare maggiormente l’idea del percorso caproniano, escludendo per motivi di spazio i lunghi poemetti, che pure sono tra le realizzazioni più riuscite del poeta ligure.
Questo odore marino
che mi rammenta tanto
i tuoi capelli, al primo
chiareggiato mattino.
Negli occhi ho il sole fresco
del primo mattino. Il sale
del mare…
Insieme,
come fumo d’un vino,
ci inebriava, questo
odore marino.
Sul petto ho ancora il sale
d’ostrica del primo mattino.
Amore mio, nei vapori d’un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti ! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte ? ... Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte
qui, col tuo passo, già attendo la morte.
La mia città dagli amori in salita,
Genova mia di mare tutta scale
e, su dal porto, risucchi di vita
viva fino a raggiungere il crinale
di lamiera dei tetti, ora con quale
spinta nel petto, qui dove è finita
in piombo ogni parola, iodio e sale
rivibra sulla punta delle dita
che sui tasti mi dolgono? ... Oh il carbone
a Di Negro celeste ! oh la sirena
marittima, la notte quando appena
l’occhio s’è chiuso, e nel cuore la pena
del futuro s’è aperta col bandone
scosso di soprassalto da un portone.
Mia pagina leggera:
piuma di primavera.
Nella mattina di marzo,
dentro un sole di quarzo,
ragazze fuori porta
(transitorie e sincere)
passano, vive e vere,
dischiusa la bocca commossa.
Ragazze calde e alte,
tra il verde delle piante.
Ragazze quasi campagne
e marine, il cui sangue
accende, ventilata,
l’aria, che n’è illuminata.
Ragazze in carne e in colore,
da matrimonio d’amore.
Ma ohi come la più fina
manca di loro: Annina!
Anima mia, fa’ in fretta.
Ti presto la bicicletta,
ma corri. E con la gente
(ti prego, sii prudente)
non ti fermare a parlare
smettendo di pedalare.
Arriverai a Livorno
vedrai, prima di giorno.
Non ci sarà nessuno
ancora, ma uno
per uno guarda chi esce
da ogni portone, e aspetta
(mentre odora di pesce
e di notte il selciato)
la figurina netta,
nel buio, volta al mercato.
Io so che non potrà tardare
oltre quel primo albeggiare.
Pedala, vola. E bada
(un nulla potrebbe bastare)
di non lasciarti sviare
da un’altra, sulla stessa strada.
Livorno, come aggiorna,
col vento una torma
popola di ragazze
aperte come le sue piazze.
Ragazze grandi e vive
ma, attenta!, così sensitive
di reni (ragazze che hanno,
si dice, una dolcezza
tale nel petto, e tale
energia nella stretta)
che, se dovessi arrivare
col bianco vento che fanno,
so bene che andrebbe a finire
che ti lasceresti rapire.
Mia anima, non aspettare,
no, il loro apparire.
Faresti così fallire
con dolore il mio piano,
e io un’altra volta Annina,
di tutte la più mattutina,
vedrei anche a te sfuggita,
ahimè, come già alla vita.
Ricòrdati perché ti mando;
altro non ti raccomando.
Ricordati che ti dovrà apparire
prima di giorno, e spia
(giacché, non so più come,
ho scordato il portone)
da un capo all’altro la via,
da Cors’Amedeo al Cisternone.
Porterà uno scialletto
nero, e una gonna verde.
Terrà stretto sul petto
il borsellino, e d’erbe
già sapendo e di mare
rinfrescato il mattino,
non ti potrai sbagliare
vedendola attraversare.
Seguila prudentemente,
allora, e con la mente
all’erta. E, circospetta,
buttata la sigaretta,
accòstati a lei soltanto,
anima, quando il mio pianto
sentirai che di piombo
è diventato in fondo
al mio cuore lontano.
Anche se io, così vecchio,
non potrò darti mano,
tu mórmorale all’orecchio
(più lieve del mio sospiro,
messole un braccio in giro
alla vita) in un soffio
ciò ch’io e il mio rimorso,
pur parlassimo piano,
non le potremmo mai dire
senza vederla arrossire.
Dille chi ti ha mandato:
suo figlio, il suo fidanzato.
D’altro non ti richiedo.
Poi, va’ pure in congedo.
Nato a Milano nel 1893 in una famiglia della media borghesia lombarda, Carlo Emilio Gadda dopo la maturità classica conseguita al Liceo “Parini”, in obbedienza alla volontà materna, si iscrive alla facoltà di Ingegneria del futuro Politecnico di Milano, Ma la rinuncia alle proprie inclinazioni letterarie è causa di sofferenze che lo scrittore porterà con sé molto a lungo: così scriverà molti anni dopo a Ugo Betti: “lavoro in una società elettrica milanese d'un lavoro totalmente diverso e lontano dalla mia naturale curiosità. Il mio gran male è stato sempre e sarà sempre uno: quello di desiderare e sognare, invece di volere e fare. [...] Se non avessi addosso la sifilide della laurea, potrei cavarmela forse meglio”.
Da convinto interventista qual è, allo scoppio della prima guerra mondiale si arruola volontario negli alpini e prende parte ad alcune azioni belliche, finché viene fatto prigioniero e deportato a Celle (Hannover, Germania), dove stringe amicizia con altri due letterati: Bonaventura Tecchi e Ugo Betti. Dall'esperienza della guerra e della prigionia nascerà il Giornale di guerra e di prigionia, una sorta di diario (pubblicato solamente nel 1955) che denuncia con asprezza l'incompetenza delle gerarchie militari. Al rientro a Milano, all’inizio del 1919, Gadda riceve la funesta notizia della morte (in un incidente di guerra) dell'amato fratello Enrico, aviatore, "la parte migliore e più cara di me stesso", come annota proprio nel Giornale.
Laureatosi nel 1920, inizia a lavorare in Sardegna e in Lombardia, per poi trasferirsi in Belgio ed in Argentina. Nel 1921 si iscrive al Partito Nazionale Fascista, in cerca di ordine e sicurezza (salvo poi pentirsene e convincersi della vanità e dell’ignoranza dei fascisti e del loro capo, ridicolizzato nel saggio Eros e Priapo). Nel 1924 decide di dedicarsi alla sua passione principale, iscrivendosi alla facoltà di Filosofia, dove supera tutti gli esami, senza però mai discutere la tesi. Nel 1926 inizia la sua collaborazione alla rivista fiorentina “Solaria”, con il saggio Apologia manzoniana.
Nel 1931 pubblica sempre presso “Solaria” una raccolta di racconti e prose varie intitolata La Madonna dei filosofi. Nel 1936 muore la madre, con la quale Gadda intratteneva un rapporto conflittuale e ambivalente: da qui nascerà l’opera sua più importante, il romanzo La cognizione del dolore, che sarà poi pubblicato tra il 1938 e il 1941.
Nel 1940 lo scrittore, abbandonata ormai definitivamente la professione di ingegnere, si trasferisce a Firenze, dove vive fino al 1950, e quindi a Roma, dove lavora presso la RAI per i servizi di cultura del Terzo programma radiofonico fino al 1955. Continua la sua produzione letteraria con le Novelle del ducato in fiamme (1953), un'ironica rappresentazione dell'ultimo periodo del fascismo, il romanzo-giallo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), la rinnovata edizione delle Meraviglie d'Italia, con modifiche sostanziali rispetto alla pubblicazione del 1938. Tra le ultime opere, La meccanica (1970) e altri scritti inediti che risalgono ai suoi primi anni di attività letteraria, come Novella seconda del 1971. Gadda muore a Roma il 21 maggio 1973.
Nella quinta delle Lezioni Americane Italo Calvino definisce l'opera di Gadda un esempio di «romanzo contemporaneo come enciclopedia», affermando che l’autore aveva cercato «per tutta la vita di rappresentare il mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l'inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento». Questo spiega la stravaganza e la costante novità espressiva che caratterizza tutta la produzione di Gadda, che tentava in questo modo di riprodurre la straordinaria complessità e “divergenza” del mondo, senza per questo pensare di poterlo descrivere unitariamente e razionalmente. Gian Carlo Roscioni parla a questo proposito di “disarmonia prestabilita” per descrivere la cifra stilistica del grande scrittore milanese, ad intendere che ciò che appare dissonante e stonato lo è per precisa volontà dell’autore, che vuole in tal modo trovare il modo di dar conto della complessità del mondo contemporaneo. I critici hanno voluto istituire un confronto con Rabelais e James Joyce, per la loro capacità di descrivere e stigmatizzare il disordine e l’assurdità del mondo loro contemporaneo.
Molti sarebbero i brani da proporre all’attenzione per la qualità della scrittura: mi limiterò a poche frasi, con l’invito a tutti di leggersi (o rileggersi) per intero Le novelle del Ducato in fiamme e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di cui propongo l’incipit:
“Tutti oramai lo chiamavano don Cicco. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po' tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d'Italia, aveva un'aria un po' assonnata, un'andatura greve e dinoccolata, un fare un po' tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d'olio sul bavero, quasi impercettibili, però, quasi un ricordo della collina molisana”.
O si veda ancora questo brano, ricco di sfumature, neologismi, citazioni implicite ed esplicite, arzigogoli e frasi proverbiali:
“Nel caso nostro, nel novello ravage comportato da un troppo focosa reminiscenza degli antichi bastoncelli (i quali, semmai, bastoncellavano a sensi di legge, non a sensi di teppa), il telefono si ritrovò bell'e impiantato a prestare, alla tripotente camorra, gli uffici eminenti d'un ufficiale portaordini controllato dallo zelo e dagli orecchi ipersensibili di un ufficiale spia. La raccomandazione burocratica poté assumere quel tono, e, più, quel carattere duramente ingiuntivo o addirittura imperatorio che solo si addiceva agli ‘homines consulares’, agli ‘homines praetorii’ del neo-impero in cottura. Chi è certo d'aver ragione a forza, nemmeno dubita d'aver torto in diritto. Chi si riconosce genio, e faro alle genti, non sospetta d'essere moccolo male moribondo, o quadrupede ciuco”.
Poeta e narratore, Paolo Volponi nasce a Urbino nel 1924, si laurea in legge nel 1947, e nel 1950 incontra Adriano Olivetti, l'illuminato imprenditore piemontese, promotore di pionieristiche iniziative culturali e sociali, con cui inizia una lunga e proficua collaborazione. Dopo aver lavorato alla Olivetti di Ivrea e alla FIAT, nel 1983 è eletto senatore come indipendente nelle liste del P.C.I. e nel ‘91 aderisce a Rifondazione comunista, contestando la nuova linea politica del PDS. Muore ad Ancona nel 1994.
Dopo l’esordio poetico con Il ramarro (1948), raccolta dai "modi stilistici post-ermetici" (secondo la definizione dello stesso autore), la produzione di Volponi prosegue con L'antica moneta (1955) e Le porte dell'Appennino (1960); nella quarta raccolta, Foglia mortale (1974), è ben visibile il processo di sviluppo dall'originario ermetismo verso una nuova "narratività". Seguono nel 1986 Con testo a fronte e nel 1990 Nel silenzio campale, dove la riflessione sulle possibilità aperte al futuro si fa sempre più essenziale e coinvolgente.
Nel frattempo però Volponi aveva iniziato la sua carriera di narratore, sollecitato anche dalle discussioni con Pasolini e gli amici della rivista bolognese "Officina", cui collabora lungamente.
Il primo romanzo è Memoriale (1962), dove è presente una sorta di eroe plebeo, quell'operaio Albino Saluggia che narra la propria traumatica vicenda esistenziale nel duro impatto con la vita di fabbrica.
Il secondo romanzo, La macchina mondiale (1965), propone un’altra figura di diverso, l’anarchico e visionario contadino marchigiano Anteo Crocioni, che rivela la sua concezione del mondo come macchina informe e inquietante, che produce nella società contemporanea l'alienazione inevitabile dell'uomo. "Il punto di vista del paranoico affetto da complesso di persecuzione - scrive il critico Romano Luperini - è stravolto e anomalo, ma appunto per questo superiore, in quanto coglie oggettivamente il meccanismo realmente stravolto dell'apparente razionalità capitalistica".
La prosa di questi primi romanzi è dinamica, a tratti violentemente realistica, spesso trattata con gusto sperimentale, nell’efficace sforzo di riprodurre il caotico evolversi del mondo industrializzato.
Nel 1974 esce da Einaudi Corporale, considerato da alcuni il libro più importante degli anni settanta: è la storia delle fobie di Gerolamo Aspri, un intellettuale di sinistra che, ossessionato dalla possibilità di un'esplosione nucleare, si costruisce un rifugio in cui sopravvivere, ma che nel finale giunge addirittura a scambiare la propria identità con quella dell'antagonista Overath, di opposte tendenze ideologiche. Opera "aperta", innovativa e poliedrica, Corporale rappresenta la crisi della società degli anni settanta, pienamente immersa nel sovvertimenti del Sessantotto e alla difficile ricerca di un nuovo mondo più giusto e armonioso. Ciò, sembra dire Volponi, è possibile solo attraverso il riappropriarsi del linguaggio corporeo, della 'corporalità' (da qui il titolo) come principale categoria dell'uomo nel mondo postmoderno.
Tornato a una scrittura più tradizionale con Il sipario ducale del 1975, Volponi approda al genere dell’apologo "fantascientifico nel 1978 con Il pianeta irritabile, ambientato in un improbabile futuro remoto (l'anno 2293), dopo che una catastrofe nucleare ha reso praticamente impossibile la vita sulla Terra, dove sopravvivono quattro singolari protagonisti: una scimmia, un elefante, un'oca e un nano, figure allegoriche della condizione umana che tenta invano di reagire all'alienazione e alle storture della società capitalistica avanzata.
Dopo la prova minore e non del tutto convincente de Il lanciatore di giavellotto (1981), con Le mosche del capitale (1989), opera volutamente dissonante e complessa (Luperini la giudica "uno fra i tre o quattro migliori di questa seconda metà del nostro secolo") che narra la vicenda (in buona misura autobiografica) del professor Bruto Saraccini, un dirigente industriale democratico che lotta inutilmente contro un potere ottuso guidato solo dalla logica economica (le "mosche" del titolo sono i vari dirigenti che a tutti i livelli decisionali esprimono la loro volgare ambizione). Il romanzo è una sorta di pamphlet polemico verso il mondo contemporaneo, ma anche l’allegoria del fallimento di un progetto alternativo, quello di una società "dal volto umano", che invano era stata auspicata dagli intellettuali di sinistra all'alba del Sessantotto: ormai i computer hanno sostituito l'uomo e la natura stessa è stata alterata e violentata dagli elementi artificiali che la sovrastano.
L’ultimo romanzo volponiano è La strada per Roma (1991) un "romanzo di formazione" iniziato nel 1961 e tenuto nel cassetto per trent’anni, che narra le vicende di tre studenti di Urbino che lasciano la città carichi di speranze e illusioni, andando incontro a diverse ma parallele sconfitte esistenziali. "Bellissimo romanzo di gioventù", ma anche opera fortemente allegorica, che disegna il ritratto impietoso di una giovinezza che si perde e di una civiltà che svanisce, incapace (è lo stesso Volponi a dirlo) "di andare incontro al bisogno di trasformazione e di nuovo che urge".
La passione civile di Volponi, la sua "utopia razionale" (come la definisce il critico Giulio Ferroni), vicina alla tradizione della sinistra anarchica e sovversiva, in un primo tempo illuminata dalla fiducia nella possibilità di conciliare natura e tecnica, civiltà contadina e capitalismo, ha dovuto in seguito arrendersi all'evidenza del degrado dell'Italia "postmoderna", al trionfo di una politica incancrenita e individualistica, e l’ha quindi portato a un'amara e disincantata riflessione sull’attuale civiltà consumistica.
Memoriale, il romanzo edito da Garzanti nel 1962, narra la storia di Albino Saluggia, assunto dopo la guerra in una grande fabbrica del Nord Italia dove regnano ordine e organizzazione. Nevrotico e paranoico, sessualmente inibito, politicamente disimpegnato, il protagonista si fa portavoce del disagio esistenziale dell'uomo nella società industriale; pur tra vicende amare che culminano nel suo licenziamento, egli continua a vedere la fabbrica come luogo dell'armonia, come una chiesa o un tribunale. E la delusione nel constatare una realtà molto più misera lo chiude infine in un cupo e disperato pessimismo.
Nell'epigrafe Volponi, con un cenno d'intesa, avvisa il lettore che "I personaggi e i fatti di questo romanzo sono immaginari; i luoghi e i paesi esistono. La 'città industriale' non ha identità, anche perché l'autore non vuole che, con la pretesa di riconoscere una città o una fabbrica, si giunga ad attribuire soltanto a questa le cose narrate". Si tratta quindi di una vasta parabola dell'alienazione dell'uomo contemporaneo nel mondo industriale dominato da una logica puramente economica.
Il brano finale del romanzo (che propongo qui di seguito) è ambientato nel 1956, e presenta il licenziamento del protagonista, accusato di aver dato manforte a uno sciopero: il fallimento dei suoi sogni di riscatto non fa che ribadire la sua profonda solitudine, e ritornando a casa egli avverte l'ostilità della natura, così come aveva scoperto l'ostilità della fabbrica. I branchi incombenti degli uccelli che dilaniano e imbrattano i vigneti diventano dunque allegoria della violenza del mondo industriale sull'uomo: e con amarezza il protagonista deve riconoscere che nessuno è disposto a venire in suo aiuto.
«Le guardie della fabbrica stavano per essere sopraffatte perché alle Commissioni Interne si erano uniti altri del primo reparto dell’attrezzaggio che aveva l’ingresso da quella parte. Allora le guardie di P.S. fecero due passi avanti. Intanto era arrivata un’altra squadra, armata e con gli elmetti. Si fermò all’altezza della porta e si schierò in parata.
Sentii gridare dall’interno: «Subito lo sciopero, in tutti i reparti. Subito lo sciopero. Subito lo sciopero.» Queste parole mi arrivarono insieme a un grande applauso. Per la Celere furono come un comando, avanzò di un passo più lungo e sfoderò i manganelli. Ormai era contro la porta e il muro, su tre file. Vidi i manganelli e alzai gli occhi verso il sole. Il mio posto di piantone era ormai nell’ombra dello spigolo dei magazzini.
Sulla fabbrica invece il sole splendeva e soltanto nel rettangolo intorno alla porta s’affollava l’ombra verde delle guardie, come una muffa velenosa. Dalla porta non poteva uscire nessuno.
Allora tornai verso il mio posto e sapevo che stavo facendo un pezzo di strada verso la mensa. Dal mio posto la strada scendeva per arrivare all’ingresso della mensa. Camminai spedito, superai l’ingresso e feci il giro dell’edificio, fino agli ingressi di servizio. Lì all’altezza del terreno s’aprivano le finestre della cucina. M’affacciai e vidi i cuochi ormai pronti intorno alle grandi caldaie. M’affacciai e dissi: «Vi mandano a dire di scioperare subito, subito senza preparare il pasto».
Si voltarono verso di me, uno o due, senza capire: «Dovete scioperare, scioperare subito. Nessuno deve mangiare». I cuochi mi ascoltavano e mi guardavano in silenzio alzando i coperchi e spostandosi tra le cucine. Essendosi mossi dai loro posti senza rendersene conto, accadde una grande confusione e proprio in quel momento cominciarono a bollire tutte le pentole. Arrivò Leone e cominciò a sbracciarsi con il suo gilè stretto.
«Vi mandano a dire di scioperare, di scioperare subito» ripetei io con più forza, convinto da quella confusione.
Allora Leone di corsa venne sotto la finestra e cominciò ad agitarsi come un cattivo sottufficiale, come un’altra di tutte quelle pentole che ballavano.
«Ah, sei tu» mi disse il fedele Leone, «sei tu, bell’amico. Chi è che manda a dire di scioperare? Io, gli ordini...» Risposi subito: «La Commissione Interna, alla quale la polizia ha sbarrato le porte.»
«E tu fai il tamburino... Bella riconoscenza che hai per la Presidenza. Non date retta a questo matto. Bella riconoscenza che ha per la Presidenza...»
I suoi cattivi argomenti e la sua stessa ira convinsero della mia verità i cuochi e le donne che cominciarono a scoprire e a togliere le pentole e anche a spegnere qualche fuoco. Io continuai a ripetere che dovevano scioperare per incoraggiarli e per incoraggiare me stesso; finché una guardia mi portò via, fino all’Ufficio Personale.
Dopo un interrogatorio di pochi minuti, mi hanno sospeso dal lavoro per tre giorni e mi hanno detto che mi consegneranno una diffida scritta di licenziamento.
Sono tornato a casa con un pullman per Torino, in partenza all’una dai giardini pubblici. La strada era deserta eppure sembrava più stretta del solito e sembrava che se ne potesse vedere di più davanti, oltre le curve. Gli alberi avevano già perduto qualche foglia e sulla campagna si disponeva una luce rosa, molto larga. Dai vigneti veniva qualche barbaglio, come di specchi, e veniva dalle parti più folte dove ancora non erano arrivati a vendemmiare. Erano quei giorni senza uccelli, quei giorni dell’anno in cui non vi sono più averle o quegli altri amici che stanno pensierosi sui paletti, con le code bianche e nere. Tra i vigneti vendemmiati, quelli più in basso, si vedevano già gli spazi e i merletti stracciati dell’autunno e quella ruggine che poi si butta sulle ultime mele. Tra pochi giorni, come la lettera per me, arriveranno gli storni, a branchi aguzzi, i tordi ingordi e quegli altri devastatori con il becco come un’accetta; dilanieranno le file delle campanule intrecciate sulle viti dove si nasconde qualche grappolo d’uva. Faranno un gran chiasso e imbratteranno tutte di sterco le foglie dei vigneti.
Al bivio sono sceso, dopo un viaggio veloce, e a piedi mi sono diretto verso casa mia. Guardavo, come sempre, il lago crescere a poco a poco sotto i miei occhi, nella salita verso casa mia. A un certo punto era completamente sotto di me, che respirava piano tra le sue sponde. E così sotto di me tutti i tetti del paese, rossi e ordinati come se non albergassero la cattiveria umana. Nel nitore del pomeriggio il lago era senza sfumature, senza bracci verso la campagna e gli alberi; chiuso dentro le sue sponde. E il suo colore non brillava e non si spandeva all’intorno.
A quel punto io ero già all’altezza dell’orto di casa mia, quando finisce la salita e restano venti metri in piano per arrivare alla porta.
A quel punto ho capito che nessuno può arrivare in mio aiuto»
L’8 marzo non è solo la ricorrenza della Festa della donna, ma anche l’anniversario della morte di Alfonso Gatto, che però nessuno celebrerà (e non perché non è una cifra tonda il trentaseiesimo…); nessuno lo ricorderà perché egli è stato un poeta assolutamente sottovalutato e misconosciuto, nonostante fosse uno dei più grandi poeti del Novecento: in particolare la sua poesia civile è la vetta più alta mai raggiunta in Italia da questo genere letterario, ben più pregevole delle tanto celebrate poesie civili di Quasimodo, cui pure fu conferito il premio Nobel.
"Errante e procelloso fantasticatore" (come lo definì il critico Oreste Macrì), Gatto nasce a Salerno il 17 luglio 1909: e la terra natale resta nella sua poesia come elemento qualificante e insostituibile, un po' come la Liguria di Montale o la Trieste di Saba; anche se il rapporto di Gatto con la “piccola patria” è differente, segnato piuttosto da una condizione esistenziale di tormento e di nostalgia.
Dopo aver studiato all'Università di Napoli senza mai laurearsi, dal 1934 è a Milano, dove lavora dapprima all'"Ambrosiano" e poi via via sperimenta svariati impieghi, dall’insegnamento al giornalismo, alla critica d’arte (ma fu anche commesso in una libreria!). Incarcerato a San Vittore con l'accusa di "cospirazione sovversiva" contro il fascismo, vi resta sei mesi: e una volta liberato si trasferisce a Firenze, dove nel ‘38 fonda con Vasco Pratolini "Campo di Marte", la rivista chiave dell'ermetismo nascente, cui collaboreranno attivamente anche Mario Luzi, Salvatore Quasimodo, Leonardo Sinisgalli, Carlo Betocchi e Piero Bigongiari.
Nel 1940 torna a Milano e inizia a partecipare all'attività del PCI, da cui uscirà però per protesta nel 1951; dopo aver collaborato all’”Unità" e al "Politecnico", nel 1957 si trasferisce a Roma. Muore in un banale incidente stradale presso Capalbio l'8 marzo 1976: sulla sua tomba Eugenio Montale fa porre un’epigrafe da lui composta che recita «Ad Alfonso Gatto per cui vita e poesie furono un'unica testimonianza d'amore».
Straordinario cantore degli affetti quotidiani, Gatto rappresenta forse il punto d'equilibrio più convincente tra realismo e surrealismo: e a ragione la sua poesia è stata ricollegata a quella di autori defilati come Sandro Penna, Umberto Saba e Giorgio Caproni, cioè alla cosiddetta “linea postermetica”, che rappresenta uno dei vertici della poesia italiana del XX secolo.
La sua prima raccolta, Isola (1932), mostra già la capacità di offrire una corporeità, una concretezza che è raro trovare in altri rappresentanti dell'ermetismo fiorentino: l’isola cui si riferisce il titolo è il simbolo della poesia, del limite invalicabile (un po’ come la siepe leopardiana) oltre il quale solo l’immaginazione può andare. In questa silloge appaiono per la prima volta i temi che saranno costanti nella successiva poesia gattiana: la madre – la luna – il mare – la morte; quattro realtà che circondano il poeta in un ambiguo abbraccio, fatto di tenerezza e insieme di violenza.
Nel 1939 Gatto cura personalmente la sua prima raccolta antologica, che intitola Poesie, e che attraverso successive aggiunte e trasformazioni assumerà il suo assetto definitivo nell'edizione mondadoriana del 1961. Vi domina il tema della morte (il fratellino Gerardo, la madre, il padre), non avvertita però come disperata e angosciosa perdita, ma essenzialmente come continua ricostruzione del passato attraverso la “memoria felice” della poesia. Accanto al tema della morte è presente quello omologo del nomadismo, del perenne girovagare del poeta come biblico e leopardiano pastore errante alla ricerca di un senso della vita.
Il capo sulla neve (1947) e poi soprattutto La storia delle vittime (1966) segnano una svolta fondamentale nel percorso artistico di Gatto, che in questo modo salda il suo debito con la Resistenza, donandoci un raro esempio di poesia civile e “provocatoria”, nella quale affida alle “vittime” dell'ingiustizia l'arduo compito di condannare la violenza, ma anche di rendere possibile il ritorno alla normalità dell’esistenza e alla pacificazione tra gli uomini.
L'ultima stagione di Gatto è ancora fertile di rinnovata ricerca stilistica: si apre con le Rime di viaggio per la terra dipinta (1969), diario di un itinerario in versi attraverso la “terra dipinta” dell'esistenza, nel quale il singolare connubio di poesia e pittura (non si dimentichi che Gatto è stato anche un apprezzato pittore e che la sua visionarietà poetica può far pensare a certo Chagall) esprime in pieno l'acceso cromatismo che solcava già la produzione precedente; prosegue con le Poesie d’amore (1973), dove il “nomade d’amore” torna a cantare la sua gioiosa e visionaria concezione del mondo; e si chiude con la raccolta postuma Desinenze (1977), dove, con l'affabile cantabilità che gli è propria, Gatto compie l'ultima evocazione memoriale dei luoghi e delle persone amate (l'isola, il Caffè Greco, il fratello Gerardo, gli amici poeti, la donna), facendo risuonare ancora una volta nei metri tradizionali il suo affascinante “impressionismo decantato e arioso” (Mengaldo). In effetti le sue scelte metriche, basate su un'esuberante orchestrazione fonica (alle rime si affiancano continuamente rimalmezzo, allitterazioni, assonanze e consonanze), provocano spesso, nella loro armoniosa musicalità, un senso di straniamento, che fa sorgere immagini eteree ed evanescenti, talora perfino di ardua interpretazione.
Notevole è anche la sua produzione in prosa, per adulti e per bambini, iniziata già nei primi anni quaranta e continuata per oltre un ventennio (si possono citare tra gli altri La sposa bambina, del 1943, e La coda di paglia, del 1949). Ma nella sua irrequieta e zingaresca, ancorché breve esistenza Alfonso Gatto ha fatto veramente fatto di tutto, avendo modo persino di recitare in film quali Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano, un’importante pellicola neorealista, Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini (dove ha la parte dell'apostolo Andrea), e Teorema (1968), sempre di Pasolini, dove impersona un dottore.
Da Isola un testo di sapore chagalliano:
Carri d’autunno
Nello spazio lunare
pesa il silenzio dei morti.
Ai carri eternamente remoti
il cigolìo dei lumi
improvvisa perduti e beati
villaggi di sonno.
Come un tepore troveranno l’alba
gli zingari di neve,
come un tepore sotto l’ala i nidi.
Così lontano a trasparire il mondo
ricorda che fu d’erba, una pianura.
Da Poesie 1941 un testo dedicato al fratellino Gerardo prematuramente scomparso:
Lelio
La tua tomba, bambino,
vogliamo sia sbiancata
come una cameretta
e che vi sia un giardino
d’intorno e l’incantata
pace d’una zappetta.
Era un dolce rumore
che tu lasciavi al giorno
quel cernere la ghiaia
azzurra e al suo colore
trovar celeste intorno
la sera. Ora, che appaia
la luna e del suo vento
lasci più solo il mondo,
ci sembrerà d’udire
nell’aria il tuo lamento.
Era un tuo grido a fondo
l’infanzia, un rifiorire...
Inventaci la morte,
o bambino, i tuoi segni
come d’un gioco infranto
rimasero alla sorte
del vento, ai suoi disegni
di nuvole e di pianto.
Ogni giorno che passa
è un ricadere brullo
nell’ombra che c’invita.
Irrompi a testa bassa
nel ridere, fanciullo,
devastaci la vita
un’altra volta e vivi.
Da La storia delle vittime. Poesie della Resistenza un testo estremamente delicato, la cui genesi così commenta lo stesso Gatto: “Lessi, su un giornale romano della sera, d’una bambina trovata di notte, senza nome e senza memoria, sulla via Appia antica. Pensai, quasi senza un perché apparente, alla fanciulla di Spina, all’agoraio, ai piccoli strumenti di lavoro che le avevano deposto accanto nella tomba. Il “perché” c’era e la poesia vuol dirlo: la memoria dell’uomo ignoto è nella gente che vive e nella storia del lavoro comune che si tramanda nei gesti quotidiani, nelle cose di sempre. E nella scuola, ove si impara a conoscere, nascono per i bambini le prime meraviglie di trovare nel tempo le ragioni e la speranza nel tempo, il nome alle persone, alle cose, anche alla bambina sperduta di Roma. La sua apparizione sùscita il ricordo dell’antica convivenza, dell’uomo che torna a casa, dei boschi”
La fanciulla di Spina
Nelle scuole gridarono perché,
perché l’adolescente morta a Spina
dormiva col suo piccolo agoraio?
Esce l’uomo improvviso dal suo taglio
di luce, incontra nel saluto il folto
degli scolari, il vecchio, l’operaio.
Si fa largo, ammirata, una fanciulla,
indugia col suo ciòndolo alla bocca.
La vita è la certezza dell’abbaglio
che ci porta a sorridere per nulla,
ma di qualcosa che rimane e tocca
la polvere del tempo: la sartina
etrusca col suo piccolo agoraio.
Nelle scuole gridarono perché,
perché la storia è morta se ne sciama
la memoria dell’uomo, lo spiraglio
della luce perpetua? L’uomo traccia
le sembianze sparite d’ogni faccia
che crede di vedere appena l’ama.
È come udire solo il proprio ascolto,
un eguale silenzio in ogni luogo,
un eguale rumore. Vede il folto
degli scolari perdersi nel rogo
della fatua allegrezza, uscirne al riso
la fanciulla di Spina che traversa
di corsa l’aria del suo tempo, il viso
biondo di luce, docile all’avversa
morte che già la ferma nei suoi passi.
Nella tomba di sabbia, nell’agreste
chiarore delle tegole, le cose
della sua vita son le cose
di sempre, umane: così torna in festa
il giorno dai millenni. E chi depose
per la fanciulla i segni del suo breve
cammino, volle chiudere il passato,
confermarle la morte o aprire lieve
l’uscio dell’aria, il sole ch’è tornato
a rallegrarla come l’erba i sassi?
Nella sera d’ottobre, nell’umana
stagione dell’autunno, questa Roma
di cronache raccoglie dalla strada
dei suoi sepolcri una bambina sola.
Non ha più nome e non ricorda come,
dove è vissuta, ma a se stessa bada
col suo silenzio nel vedersi sola.
È nel tempo dei tempi la lontana
storia dell’uomo: il cane sulle porte,
il lume acceso, il fuoco, come accenti
del vivere comune, e nella morte
ancora il segno della nostra mano.
La bambina è così, di questa tenda
bianca nel bosco, pare che s’accenda
il lume d’una tomba o d’un villaggio.
La fanciulla di Spina, l’operaio
che torna a casa, il piccolo agoraio.
Certo, una cosa. Basta il suo messaggio.
E per concludere una splendida poesia civile, sempre tratta dalla raccolta La storia delle vittime:
Lamento d’una mamma napoletana
Mio, il figlio, non era della guerra,
dei padroni che lasciano ch'io pianga
dietro la porta come un cane, mio,
delle mie mani, del mio petto giallo
ove le mamme seccano sul cuore.
Mio, e del
mare che ci lava i piedi
tutta la vita, del vestito nero
che m'acceca di polvere se grido.
Mio, il figlio, non era della guerra,
non era della morte e la pietà
che cerco è di svegliare col suo nome
tutta la notte, di fermare i treni
perché non parta, lui, ch'è già partito
e che non tornerà.
Mio, il
figlio, e la sua morte mia, la guerra.
I cavalli mi corrano sul petto,
i treni i fiumi ch'egli vide: il fuoco
m'arda i capelli ove la notte sola
alle mie spalle s'accompagna.
Il vento
resti del mondo allucinato, il sale
degli abissi che abbagliano, il lenzuolo
del nostro lutto...
La figura di Franco Fortini ha avuto un ruolo di spicco nel quadro culturale della nuova sinistra italiana del dopoguerra: intellettuale impegnato, critico sottile e intelligente, competente traduttore soprattutto dal tedesco, poeta e saggista, Fortini volle essere "dimostrazione vissuta [...] di una nuova cultura e di una nuova ideologia letteraria" (come scrisse di lui Pasolini).
Nato a Firenze nel 1917 da padre israelita, Franco Lattes (questo il suo vero cognome) studiò nella città natale, dove conobbe i poeti ermetici e si legò con Giacomo Noventa, il grande intellettuale e poeta veneto. Laureatosi nel 1939 in giurisprudenza e l'anno dopo in lettere, dal 1940 assunse come pseudonimo letterario il cognome materno Fortini.
Confinato per motivi politici e razziali durante il fascismo, poi esule in Svizzera, dal 1944 partecipò alla Resistenza in Valdossola; dopo la guerra si trasferì a Milano, si iscrisse al Partito socialista (che lascerà per insanabili dissensi nel 1957), e iniziò una feconda collaborazione con il "Politecnico" di Vittorini, con "Officina" e con altre riviste d'avanguardia come "Quaderni rossi" e "Quaderni piacentini". Dagli anni sessanta fu molto attivo politicamente, ed assunse un ruolo di grande spicco come intellettuale di sinistra dissidente e combattivo.
Ostile alla logica burocratica dei partiti, vicino alle lotte giovanili del Sessantotto e al nuovo modello della rivoluzione cinese, visse con forte tensione civile ed etica le esperienze e le contraddizioni della sinistra italiana negli anni del neocapitalismo, bilanciando di continuo una sua personale propensione critica (stimolata anche dal "pensiero negativo" della Scuola di Francoforte, a lui molto cara) con la spinta utopica progressista dell'ideologia marxista. Attentissimo analista della società e della cultura contemporanea, dei rapporti conflittuali tra politica e letteratura, tra politica e funzioni intellettuali, tra poesia e potere, Fortini tendeva sempre "non già ad attenuare la contraddizione ma ad esasperarla" (Luperini). Morì a Milano nel 1994.
Uno stretto legame congiunge le posizioni ideologico-politiche di Fortini con le tematiche intellettuali della sua poesia, che matura presto una radicale avversione all'ermetismo e si collega con sicurezza all'esperienza marxista di Brecht, di cui fu anche traduttore. Il tono dominante della sua poesia è la lucidità ragionativa, espressa in una secchezza sintattica duramente esposta: ciò determina esiti di voluta prosaicità (appunto brechtiana), compensati talora dalla presenza di metafore o immagini-allegorie. Poeta di pensiero e di spiccata concettualità, Fortini trasporta sul terreno poetico le dure tensioni che ne distinguono l'operato intellettuale, ed elabora una poesia dove convergono lirismo e anti-elegismo.
La sua prima esile raccolta, Foglio di via (Einaudi, Torino 1946), suscita grande interesse per il rifiuto polemico della moda ermetica allora dominante: l’opposizione alla "poesia-lusso" o "poesia-vita" come concezione borghese e totalizzante dell'arte vi si congiunge con la proposta di una cultura europea ancora poco diffusa, dove domina già la figura di Bertolt Brecht. La raccolta è contraddistinta da notevole discorsività e varietà di registri, nonché dalla sostituzione di ogni elemento allusivo o simbolico con l'allegoria, recuperata come modo espressivo straniante, non compromesso con la poesia borghese contemporanea. Accanto a testi ispirati alla Resistenza vi compaiono liriche di amara riflessione su un periodo di profonda incertezza, chiuso (come dichiara il poeta stesso) "fra l'attesa della guerra, la guerra e la fine del dopoguerra, ossia fra progressione e regressione, sonno e veglia, speranza e autonegazione". La desolata visione della vita che vi si respira è dovuta in buona misura alla constatazione dell'irrimediabile perdita della possibilità di quel radicale mutamento sociale in cui la sinistra italiana aveva sperato.
Nel 1959 la produzione giovanile trova sistemazione e sintesi nel volume Poesia e errore (Feltrinelli, Milano), che segna un provvisorio addio alla poesia, perché Fortini preferisce esprimersi nel saggio critico e nell'intervento politico, che in quel momento ritiene più consoni alle sue scelte ideologiche.
Una nuova silloge poetica esce nel 1963 (Mondadori, Milano), col titolo Una volta per sempre, e segna un ulteriore passo avanti nella coscienza del ruolo del poeta: da un lato Fortini rifiuta lo sperimentalismo delle neoavanguardie, dall'altro stigmatizza il "disimpegno" borghese, proponendo un bilancio polemico della cultura degli anni sessanta in Italia.
Nel 1966 è la volta de L'ospite ingrato, una raccolta di graffianti epigrammi, che già nel titolo esprime con un tratto di autocompiacimento la "molestia" dell’autore. La quarta raccolta, Questo muro (1973, ancora per Mondadori), costituisce infine una sorta di autoantologia ideale: vi sono infatti riproposti un po' tutti i temi e le modalità espressive delle precedenti raccolte, dalla lievità e concisione di Foglio di via alla violenza espressiva di Poesia ed errore, al timbro solenne e prosciugato di Una volta per sempre. Opera amara, segnata dalla delusione per la piega degli avvenimenti politici e civili nell'Italia del consumismo, ma pur sempre aperta alla speranza e all'utopia, Questo muro punta a una progressiva “rarefazione” del linguaggio poetico per farsi giudiziosevero sul presente. Il titolo allude alla barriera che divide parole e cose, utopia e realtà, aspirazioni personali e necessità storiche: quasi un'autocontestazione della poesia, che si scopre inadeguata a realizzare se stessa. Nel rifiuto della "sublime lingua borghese" (come egli stesso la definisce), la sua arida denotatività rimanda sempre a un superamento del dato contingente, a un’affermazione ideologica razionalmente tesa e tagliente.
Nel 1984 esce infine Paesaggio con serpente, che comprende testi dell'ultimo decennio improntati alla "disperazione fredda e serena" (Raboni) del poeta, che si riconosce incapace di incidere sul reale, forse solo profeta di un futuro dal quale però si sa inevitabilmente escluso.
Parallela e interagente con la poesia è la produzione saggistica, le cui tappe più significative si possono rintracciare in Dieci inverni (1957), intensa disamina del dibattito ideologico postbellico negli anni della guerra fredda; Verifica dei poteri (1965), testimonianza insostituibile di una tensione morale unificatrice (vi si afferma che "non esiste problema della poesia o della letteratura che non sia della società"); e Questioni di frontiera (1977), riflessioni nelle quali è "impossibile distinguere fra giudizi letterari, considerazioni di costume, critica della cultura, valutazioni politiche" (secondo una definizione dell'autore stesso).
Particolarmente significativo il volume Verifica dei poteri, dove sono affrontati i temi più scottanti del rapporto fra letteratura e politica, nel momento stesso del passaggio ad una fase di capitalismo avanzato. È evidente in esso l'ispirazione marxista di Fortini, che ribadisce come l'intellettuale sia divenuto ormai un "lavoratore salariato" dell'industria culturale, pur illudendosi ancora di godere di un'ampia libertà di pensiero. Il titolo voleva "significare che il discorso critico dovrebbe essere, oltre che valutazione dei poteri reali delle opere letterarie, anche verifica -secondo il linguaggio delle assemblee elettive- della provenienza loro, cioè della origine e legittimità del mandato sociale e storico in nome del quale chiedono il diritto di testimoniare". Uno dei saggi più intensi è Astuti come colombe, dove si afferma che la poesia è fruibile solo dalle classi egemoni e dovrebbe quindi essere ripudiata a favore di un diretto e meno compromesso impegno ideologico.
Intensa è stata anche l'attività di Fortini come traduttore dal francese (Flaubert, Eluard, Gide, Simone Weil, Proust, Queneau) e dal tedesco (Kierkegaard, Goethe, Brecht, per citare i maggiori), che ha costituito per il poeta motivo di costante ripensamento e arricchimento dei propri registri espressivi e delle proprie scelte metriche e formali. E ruolo non del tutto marginale ha la produzione narrativo-memoriale, iniziata nel 1948 con Agonia di Natale, e proseguita nel 1963 con Sere in Valdossola, rievocazione autobiografica delle vicende partigiane da lui direttamente vissute.
Si propongono alla lettura alcuni testi poetici tra i più intensi, con un breve commento.
Foglio di via
Dunque nulla di nuovo da questa altezza
Dove ancora un poco senza guardare si parla
E nei capelli il vento cala la sera.
Dunque nessun cammino per discendere
Se non questo del nord dove il sole non tocca
E sono d'acqua i rami degli alberi.
Dunque fra poco senza parole la bocca.
E questa sera saremo in fondo alla valle
Dove le feste han spento tutte le lampade.
Dove una folla tace e gli amici non riconoscono.
Il testo, composto nel 1944 e ambientato nel periodo della Resistenza, esprime la precarietà e l'azzardo della vita partigiana in un linguaggio solenne e scandito, quasi epigrafico, insistendo fortemente sui temi del silenzio e dell'oscurità. Il “foglio di via” richiamato nel titolo è il documento dell’autorità partigiana che indica la missione da compiere e garantisce ai possessori un salvacondotto per attraversare le linee nemiche.
Il tema principale della poesia è quello della lotta politica, che divide gli uomini in due schieramenti inconciliabili e distrugge anche le amicizie nel nome della paura di ritorsioni o di sgraditi coinvolgimenti (“una folla tace e gli amici non riconoscono”). Implicito è poi il tema del gelo e dell'aridità, espresso dal riferimento al "vento", al "cammino (...) del nord", all'assenza del sole, ai rami pregni "d'acqua" che rimandano a un desolato paesaggio invernale. Si notino infatti le frequenti immagini di oscurità che ricorrono nelle tre terzine ("cala la sera", v. 3; "il sole non tocca", v. 5; "han spento tutte le lampade", v. 9). Il versetto finale, ribadendo la tematica del silenzio e della negatività (presente peraltro un po’ in tutto il testo), riassume il senso di estraneità e diffidenza che circonda il protagonista.
Il presente
Guardo le acque e le canne
di un braccio di fiume e il sole
dentro l'acqua.
Guardavo, ero ma sono.
La melma si asciuga fra le radici.
Il mio verbo è al presente.
Questo mondo residuo d'incendi
vuole esistere.
Insetti tendono
trappole lunghe millenni.
Le effimere sfumano. Si sfanno
impresse nel dolce vento d'Arcadia.
Attraversa il fiume una barca.
E' un servo del vescovo Baudo.
Va tra la paglia d'una capanna
sfogliata sotto molte lune.
Detto la mia legge ironica
alle foglie che ronzano, al trasvolo
nervoso del drago-cervo.
Confido alle canne false eterne
la grande strategia da Yenan allo Hopei.
Seguo il segno che una mano armata incide
sulla scorza del pino
e prepara il fuoco dell'ambra dove starò invisibile.
Il presente eterno della poesia rende possibile la compenetrazione fra l'oggi del poeta, sdraiato lungo "un braccio di fiume" (il fiume Magra presso Ameglia), e il passato, richiamato sia nel mito classico dell'Arcadia, mitica regione greca favoleggiata dai poeti bucolici, sia nella rievocazione dell’episodio altomedievale dell’immaginario vescovo-conte Baudo, sia nel riferimento alla bruciante esperienza della rivoluzione maoista in Cina, cui alludono sia il riferimento al drago-cervo, ovvero a "un cervo volante, qui orientalizzato" (Nota dell'Autore), sia alla “lunga marcia” di Mao Tse-tung “da Yenan allo Hopei”.
In chiusura addirittura l'esperienza del poeta si proietta verso un futuro lontanissimo, dove resterà solo la testimonianza della sua poesia, quasi come un insetto imprigionato per sempre nell’ambra.
Canto degli ultimi partigiani
Sulla spalletta del ponte
Le teste degli impiccati
Nell'acqua della fonte
La bava degli impiccati.
Sul lastrico del mercato
Le unghie dei fucilati
Sull'erba secca del prato
I denti dei fucilati.
Mordere l'aria mordere i sassi
La nostra carne non è più d'uomini
Mordere l'aria mordere i sassi
Il nostro cuore non è più d'uomini.
Ma noi s'è letta negli occhi dei morti
E sulla terra faremo libertà
Ma l'hanno stretta i pungi dei morti
La giustizia che si farà.
Strutturato come un inno di battaglia dalle cadenze cupe e violente, del canto popolare questo testo ha la metrica irregolare (si passa dagli ottonari estremamente cadenzati ai decasillabi, ai versi disparati dell'ultima strofa) e la ripetitività: anafore e parole-rima identiche che rendono un andamento cantilenante e modulare. Nelle prime due quartine la violenza delle immagini di morte contrasta con le presenze idilliche del paesaggio (il ponte, l'acqua della fonte, il lastricato, l'erba del prato), proponendo il disgusto del poeta per le atrocità commesse contro i partigiani. Nella terza strofa è l'infinito “mordere” ripetuto quattro volte a ritmare ossessivamente le affermazioni del poeta, che rileva l'impossibilità, in situazioni così angosciose, di riconoscere ancora un comportamento da uomini (e si può pensare a un voluto riferimento al titolo del famoso romanzo di Vittorini Uomini e no). Nell'ultima strofa, infine, il ribellismo di Fortini si esprime nella certezza di un mondo di libertà e giustizia che certamente troverà realizzazione, proprio grazie al sacrificio dei partigiani.
Franco Loi è uno dei massimi poeti viventi in dialetto (per lo più un milanese estremamente personale, ma in certi testi anche il genovese e il parmense di Colorno): nato a Genova nel 1930 da padre sardo e madre emiliana, dal 1937 si trasferì a Milano seguendo il genitore ferroviere e si diplomò ragioniere. Qui iniziò a lavorare come contabile allo Scalo Merci di Lambrate, poi dal 1955 all'ufficio pubblicità della Rinascente, e infine dal 1962 all'ufficio stampa della Mondadori. Oggi in pensione, continua a vivere a Milano.
La sua prima produzione poetica nacque tutta in una breve stagione, tra il settembre 1965 e l'estate 1974, quasi "sotto dettatura", come ci rivela il poeta stesso: "scrivevo versi per quattordici ore filate al giorno [...]. Camminavo per la mia stanza ridendo, piangendo, recitando [...], ma nella stanza c'era un sé che dettava, qualcuno che mi dettava dentro: una presenza che avvertivo sul capo come un calore e che mi osservava indifferente a quanto mi accadeva. Ecco perché mi sono sempre considerato amanuense di Qualcuno".
Il suo primo volume di versi esce nel 1973 (I cart, ovvero “Le carte”); seguono nel 1974 Poesie d'amore e nel 1975 la fondamentale raccolta Stròlegh (Astrologo) con bellissima prefazione di Franco Fortini. L'autore definisce Stròlegh una "visione in quarantadue passaggi", a sottolineare la visionarietà di questa poesia, ma anche il recupero di un passato come anticipazione, augurio, allusione al futuro. Il titolo (che potrebbe tradursi "indovino", "astrologo") rimanda infatti, più che a un ritorno memoriale, ad un sogno ad occhi aperti, a una profezia rassicurante. Opera multiforme e complessa, Stròlegh è un poema unitario dalla forte articolazione teatrale, dove lo stile violentemente espressionistico scaturisce da una costante mescolanza di registri, dal grottesco al sarcastico al satirico, e si avvale di un dialetto intriso di forme colte, forestierismi e latinismi.
Temi ricorrenti sono il trauma della guerra, la drammatica scoperta della presenza insopprimibile del male nella storia, la sensazione di un tradimento subìto, di ferite psicologiche non rimarginabili. Da qui l’energia dell'invettiva, il rimpianto di un paradiso perduto, ma anche la costanza dell'invocazione e della preghiera. Si rintraccia in queste prime raccolte un "bestiario" totalmente negativo, affollato di uccelli rapaci, di animali abbandonati e oltraggiati, di mostri e chimere, in un'ambientazione frequentemente invernale e squallida.
Dopo la parentesi di Teàter (1978), che il poeta definisce “un divertimento”, una svolta radicale si ha con L'aria e L'Angel (entrambe del 1981), raccolte poetiche lontane dai modi espressionisti usati fino ad allora e protese piuttosto verso un "lombardo provenzale" (la definizione è di Loi) dai toni tenui e rarefatti. L’aria è una silloge dedicata al padre e ai compagni perduti, dove è dato notare il prepotente "stato d'animo d'indignazione e dolore per l'esito di vicende politiche e personali di quel tempo" che la fece nascere. I testi dialettali, per lo più di misura breve, spesso in una lingua più ariosa rispetto a quella delle raccolte precedenti, sono intercalati da tre poesie in italiano che fungono da prologo alle tre ultime sezioni del volume.
L’Angel (integralmente rielaborato nel 1994) è una “pseudoautobiografia” (come la definisce il critico Franco Brevini), un romanzo in versi magmatico e potente che traccia il singolare ritratto di “un eroe italiano” (questo avrebbe dovuto esserne il titolo, nella prima intenzione), di un uomo che è certamente alter ego del poeta), che si crede un angelo in esilio dal Paradiso e che vive la sua vicenda umana con intensa passione, ricostruendo intorno a sé il quadro di una provincia in estinzione, contraddistinta da semplicità, personaggi bizzarri e generosi, episodi ora divertenti ora drammatici. La tastiera dialettale si è allargata, includendo oltre al milanese, anche il genovese e il colornese (cioè il dialetto materno del paese di Colorno, presso Parma).
In queste raccolte la requisitoria contro la società si è fatta meno amara, anche se il poeta denuncia il tramonto delle illusioni postbelliche e la perdita di valori che incalza, e si rifugia in un privato che è memoria e contemplazione, ricerca e attesa. Su questa stessa linea si collocano le ultime raccolte, uscite a ritmo incalzante in questi tren’anni: Lűnn (Lune, 1982), dalla fascinosa ambientazione notturna; Bach (1986), dominata dalla ricerca del dialogo con la morte e dal desiderio di recuperare la fluidità dell'esistenza; Liber (1988: Libro, ma anche Libero/Liberi, come sottolinea Loi), dove ricompare "il sogno generoso di una palingenesi rivoluzionaria" (C. Segre) che potrebbe realmente liberare l'uomo; Umber (Ombre, 1992), che vede incrinarsi ulteriormente il rapporto tra società e poeta; per arrivare ad Amur del temp (Amore del tempo, 1999), memoriale della donna amata (o del suo fantasma) e del tempo che fugge lasciandoci “furest a nűm, a lur, al so insugnàss (forestieri a noi, a loro, al loro sognarsi)”. Pur nell’incupirsi dei tempi, Loi non cessa comunque di proporsi un’apertura costante al mondo e all’essere umano.
Il nono "passaggio" della raccolta Stròlegh è dedicato a Piazzale Loreto, luogo fondamentale nell'esperienza di Loi, che ancora ragazzino, il 10 agosto 1944, qui vide i corpi di quindici partigiani uccisi "gettati sul marciapiede come spazzatura", e nel 1945 i cadaveri di Mussolini, di Claretta Petacci e degli altri gerarchi fascisti trucidati dai partigiani. I due momenti sembrano confondersi in un'unica scena, che suscita nel poeta rabbia e pietà, elegiaca reminiscenza e angosciosa invettiva.
piassa Luret, serva del Titanus |
Piazza Loreto, dominata dal Titanus |
...piassa Luret, serva del Titanus ti', verta, me na man da la Pell morta i gent che passa par j a vör tuccà, e là, a la steccada che se sterla, sota la colla di manifest strasciâ, l'è là che riden, là, che la gent surda la streng i gamb, e la vurìss sigà. Genta punciva che la se smangia 'doss, che la ravìscia ai pè, cume quj trémul che, 'rent al giüss, se sviccen vers el ciar e sott la rùsca passa la furmiga che l'è terrur e rabbia e sbalurdur. E lì, bej 'nsavunâ, dal pel rasà, senta süj cass de legn, o, 'm'i ganassa, ranfiâ, ch'i sten par téndcr caressà,
o che, tra n' rid e un dìss üsmen cress j ödi de la camisa nera i carimà, vün füma, n òlter pissa, un ters saracca, e 'n crìbben, cui sò fà de pien de merda, man rosa ai fianch el cerca j öcc nia...
Oh genti milanes, vü, gent martana, tra 'n mezza nün 'na gianna la dà 'n piang, e l'è 'na féver che trema per la piassa c la smagriss i facc che morden bass.
Ehi, tu...!... si tu!... che vuoi? Manca qualcosa? Mì...? Si, tu. e 'na magatel cul mitra sguang el ranfa per un brasc quèla che piang. Mi, sciur...? Tira su la testa ! e lentarnent, 'm rìd una püciànna, i òcc gaggin sbiàven int j òcc ch'amur je fa murì, pö, carmu, 'na saracca sliffa secca tra i pé de pulver, e sfrisa 'me 'na lama l'uggiada storta tra quj òmn scalfa, [....] |
...piazza Loreto, dominata dal Titanus tu, aperta, come una mano dalla pelle morta sembri voler toccare la gente che passa, e là, presso la staccionata sconnessa sotto la colla dei manifesti stracciati, è là che ridono, la, che la gente sorda stringe le gambe e vorrebbe gridare. Gente che pensa in silenzio e si smangia dentro, che mette le radici ai piedi, come quei tremolii che, presso al letame, si diramano verso la luce e sotto la corteccia passa la formica che è il terrore e la rabbia e lo sbalordimento. E li, ben lavati, con la barba rasata, seduti sulle casse di legno, o, impudenti, attaccati alla staccionata, che sembrano accarezzare teneramente gli sten, o che tra il ridere e il parlare, annusano crescere gli odi, gli occhi lividi delle camicie nere uno fuma, un altro piscia, un terzo sputa, e un delinquente, col suo modo di fare pieno di merda, con le mani rosate sui fianchi cerca gli occhi che gli si negano... O gente milanese, voi, gente laboriosa, in mezzo a noi una povera donna scoppia a piangere, ed è una febbre che trema per la piazza e fa smagrire le facce che stringono i denti a testa bassa. Ehi tu...!...si tu!... che vuoi? Manca qualcosa? Io...? Si, tu, e un teppista col mitra puttana afferra per un braccio quella che piange. Io signore...?. Tira su la testa! e lentamente, come ride una baldracca, gli occhi bianchicci sbavano negli occhi che l'amore fa morire poi, calmo, tira secco uno sputo tra i piedi nella polvere, e graffia come una lama l'occhiata storta tra quegli uomini scorticati, [....] |
Nel lungo commento introduttivo a Teater, Loi rievoca l’episodio con parole che possono costituire un’esegesi puntuale al brano poetico riportato: “Ho vissuto quella piazza Loreto. L’ho vissuta in due momenti diversi, che nel Sogn sembrano confondersi in un’unica scena. […] C’erano i morti gettati sul marciapiede, contro lo steccato, qualche manifesto di teatro […] Attorno la gente muta, il sole caldo. Quando arrivai a vederli fu come una vertigine: scarpe, mani, braccia, calze sporche: uno in tuta con le braccia spalancate, un altro lungo lo steccato, uno come seduto, le mani protese in avanti, il volto un grumo di sangue, una grossa testa di sangue tra le mani adunche: ai miei occhi di bambino era una cosa inaudita: uomini gettati sul marciapiede come spazzatura e altri uomini, giovani, vestiti di nero, che sembravano fare la guardia armati. Anche il sole era inaudito, quel giorno di agosto […] In quella piazza Loreto vidi Mussolini e i gerarchi appesi […] Il popolo è lì davanti che guarda, sia i fratelli fucilati nel ’44, sia i potenti appesi. Prima sgomento davanti ai propri morti, poi vendicativo sui corpi dei padroni. […] C’è un segreto in quella piazza Loreto. È il segreto di una storia, la vicenda di uomini che hanno vissuto in quella periferia milanese e si sono ritrovati ad appuntamenti importanti del destino. Ognuno dei quindici fucilati, e ognuno dei diciotto gerarchi è una vita e le loro vite sono distinte e di parte, ma si intrecciano e si accordano al luogo: hanno intessuto il segreto della piazza Loreto”.
Puèta, disen, d’òmm inamurâ, puèta, disen, a chi piang la sera e la matina s’alsa desperâ. Ma anca al legriusà se dis puèta, a chi sa ben parlà, bev e magnà, e a quèl che canta i donn, e amô puèta disen la giuentü che sa encantâss. Ma quèj che fan murì cun la puesia Ligada sü, ciavada, e fan negà Nel liber de la vita… Avemaria! În no puèta, în no òmm de lüstrà. Je ciàmen massa e ciau, e cusì sia. |
Poeta, dicono, d' uomo innamorato, poeta, dicono, a chi piange la sera e la mattina si alza disperato. Ma anche al rallegrarsi si dice poeta, a chi sa ben parlare, bere e mangiare, e a quello che canta le donne, e ancora poeta dicono la gioventù che sa meravigliarsi. Ma quelli che fanno morire con la poesia legata dentro, chiusa a chiave, e fanno annegare nel gran libro della vita .... Avemaria! Non sono poeti, non sono uomini da onorare. Li chiamano massa e ciao, e così sia. |
Alda Merini nasce a Milano, a Porta Genova, il 21 marzo del 1931 (scriveva di sé in una poesia: “sono nata il 21 a primavera / ma non sapevo che nascere folle / aprire le zolle / potesse scatenar tempesta”): e sulle rive del Naviglio, nella sua casa scombinata e bislacca, è morta tre anni fa, il 1° novembre 2009. La sua esistenza disordinata e magmatica appariva perfettamente “fotografata” nel caos di quelle due stanze in cui si era ridotta a vivere, dove i mozziconi di sigarette si accompagnavano ai manoscritti poetici e alle lettere degli ammiratori, dove i muri erano tappezzati di fotografie, manifesti e scarabocchi di ogni genere, dove la confusione regnava sovrana mentre la vecchia Musa giaceva nel letto sfatto a fumare e a sognare, a scrivere e a parlare da sola (o con chi capitava da lei, fosse un poeta o un garzone di bottega…)
Questa era Alda Merini negli ultimi tempi; questa era la Merini che andai a trovare il 21 marzo del 2009, in occasione del suo settantottesimo compleanno, pochi mesi prima della sua morte. Era sopravvissuta alla guerra, dove aveva perso tutto nei bombardamenti, aveva dovuto rinunciare agli studi e adattarsi a fare di tutto, la mondina e la mungitrice, magari la borsa nera, pur di sopravvivere; poi aveva sposato un operaio che non riusciva neppure a mantenere la famiglia, e aveva cominciato a manifestare quello squilibrio psichico che nel 1947 l’aveva portata per la prima volta in una clinica psichiatrica.
Non serve però raccontare in dettaglio la vita di Alda Merini, una sequenza di vicende drammatiche e felici (come le quattro gravidanze, di cui lei dice: “Ho avuto quattro figlie. Allevate poi da altre famiglie. Non so neppure come ho trovato il tempo per farle. Si chiamano Emanuela, Barbara, Flavia e Simonetta. A loro raccomando sempre di non dire che sono figlie della poetessa Alda Merini. Quella pazza. Rispondono che io sono la loro mamma e basta, che non si vergognano di me. Mi commuovono”). Quel che conta veramente, al di là degli eventi biografici, è la sua poesia, che ella amò fin da quando, ragazzina, aveva cominciato a scrivere, e che la accompagna per tutta la sua lunga esistenza. La svolta si ha quando il grande critico Giacinto Spagnoletti la scopre e la fa conoscere al grande pubblico con il suo primo vero libro, La presenza di Orfeo (Schwarz, Milano 1953). Raccolte significative sono poi La pazza della porta accanto (Bompiani, Milano 1955), La Terra Santa (Scheiwiller, Milano 1984), e Testamento (a cura di G. Raboni, Crocetti, Milano 1988), che raccoglie una scelta di testi dal '47 all'88 e le dà la consacrazione definitiva.
Da allora la sua produzione si è dilatata a dismisura, offrendo ai suoi lettori vertici di assoluta qualità e cianfrusaglie, capolavori e libri irrealizzati, proprio per la sua incapacità di selezionare e di scartare ciò che poteva essere meno valido artisticamente.
Tra le ultime opere possiamo ricordare almeno Vuoto d'amore (Einaudi, Torino 1991), Corpo d'amore. Un incontro con Gesù (prefazione di Gianfranco Ravasi, cura iconografica di Luca Pignatella, Frassinelli, Milano 2001) e Padre mio (Frassinelli, Milano 2009).
In anni recenti la Merini è sempre più conosciuta: arriva la partecipazione al Costanzo Show, le viene assegnata la pensione secondo la legge Bacchelli, ma la sua poesia resta retaggio di pochi; mentre il suo gusto scandalistico la porta perfino a farsi fotografare settantenne seminuda, con i capelli ben curati e le unghie laccate…
Ma, come si diceva, non è la biografia di Alda Merini che ci deve interessare, ma la sua poesia, dove i motivi ricorrenti sono l'intreccio inestricabile di temi erotici e mistici, di luce e ombra, e la rievocazione, talvolta brutalmente realistica, dell’esperienza vissuta, come può vedersi in questo testo in prosa:
“L’anima è il principio del bene ed è l’occasione ultima per vivere. Il vero involucro del pensiero è l’anima: essa è insospettabile come tutte le verità che non si vedono ma che ci riempiono la vita. A volte l’anima muore e muore di fronte a un dolore, a una mancanza d’amore e soprattutto quando viene sospettata d’inganno. L’anima non è mai religiosa ma è la religione stessa. Quando dico che il peccato fa parte della vita e della morte e quindi anche della redenzione, io sostengo che grazie alla materia noi possiamo controllare la nostra morte e le nostre agonie di pensiero.
Io tremo di orrore davanti ai peccati invisibili degli altri e non davanti ai miei, perché mi conosco talmente bene da sapere che ogni indugio è la premessa di un nuovo riscatto. Mi lascio andare al discorso aperto della vita e spesso a quello che i cattolici chiamano Provvidenza e cioè a quella mano grande che ci soccorre, che è sempre amore e che è sempre indulgenza di amore.
Un’anima come la mia è già nell’eternità nel senso che ha capito che il tempo non ha valore, che l’uomo non può fermare la morte ma che ha in sé una sentinella vigile che è la sua anima e con quella è consapevole dell’amarezza della vita e tornerà, se Dio vorrà, alla culla del suo Creatore” (A. Merini, da L’anima innamorata, Milano, Frassinelli, 2000)
La sua ricerca religiosa può apparire a volte anche blasfema, ad esempio quando ella descrive la Vergine come una donna “che subisce violenza da Dio, che è titubante e recalcitrante, e alla fine accetta, con tutti i dubbi che le restano; anche perché la donna è succube dell’uomo, si illude di essere - ed è costretta a pensare di essere - inferiore” (Sono parole da me raccolte nell’incontro avvenuto a casa sua in occasione del suo settantottesimo compleanno). E a Maria, alla sua straordinaria figura, è dedicato uno dei libri forse più intensi della Merini, quel Magnificat (Magnificat: un incontro con Maria, Frassinelli, Milano 2002) dove ella indaga della Madre di Dio soprattutto gli aspetti più umani e femminili, scrutando la doppia creaturalità del corpo sensuale e del corpo spirituale di questa fanciulla ebrea inconsapevole, di questa giovane donna di straordinaria forza interiore (e l’identificazione con la poetessa è difficilmente negabile).
La poesia della Merini nasce da una visione drammatica e disincantata della vita, dalla sofferenza radicale, come è detto in uno dei suoi testi più intensi:
Le più
belle poesie
si scrivono sopra le pietre
coi ginocchi
piagati
e le menti aguzzate dal mistero.
Le più
belle poesie si scrivono
davanti a un altare vuoto,
accerchiati
da agenti
della divina follia.
Così, pazzo criminale
qual sei
tu detti versi all'umanità,
i versi della
riscossa
e le bibliche profezie
e sei fratello di Giona.
Ma
nella Terra Promessa
dove germinano i pomi d'oro
e l'albero
della conoscenza
Dio non è mai disceso né ti ha
mai maledetto.
Ma tu sì, maledici
ora per ora il tuo
canto
perché sei sceso nel limbo,
dove aspiri
l'assenzio
di una sopravvivenza negata
(A. Merini, La Terra Santa)
“Poeta della sventura” ella si definisce, “poeta che grida e che gioca con le sue grida”, “poeta che canta e non trova parole”; ma le parole per dire la sua intensa religiosità si riscontrano, ancor prima che nei testi, già nei titoli dei suoi libri: Corpo d’amore, Il paradiso, Anima, Ora che vedi Dio, La carne degli angeli, Poema di Pasqua. La sua corsa verso Dio è fatta di violenza e di tenerezza, di paura e di fiducia:
Sei il culmine del monte di cui i secoli
sovrapposti determinano i fianchi,
la Vetta irraggiungibile,
il compendio di tutta la Natura
per entro cui la nostra mente indaga.
Sei Colui che ha due Volti: uno di luce
pascolo delle anime beate,
ed uno fosco
indefinito, dove son sommerse
la gran parte dell’anime, cozzanti
contro la persistente
ombra nemica: e vanno, in quelle tenebre,
protendendo le mani come ciechi…
(A. Merini, Chi sei, in Paura di Dio, ora in Fiore di poesia 1951-1997, Einaudi, Torino 1998)
E vorrei concludere questo breve ritratto della poetessa milanese citando alcune frasi udite dalla sua viva voce in occasione del mio recente incontro con lei: “Il manicomio mi ha fatto scoprire la profondità del male, ma anche la profondità di me stessa. Il male, dominante nel mondo, è la presenza del diavolo che si contrappone a Dio: ma la nostra lotta con il male è ciò che ci salva dalla ‘noia’, ciò che ci tiene vivi e ci fa sentire in qualche modo utili a questo mondo, a questo universo splendido, inconoscibile; come è inconoscibile Dio, che non possiamo abbracciare, ma che ci abbraccia amorosamente. Il Paradiso per me è la pace. La pace. Null’altro”.
Una breve ma intensa intervista con la poetessa è visibile all'indirizzo:
http://www.aldamerini.it/multimedia
Il 7 dicembre ha compiuto ottantotto anni Maria Luisa Spaziani, forse la più grande poetessa italiana vivente. Nata a Torino nel 1924, a soli diciannove anni fonda e dirige una rivista, chiamata «Il Girasole» in onore di Montale e successivamente ribattezzata «Il Dado», in omaggio a Mallarmé; ha così modo di farsi conoscere negli ambienti letterari, ottenendo e pubblicando inediti di grandi poeti come Umberto Saba, Mario Luzi, Sandro Penna, Leonardo Sinisgalli, Virginia Woolf. Frequenta intanto l'Università di Torino, dove si laurea in Letteratura francese con una tesi su Marcel Proust.
L’incontro fondamentale della sua vita resta quello avvenuto nel gennaio del 1949 con Eugenio Montale, durante una conferenza che il poeta tenne al teatro Carignano di Torino, perché da allora fra i due nasce un sodalizio intellettuale che si trasforma negli anni in affettuosa e sempre più stretta amicizia: a lei si riferisce il grande poeta ligure con il senhal di “Volpe”, apparso nelle poesie della Bufera e utilizzato nelle successive raccolte.
L’esordio poetico della Spaziani si ha con la silloge ermetizzante Le acque del sabato (1954), a proposito del quale ella ricorda: “è stato il mio primo libro del 1954, poesie scritte fra i miei venticinque e trentadue anni. Allora abitavo nella mia città natale, Torino, anche se mi capitava sovente di viaggiare o con la mia allegrissima e avventurosa famiglia, soprattutto per lontane villeggiature, o con rapporti già vivi con Milano, i molti amici scrittori fra cui, carissimo, Vittorio Sereni, direttori dei giornali su cui già scrivevo, e piccoli o illustri editori come Vanni Scheiwiller e Alberto Mondadori nel cui nome mi avvoltolavo voluttuosamente pensando a glorie future. Secondo me la poesia svolge un ruolo analogo a quello della preghiera: un momento di solitudine con se stessi, con lo sguardo proiettato oltre la quotidianità, che ha bisogno di un luogo (la chiesa) dove sussiste una delimitazione spazio-temporale rispetto al quotidiano. Con la poesia succede la stessa cosa. La poesia è contemplazione. Anche se ci si riferisce a oggetti concreti, si tende a creare un alone di solitudine intorno alle cose che si stanno guardando”.
Nel 1956 diviene insegnante di francese in un collegio di Torino e il contatto con gli adolescenti le trasmette un’intensa gioia di vivere, che traspare nelle poesie più originali di Luna lombarda (1959), confluite nel ‘66 nel volume Utilità della memoria, libro di “violenza esistenziale” come lo definisce l’autrice, nel quale il critico Luigi Baldacci rintraccia “cose brucianti e private” esprimibili solo “attraverso il recupero di un linguaggio che mentre dà compiuta espressione al sentimento, lo proietta come riverbero su un cielo lontano”.
Nel 1958, dopo dieci lunghi anni di fidanzamento, sposa Elémire Zolla, studioso della tradizione mistica ed esoterica, avendo come testimone di nozze il poeta Alfonso Gatto (ma se ne separa un paio d’anni dopo). Viene quindi chiamata all'Università di Messina a insegnare lingua e letteratura tedesca, per passare in seguito sulla cattedra di lingua e letteratura francese.
Alla fine degli anni settanta dà alle stampe Transito con catene, una nuova raccolta “ricca di suggestioni diverse e lontane (è la stessa poetessa a definirla in questo modo), da quelle della scienza a quelle di una personalissima preistoria, dalla memoria struggente della scomparsa di mia madre a una Parigi ritrovata in altra chiave diciott’anni dopo”.
Negli anni ottanta è la volta di due libri che si potrebbero definire “gemelli”: Geometria del disordine (1981) e La stella del libero arbitrio (1986), dove campeggiano fantasie connesse a paesaggi reali e immaginari, ricordi della madre scomparsa, rinnovate visioni di Parigi, di Milano, dell’amata casa sull’oraziano monte Soratte. Il titolo del secondo volume è così motivata dalla Spaziani: “l’espressione ‘libero arbitrio’, gemellata per ironia antifrastica con la parola ‘stella’ (che tra i fenomeni cosmici rappresenta la massima negazione di una libertà di scelta, iniziativa, ritmo, movimento o direzione), è assunta naturalmente nel suo significato bonario e degradato, ormai borghesemente o proletariamente secolarizzato e prosciugato all’osso”.
Dieci anni dopo esce una nuova corposa raccolta, I fasti dell’ortica (1996), accolta con particolare favore dalla critica, dove il ventaglio dell’ispirazione si apre “dalla musica agli amori alla politica, da un orizzontale narrativo a un verticale simbolico” (è sempre la poetessa a dare queste definizioni). La vera novità del libro sta nell’affiorare di una tematica nuova, che potremmo definire latamente politica, ispirata ai drammi del XX secolo, da Mauthausen al mostro di Firenze, dalla guerra in Jugoslavia all’Italia avvilita e sconfortata.
L’ultimo fondamentale libro mondadoriano esce nel 2006, col titolo La luna è già alta: qui quelle che potremmo definire montalianamente “occasioni” sono numerosissime, si tratti di rivisitare sotto altra luce paesaggi e personaggi noti, oppure di attuare una più attenta e approfondita perlustrazione della poetica personale, di “raccontare simbolicamente” incontri esclusivi con la musica di Schubert, di Mozart, di Chopin, o di instaurare un fitto dialogo contemplativo con la morte sentita imminente. Si può dire che la Spaziani sia giunta, con le sue ultime raccolte poetiche, a declinare in versi una personalissima e assai femminile sapienza del cuore.
Nello splendido arco della sua poesia, che si estende ormai prepotentemente nel panorama letterario italiano da quasi sessant’anni, il dialogo affettuoso e spontaneo della Spaziani con il suo pubblico non è mai venuto meno: e io stesso non dimenticherò facilmente l’incontro con lei avvenuto a Milano nel novembre del 2000, quando, interpellata sull’opportunità del verso libero, ella dichiarava di essere sempre stata affascinata dalle infinite possibilità della metrica, che paragonava alle onde del mare sempre uguali e sempre diverse; o ribadiva che il bello non può essere routine, calcolo, ricerca letteraria fine a se stessa, ma deve diventare la capacità del poeta di toccare un punto vivo, esprimendo compiutamente ciò che l’uomo qualunque avrebbe voluto affermare, senza essere capace di trovare le parole per dirlo. Fu proprio in quell’occasione che, saccheggiando i suoi versi per usarli come tarsie di un dono a lei e alla sua poesia, le rivolsi questo affettuoso omaggio.
Il tuo vento negli anni è colata di miele:
mi hai prestato i tuoi occhi
per cogliere lune e avventura.
Per me è vitale la tua essenza,
il buio capelvenere, pietrisco
umido che scintilla, anfratti,
un cembalo stregato che sussurra:
linguaggio antico bosco
torba di poesia.
Séguita a scrivere in pace!
Ed ora alcuni tra i suoi testi più belli:
Vallon des Gardes
Ti penso in un paese che di vele
e di ulivi fiorisce alla tua ombra,
che risucchia dal cielo una crudele
bellezza di inquietudine profonda,
che ambiguamente un turbine alle rive
scompiglia nelle chiome dolciamare
e i deliranti vortici sprofonda
nel silenzio del mare,
se il tuo sguardo - o la luce? - la saggezza
d’ogni radice beve
(oro, violette, neve).
Lo spazio magico
Ecco lo spazio
magico in cui niente si è detto
ma il senso affiora da
nebbie di preistoria.
Dormiamo in case lontane chilometri
ma
i nostri sogni si congiungono in alto.
È così
perfetta l'attesa (o l'intesa)
che sarà peccato
trasformarla in parole.
Dovremmo preferire alla vita il
silenzio
anche se questo silenzio è quintessenza della
vita?
A giorni alterni
A giorni alterni
sono io la luna
e tu l'immensa terra che mi attira,
e
questa notte tu sei la luna
-io ti tengo al guinzaglio-
So
che mi stai sognando, mi accarezzi,
i globuli lo sanno del mio
sangue,
ogni mio nervo teso come un arco
o un'arpa eolia
che vibra al respiro.
Parigi dorme
Parigi dorme. Un
enorme silenzio
è sceso ad occupare ogni interstizio
di
tegole e di muri. Gatti e uccelli
tacciono. Sono io di
sentinella.
Agosto senza clacson. Sopravvivo
unica,
forse. Tengo fra le braccia
come Sainte Geneviève
la mia città
che spunta dal mantello, in fondo al quadro.
Realtà e metafora
Tu, realtà
e metafora, luminoso
corpo dal doppio segno. Tu
moneta
d'inscindibile faccia, bianco cigno
che ingloba il
suo riflesso.
Penso all'abbraccio, e all'improvviso
scende
in acque buie il mio vascello ebbro.
Confluiscono
oceani. L'energia,
duraturo arabesco di fulmine.
Preferirei
di no, dirò con Melville
al primo messaggero della
morte.
Vedo foreste in fiore, rose in boccio,
voglio ogni
compimento.
Quando sarà? Paziente il
messaggero
vorrà date precise. Gli dirò
lasciami
camminare fino a quando
giungerò all’orizzonte.
e
poco prima
Ti stai allontanando a passi lenti,
mia
Parigi dolcissima, con tutti i tuoi tesori.
Molti non li ho mai
visti, ma credevo
che mi aspettasse un tempo inconsumabile.
Io
che ho giurato di non dire mai
“quand’ero giovane”,
ora dovrei provarci.
Il topo furbo allunga la zampetta
piano
piano… Funziona la trappola?
Palla di neve
Luna succosa da
mangiare a spicchi,
asprodocle limone,
palla di neve sulla
pelle ardente -
nessun uomo così saprà baciare
-
Non ti amerò di più, non ti amerò
di meno,
sono lassù una luna senza quarti.
Il lume
splende intatto nel sereno,
non ti amerò di meno, non ti
amerò di più.
Come in
una cattedrale
Entro in questo
amore come in una cattedrale,
come in un ventre oscuro di
balena.
Mi risucchia un'eco di mare, e dalle grandi volte
scende
un corale antico che è fuso alla mia voce.
Tu,
scelto a caso dalla sorte, ora sei l'unico,
il padre, il figlio,
l'angelo e il demonio.
Mi immergo a fondo in te, il più
essenziale abbraccio,
e le tue labbra restano evanescenti
sogni.
Prima di entrare nella grande navata,
vivevo
lieta, ero contenta di poco.
Ma il tuo fascio di luce, come
un'immensa spada,
relega nel nulla tutto quanto non sei.
Testamento
Lasciatemi sola
con la mia morte.
Deve dirmi parole in re minore
che non
conoscono i vostri dizionari.
Parole d'amore ignote anche a
Petrarca,
dove l'amore è un oro sopraffino
inadatto
a bracciali per polsi umani.
Io e la mia morte parliamo da
vecchie amiche
perché dalla nascita l'ho avuta
vicina.
Siamo state compagne di giochi e di letture
e
abbiamo accarezzato gli stessi uomini.
Come un'aquila ebbra
dall'alto dei cieli,
solo lei mi svelava misure umane.
Ora
m'insegnerà altre misure
che stretta nella gabbia dei sei
sensi
invano interrogavo sbattendo la testa alle sbarre.
È
triste lasciare mia figlia e il libro da finire,
ma lei mi
consola e ridendo mi giura
che quanto è da salvare si
salverà.
Tra Ottocento e Novecento (e ancor di più durante la Grande guerra e nel ventennio fascista) si assiste in Italia alla diffusione sempre più capillare dell’italiano come lingua di vasta comunicazione e alla corrispettiva graduale riduzione dell'uso del dialetto come "lingua della realtà": il fenomeno prosegue nella seconda metà del secolo grazie alla potenza unificante dei mass-media e della televisione in particolare. Tuttavia questo fenomeno, anziché segnare la scomparsa definitiva del dialetto, ne accentua il recupero come "lingua della poesia" (è il poeta triestino Virgilio Giotti per primo a definirla in tal modo), che consente un’espressione ancora vergine e intatta, disponibile ad ogni sperimentazione, più autentica dello stesso italiano letterario e libresco.
Accade dunque che nella produzione poetica in dialetto si registrino due linee compresenti: perdura una poesia dialettale leggera e alquanto “di maniera”, arretrata e ripetitiva rispetto alle coeve esperienze di poesia in lingua, che si rivolge prevalentemente a un pubblico piccolo-borghese dialettofono; ma si avvia anche una linea nuova, che per primo il critico Pietro Pancrazi definisce "poesia in dialetto", densa di riferimenti culturali attualissimi, che ha il suo pubblico nello stesso ambito della grande poesia in italiano.
Il più significativo poeta in dialetto del primo Novecento può considerarsi Delio Tessa (1886-1939), che recupera la grande tradizione milanese, in particolare quella di Carlo Porta, e la reinterpreta e rivitalizza con esiti avvicinabili a quelli del coevo espressionismo europeo.
Nato a Milano il 18 novembre 1886, Delio Tessa si laureò in legge a Pavia nel 1911 ed esercitò la professione di avvocato con modesti risultati pratici. I suoi interessi si rivolgevano piuttosto alla letteratura e al cinema; fin dal 1909 scrisse versi in milanese, ma fu in seguito anche arguto e sensibile prosatore, nonché critico cinematografico. All'avvento del fascismo non nascose la sua radicale opposizione, il che gli rese ancor più difficile il lavoro e lo spinse ad appartarsi sempre più in un'esistenza schiva e priva di eventi di rilievo. Morì a Milano di setticemia il 21 settembre 1939.
In vita egli pubblicò (e solo per insistenza degli amici) un'unica raccolta, L'è el dì di Mort, alegher! (È il giorno dei morti: allegri! Mondadori, Milano 1932), che ottenne una favorevole recensione di Benedetto Croce. Si tratta di "nove saggi lirici in dialetto milanese" (come egli li definì), preceduti da una Dichiarazione in cui, riconosciuto come unico maestro "il popolo che parla", Tessa ribadisce l'importanza della musica nei propri testi e chiarisce le scelte fonetiche, lessicali, ortografiche, grammaticali e metriche adottate.
Il clima psicologico del volume è chiaro fin dal titolo: vi si respira un'atmosfera mortuaria e di disfatta sociale che provoca nel poeta, per reazione, un'amara e grottesca risata. Il registro dominante è quello dell'acre ironia contro le istituzioni, della polemica contro il fascismo dominante, del sarcasmo verso chi non comprende e non si scandalizza di fronte alla corsa in atto verso l'autodistruzione.
Postume appaiono invece le Poesie nuove ed ultime (De Silva, Torino 1947), mentre le prose sono state edite solo negli anni ottanta. Partito dal realismo scapigliato e dal bozzettismo di fine Ottocento, Tessa se ne affrancò presto, ispirandosi dapprima al magistero di Carlo Porta, ma arricchendo il dialetto del vocabolario quotidiano e gergale dei popolani, del mondo della malavita e dei bordelli. I personaggi che popolano la Milano tessiana sono spesso uomini e donne emarginati e reietti: prostitute, tenutarie di case chiuse, gente ricoverata in manicomio, vecchie agonizzanti, professionisti incartapecoriti. Un piccolo mondo di personaggi tetri, che sembrano soltanto sopravvivere, muovendosi nel cuore della vecchia Milano, descritta con estrema precisione anche topografica.
Ma ciò che costituisce la vera grande novità di Tessa è l’approccio stilistico decisamente rivoluzionario della sua poesia, dove si avverte una forte violenza linguistica, il prevalere del registro macabro e grottesco, una struttura articolatissima e dinamica, evidente soprattutto nei testi più ampi, che si presentano come vere e proprie "narrazioni" a più voci e a più piani. Anche il suo milanese è fortemente innovativo, impregnato com’è di mescolanze lessicali tra milanese e lingue nobili (latino, inglese, francese, tedesco), con una musica interna tutt'altro che facile, cui egli dava il giusto vigore nelle sue sapienti letture pubbliche presso amici o estimatori milanesi.
Tali straordinarie innovazioni stilistiche, che conferiscono alla poesia milanese di Tessa una dimensione culturale europea, sono coerenti con le scelte tematiche, così che la sua poesia rappresenta un universo deformato e tragico, in cui l’uomo appare radicalmente solo, ugualmente sradicato da società e natura.
Al centro della raccolta L’è el dì di Mort, alegher sta il lungo poemetto (oltre 400 versi) Caporetto 1917, composto nel 1919 nel clima immediatamente postbellico di delusione e amarezza generali, e dedicato a Elisabetta Keller, un’amica pittrice, figlia di un industriale svizzero.
È il canto lugubre e tragico della disfatta subìta dall’esercito italiano nell’ottobre 1917 a Caporetto, quando la rottura del fronte carsico da parte degli Austriaci provocò una ritirata caotica e quasi inarrestabile. Si tratta di un testo movimentatissimo, che con abile orchestrazione mescola la rievocazione della rotta di Caporetto con il resoconto della giornata dei morti, che cade il primo novembre e a cui fa proprio riferimento il titolo della raccolta. I due momenti vengono mantenuti compresenti, ma sfalsati, come in un montaggio cinematografico: il ritorno della folla dal cimitero nel giorno dei morti si intreccia infatti al pensiero della terrificante vita di trincea, al ricordo della disfatta di Caporetto, al timore per l'evolversi degli avvenimenti in quello che verrà poi definito il “biennio rosso”.
Il discorso diretto che solca tutto il poema è formato da spezzoni di parlato di cui è impossibile scoprire gli artefici: una sorta di trascrizione fedele dell'avvenimento cui il poeta assiste, per nulla manipolata da giudizi o commenti.
Il tono epico che anima la composizione si incrina frequentemente per l'emergere della visione tragicamente pessimistica dell’intera esistenza, che il poeta rivela qui (e un po' in tutti i suoi testi poetici).
Si propone qui la prima metà del lungo poema (chi volesse può scaricare l’intera raccolta all’indirizzo http://www.liberliber.it/libri/t/tessa/index.htm).
Caporetto 1917
Torni da vial Certosa,
torni di Cimiteri
in mezz a on someneri
de cioccatee che vosa,
de baracchee che canta
e che giubbiana in santa
pas con de brasc la tosa.
L’è el dì di Mort, alegher!
Sotta ai topiett se balla,
se rid e se boccalla;
passen i tramm ch’hin negher
de quij che torna a cà
per magnà, boccallà:
scisger e tempia... alegher
fioeuj, che semm fottuu!
I noster patatocch
a furia de traij ciocch,
de ciappaij per el cuu,
de mandaij a cà busca
m’àn buttaa via la rusca,
scalcen a salt de cuu,
scappen, sti sacradio,
mollen el mazz, me disen,
mollen i arma, slisen
de tutt i part, el Zio
me l’à pettaa in del gnàbel
longh quatter spann e stàbel,
l’è el dì di Mort e dio!
Passen i tramm ch’hin negher
gent sora gent... lingera...
tosann e banch de fera!...
«Oh i bej coronn!» «Alegher!»
«oh i bej lumitt!» «oh i pizzi,
le belle tende, oh i pizzi!»
«L’è el dì di Mort... alegher!»
... e giò con sta missolta
de locch che a brigadella
canta alla-loibella:
«O macchinista
ferma il diretto
perchè al distretto
me tocca andà...»
- questa l’è bonna! scolta:
«stacca la macchina,
ferma il diretto
che son costretto
d’andà a soldà!»
... a furia de batost
tirom là... «Caldarost!»
... e giò vers porta Volta,
adree con sto mis-masc
de ciocch che se balanza...
Te vedet?! No me vanza
pu che i nost quatter strasc,
l’eredità l’è andada,
semm in bolletta in strada
tornèmm a fà el pajasc!
Comincia adasi... adasi...
a vegnì sira... e là...
- canten anmò, dà a trà -
«... che al mio paese
voglio tornà...»
giò vers Milan l’è quasi
scur... rong e semineri,
navili e cimiteri
suden adasi, adasí,
umed e nebbia... Ottober,
cocober... pover nun!
vun per vun, vun per vun,
me perteghen i rogher!
Oh Gesù, che sbiottada
de piant! che pertegada
là sù!... Ottober... cocober!...
Turines giolittian,
milanes socialista,
coragg, lustrev la vista!
Tognitt de San Damian,
slarghev el coeur, hin chì...
torna i todisch... hin chì...
riven qui car pattan,
qui car barbis, qui rost
de cojn! A stondera
per i banch della fera
pavani e pensi ai nost
miseri:... rogn, deslippa
e generaj de pippa!...
e quell dì... «Caldarost!...
Caldarost!...» ... e quell dì
vedi... (Madonna! Dò?
tre settimann ammò?...)
... che in piazza o forse lì
dal Briosch: «T’ée sentii?...
- me diran - ... t’ée sentii?...
riven... ghe semm... hin chì...
mòllen di part de Bressa,
riven... hin a Veston!
de Desenzan, Gardon
scàppen... cara el me Tessa,
stemm d’oca!...» e mi, de slanz,
foeura!... lì inscì denanz
del Campari... gh’è ressa...
pienna la Galleria...
gent che rebutta... duu
che vosa... «... A pee in del cuu
vemm inanz! ... sansesia
m’àn sfottuu!» «Non bisogna
cedere!»... gent che rogna...
gent che inziga sott via...
che rebuij e che baja.
Balengo, rocchetton,
vasco, batta-bastion,
vàrdela la loccaja,
ch’è sbottida di boeucc
foeura in Piazza! Linoeucc,
coo d’aria, razzapaja,
foeura a fagh festa al Zio!
«Silenzio!» «Taja!... Taja!...»
Sèntela la loccaja
che se scadenna!... «... Mio
oeij Majo!... tirel piatt!
mócchela, ciccolatt!»
«Ma silenzio... per Dio!»
«Citto!» Dai ammezzati
lèggen a ona finestra
el Bolettin «... a destra
del Brenta, incendiati
i depositi, in dura
lotta nella pianura,
ci siamo ripiegati...»
«Te sèntet?... ripiegati!»
«Silenzio!» «Cóppet! Faccia
de cuu de can de caccia!»
«... coi reparti alleati...»
«... bon quell’oss!» «Ma tralasci
i suoi commenti e lasci
terminare!» «... e schierati
combattendo fra Po
ed Adige, sul Mincio,
secondo i piani...» (... crincio!
tè lì dov’hín gemò!
sul Mincio... propi!) «abbiamo...»
«Cossa l’à ditt? Abbiamo...
e poeu? se capiss nò!»
L’à ditt - evacuato! -»
«Coss’è?» «Mah!» «ad occidente...
abbiamo nettamente
respinto...» «... Evacuato
putost!» «... in nostre mani...»
«Tutt ball!» «... areoplani...»
«... Ghe voeur alter!» «... firmato
Cadorna!» « Bolletton!
va a scóndet, brutt malann
e càscen pu de cann!»
«Se sent gemò el canon
foeura di dazi!» «Lei,
non si vergogna, Lei!»
«De coss’è? gh’è el canon,
segura! gh’è el canon
che se sent!» «Allarmista!»
«Napoli!» «Disfattista!»
«Va al tò paes, rognon
de fidigh!... aria!» «Lei,
Lei, venga con me, Lei!»
«Mi, con lu?! L’è el padron
del vapor lu? dà a trà,
oeuj, el voeur menamm sù,
el voeur! ... ma chi l’è lu?
chi l’è?» «Làssel andà!»
«Napoli!» «Rinnegato!»
«L’è vun del Comitato!»
«Daij che l’è on sciatt! ... sà... sà...
oeuj!» «Làssel andà!» «Giò!
pèstegh giò!» « Italiani
senza patria! a domani!»
«Doman, sì!... speccia bò!»
«Lobbia!» «va al tò paes,
o crist d’on milanes
arios! va a digh ai tò
ch’àn sbagliaa el primm botton,
tiren inanz la guerra
per coppamm, tramm in terra,
eccola la reson!»
«Mascanbroni, l’è ora
de finilla!» «In malora
m àn traa!...» «Rivoluzion,
sù!... sù!... Rivoluzion!»
«Avanti, o Popolo, alla riscossa!
Bandiera rossa, bandiera rossa!»
... Signor! Signor! ... deslippa,
rogn, generaj de pippa,
vemm a tocch e boccon!
... Rivoluzion... vardee!...
Car Signor, compagnee
qui de per lor...
«Bandiera rossa la s’innalzerà,
Bandiera rossa della libertà!»
Canzon
de guerra, della trista
guerra, sù! sù bandera
rossa de temp de fera!
Anarchich, socialista,
sù che ghe semm... l’è ora!
sbragee, scarpev la gora,
allon, lustrev la vista,
slarghev el coeur, ghe semm!
E intrattanta che dì
per dì, giò, dì per dì,
d’ora in ora andaremm
giò, giò, a pocch a pocch
tutti in d’on mucc a tocch
e boccon, a patremm,
che sulla Madonnina
«Bandiera rossa...» là
sù... «... la s’innalzerà!»
e che faran tonina
per i cà, per i straa,
per i piazz... «... àn coppaa
l’Albertin, stamattina,
viva nun!... l’àn traa là,
pugn, pesciat... "l’eet voruda
la guerra, porco giuda!...
daij, sassat... gh’àn faa fa
la mort del Prina!» intanta
che se coppa e se canta,
tè lì... cominciarà
per Milan la passada
di legor... on mis-masc,
on mes’cioss, mucc de strasc,
gent stremida, sbiottada
e che in fuga... «... i croatt...
i croatt...!» van a sbatt
i so oss su ona strada! […]
Nato a Coderno del Friuli nel 1916 da una famiglia contadina numerosissima e poverissima, Giuseppe Turoldo assume in monastero il nuovo nome di David Maria; a ventiquattro anni è ordinato sacerdote e si trasferisce a Milano, dove durante la Resistenza collabora con i partigiani, nascondendone le armi e redigendo un periodico clandestino, “L’Uomo”. Dopo il 25 aprile peregrina per decine di campi di concentramento riportandone a casa i superstiti; quindi, laureatosi in filosofia, fonda il Centro culturale “Corsia dei Servi”, spazio aperto al dialogo con il mondo laico e attento alle nuove sfide della cultura e della società. Con don Zeno Saltini promuove il progetto di “Nomadelfia”, villaggio sorto nell’ex campo di concentramento di Fossoli (presso Carpi) per accogliere gli orfani di guerra in una comunità avente “la fraternità come unica legge”.
Prete scomodo e visto con sospetto dalla gerarchia, soprattutto dopo che le sue prediche nel Duomo di Milano suscitano entusiasmo nel popolo ma anche ostilità da parte della borghesia più retriva, Turoldo è costretto nel 1953 a lasciare l’Italia e per un decennio va girovagando tra Austria, Germania, Inghilterra, Stati Uniti e Canada; finché l’avvento al pontificato di Giovanni XXIII gli consente di tornare: nel 1961 viene trasferito nel convento di Santa Maria delle Grazie, a Udine, dove conosce Pier Paolo Pasolini, che forse anche in seguito a questa frequentazione inizierà di lì a poco a girare Il Vangelo secondo Matteo.
Nel 1964 Turoldo affronta la ristrutturazione dell'antica abbazia cluniacense di Sant'Egidio a Fontanella di Sotto il Monte, il paese di origine di papa Giovanni XXIII (scomparso l'anno precedente) e diviene priore di una piccola comunità, la "Casa di Emmaus", presso la quale fonda il “Centro di studi ecumenici Giovanni XXIII", luogo privilegiato di dibattito e riflessione culturale aperto ai “fratelli atei” (come amava definirli), ai non credenti e ai fedeli di altre fedi, in particolare quella islamica.
Portatore di un’utopia radicale a favore degli ultimi, padre David Maria Turoldo nel suo testamento spirituale (scritto nel 1986) ringrazia i “tre amori” che l’hanno aiutato a superare tutte le difficoltà della vita: gli amici laici, i confratelli e i poveri (“la mia gente”, come amava definirla). Muore a Milano di tumore al pancreas il 6 febbraio 1992: ai suoi funerali partecipano più di tremila persone, a conferma del fascino indiscutibile che la sua figura suscitava presso la gente comune, mentre la gerarchia ancora non riconosceva in pieno i suoi grandi meriti. Come aveva detto in proposito il cardinal Martini solo pochi mesi prima, consegnandogli il Premio Giuseppe Lazzati, “la Chiesa riconosce la profezia troppo tardi”.
Turoldo ha effuso negli anni la sua vena poetica in maniera perfino ridondante, incapace com’era di selezionare e rifiutare ciò che magari era meno valido artisticamente: Angelo Romanò definisce la sua produzione poetica “una poesia-discorso che cerca la naturalezza e la leggibilità”. La tematica prevalente che la percorre fin dal suo esordio è la spasmodica e costante ricerca dell’uomo, non astrattamente inteso, ma nella sua concretezza vitale, perché compito del poeta è dare voce agli ultimi, perché (come ripeteva spesso) “il poeta è un crocefisso al legno della verità”. La tensione espressiva che anima la poesia di Turoldo “guarda, più che alla fonte della modernità poetica, alla rocciosità dei Salmi, alle scritture mistiche, ai testi profetici e sapienziali della Bibbia” (D. Piccini), tanto che non è sbagliato definire questo poeta “salmista della modernità occidentale”.
La prima raccolta poetica (che gli vale il Premio Saint Vincent) è pubblicata nel 1948 da Bompiani: Io non ho mani. Si tratta di testi densi e sanguigni, dove il poeta denuncia l’idolatria del denaro e l’arrivismo che incalzano, la ricerca spasmodica del potere e la corruzione dilagante nella società postbellica. Leggiamo il testo che dà il titolo alla raccolta:
Io non ho mani
che mi accarezzino il volto,
(duro è l'ufficio
di queste parole
che non conoscono amori)
non so le dolcezze
dei vostri abbandoni:
ho dovuto essere
custode
della vostra solitudine:
sono
salvatore
di ore perdute.
Nel 1951 è la volta di La Terra non sarà distrutta (Milano, Garzanti), un testo teatrale dove si accentuano le riflessioni “politiche” di Turoldo, angosciato dal dramma della guerra fredda e della violenza diffusa, ma pur sempre fiducioso nell’uomo e nella sua capacità di riscatto. Leggiamo la parte finale di Dialogo della Chiesa:
Archi, capitelli, colonne
voi non siete che forme dello spirito,
la sintesi; egli si è fatto in noi
di carne, noi ci siamo fatti in voi
di pietra, per essere tutti insieme l'Unità.
E come ogni mattone ha bevuto una goccia
del suo sangue, così ognuno canti ora
la nota della sua misurata libertà.
Perché voi siete tutti insieme l'Armonia.
E quando forse gli uomini non parleranno
più di lui, continuate a parlare voi, o pietre.
L’anno dopo esce una nuova raccolta poetica, Udii una voce (Milano, Mondadori, 1952) che vede acuirsi il senso del paradosso, della contraddittorietà della vicenda umana, la cui più alta espressione è l’incarnazione del Cristo, vero “scandalo” (etimologicamente “pietra d’inciampo”) per i credenti non meno che per i non credenti, mistero sublime che contraddice addirittura l’onnipotenza del Creatore, facendone un Dio che muore! E di fronte a questa assurdità al poeta non resta che abbandonare la tecnica fine a se stessa per far scaturire la poesia come “scabro sasso”, come parola quasi profetica che porta alla verità più profonda:
Non per me il pulito verso.
Uno scabro sasso la parola
nelle mie mani.
Intanto che gli effetti dissepolti
marciscono come foglie staccate
dalla pianta.
Questi i miei giorni vuoti di pudore,
i miei canti senza note
la verità senza amore.
La nuova raccolta del 1955, Gli occhi miei lo vedranno (Milano, Mondadori), mette ancor più in rilievo la contraddittorietà della vicenda umana, piena di “gioiose doglie”, animata da una “certezza dubbiosa”, imbevuta di fatica ma anche di scoperte affascinanti. In effetti questa ossimoricità non è altro (secondo Turoldo) che il riflesso del paradosso di Cristo, la cui incarnazione (come commenterà in Anche Dio è infelice, Casale Monferrato, Edizioni Piemme, 1991) “testimonia il desiderio del Divino di condividere tutta la parabola dell'esistenza umana, fino alle estreme conseguenze del male e del dolore. Anche Dio è infelice, perché sulla Croce si è fatto nostro compagno nella sofferenza, perché sulla Croce tutto il male e tutto il dolore del mondo sono stati condivisi”. Turoldo nota come Dio si sia fatto vicino all’uomo in maniera inestricabile, ma nello stesso tempo resti velato, irraggiungibile, misterioso. Si veda in proposito questo testo poetico tratto da Il grande male (Milano, Mondadori, 1987):
Gioia sempre ho
cercato
di donare senza misura
agli amici, alla
gente:
persuaso che credere
è una festa.
Ma
sempre additavo una fonte
cui mai
mi era dato di bere:
come ora che canto al mare.
Poi me ne andavo
con
il mio cuore
cavo.
Cosi mi è stato impossibile
da sempre il dono
che giorno dopo giorno
Natura e
Grazia mi offrivano:
forse per la fame
sofferta da
fanciullo,
seme e contagio di altra
fame che nulla
mai
riesce a placare:
l'impaziente e rovinosa
e
famelica fame
infinita: mio Dio...
È superfluo seguire dettagliatamente l’immenso itinerario della poesia e in generale della scrittura turoldiana, ma non si può passare sotto silenzio la raccolta edita a Milano da Mondadori nel 1978 col titolo Alla porta del bene e del male: sono lettere e brani di un dialogo tenuto con i lettori della “Domenica del Corriere”, dove ancora una volta è ribadita la contraddittorietà della vita umana, posta costantemente di fronte al bivio tra il bene e il male, tra presenza e assenza del Salvatore. Gli anni ottanta vedono Turoldo approntare ulteriori testi teatrali come Oratorio in memoria di frate Francesco (Padova, Messaggero, 1981), Sul monte la morte (Liscate, Cens, 1984) e La morte ha paura (Liscate, Cens, 1984) e molti saggi di ambito religioso (ricordiamo in particolare Dialogo sulla tenerezza, composto in collaborazione con A. Levi e M. C. Bartolomei Derungs).
Il ritorno alla poesia si ha con la raccolta antologica Lo scandalo della speranza (2 volumi, Milano, GEI 1984) e con Il grande Male (Milano, Mondadori, 1987), dove il titolo fa riferimento all’odio che divide gli uomini, alla distruttività che incombe sul mondo d’oggi, sia a livello di individui che di collettività. Se l’umanità non si affida a Dio – sostiene Turoldo – il “grande male” la divorerà; ma se un barlume di fede è rimasta nel cuore, allora il “piccolo lume” divamperà in fiamma d’amore che tutto travolgerà. Si veda questo pregnante testo:
Torniamo ai
giorni del rischio,
quando tu salutavi a sera
senza essere
certo mai
di rivedere l'amico al mattino.
E i passi
della ronda nazista
dal selciato ti facevano eco
dentro
il cervello, nel nero
silenzio della notte.
Torniamo
a sperare
come primavera torna
ogni anno a fiorire.
E
i bimbi nascano ancora,
profezia e segno
che Dio non s'è
pentito.
Torniamo a credere
pur se le voci dai
pergami
persuadono a fatica
e altro vento spira
di
più raffinata barbarie.
Torniamo all'amore,
pur
se anche del familiare
il dubbio ti morde,
e solitudine
pare invalicabile…
e si legga ancora un breve testo che motiva il titolo dell’intera raccolta:
Tutto deve ancora avvenire
nella pienezza:
storia è profezia
sempre imperfetta.
Guerra è appena il male in superficie:
il grande Male è prima,
il grande Male
è l’«Amore-del-Nulla».
Nel 1990 esce quella che può essere considerata la sintesi di una vita in poesia: una raccolta antologica di oltre 700 pagine, intitolata O sensi miei (Milano, Rizzoli), dove è possibile misurare l’intensità della fede turoldiana, per nulla sconfitta dalla malattia che lo incalza. Si tratta di un canzoniere magmatico e affascinante, dove il silenzio di Dio coincide con la sua “pena per gli uomini”, dove la solitudine e l’emarginazione interpellano l’uomo nella sua libertà, dove l’affetto per la Chiesa coesiste con il rifiuto di ogni dogmatismo e compromesso, in coerenza con i saldi principi morali e religiosi di Turoldo. Ne traiamo un testo di forte impatto:
Vogliamo ancora profeti
Vogliamo ancora
profeti
a rompere le nuove catene
in questo infinito Egitto
del mondo:
oceano di gemiti
e pianto di schiavi
sotto imperiosi terrori.
Ferocie dei
nuovi faraoni, pur essi
ancora più schiavi e macabri
dentro bare di acciaio.
Dio di Elia
Dio
di Giona e di Natan...
e di Oscar Romero!
Dio di Cristo
mandato sempre a morire.
Postumo esce infine Mie notti con Qohelet (Milano, Garzanti, 1992) con una dedica al cardinal Martini, dove Turoldo afferma tra l’altro: “Non so se sia giusto parlare di mondo laico in fatto di poesia. La vera poesia non sopporta aggettivi: è poesia e basta! Voglio dire, riferendomi a Martini e ai poeti, che finalmente un uomo importante della Chiesa è attento a questo mondo dei valori, il quale è il più decisivo rispetto a tutta la cultura. Per sapere di cosa il mondo patisce, bisogna interrogare i poeti: al di là di ogni personalismo, sono i poeti le antenne tese sul mondo, giorno e notte”.
Pochi mesi prima di morire, in un’intervista rilasciata a Roberto Vinco (edita nel “Gazzettino di Verona” del 1° novembre 1991), Turoldo così parlava della morte: «Per me la morte è sempre stata come una fessura attraverso cui guardare i colori della vita, apprezzarne i valori. La morte è una presenza positiva, fa apprezzare meglio il tempo, fa giudicare meglio le cose. Ogni mattina dico: se questo è il mio ultimo giorno non posso perderlo. Vivo ogni giorno, non come fosse l'ultimo, ma il primo. Penso che non ci sia nemmeno un di qua e un di là, ma semplicemente un prima e un dopo. Una continuità. Non è un discorso consolatorio, ma di constatazione. Io posso anche dire ‘non so come sarà dopo’, ma nessuno mi può dire che non ci sia. Io non prego perché Dio intervenga. Chiedo la forza di capire, di accettare, di sperare. Io prego perché Dio mi dia la forza di sopportare il dolore e di far fronte anche alla morte con la stessa forza di Cristo. Io non prego perché cambi Dio, io prego per caricarmi di Dio e possibilmente cambiare io stesso, cioè noi, tutti insieme, le cose».
Si propongono infine alcuni testi poetici tra i più significativi della sterminata produzione turoldiana:
Parole, inerti macerie,
brandelli d'esistenze
disamorate, panorama
del mio paese
ove neppure il gesto
sacrificale più rompe
la immota somiglianza dei giorni,
né le vesti sante coprono
la nudità degli istinti.
E i poeti non hanno più canti
Non un messaggio di gioia,
nessuno una speranza.
(da “Gli occhi miei lo vedranno”)
Itinerari
Liberata l'anima ritorna
agli angoli delle strade
oggi percorse, a ritrovare i brani.
Lì un gomitolo d'uomo
posato sulle grucce,
e là una donna offriva al suo nato
il petto senza latte.
Nella soffitta d'albergo
una creatura indecifrabile:
dal buio occhi uguali
al cerchio fosforescente d'una sveglia
a segnare ore immobili.
E io a domandare alle pietre agli astri
al silenzio: chi ha veduto Cristo?
(da “Il grande male”)
Ancora un'alba sul mondo:
altra luce, un giorno
mai vissuto da nessuno,
ancora qualcuno è nato:
con occhi e mani
e sorride.
(da “Canti ultimi”)
Non so quando spunterà l'alba
non so quando potrò
camminare per le vie del tuo paradiso
non so quando i sensi
finiranno di gemere
e il cuore sopporterà la luce.
E la mente (oh, la mente!)
già ubriaca, sarà
finalmente calma
e lucida:
e potrò vederti in volto
senza arrossire.
Tu e lui,
null'altro.
Lui
il Tu senza risposte.
Per un atto d'amore
Altro ora
nell'impazienza di vederti
mi preme sapere, mio Dio:
quanto
del nostro male ti sia imputabile,
del male che anche tu paghi,
di questo mostruoso male
pure per te inevitabile:
in
cosa possiamo dirci tua immagine,
se per questa infinita
inquietudine
o per l'illusione di essere noi «onnipotenti»
ora che tu, per
creazione, più non lo sei
né puoi esserlo
a causa del pauroso dono:
Tu libertà non
puoi più negare
se da noi quanto attendi e brami
è
solo un atto d'amore.
(da “Canti ultimi”)
Bartolomeo Cattafi nasce a Barcellona Pozzo di Gotto (ME) il 6 luglio 1922, già orfano di padre, e muore a soli 56 anni a Milano. Così anni dopo egli ricorda il suo arrivo nella città meneghina: “Sbarcai a Milano per la prima volta che era la Pasqua del 1947. Volevo fare il giornalista e finii in una sala stampa, garzone di un commediografo allora noto, oggi morto, che era corrispondente di molti quotidiani. Dovevo ritagliare, incollare, telefonare le notizie, raramente cambiare una parola, una virgola. Poi il capo mi disse che i soldi che poteva darmi non mi sarebbero bastati nemmeno per le sigarette. Avevo una cameretta in viale Montenero e là feci per la prima volta in vita mia un’indigestione di pane e acqua: che è molto brutta, perché il pane si gonfia enormemente nello stomaco […]. Tutto ricordo con nostalgia. La guerra era passata da poco, un’ondata di freschezza aveva invaso Milano. Quelli, francamente, erano tempi aperti alla speranza […]. E poi c'era la zona di Brera, con uno strascico di esistenzialismo in verità non molto cupo. Il Bar Titta, il Caffè Giamaica, la trattoria delle sorelle Pirovini in via Fiori Chiari («Per favore, signorina Elena, mi dia minestra e pietanza per 350 lire» […]), i pittori veri e quelli falsi, le modelle-prostitute, i giornalisti, certi strani tipi, simili a uccelli di passo, che arrivano da ogni angolo del mondo; e poi diversi geni incompresi e arrabbiati che facevano tutto al tavolo: la bevuta, il capolavoro e anche la rivoluzione”. A Milano Cattafi lavorò saltuariamente, insofferente della routine quotidiana, per poi tornare stabilmente in Sicilia, dove risedette a Castroreale Terme con la moglie, sposata nel ’67, e la figlia che era nata inaspettatamente nel 1975.
Nonostante le numerose raccolte edite in vita (si ricordino almeno, tra le più importanti, Le mosche del meriggio, 1958, L’osso, l’anima, 1964, L’aria secca del fuoco, 1972, La discesa al trono, 1975, Marzo e le sue idi, 1977, L’allodola ottobrina, 1979) e l’omaggio postumo resogli da Mondadori che nel 1990 pubblica l’antologia Poesie 1943-1979, egli resta tuttora quasi ignorato dal grande pubblico e dai critici. Vi è però un sito ufficiale che val la pena navigare:
Pittore e poeta di grande intensità emotiva, Cattafi ha espresso la sua esuberante vena epigrammatica soprattutto nei primi testi risalenti agli anni quaranta, dove prevale un registro descrittivo e narrativo. Si veda ad esempio questa delicata lirica che tratteggia le amate isole siciliane:
Eolie
Le Eolie le azzurre parole
sono sorte nell’acqua nel mattino di gioia
come vergini calme con un faro
bianco nel cuore
una linda nuvola sopra.
A partire dagli anni Cinquanta il poeta intraprende una serie di viaggi all'estero, in Francia, Spagna, Inghilterra, Irlanda, Scozia, Svizzera, Austria, nei Paesi scandinavi, in Grecia, in Africa settentrionale. E da queste significative esperienze di vita nasce la raccolta, curata da Vittorio Sereni, Partenza da Greenwich (Milano 1955), da cui è tratto il testo omonimo:
Partenza da Greenwich
Si parte sempre
da Greenwich
dallo zero segnato in ogni carta e in questo
grigio
sereno colore d’Inghilterra.
Armi e bagagli,
belle
speranze a prua,
sprezzando le tavole dei numeri
i
calcoli che scattano scorrevoli
come toppe addolcite
da un
olio armonioso, in un’esatta
prigione.
Troppe prede
s’aggirano tra i fuochi
delle Isole, e navi al
largo,
piene, panciute, buone
per essere abbordate dalla
ciurma
sciamata ai Tropici
votata alla cattura
di
sogni difficili, feroci.
Ed alghe, spume,
il fondo azzurro
in cui
pesca il gabbiano azzurro del ricordo
posati accanto
al grigio
disteso colore
degli occhi, del cuore, della
mente,
guano australe ai semi
superstiti dl mondo.
La poesia di Cattafi esprime fin da questi primi testi una straordinaria intensità emotiva, pur nell’apparente elementarità delle scelte lessicali, un entusiasmo comunicativo che attinge alle decisive esperienze di lettura di quegli anni, da Ungaretti agli ermetici, dalle avanguardie europee al surrealismo.
Un brusco cambio di rotta si ha però con la raccolta L’osso, l’anima del 1964, dove al descrittivismo si sostituisce “un registro sostanzialmente astratto-speculativo (aperto, con frequenza, a inflessioni oniriche e cadenze ‘oracolari’)” (G. Raboni); la realtà descritta, senza sparire totalmente, si trasfigura così in metafora tesa, in figurazione astratta e quasi mitizzata.
Se ne può cogliere un esempio significativo in questo testo, tratto dalla terza sezione della silloge (intitolata Avviso):
Tabula rasa
D’accordo, amore. Espungiamo
dal testo perle
d’acqua
su petali,
le frange
estese,
le bolle della schiuma.
Le cose lietamente
necessarie.
Togliamo anche
l’acqua l’aria il
pane.
Giunti all’osso buttiamo
fuori della
vita
l’osso, l’anima,
per credere alla
tua
tabula che mai
avrà l’icona, l’idolo,
la cara calamita?
Come acutamente commenta Luigi Baldacci, questa fase della produzione cattafiana «ha qualcosa delle combustioni di Burri o delle blasfeme solitudini di Bacon. Figurativa e insieme informale, ha un’evidenza che investe l’occhio […] È un’immagine secca, un fotogramma fissato oppure ossessivamente ripetuto». Si tratta in effetti di una scrittura che parte ancora sempre dalla terrestrità, dalla concretezza dell’oggetto, “dipinto” con l’attenzione amante del pittore che ricerca l’immagine più efficace, la descrizione fatta con rapidi tocchi coloristici.
Si veda in proposito questo testo, tratto da Tenebra e azzurro, l’ultima sezione di L’aria secca del fuoco (Milano, 1972), dove l’apertura straniante sembra descrivere una fanciulla, per svelarsi poi riferita ad una farfalla:
Visita
Esitò sul
filo della soglia
entrò e fece il giro della stanza
si
posò in un angolo d’ombra
benché
disvelandosi di poco
si vide ch’era
di struggente
bellezza.
Mal me ne incolse quando
un fremito percorse le
sue ali
preda d’un vento interiore
e foglia fiore
vagante farfalla
del mio mondo perduto
volò via.
Altrettanto straniante, ma perfettamente efficace nel cogliere i dettagli più realistici, giocando sulla differenza tra l’oggetto e la parola che lo descrive, è una poesia del 1973, confluita poi nella raccolta postuma Segni (Milano, Scheiwiller, 1986):
Mosca
La mosca
ronza
sulla parola mosca
la stuzzica per farla
volare
dalla carta
la mosca ignora
che quell’altra mosca
–
bisillabo inchiostro sulla carta –
non è più
sua compagna
ma nostra.
Da L’allodola ottobrina (Milano, Mondadori, 1979) è tratta invece questa squisita lirica dedicata alla figlia Elisabetta neonata:
A mia figlia in partenza
Non è nemmeno un anno
che frigni e sorridi a questo mondo
apertosi per te
inesplicabilmente colorato.
Oggi in partenza da Villa San Giovanni
in braccio a tua madre dietro
un vetro del diretto per Milano
fai ciao con la manina al mondo
(che qui è lo Stretto di Messina
uomini pensiline
un’aria estiva, immondi
rifiuti ferroviari)
saluti forse anche me
al seguito del mondo
ora che il mondo vive
o fa finta di vivere per te.
Molto interessanti sono anche le poesie religiose, che risalgono prevalentemente all’ultima stagione creativa di Cattafi: ne è un fulgido esempio La Grazia, testo confluito postumamente nella raccolta Codadigallo, cui il poeta lavorò alacremente negli ultimi mesi di vita dopo che gli era stato diagnosticato un tumore ai polmoni:
Sarebbe dunque
in questo lividore
d’aria la grazia
che fa cadere a
fiocchi
gelo candore oblio?
e dove metteresti l’altra
grazia
che c’imbratta la faccia
di fiamme e fumo
che
ci rammenta d’essere
schiatta di legno da ardere al buon
Dio.
(Cimbro, 4 dicembre 1978)
Per completare questo ritratto di Bartolo Cattafi, nulla può essere più adatto dell’autoritratto, quasi un testamento spirituale in minore, che egli scrisse pochi giorni prima del suo ultimo Natale:
Geografo
Non ho altro da dirvi
ho detto tutto
quel che dovevo su mari monti selve
tribù amiche-nemiche
non ho altro da dirvi
per mentirvi
tutto ho stravolto mutato adattato
a un diverso disegno
ho parlato di me
ho confessato andando
dal massiccio montuoso all'alga all'erba
spinto dalla bisogna
ad una verità vestita di menzogna.
(Mollerino, 18 dicembre 1978)
Nel corso del XX secolo si è assistito ad una progressiva riduzione dell'uso del dialetto come "lingua della realtà", in parallelo con la diffusione sempre più massiccia di un italiano standard (invero – bisogna dirlo – non particolarmente corretto e significativo!), diffuso soprattutto grazie alla potenza unificante dei mass-media (giornali, radio e soprattutto televisione). Ma già nel primo Novecento era emerso un fenomeno nuovo ed estremamente significativo: il recupero del dialetto come "lingua della poesia" (è il poeta triestino Virgilio Giotti a definirla in tal modo), che consente un’espressione ancora vergine e intatta, disponibile ad ogni sperimentazione, più autentica e prestigiosa dello stesso italiano letterario e libresco.
Accanto a una poesia dialettale corriva e di maniera, arretrata e ripetitiva rispetto alle coeve esperienze di poesia in lingua, che si rivolgeva prevalentemente a un pubblico piccolo-borghese dialettofono, nacque e si sviluppò così una linea di "poesia in dialetto", densa di riferimenti culturali attualissimi, che aveva (ed ha) il suo pubblico nello stesso ambito della grande poesia in lingua, e che ha visto nascere poeti di caratura nazionale ed internazionale. Tra questi, appunto, Virgilio Schoenbeck, che assunse ben presto il nome d’arte di Virgilio Giotti: nato a Trieste nel 1885, egli studiò alla scuola industriale e nel 1907 si trasferì con la famiglia presso Firenze, dove visse molti anni, entrando in contatto con il gruppo dei vociani, e dove stampò la sua prima raccolta, il Piccolo canzoniere in dialetto triestino (Gonnelli, 1914). Tornato a Trieste nel 1919, visse solitario e appartato, collaborando con le riviste fiorentine e in particolare con "Solaria", che pubblicò nelle sue edizioni le due raccolte di Caprizzi, canzonete e stòrie (versi in triestino) nel 1928 e Liriche e idilli (versi in lingua) nel 1931. Dieci anni dopo il poeta diede vita al canzoniere Colori (1941 e 1943); e con le due raccolte senili, Sera (1946) e Versi (1953), tutta la produzione confluì infine nell’edizione definitiva di Colori (Ricciardi, Milano-Napoli, 1957), edita poco dopo la morte del poeta. Il titolo allude alla volontà di "rifare la pittura in poesia e, più particolarmente, la pittura impressionistica" (come commentò Pasolini): in effetti Giotti (che era anche un abile pittore) ricercava nei suoi testi dettagli anche minimi, per derivarne "acquerelli" resi con toni e colori tenui e rarefatti. La dolcezza del suo linguaggio, estratto non tanto dalla tradizione ottocentesca triestina, quanto dalla poesia in lingua del primo Novecento, dà vita a idilli esili e raffinati, colmi di nostalgia e affetto, che trovano un parallelo solo in certi testi coevi di Umberto Saba (non per nulla anche lui triestino). La morte dei due figli nella seconda guerra mondiale segnò in profondità gli ultimi anni di vita del poeta, che nella città natale morì nel 1957.
Il dialetto di Giotti, estremamente musicale e cantabile, non è il triestino della quotidianità comunicativa, ma una lingua letteraria assoluta, tesa a una ricerca di grazia "alessandrina", perfezionata con graduale ricercatezza. Notevole è la sensibilità cromatica del poeta, che predilige colori tenui e delicati, tinte acquarellate scelte con precisa competenza d'artista. Di raccolta in raccolta però i colori preziosi e splendenti delle prime sillogi tendono gradualmente ad impallidire e infine si spengono. I temi affrontati nella sua produzione poetica sono racchiusi in un'area estremamente limitata: semplici ed eterne realtà umilissime, trasfigurate sino a creare un universo perfetto e assoluto, dove si insinua comunque sempre un velo di ironia che ridimensiona ogni dolore eccessivo, ogni gioia troppo intensa, finché negli ultimi testi finisce per dominare la serena e pacata accettazione della morte imminente.
Si propongono qui alcuni tra i testi più caratteristici della produzione giottiana.
La neve La neve, bianca e granda, xe tuto ‘ntorno a l’ingiro, in fondo, fin do’ che se vedi, bianca e granda, bianca e zita qua drento in t-el orto, co’ solo piantado in mezo do stechi, bianca e zita. E el tu’ viso el xe bianco, color de la neve, e i tui oci i xe pieni de tuto ‘sto bianco grando ch’i spècia. Bianche come la neve Xe le tu’ man, frede come la neve ‘ste man, bianche e frede: come la neve, qua, sul rastel intrigado de spini, qua, sui mureti un par parte, qua sui scalini, do’ che tasendo ‘spetemo de saludarse. |
La neve, bianca e grande, è tutt’intorno a perdita d’occhio, in fondo, fin dove si vede, bianca e grande, bianca e silenziosa qua dentro nell’orto, che ha solo in mezzo due rami piantati, bianca e silenziosa. E (pure) il tuo viso è bianco, color della neve, e i tuoi occhi son pieni di tutto questo bianco grande che essi rispecchiano. Bianche come la neve Son le tue mani, fredde come la neve Queste mani, bianche e fredde: come la neve, qua, sul cancello inviluppato di spine, qua, sui muretti uno per parte, qua sugli scalini, (noi) due che tacendo aspettiamo di salutarci. |
La lirica apparve nel primo volume di Giotti, il Piccolo canzoniere in dialetto triestino, e confluì quindi in Colori. Il testo, dalla raffinata tessitura ritmica, vede la prevalenza assoluta del colore bianco, che peraltro pervade l’intera raccolta, solo saltuariamente accostato ad altre tinte tenui come il rosa, il celeste, il giallo pallido, il blu, mentre rarissimi sono colori più accesi come i rossi o i verdi.
Il monocromatismo quasi assoluto che vi predomina rimanda a una poesia del francese Remy de Gourmont (1858-1915), intitolata proprio La Neige, tratta dal poema campestre Simone (1914): anche in Gourmont il clima di silenzio e mistero che si nota nella poesia di Giotti (sul tema di una nevicata nell’orto e di una muta apparizione femminile) era ottenuto prevalentemente attraverso un cospicuo ricorso a fenomeni retorici come l’anafora, l’iterazione e il parallelismo; e anche là troviamo una costante sottolineatura del biancore e del freddo che dominano la scena.
Un silenzio sconfinato pervade tutto, reso ancor più fiabesco dal candore dominante in questo che potremmo definire un "giardino delle meraviglie", dove tutto è diafano e trasognato. La modesta realtà di un orto suburbano è così trasfigurata fino a divenire metafora dell'esistenza umana e del rapporto fra il poeta e la donna amata, che entra in scena solo a metà del componimento, come una "madonna di neve" dall’iridescente splendore, pronta ad accompagnare con il proprio silenzio quello del poeta, e infine a salutarlo muta e partecipe.
Il componimento si avvale di una sintassi discordante rispetto alla struttura ritmica: tanto questa è cantabile e aperta, altrettanto la sintassi è nervosa e frantumata, con frequenti inversioni e ripetizioni. La tessitura delle rime semplici (spini / scalini), delle rime identiche (granda e neve), delle rime al mezzo e delle assonanze ('torno / fondo / orto; vedi / stechi; neve / frede; bianco / grando; parte / saludarse) provoca una lenta cadenza monotonale, in linea con il clima generale del testo. I versi lunghi sono costantemente interrotti dai quinari, che quasi in controcanto sottolineano le caratteristiche salienti del gelido scenario: il freddo e il candore della neve. Le frequenti anafore (bianca; qua) e ripetizioni (bianca e granda; tuto; frede; sul / sui) ribadiscono tale scelta espressiva, che rende il paesaggio, nel suo monocromatismo, quasi un disegno "a puntasecca", nitido, silenzioso e magico.
Inverno
Dei
purziteri,
ne le vetrine,
xe verduline
le ulive
za;
ghe xe le renghe
bele de arzento;
e sùfia
un vento
indiavolà:
cativo inverno
ècote
qua!
(Nelle vetrine dei salumieri sono già verdoline le olive; ci sono le belle aringhe d'argento; e soffia un vento indiavolato: inverno cattivo, eccoti qua!). In questo testo, risalente ai primi anni venti (entrò a far parte di Caprizzi, canzonete e stòrie nel 1928), Giotti ritrae una "natura morta" densa di toni e colori molto più vari rispetto alle raccolte precedenti. Qualcuno ha parlato di cadenze da canzonetta metastasiana, ma non bisogna dimenticare il probabile influsso della "villotta" friulana, un componimento breve di intonazione popolare assai diffuso in tutto il Friuli-Venezia Giulia. Viene descritto un tipico angolo di "città vecchia" battuto dalla bora, osservato dal poeta con divertita partecipazione e acuta sensibilità grafica. Come commentava già Eugenio Montale, Giotti rivela "una personalità di paesista, di elegiaco e di osservatore che talvolta pare troppo complessa e colta per comportare le forme del dialetto [...] egli non avrebbe potuto darci con diversi mezzi un Inverno come questo, deliziosamente nordico e sottile".
I versicoli rimati, articolati nelle tre strofette chiuse da un'identica rima tronca (-a), sono ulteriormente impreziositi dalla presenza di un raffinato gioco fonico: la cadenza del suono -ve che sembra riprodurre il sibilo del vento. Vi è inoltre nella seconda e terza strofa la precisa assonanza fra le rime (-enghe/ -ento/ -erno) a suggerire un'ulteriore vicinanza sonora e visiva tra la "natura morta" e l'incombente inverno. Nella prima strofa la sfumatura verdolina delle olive è ulteriormente impreziosita dalla posizione in rima e dall'inversione sintattica del complemento, che evidenzia l'ambientazione del particolare. Pure in rima è l'altro colore presente nella poesia, l'argento che scintilla sulle squame delle aringhe, procurando al poeta un infantile brivido di gioia appena mascherato.
La strada Vardo ‘na strada de la mia zità Che ghe sarò passado mile volte, e no’ me par de averla vista mai. Le fazzade valete, le botteghe, un bar, dei àuti, e el fiatin de viavai. Come la nostra vita, sì: vissuta, finida ormai, e mai ben conossuda. |
Guardo una strada della mia città,che ci sarò passato mille volte,e non mi pare di averla vista mai.Le facciate gialline, le botteghe,un bar, delle automobili, e quel po’ di viavai.Come la nostra vita, sì: vissuta,finita oramai, e mai ben conosciuta.
|
La lirica risale ai primi anni cinquanta e fu pubblicata nell'ultima raccolta giottiana, Versi (Trieste, Edizioni dello Zibaldone, 1953) in posizione rilevata, quasi all’inizio della silloge; è poi confluita senza variazioni nell’edizione definitiva di Colori (1957).
Con linguaggio volutamente prosastico e leggerezza epigrammatica Giotti disegna un pastello quasi impressionistico, nel quale però i colori hanno raggiunto una completa smorzatura, riducendosi a tinte tenui e consunte. È il caso ad esempio del "giallino" delle facciate delle case, unico colore rimasto, segno certo di desolazione e di morte, che il poeta osserva però non con drammatica trepidazione, ma con la rassegnata malinconia di chi non ha potuto vivere in pienezza gli anni trascorsi. Come commenta Pasolini, “nei particolari minimi di una vita da cronaca o da memoria si condensa, attraverso la modestia dell’elaborato stilistico, un sentimento globale dell’esistenza, una ‘sintesi’ tenuta continuamente presente".
Notevole l’accuratezza metrica e lessicale: gli endecasillabi rimati e le assonanze che costellano il testo confluiscono infatti nel distico finale, dove i tre participi passati (due dei quali in rima baciata: vissuta e conossuda) chiudono il componimento con una cadenza triste e trasognata, perfettamente adatta ad esprimere il contrasto tra la vita che continua imperturbabile nella città amata, e la morte che incombe sul poeta, consapevole di aver ormai conosciuto e vissuto ogni realtà a lui destinata.
Con straziante malinconia Giotti ripercorre in questo testo il cammino della propria vita e si abbandona alla sensazione del fluire del tempo, che coglie nelle prospettive conosciute della sua città: Trieste (commentava sempre Pasolini) è osservata "con lo sguardo del vecchio così pieno di vita da essere fuori della vita [...] una disperazione senile in un cuore di ragazzo".
La poesia in dialetto ha visto negli ultimi decenni un'intensa ripresa, stranamente proprio in coincidenza con la sparizione pressoché completa del dialetto nell’uso quotidiano (se si eccettuano l'area veneta e in generale il meridione) e con la perdita delle tradizioni popolari ad esso connesse. Non è facile capire le motivazioni di questa straordinaria fioritura poetica: da un lato vi può essere il tentativo di recuperare un mondo che sta per estinguersi, un mondo carico di valori antitetici a quelli dominanti nella moderna e logorata società capitalista, un mondo ricco di solidarietà, di legami duraturi, di umanità schietta e profonda. Un altro motivo è la capacità che il dialetto conserva - intatta e decisamente allettante - di opporsi ad una lingua italiana depauperata, corrosa, minacciata dalla diffusione linguisticamente debole dei mass media. In questo senso il dialetto può davvero presentarsi come strumento articolato e raffinato, con una sua vasta gamma lessicale, adatto perciò alla sperimentazione linguistica nelle sue varie forme, all'espressione del recupero memoriale, a sottili ricerche stilistiche e formali. Un ultimo motivo va tenuto presente: in maniera sempre più esplicita e massiccia la poesia dialettale di oggi, ben lontana dal perseguire una sua isolata involuzione, sa rivolgersi alle più raffinate poetiche europee ed extraeuropee: i lirici spagnoli, i simbolisti francesi, Neruda e Whitman, Eliot e l'antologia di Spoon River, per giungere fino alle radici della vibrante popolarità degli spiritual.
È in questo quadro che si inserisce un poeta schivo e appartato come Raffaello Baldini, approdato alla poesia solo dopo i cinquant'anni, ma con esiti decisamente significativi. Nato nel 1924 a Santarcangelo di Romagna (in provincia di Forlì), vera terra di poesia che diede i natali anche a Tonino Guerra e Nino Pedretti, nel 1949 si laurea in filosofia a Bologna, e dopo una breve parentesi come insegnante si trasferisce a Milano nel 1955, dedicandosi alla pubblicità e al giornalismo, occupandosi in particolare di tematiche religiose e culturali in senso lato. A Milano è morto nel 2005.
Il suo esordio poetico avviene molto tardi, quando nel ‘76 pubblica E' solitèri (Il solitario), che diviene poi, con qualche leggera variante, la prima sezione del secondo volume del 1982, La nàiva (La neve), nella cui fondamentale prefazione Dante Isella rileva "il perfetto allineamento di una poesia così marcatamente dialettale con i grandi temi della situazione contemporanea, con le esperienze più significative del nostro tempo".
La scelta di Baldini di utilizzare il dialetto è dovuta alla volontà di rivolgersi a persone di ogni strato sociale, alla sensazione che egli prova di essere capito da tutti (“Tutti quelli del mio paese, naturalmente. Ma tutti" avverte il poeta); ma è anche per lui l'unica possibilità di dare voce all'inconscio, al dato non formalizzato che scaturisce dall'interiorità nevrotica dei personaggi rappresentati, tutti racchiusi nell’angusto spazio della Romagna a lui ben nota.
In queste prime raccolte Baldini, rinunciando al modulo lirico breve, sceglie la struttura narrativa perché la ritiene più idonea ad esprimere il suo realismo venato di pessimismo che oseremmo dire leopardiano. Tema dominante dei suoi testi è infatti la sofferenza e la marginalità di personaggi “fuori di chiave”, che egli sceglie tra i più straniti ed eccentrici del paese natale, ma nei quali scopre anche qualcosa di sé, "l'incarnazione in destini separati di un'unica angoscia esistenziale a cui il poeta presta la sua voce" (come sottolinea con acutezza Dante Isella). Tra la prima e la seconda raccolta vi sono molti elementi in comune: si accentua però in La nàiva il ricorso a poemetti di dimensioni ancora maggiori, e cresce il pessimismo sulla sorte dei personaggi, dovuta a ragioni e motivazioni insondabili più che a veri o presunti difetti fisici o psichici. La terza raccolta, Furistir (Forestiero, 1988), sembra proporre una modalità poetica differente: anzitutto viene abbandonato il personaggio eccentrico ed entra in scena il popolano comune, privo di tratti distintivi evidenti, uno come tanti altri, con i suoi tic e le sue piccole nevrosi (anche se dietro gli aspetti apparentemente rassicuranti si annida spesso lo spettro della follia). Vi è inoltre un rapporto nuovo con i personaggi, quasi di complicità, tanto che il poeta stesso diventa personaggio che rivela la propria concezione del mondo e della vita nel monologo: si noti che, dei trentun testi che compongono il volume, ventisette sono caratterizzati dall'uso della prima persona narrante e dal discorso diretto, come voluta mimesi del parlato. Funzione simile ha la sintassi estremamente franta e irregolare, densa di incisi, esclamativi e interrogativi, per lo più paratattica ed ellittica, spesso al limite dell'anacoluto: ad essa si contrappone una metrica prevalentemente regolare (endecasillabi e settenari con rari casi di ipometria), che ha in un certo senso lo scopo di arginare il disordine sintattico dei testi. Anche sul piano tematico si notano cospicue divergenze: Baldini rinuncia a certo surrealismo delle prime prove per approdare a un'analisi della follia quotidiana mimetizzata dietro le apparenze più tranquillizzanti della normalità e della regolarità. La morte, che costantemente fa capolino nella sua poesia, è ora una presenza ossessiva della vita quotidiana, avvertita soprattutto dal "solitario" protagonista dei suoi poemi, l'uomo comune vittima delle sue nevrosi (neppur tanto nascoste), che si sente forestiero in un mondo in continua evoluzione, estraneo alla vita delle generazioni più giovani. “Memorabili (afferma Franco Loi con acutezza) sono i suoi interminabili monologhi in cui tutte le contorsioni, i rigiri, il rimuginare, tutte le sfumature psicologiche dell’animo umano sono espresse in una ragnatela sonora che suscita nell’ascoltatore attenzione e sconcerto, drammatiche intuizioni e riso, emozioni e riflessioni. Specialmente quando lui si presentava davanti a un pubblico a leggere l’effetto di quella sequenza di parole, dette in fretta, affannate e ironiche, era travolgente”.
Il realismo che domina la raccolta tende a riprodurre oggetti, luoghi, particolari insignificanti con una precisione perfino maniacale, così da dare in ultima analisi una sensazione di iperrealismo. Tale "coazione a ripetere" è peraltro strettamente legata alla resa della nevrosi quotidiana, dell'impari lotta del "solitario" contro il mondo che lo stritola.
Le ultime raccolte di Baldini sono Ad nòta (Di notte), edita nel 1995 con una sentita presentazione di Mengaldo; nel 2000 Ciacri (Chiacchiere) e infine nel 2003 Intercity.
Si presentano qui di seguito alcuni dei testi più caratteristici della produzione poetica baldiniana.
La chéursa
I m’è
chéurs dri rugénd, e mè a n capéva,
a
n so s’i avéss la s-ciòpa, mo i curtéll,
ò vést al lèmi léus sòtta i
lampiéun.
Andéva cmè un chèn brach
e lòu tótt dri,
ò travarsè la
piaza,
pu a m so bótt te Baròun, mo dop la pòumpa
a so tòuran pr’e’ Ciód e a m so
infilé
ti pórtich fina Tiglio dal smanzài,
ò imbòcch e’ lavadéur, ò pas
la Méura,
da la Zóppa a so vnú sò
ma la Costa,
pu tla Bósca, a so sèlt dréinta
un curtéil,
ò fat du rèm ad schèli,
a so vnú fura vsina la Massèni,
a so chéurs
vérs la Roca, me crusèri
ò ciap d’inzò
vérs e’ Pòzz Lòngh, e ò vést
davènti mè tri quatar ch’i curéva
e
i s guardéva di dri, i m guardéa mu mè.
Te
préim a n’ò capéi, a i vléa dí
quèl,
mo a n mu n so tróv la vòusa, a
n’arivéva
a ’rscód e’ fiè.
Però mè u m pèr ch’i séa
quéi ’d préima, quéi ch’i m
déva dri mu mè,
éun e’ va un puchìn
zòp, un èlt l’à un brètt
ch’a
m l’arcórd, mo i córr véa, i n sta a
sintéi,
e’ pèr ch’i apa paéura,
e mè a i dagh dri,
ò paéura ènca
mè, mo cm’òi da fè?
a m putrébb
farmè què, e se pu a m sbai?
s’a m férm
e quéi di dri i m’è madòs?
La corsa Mi sono corsi dietro urlando, e io non capivo, | non so se avessero il fucile, ma i coltelli, | ho visto le lame luccicare sotto i lampioni. | Andavo come un bracco e loro tutti dietro, | ho attraversato la piazza, | poi mi sono buttato nel Baròun, ma dopo la fontanella | sono tornato per il Ciód e mi sono infilato | sotto i portici fino ad Attilio delle granaglie, | ho imboccato il lavatoio, ho passato la Mura, | dalla Zóppa sono venuto giù alla Costa, | poi nella Bosca, sono saltato dentro un cortile, | ho fatto due rami di scale, | sono venuto fuori vicino alla Massani, | sono corso verso la Rocca, all’incrocio | ho preso in giù verso il Pozzo Lungo, e ho visto | davanti a me tre o quattro che correvano | e guardavano indietro, guardavano me. | Sul momento non ho capito, volevo dire qualcosa, | ma non mi sono trovato la voce, non arrivavo | a tirare il fiato. – Però a me pare che siano | quelli di prima, quelli che inseguivano me, | uno va un pochino zoppo, un altro ha un berretto | che me lo ricordo, ma corrono via, non stanno a sentire, | pare che abbiano paura, e io li inseguo, | ho paura anch’io, ma come devo fare? | potrei fermarmi, e se poi mi sbaglio? | se mi fermo e quelli dietro mi sono addosso?
Furistìr
S’ chi
mutéur, una bòba, mo l’è pin,
me
cantòun ‘d Baruzètt
a una zért’òura
ta n’i pas, i è lè,
tòtt, ch’i
bacàia, i magna di gelè,
i va, i vén,
l’altresàira s’a n so svélt,
una
frenèda, ciò, ta m vén madòs?
pu a
so stè lè a guardèl, mè quèst a l
cnòss,
tè t si e’ fiùl ad Vitorio,
mo sté ‘ténti
quant andé par la
strèda, e quèll che là,
sla maia ròssa,
vén aquè, l’è un Brògi,
l’è
l’anvòud ad Ristìn, no? u n’è e’
tu nòn
Ristìn, ta n si e’ fiùl
d’Ugo? mo chi sit?
e léu u m’à détt
un n6m, ch’a n m’arcord piò,
Cavalli? no,
Marietti? un nòm acsè,
ch’a n l’éva
mai sintéi, Barbieri? gnénca,
dis che e’ su
bà e’ lavòura ma la Fisi,
i vén da
fura, aquè u s vàid ch’u s sta bén,
i
aréiva e i n va véa piè, che mè la dmènga
in piaza quant a pas a tò e’ giurnèi,
u
s vàid ‘d cal fazi,
mo dimpartòtt, tla
bènca, te consòrzi,
tal pòsti, d’ogni
tènt, e quèll chi èll?
zénta nòva,
mai vésta, che dal vòlti
a déggh: e’
furistìr
aquè a so mè, a n cnòss
bèla piè niséun,
mo quéi de pòst,
ch’i è nèd aquè, a n’e’ so,
i
avrà pò i su dirétt, o u n vò dì
gnént?
e te Cuméun, zà che par fè
un cuncòurs,
e pu i l véinz ch’ilt, i nòst
i è tòtt patàca?
l’è mèi
stè zétt, va là, che sa Bonini
ir un èlt
pò a ragnémm,
dis: mo quèst l’è
egoéisum, cum sarébal?
a sémm ad chèsa
nòsta, e’ cmanda ch’ilt,
i vén da
fura e i cmanda,
u m’à dè dl’egoésta,
t’é capéi?
ch’a so ‘rvènz
mèl, fighéurt, che s’u i è éun,
al
déggh sémpra, mè, i à da campè
tòtt
te mònd, la zénta a vrébb ch’i
foss tòtt sgnéur,
a n’ò nisùna
invéidia, ò e’ mi lavòur,
l’è
che Bonini quant l’à vòia ad zcòrr,
e
mè a i casch sémpra,
ènca ir, a m’i
so imbatù par chès,
avnéva da e’
campsènt, a i vagh tòtt i an,
da la mi mòi,
mo u n’è ch’a i ténga e’ còunt,
un an, dù an, a vagh quant a me sint,
a ciap sò
da par mè, una pasegèda,
aréiv alè, a téir véa, ch’i’e pin ‘d gramégna,
a i puléss e’ ritràt, pu, a turnè indrì,
a zéir un pò purséa,
mo u i è da caminé, i è sémpra dri
ch’i lavòura, i ingrandéss, i è rivàt
bèla sla strèda, e u i n’è sémpra di nòv,
i scapa fura ab bòt, alè, vè, Guàza,
e quèst l’è Diego, l’è parlènt, e quèll
l’è Santarèli, l’è vlù ‘ndè tla tèra,
pu Canzio, Nando Ricci, e aquè u i è Sghètta,
e’ féva Garatoni, a n’e’ savéva,
quèst l’è rivàt adès, u i è sno un nòmar,
l’à da ès Carabéin, i l’à port véa
l’altredè, e quèst l’è Otavio, ch’u s stimèva:
a iò e’ dutòur ad chèsa,
e quèli che lè ch’e’ réid l’è Batistini,
vè Miglio ‘d Bréina, al scòppi ch’avémm fat,
Mòsca, Dirani, mo l’è tòtt’ ‘n’avdéuda
aquè, l’è cmè ès in piaza, a i cnòss ma tòtt.
Forestiero Con quei motori, un chiasso, ma è pieno, Iì all’angolo di Baruzètt a una cert’ora non ci passi, sono lì tutti, che baccagliano, mangiano dei gelati, vanno, vengono, l’altra sera se non sono svelto, una frenata, ehi! mi vieni addosso? poi sono stato lì a guardarlo, io questo lo conosco, tu sei il figlio di Vittorio, ma state attenti quando andate per la strada, e quello là, con la maglia rossa, vieni qui, è un Broggi, è il nipote di Oreste, no? non è il tuo nonno Oreste? non sei il figlio di Ugo? ma chi sei? e lui mi ha detto un nome, che non mi ricordo più, Cavalli? no, Marietti? un nome così, che non l’avevo mai sentito, Barbieri? nemmeno, dice che suo padre lavora alla Fisi, vengono da fuori, qui si vede che si sta bene, arrivano e non vanno via più, che io la domenica in piazza quando passo a prendere il giornale, si vedono di quelle facce, ma dappertutto, nella banca, nel consorzio, alle Poste, ogni tanto, e quello chi è? gente nuova, mai vista, che delle volte dico: il forestiero qui sono io, non conosco ormai più nessuno; ma quelli del posto, che sono nati qui, non lo so, avranno pure i loro diritti, o non vuol dir niente? e nel Comune, già che per fare un concorso, e poi lo vincono gli altri, i nostri sono tutti cretini? è meglio star zitti, va là, che con Bonini ieri un altro po’ litighiamo, dice: ma questo è egoismo, come sarebbe? siamo in casa nostra, comandano gli altri, vengono da fuori e comandano, m’ha dato dell’egoista, hai capito? che sono rimasto male, figurati, che se c’è uno, dico sempre, io, devono campare tutti nel mondo, la gente vorrei fossero tutti ricchi, io non ho nessuna invidia, ho il mio lavoro, è che Bonini quando ha voglia di parlare, e io ci casco sempre, anche ieri, mi ci sono imbattuto per caso, venivo dal cimitero, ci vado tutti gli anni, da mia moglie, ma non è che ci tenga il conto, un anno, due anni, vado quando me la sento, prendo su da solo, una passeggiata, arrivo li, tiro via, che è pieno di gramigna, le pulisco il ritratto, poi, a tornare indietro giro un po’ purchessia, ma c’è da camminare, sono sempre dietro a lavorare, ingrandiscono, sono arrivati ormai sulla strada, e ce n’è sempre di nuovi, scappano fuori di botto, li, ve’, Guaza, e questo è Diego, è parlante, e quello è Santarelli, è voluto andare nella terra, poi Canzio, Nando Ricci, e qui c’è Sghètta, faceva Garattoni, non lo sapevo, questo è arrivato adesso, c’è solo un numero, dev’essere Carabéin, l’hanno portato via l’altro giorno, e questo è Ottavio, che si vantava: ho il dottore in casa, I e quello lì che ride è Battistini, ve’ Emilio ‘d Bréina, le scope che abbiamo fatto, Mosca, Dirani, ma è tutto un salutare qui, è come essere in piazza, li conosco tutti.
Em bycicleta
Strisòun, Traguardo, zà,
admèng i
córr, ch´ ´l´ènch´ ´na
bèla chéursa,
sò ma Mountbèl, zò
tla Marèccia,
e´ Pózz, zò tl´Éus,
i Zéss, sò ma la Curnacèra,
Savgnèn,
da ´lè tótt drétt, pu la vuléda
sòtta e´ Cuméun, e mè ma la
finestra,
a guèrd da què,
ch´u s vaid
piò bén, a guèrd sémpra da què,
però dal vólti, ècco, u m pisarébb
ènca d´ès alazò, tramèz´ cla
baraònda,
sal machini ch´al sòuna, al
guèrdi al córr,
i aréiva, indrí!
sté indrí!
cmand, fés-ci, fé al
spatàsi, a i sémm, i è què,
nómar,
culéur, bandiri, slunghè e´ còl,
viva,
viva, spumènt, rógg, bat al mèni,
tnàila
da qualcadéun,
scumètt che st´èlta
vólta e´ vinzarà.
In bicicletta
Striscione, Traguardo, e già, / domenica corrono, che è
anche una bella corsa, / su a Montebello, giù nella Marecchia,
/ Poggio Berni, giù nell´Uso, i Gessi, su alla
Cornacchiara, / Savignano, di lì tutto dritto, poi la volata,
/ sotto il Comune, e io alla finestra, / guardo di qui, / che si vede
più bene, guardo sempre di qui, / ma delle volte, ecco, mi
piacerebbe anche essere laggiù, in mezzo a quella baraonda, /
con le macchine che suonano, i vigili che corrono, / arrivano,
indietro! state indietro! / comandi, fischi, fare a spintoni, ci
siamo, sono qui, / numeri, colori, bandiere, allungare il collo, /
viva, viva, spumante, urli, battere le mani, / fare il tifo per
qualcuno, / scommettere che la prossima volta vincerà.
A n´e´
so
Invìci mè l´è un pó
ch´a pràigh, ad nòta,
quant a m svégg,
ch´a so lè, ch´a n´arcàp sònn,
l´è
la vciaia? a n´e´ so, l´è la paéura?
a
pràigh, e u m pèr ´d sintéi, a n´e´
so,
cmè ch´a n fóss da par mè, a n´e´
so, cmè che,
l´è robi ch´l´è
fadéiga, a déggh acsè,
mo a n´e´
so gnénch´ s´a i cràid o s´a n´i
cràid.
Non lo so Invece io è un po´
che prego, di notte / quando mi sveglio, che sono lì, che non
riprendo sonno, / è la vecchiaia? non lo so, è la
paura? / prego, e mi pare di sentire dentro, non lo so, / come se non
fossi solo, non so, come se, / sono cose che è difficile, dico
così, / ma non so nemmeno se ci credo o non ci credo.
1938
La mèstra ad Sant'Armàid
dal vólti,
e' dopmezdè,
la s céud tla cambra e la zènd
una Giubek.
La n fómma.
Stuglèda sòura
e' lèt
la guèrda ch'a s cunsómma.
U
i pis l'udòur.
Dal vólti u i vén da pianz.
1938 La maestra di Sant'Ermete / delle Volte, il
pomeriggio, / si chiude in camera e accende una Giubek. / Non fuma. /
Sdraiata sul letto / la guarda consumarsi. / Le piace l'odore. /
Delle volte le viene da piangere.
Nato a Luino, sul lago Maggiore, cent’anni fa, il 27 luglio 1913, Vittorio Sereni si trasferisce a dodici anni a Brescia e nel 1933 approda a Milano, iscrivendosi prima alla Facoltà di Giurisprudenza e poi a quella di Lettere: si laurea nel 1936 con una tesi su Guido Gozzano che fa scalpore per la novità dell’approccio critico. Nel capoluogo lombardo ha modo di frequentare scrittori e critici come Luciano Anceschi, Giancarlo Vigorelli, Antonia Pozzi, Leonardo Sinisgalli, Alfonso Gatto, Salvatore Quasimodo. Sono alcuni di loro a introdurlo nel mondo letterario e a presentarlo a Carlo Betocchi, che nel 1937 gli pubblica due poesie sulla rivista " Frontespizio": è il suo esordio poetico, che sarà completato nel 1941 con la pubblicazione del primo volume di versi, Frontiera.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale Sereni è richiamato come ufficiale di fanteria e dopo la Grecia è destinato all’Africa settentrionale: ma, come egli stesso racconta, “non arriverà mai a destinazione”, perché il 24 luglio del 1943 viene fatto prigioniero presso Trapani e internato in Algeria, da dove farà ritorno a casa soltanto a guerra terminata. È da questa esperienza che nel 1947 nasce la seconda raccolta poetica, il fondamentale Diario di Algeria.
Dopo la guerra Sereni riprende a insegnare, ma nel 1952 lascia l'insegnamento per lavorare presso l'ufficio stampa della Pirelli, dove rimane fino al 1958. In quest’anno viene assunto alla Mondadori come direttore letterario: alla sua intuizione e lungimiranza si devono scoperte critiche notevoli e realizzazioni editoriali particolarmente significative, come la collana poetica “Lo Specchio”, dove sono pubblicati un po’ tutti i grandi poeti del Novecento, gli “Oscar”, selezionati a partire dal ’65 con Alberto Mondadori (una collana che ha contribuito a una diffusione ancor più capillare della letteratura mondiale); nel 1969 inizia la prestigiosa collana dei “Meridiani”, tuttora di capitale importanza per la cultura; ma non si possono dimenticare altre fondamentali realizzazioni come la collana di narrativa e poesia “Tornasole”, diretta insieme a Gallo dal 1962 al 1968, la “Nuova collezione di letteratura”, nata nel 1966 con chiari intenti sperimentali; e gli “Scrittori italiani e stranieri”. Nel 1975 Sereni lascia la direzione letteraria per dedicarsi alla consulenza, ruolo che ricopre fino alla morte, avvenuta improvvisamente in conseguenza di un aneurisma il 10 febbraio 1983 a Milano.
Non è facile inquadrare la figura poetica di Sereni nel panorama letterario italiano; probabilmente l’etichetta che più gli si addice è quella della “linea lombarda”, etichetta però di non facile definizione, perché questo filone letterario, battezzato in tal modo da Luciano Anceschi nella sua antologia Linea lombarda del 1952, e approfondito in seguito dal grande critico Dante Isella nei saggi I lombardi in rivolta del 1984, non è caratterizzato da omogeneità stilistica, ma piuttosto da comuni tematiche, ambientazioni e temperamento di autori che cronologicamente spaziano dal Tardo Ottocento fino ai giorni nostri. Nell’ambito di questa linea è quindi possibile inquadrare un “romantico” come Manzoni e gli Scapigliati milanesi, un poeta dialettale come Delio Tessa e un espressionista come Carlo Emilio Gadda, un narratore di stampo tradizionale come Luigi Santucci e poeti innovativi come Giorgio Orelli, Luciano Erba e Franco Loi. Anche Sereni può pertanto rientrare in questa categoria di scrittori proprio per i suoi riferimenti geografici, che muovono dall’amato lago al capoluogo lombardo.
Già nella prima raccolta del 1941, Frontiera, Sereni sa oltrepassare la dominante tradizione ermetica, per affrontare con lucidità e realismo, in un dettato sobrio e puntuale, il vissuto personale, i ricordi, la quotidianità, la storia nei suoi risvolti più vari. E questa scelta si fa ancor più evidente nel Diario d'Algeria del 1947, dove domina l’angosciante percezione di inefficacia del prigioniero e la sensazione di una reclusione esistenziale prima ancora che reale. Anche la lingua si è nel frattempo illimpidita e liberata degli influssi ermetici, ancora presenti nella prima raccolta.
Tale tendenza si fa ancor più evidente nella raccolta del 1965, Gli strumenti umani, dove il poeta si assume il compito di collocare la vicenda umana nel quadro delle radicali trasformazioni che investono l’Europa nel dopoguerra, notando con amarezza quanto l’individuo vada perdendo sicurezza, autonomia e senso critico nell’ambito della nuova società di massa che si va formando. Il mondo sembra farsi ai suoi occhi sempre più indecifrabile, mentre l’uomo, senza accorgersene, diviene prigioniero di stereotipi e falsi miti. Pur essendo lontana dalla forma politica che ad esempio è invece ben visibile in quegli stessi anni nella poesia di Fortini, la poesia di Sereni diviene in tal modo viva interprete della trasformazione della borghesia italiana nel momento dell'avvento del nuovo capitalismo.
Non è il caso qui di seguire tutte le singole pubblicazioni poetiche di Sereni, che amava spesso la forma della plaquette o del libercolo d’occasione: importante è invece prendere in esame la nuova raccolta del 1981 (anticipata da un’edizione parziale fuori commercio nel ’79), Stella variabile. Qui l’urgenza comunicativa e la rabbiosa passione etico - politica del luinese si fanno ancor più evidenti, e la percezione della crisi in atto (crisi esistenziale, personale e storica) giunge a incidere con dolente drammaticità: come rivelerà il poeta stesso in un’intervista del 1980, il libro “dovrebbe esprimere quella compresenza di impotenza e potenzialità, la difficoltà a capire il mondo in cui viviamo e al tempo stesso l’impulso a cercarvi nuovi e nascosti significati, la coscienza di una condizione dimidiata e infelice e l’ipotesi di una vita diversa”. Dal punto di vista stilistico giunge a compimento quel “personalissimo impasto polifonico di narratività, lirismo, inserti dialogici” (come nota Clelia Martignoni) che già era visibile in filigrana nelle raccolte precedenti.
Oltre che poeta, Sereni fu narratore di qualità, con prose al confine tra narrazione e rievocazione raccolte in diversi volumi, tra cui Gli immediati dintorni (1962), L’opzione (1964), Il sabato tedesco (1980). Né si può dimenticare la sua opera di traduttore raffinato e attentissimo, che ci ha dato il Leviatan di Julien Green, Fogli d'Ipnos e Ritorno sopramonte e altre poesie di René Char, e molti splendidi testi di Paul Valéry, William Carlos Williams, Guillaume Apollinaire.
Postume sono uscite nell'ottobre del 1983, per desiderio del poeta, le prose de Gli immediati dintorni - primi e secondi, e nel 1986 Tutte le poesie, edite da Mondadori, a cura della figlia Maria Teresa. Recentissima è infine l’edizione di Poesie e prose in un voluminosissimo Oscar Mondadori curato da Giulia Raboni (Milano 2013, pp. 1230).
da "Frontiera"
Ritorno
Se di nuovo si libra per le vie
la giostra dei colori,
per accoglierti il tempo
trova un giusto sereno
e l’oro dell’aria
e la fermezza del verde.
Ogni strada t’insegue
e ancora vinci
- primavera e sorpresa –
il tardo immaginare che mi svia.
ai gesti, alla voce perduta
vedrò volgersi gente,
al pieno e calmo andare
che l’identico cuore mi urta
e getta a una marcia
di tamburi sinistri.
In me il tuo
ricordo è un fruscìo
solo di velocipedi che
vanno
quietamente là dove l'altezza
del meriggio
discende
al più fiammante vespero
tra cancelli e
case
e sospirosi declivi
di finestre riaperte
sull'estate.
Solo, di me, distante
dura un lamento di
treni,
d'anime che se ne vanno.
E là leggera te ne
vai sul vento,
ti perdi nella sera.
Ecco le voci cadono
Ecco le voci cadono e gli amici
sono così distanti
che un grido è meno
che un murmure a chiamarli.
Ma sugli anni ritorna
il tuo sorriso limpido e funesto
simile al lago
che rapisce uomini e barche
ma colora le nostre mattine.
Dimitrios
Alla tenda s'accosta
il piccolo nemico
Dimitrios e mi
sorprende,
d'uccello tenue strido
sul vetro del
meriggio.
Non torce la bocca pura
la grazia che chiede
pane,
non si vela di pianto
lo sguardo che fame e
paura
stempera nel cielo d'infanzia.
È già
lontano,
arguto mulinello
che s'annulla
nell'afa,
Dimitrios, su lande avare
appena credibile,
appena
vivo sussulto
di me, della mia vita
esitante
sul mare.
Non sa più
nulla, è alto sulle ali
Non sa più
nulla, è alto sulle ali
il primo caduto
bocconi sulla spiaggia normanna.
Per questo qualcuno stanotte
mi toccava la spalla mormorando
di pregar per l’Europa
mentre la Nuova Armada
si presentava alle coste di
Francia.
Ho risposto nel
sonno: - È il vento,
il vento che fa musiche bizzarre.
Ma se tu fossi davvero
il primo caduto bocconi sulla
spiaggia normanna
prega tu se lo puoi, io sono morto
alla
guerra e alla pace.
Questa è la musica ora:
15
delle tende che sbattono sui pali.
Non è musica
d’angeli, è la mia
sola musica e mi basta-.
Viaggio di andata e ritorno
Andrò a ritroso della nostra corsa
di poco fa
che
tanto bella mai ti sorprese la luna.
Mi resta una città
prossima al sonno
di prima primavera.
O fuoco che ora tu
sei
dileguante, o ceneri confuse
di campagna che annotta e
si sfa,
o strido che sgretola l'aria
e insieme divide il
mio cuore.
Perché
quelle piante turbate m'inteneriscono?
Forse perché
ridicono che il verde si rinnova
a ogni primavera, ma non
rifiorisce la gioia?
Ma non è questa volta un mio
lamento
e non è primavera, è un'estate,
l'estate
dei miei anni.
Sotto i miei occhi portata dalla corsa
la
costa va formandosi immutata
da sempre e non la muta il mio
rumore
né, più fondo, quel repentino vento che la
turba
e alla prossima svolta, forse finirà.
E io
potrò per ciò che muta disperarmi
portare attorno
il capo bruciante di dolore.
Ma l'opaca trafila delle cose
che
là dietro indovino: la carrucola nel pozzo,
la spola
della teleferica nei boschi,
i minimi atti, i poveri
strumenti
umani avvinti alla catena
della necessità, la
lenza
buttata a vuoto nei secoli,
le scarse vite, che
all'occhio di chi torna
e trova che nulla nulla è
veramente mutato
si ripetono identiche,
quelle agitate
braccia che presto ricadranno,
quelle inutilmente fresche
mani
che si tendono a me e il privilegio
del moto mi
rinfacciano…
Dunque pietà per le turbate
piante
evocate per poco nella spirale del vento
che presto
da me arretreranno via via
salutando salutando.
Ed ecco già
mutato il mio rumore
s'impunta un attimo e poi si sfrena
fuori
da sonni enormi
e un altro paesaggio gira e passa.
Corso Lodi
E – disse G. sciogliendosi in uno sbadiglio –
e piantale queste cose se ti riesce
nelle fredde gallerie di quadri falsi e di croste,
le zazzere e le zimarre.
Piantala se ti riesce una volta per tutte
la tetra folla che annusa trifola ornamentale,
la turba dei baschi marxesistenzialisti
esistenzialmarxisti.
E una volta di più illudendomi
che fosse sul serio per l’ultima volta
sul ponte che scavalca la nebbia della città
dove l’anno si strugge in brace e in cenere
io lo seguii.
La spiaggia
Sono andati via
tutti -
Blaterava la voce dentro il ricevitore.
E poi,
saputa: - Non torneranno più -
Ma oggi
Su
questo tratto di spiaggia mai prima visitato
Quelle toppe
solari... Segnali
Di loro che partiti non erano affatto?
E
zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.
I morti non è
quel che di giorno
In giorno va sprecato, ma quelle
Toppe
di inesistenza, calce o cenere
Pronte a farsi movimento e
luce.
Non
Dubitare, - m'investe della sua forza il mare
-
Parleranno.
(Questo testo conclude la raccolta Gli strumenti umani. Oltre a definire e riassumere i temi fondamentali del libro, ne racchiude la poetica sottolineando il suo allontanamento sia dall'Ermetismo che dalla tradizione simbolista. Il desiderio di ritrovare nella natura delle corrispondenze è ormai abbandonato, preferendo ricostruire semplicemente il paesaggio marino attraverso i suoi elementi caratteristici che lo accompagnano in un proprio itinerario intellettuale. L'apparente semplicità della tematica nasconde in sé un impegno storico e politico molto forte. L'occasione della poesia è l'annuncio, dato da qualcuno al telefono, che gli amici sono già partiti dal luogo di vacanza e non faranno più ritorno. Questo banale evento quotidiano viene elevato dal poeta ad una situazione analoga alla morte; in particolare il termine "morti" nasconde il riferimento a tutti coloro che perdendo la pretesa della propria individualità sono "condannati storici al mutismo" (Franco Fortini). Contrariamente il poeta si dimostra convinto di poter scorgere in lontananza un futuro riscatto; un giorno, anche coloro che si trovano ancora in una zona di oscurità, storica ed individuale, troveranno il coraggio di rivelare il proprio valore) [da Wikipedia]
Autostrada della Cisa
Tempo dieci
anni, nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con
malagrazia fu calato giù
e un banco di nebbia ci divise
per sempre).
Oggi a un chilometro dal passo
una
capelluta scarmigliata erinni
agita un cencio già spento,
e addio.
Sappi- disse ieri lasciandomi qualcuno-
sappilo
che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell’altra
vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là
dal valico un ritorno d’estate.
Parla così la
recidiva speranza, morde
in un’anguria la polpa
dell’estate,
vede laggiù quegli alberi
perpetuare
ognuno in sé la sua ninfa
e dietro la
raggera degli echi e dei miraggi
nella piana assetata il palpito
di un lago
fare di Mantova una Tenochititlàn
Di
tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità
tendo una
mano. Mi ritorna vuota.
Allungo un braccio. Stringo una spalla
d’aria.
Ancora non lo sai
-sibila nel frastuono
delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha
voglia di morire –
non lo sospetti ancora
che di
tutti i colori il più forte
il più indelebile
è
il colore del vuoto?
È morto proprio il giorno di Natale, a Vicenza, dove era nato nel 1931, Fernando Bandini, poeta e scrittore non molto noto al grande pubblico, ma certamente meritevole di essere letto, soprattutto per l’eleganza dei suoi versi in italiano, in latino e in vicentino. Se n’è andato com’era vissuto, con discrezione, in punta di piedi, senza disturbare nessuno: «un dotto fanciullino, vissuto negli anni del tardo Novecento» come ebbe modo di definirlo un poeta geograficamente a lui vicino come Andrea Zanzotto.
Dopo aver studiato alle Magistrali, per circa un decennio Bandini aveva insegnato alle scuole elementari, per passare alla docenza di Filologia romanza e poi di Stilistica e metrica italiana all’Università di Padova, e infine a quella di Letteratura italiana a Ginevra.
La sua carriera poetica inizia nel 1962 con la raccolta In modo lampante, edita da Neri Pozza, cui segue tre anni dopo, sempre per lo stesso editore, Per partito preso; le due prime piccole sillogi sono poi riassorbite in Memoria del futuro (Milano, Mondadori, 1969), dove il poeta cerca di recuperare tutte le cose che scompaiono, le realtà private come i luoghi della storia degli uomini, perché (come afferma in un’intervista) «queste cose avevano una loro realtà, al punto che per intere stagioni sono state al centro dei nostri pensieri e della nostra vita. La parola poetica lavora in questo territorio, scava in questo serbatoio, cerca nelle parole il profumo e l'anima del tempo. È un andare e tornare spesso difficile. A volte si cerca e non si trova».
Le raccolte successive escono a cadenze lunghe: La màntide e la città (Milano, Mondadori, 1979), Santi di dicembre (Milano, Garzanti, 1994), Meridiano di Greenwich (Milano, Garzanti, 1998) e Dietro i cancelli e altrove (Milano, Garzanti, 2007). Ma non si devono dimenticare le traduzioni, dagli Epòdi di Orazio alle Canzoni di Arnaut Daniel, e gli studi critici sulla poesia dialettale, su Leopardi, Rebora, Jahier, Pasolini, Zanzotto ed altri ancora.
La scelta bandiniana di utilizzare tre lingue è da lui giustificata come l’unica modalità efficace per affrontare temi impegnativi e di grande attualità senza cadere nella vana retorica: il dialetto, infatti, in quanto lingua naturale imparata dai genitori, permette al poeta di ritrovare un’ispirazione remota con cui interpretare i cambiamenti della provincia italiana sotto l’incalzare della modernità. A sua volta (sono parole sue) «il latino è la lingua per i grandi paradigmi, per i valori che sono vivi e perseguibili in ogni stagione del mondo e del tempo, l’unica lingua adatta a dire le cose importanti e che permangono con un dolore vivo nel nostro tempo». Ma anche l’italiano che Bandini utilizza in poesia non è la lingua sciatta e consunta della mediocrità imperante, bensì una lingua raffinata e filtrata, ricca di scelte stranianti e di riferimenti colti, ma nello stesso tempo cristallina e pienamente intelligibile. In questo il poeta si riallaccia direttamente a quella linea antinovecentista o postermetica che aveva avuto in Sbarbaro e Saba i suoi massimi esponenti, poeti capaci di rifiutare la retorica vana e i simbolismi eccessivamente eleganti per dare spazio al quotidiano, al “rasoterra stilistico”, alla contaminazione tra frase e verso, tra prosa e poesia.
E come Saba ha Trieste in cima ai suoi pensieri, così per Bandini è la città di Vicenza a catalizzare ogni passione e sentimento: «un piccolo mondo antico ormai fattosi grande mondo moderno» (come glossa Franco Cordelli). Vicenza, spesso indicata nei suoi testi con il bifronte Aznèvic, come se nel rovescio della città se ne nascondesse un’altra uguale e diversa, è la città di provincia che diventa sfondo di una vicenda personale e insieme collettiva: «Io qui nella mia piccola città / tasto lo stesso polso che ci dice / che il paese ha la febbre» (sono versi presi da Memoria del futuro, libro della disillusione critica della prima età).
L’unica speranza di riscatto ed evasione da un mondo in spaventosa crisi potrebbe essere proprio la poesia, ma anche su questo Bandini non ha certezze, se in un’intervista del 2012 così rispondeva al cronista: «Non so, non so davvero, se la poesia possa essere una speranza per il mondo degli uomini d’occidente in un’epoca che vede l’affermarsi, prepotente, della secolarizzazione. Mi viene naturale mettere in comunione poesia e dimensione religiosa, purché coltivate nel silenzio eloquente del cuore e purché mettano al bando giochi e tentazioni intellettualistiche. Entrambi dovrebbero portare “altrove”,senza negare il qui e ora. Anzi, sono i nostri hic et nunc che reclamano un orizzonte oltre l’orizzonte, un mare oltre il mare, la trascendenza che invera l’esser-ci».
Eppure, nonostante l’amarezza e la disillusione crescente, Bandini ha sempre conservato un’incrollabile fiducia nel progresso, nella possibilità di una maggior giustizia della storia; non ha mai cessato di essere uomo del suo tempo, attento a comunicare in un linguaggio classico (ma sempre attuale) la sua visione del mondo, a volta a volta amara o fiduciosa, malinconica o visionaria, agguerrita o disarmata. E lo ha fatto privilegiando il “mestiere”, la competenza tecnica, la padronanza dei mezzi espressivi, il rigore dell'esercizio metrico e retorico, intendendo l’arte in senso etimologico come civiltà poetica, in grado – se non di ricostruire totalmente il mondo – quanto meno di lenire i dolori del presente.
Nella sua vita e nella sua opera Bandini ha costantemente ricercato la relazione, il dialogo, il confronto, in una sorta di “poetica dell'impoetico” che lo accomuna al realismo critico più che allo sperimentalismo imperante negli anni del suo esordio; e ha sempre ricercato il rinnovamento dei modi poetici e dei contenuti non come clausola dell’avanguardismo, ma come ricchezza e approfondimento umano e religioso (in senso lato). Qualcuno ha voluto definirlo un illuminista del XX secolo: e la definizione si può ritenere calzante, solo che la si intenda come capacità di ricercare il senso dell’esistenza, lo spirito religioso delle origini umane, la risposta ultima all’insensatezza apparente degli avvenimenti. In questo Bandini è stato veramente maestro di vita e guida spirituale di un intimo esistenzialismo laico.
Così egli motiva le scelte tematiche della sua poesia, riferendosi ai luoghi amati e frequentati, che nel corso degli anni vedeva degradare e consumare inesorabilmente: «Anche se sfregiate, le fisionomie dei luoghi sopravvivono, ma è necessario chinarsi su di loro, scoprirne il battito, restituirne il ritmo. Intorno alla chiesa di San Rocco, per esempio, ci sono le stesse strade, le stesse atmosfere, gli stessi silenzi della mia adolescenza, soprattutto nei giorni di pioggia, quando la gente se ne sta in casa e ogni angolo sembra offrirsi prodigiosamente intatto al trascorrere delle stagioni. La poesia sta qui, nei sotterranei di un sentire che ha bisogno di tempo e attenzione. Per questo ho scritto così poco. Poche poesie, intendo. Quanto al resto, ho scritto moltissimo: saggi, miscellanee, traduzioni, biografie. Per decenni ho seguito i miei studenti nei loro esercizi di metrica e nelle loro ricerche stilistiche. La mia poesia sta dentro a tutto questo, anche se non so bene in che modo, in quali forme, per quali strade […]. Molti mi chiedono a che cosa serve la poesia. Non so dare una risposta in assoluto. Posso solo dire che la poesia rappresenta per me la trama, il senso, quel filo tenace che tra passato e futuro ripercorre i sentieri di un'avventura che, partita dalla mia città, si fa strada negli acquitrini di una globalizzazione che può essere contrastata solo scavando in una parola capace di svelare le stratificazioni di un intreccio linguistico dentro cui tutto si tiene e niente va perduto. Ho lavorato alle mie poesie in silenzio, in solitudine, nei ritagli marginali di una vita che mi ha molto impegnato sia come docente sia come politico. Eppure quei ritagli, quei piccoli angoli di penombra dentro cui ho infilato il mio discorso poetico, rappresentano tutto ciò che veramente sono. Senza quei versi, senza quelle storie, senza quell'andare in cerca dell'infanzia, intesa come sommità della vita, sopra gli affanni, in alto, come in alto vivono le soffitte, dove tutto si deposita e niente va perduto, io credo non avrei potuto essere ciò che sono e sono stato».
da Per partito preso
Un quadretto che potrebbe apparire perfino iperrealistico, non fosse che il ricordo del padre nella sua quotidianità più comune si lega e s’intreccia con l’amara riflessione sui tempi moderni, dove più nessuno sembra avere la saggezza e l’equilibrato senso di giustizia del genitore perduto.
Papà come spaccavi
Papà come spaccavi
l'anguria in due
con un colpo secco del tuo coltellaccio
non c'è più nessuno.
D'estate sotto la lampada
col succo che allagava la tavola.
Come dividevi la vita
tra male e bene
non c'è più nessuno.
Com'eri giusto a fare le parti
tra tutti noi
con un colpo secco del tuo coltellaccio
non c'è più nessuno.
Come ridevi e sputavi i semi
come ti liberavi di crucci e sconfitte
godendo solo del dolce
non c'è più nessuno.
Nella raccolta chiave di Bandini, La Mantide e la città, troviamo la serie delle Lapidi per gli uccelli (che sono poi pietre sepolcrali per mondi che muoiono, o descrizioni di insetti che un’ottica straniante trasforma quasi in mostri, scatenando nel poeta riflessioni metafisiche).
da Lapidi per gli uccelli
Zampette d’uccello
E tremo sempre
perché sei piccola
e la neve qui intorno così
vasta,
tu fuscello di brina
che a toccarlo si spezza.
E la neve non
sembra nemmeno
sentire il tuo peso.
Ma a me
ti
aggrappi forte, inventi sconosciute
tenerezze carnali
con
una voce d’orca che vorrebbe
spaventare anche i
grandi,
ardore smisurato con zampette d’uccello.
Il disegno del
tempo non aveva previsto
i nuovi aspetti della voluttà
quando
la primavera scintilla sui vetri
o in pioggia si scioglie dentro
fogne e cortili.
Nel lampo di cristalli e allumini
il
colore della terra si svela
per indizi malcerti, sebbene
qualcosa
d’insolito urge il sangue. Ora le ombre
si
fanno più distinte nel chiaro,
i rumori delle stanze si
confondono
ai cori dei clacson
e i quartieri tremano al
vento favonio, segnale
della dea che rinasce divum hominumque
voluptas.
Torna il suo soffio vitale e s’impenna
su
gasometri e torri
dentro l’azzurro così vasto e
quieto.
Allora spiegami tu cosa scrivere
se saccheggiato è
il mondo e il poeta una logora
istituzione fra tante.
Bambini,
fuochi-fatui-bambini,
accesi un momento su una
terra di fosfori
e sepolture gridano.
Plazer
In questo
azzurro di settembre che si dilata
oltre il confine dei miei
occhi verso
regioni dove non arriverò mai
ci sono
chicchi d’uva che altre bocche
schiacceranno tra i denti
ignorando
questo mio torrido angolo di sete.
In quell’altrove
fiori d’ombra sbadigliano
alla sera di un’isola
abitata
dai corpi adolescenti di Nausicae.
Non le vedrò
dal mio raro trifoglio:
creste in fiore riarse dalla
polvere
grucce al riposo di magre locuste.
Oltre il confine
dei miei occhi il mondo
per qualche nuova sua intenzione
scalpita
che io non so né mi restano giorni
per
saperne di più. La notte penso
di là dalle mie
tenebre una Circe
che si cala nel balsamo del mare.
Anapesti per un gufo
Bubo, bubo, maeste tacitam
resonans noctem de culminibus
quibus impendent candida pronae
cornua lunae,
ubinam latitas? Non liquet utrum
prope non adsis an procul edas
flebile carmen
(nisi forte tua veniat vocis
sonus ex Erebo).
Lucifugarum consors avium
nos Aeternum severa monens,
non te dirum ducimus omen
intempesta si nocte canas.
Rava videtur naenia lallans
hoc esse tuum murmur in umbris.
Conivemus cunaeque fere
fit lectus ubi carpimus altum
denique somnum.
Santi di dicembre è forse la raccolta più matura, dove l’equilibrio raggiunto tra memoria e "memoria del futuro" non evita al poeta la bruciante riflessione sui crudi mutamenti e sul degrado del secondo Novecento, sulla lenta corruzione degli anni recenti, caratterizzati da catastrofi senza sperate resurrezioni.
Lucciole
Ci sono ancora le lucciole. Sbandano
dai loro greggi di tremulo fosforo
su pendii non talmente desolati
da non avere un nome sulle carte.
Lasciano cicatrici d’oro nelle tenebre
a futura memoria.
Sta lingua
Sta lingua la xe
quela
che doparava me nona stanote
vardandome da dentro la
sòasa.
La boca stava sarà, le parole
mi le
sentiva ciare.
Me nona
la
ga imparà sta lingua da le anguane
che vien zo da le
grote
co sona mezanote
caminando rasente le masiere:
e
da le róse
dove le lava fódare e nissói
se
sente ciof e ciof sora le piere
e te riva un ferume de
parole
supià dal vento
che zola par le altane.
Me nona
se
ga lèva na note co le anguane
par vegnere in sità.
Per
paura dei spiriti che va
de sbindolon tel scuro
la diseva
pai troisi la corona.
La xe rivà de matina bonora:
subito
dopo un brolo de pomari
ghe ieri case e case da ogni banda.
La domandavan el
nome de na strada,
scoltando na sirena
la xe rivà in
filanda.
“Senti sta tosa come che la parla”,
i
pensava vardandola tei oci
i botegari e i coci,
“le
pare uno stealarin che vien dai orti”…
Sta lingua mi
la
so ma no la parlo,
la xe lingua de morti.
Poesia per bambini
Scappa, cuore di lepre!
Chi non ha paura è veloce.
Non badare alla voce
dietro a te che ti grida di fermarti.
Ti vogliono rubare
il fiore che hai dipinto coi pastelli
sul quaderno a quadretti.
Sono uomini stretti al proprio odore,
donne che tra i capelli
hanno vipere a guisa di forcine.
Ma io vi dico, bambini e bambine,
non lasciatevi prendere, scappate!
stringendo tra le dita
le matite regalo delle fate
finché la mano sanguina.
Versi scritti durante le feste di Natale del 1989
O 1989,
anno di calcinacci,
eccoti questi stracci
in dono. È quanto adesso ci rimane
delle bandiere dell’anno passato.
Ma prima che tu rotoli
dentro qualche discarica-gehenna
donami in cambio il crollo senza suono
delle tue frane,
ch’io lo regali, strenna
di Natale, a chi amo,
ai vivi, ai morti, a chi non è ancor nato.
Non cade solo un muro, muore un lungo
Da-sein, il teso
elastico del secolo
si spezza,
molti cuori si afflosciano.
C’è ancora chi si abbarbica all’altezza
del proprio sogno, chi dentro le spire
del suo drago mentale si dibatte,
ma non può risarcire
anni di lunga innamorata rabbia.
Ti prego, dunque, vàttene
da me, fede in astratti
esorbitanti veri,
che anch’io non abbia
l’orgoglio per onore,
la pietà di me stesso per amore
verso gli altri;
perché dèmoni scaltri
irretiscono con stupendi inganni
l’anima stanca e nobile dei vecchi.
Ma tu, anno che scoppi e non dài suono
se non dentro di noi,
dimmi perché mi cedono i ginocchi
davanti a questa vacuità del tempo
in cui è sospeso il mondo,
e ancora sbatto gli occhi
quando già si è smorzato il tuo bagliore:
gelida bianca luce di una breve
implosione che inghiotte fino in fondo
il collasso e il silenzio.
Dimmi se il cielo cova
una nuova cometa per il viaggio
di nuovi Re,
se dobbiamo aspettarli – io che aspettavo
Natale, la sua aureola
di lumi e la sua pace,
e ho visto solo te
spargere intorno la tua fredda brace,
sola bianca meteora
di un inverno che passa senza neve.
Ieri
Tutto adesso è passato.
Ma non ho visto mai simile urgenza
di baci, tanta ingordigia d’amore
come dentro i tuoi occhi, mia città.
Così violenta la felicità
da far mancare il fiato.
Eri ancora Vicenza,
non ti eri ancora capovolta (Aznèciv
ora il tuo nome a specchio dello stagno del cuore).
Dietro i cancelli e altrove è l’ultima raccolta di Bandini, che si integra come in un ideale trittico con le due pubblicate nel 1994 e 1998 presso il medesimo editore: Santi di Dicembre e Meridiano di Greenwich. Rispetto a quelle, è dato osservare qui un’ombra luttuosa più marcata, una musica più grave e opaca, ispirata a una prospettiva di morte che non è solo un colore diffuso, ma un tema autobiografico profondamente avvertito. Si propone qui uno degli ultimi testi, quasi testamento spirituale del poeta che si augurava di essere sepolto con l’amata moglie nella città ceca da lui particolarmente prediletta.
Poesia scritta a Praga
Mi piacerebbe essere sepolto
a Mala Strana
in uno di questi silenziosi giardini
dove viene a svernare la cincia oltremontana.
Che mi giacesse accanto
mia moglie innamorata di ponte Carlo.
Il ponte è a pochi passi anche se solo
nel giorno del Giudizio potremo attraversarlo.
Verrebbe a farmi visita
l’ombra di Halas quando muore il giorno.
Abitava qui attorno, m’insegnerebbe
il nome della prima stella.
Ma Azneciv città che ha i suoi corvi
e i suoi golem pretende le mie ossa.
Ci sarà qualcuno che si ricordi
di Bandini? Che sopra la sua fossa
rechi i fiori che amo (aquilegie, asfodeli)
e si fermi un poco a parlare con me?
Perché il mio cuore era di re
ma non avevo un regno né fedeli.
È morto lo scorso 10 novembre a Bellinzona, alla bella età di 92 anni, Giorgio Orelli, poeta, scrittore e traduttore svizzero, le cui qualità non sono purtroppo note al grande pubblico. Nato ad Airolo nel Canton Ticino il 25 maggio 1921, dopo aver studiato ad Ascona ed essersi laureato in Lettere all’Università di Friburgo (dove ebbe come maestro tra gli altri il grande filologo Gianfranco Contini), Orelli insegnò lungamente al Liceo di Bellinzona e rimase sempre legato alla sua terra. Si era affacciato alla poesia negli anni della seconda guerra mondiale con la raccoltina Né bianco né viola (1944), prefata da una lettera in versi dello stesso Contini; e a partire dagli anni '50 aveva collaborato attivamente con diverse riviste letterarie italiane, tra cui «il Verri», «Paragone» e «La Fiera letteraria». Nel 1957 tradusse e curò la raccolta Poesie scelte di Goethe, che fu poi sempre per lui maestro di vita oltre che di letteratura.
Contini lo aveva definito «un toscano nato in Ticino» per la sua perfetta padronanza della lingua di Dante; e così ne tratteggiava la figura Cesare Segre, che ben lo conosceva per averlo frequentato lungamente a partire dagli anni sessanta: «L’apparizione di Giorgio in bicicletta può costituire un momento felice nella giornata del suo interlocutore. Quando si arresta facendo una piccola giravolta col biciclo, si può prevedere una bella passeggiata sul filo dei suoi discorsi, che svariano agilmente tra i temi più diversi. Tre passi e una sosta, tre passi e una sosta: un bel periodo prosodico». Un uomo semplice, dunque, amante delle piccole realtà quotidiane, sempre disponibile e attento alle persone, che al compimento dei 90 anni confidava all’intervistatore di «aver saputo invecchiare bene, come un albero pluricentenario che rimane giovane».
Grandissimo comunicatore, Orelli ha al suo attivo numerose prose, raccolte in Un giorno della vita (1960) e Pomeriggio bellinzonese (1978) o rimaste su riviste e giornali spesso di secondaria importanza. È inoltre autore di testi critici, dapprima raccolti in Accertamenti verbali (1978), che può essere considerato il manifesto del suo impegno per la critica cosiddetta "verbale", aderente cioè «alla testualità, o semplicemente all'espressività del discorso poetico»; successivi e altrettanto fondamentali sono gli Accertamenti montaliani (1984), il saggio manzoniano Quel ramo del lago di Como (1990), quello petrarchesco Il suono dei sospiri. Sul Petrarca volgare (1991) e quello foscoliano intitolato Foscolo e la danzatrice (1992).
Ma ciò che più lo caratterizza è la produzione poetica, che si scandisce con i ritmi lenti e pacati delle valli appartate in cui egli amava vivere: così dopo l’esordio del 1944 (il già citato Né bianco né viola), e il poco noto Prima dell’anno nuovo (1952), Orelli volle centellinare le edizioni, per poterle seguire e costruire con cura quasi maniacale. Un decennio dopo (nel 1960) esce quindi presso Scheiwiller Nel cerchio familiare, un altro piccolo libro in tiratura limitata (500 esemplari numerati) che dà conto delle umili realtà contadine e degli stupori privati, costantemente intarsiati però di riferimenti dotti e citazioni colte. In esso è ben evidente l’ispirazione montaliana, specie nel tratteggio di quel fine e curioso “bestiario” orelliano che contempla ramarri e scoiattoli, farfalle e falchi, simboli concreti e viventi della sua concezione del mondo.
Ma già in questi primi testi si preannunciano gli orientamenti "maturi" di un Orelli che tende negli anni a rendere il suo verso sempre più articolato e il suo lessico più intenso e preciso. Così anche il confronto con il mondo esterno, in gioventù tendenzialmente fiducioso e ottimista, si trasforma in una tensione etica non esibita, che non rinuncia mai all’impegno o al giudizio, ma si nutre di serena rassegnazione all’inevitabile. Come commenta Cesare Segre, “la poesia non può chiudere gli occhi e dirci che il mondo in cui viviamo è tanto bello e felice; deve invece dare il suo pur piccolo contributo perché questo mondo diventi, in effetti, bello e felice”.
Nel 1962 Orelli pubblica L'ora del tempo, una selezione antologica delle raccolte poetiche precedenti, che ulteriormente raffina e vaglia il già edito; e lascia poi trascorrere quasi vent’anni prima di tornare a stampare: nel ’77 è la volta di Sinopie, poesie nelle quali, come ha osservato Pier Paolo Pasolini, "tutto è straordinariamente reale". E passano altri dodici anni prima della successiva raccolta, Spiracoli; mentre nel 2001 è infine dato alle stampe Il collo dell'anitra, una raccolta che rilegge le vicende della vita nell’ottica del trasmutare continuo, simile appunto al baluginare dei colori delle piume sul collo di un’anatra. Quest’ultima fatica era stata presentata dallo stesso poeta come un prolungamento delle due raccolte precedenti, Sinopie e Spiracoli, sia per i temi affrontati, sia per la struttura prescelta.
I personaggi che campeggiano in queste raccolte della maturità e della vecchiaia, dopo che già in passato Orelli aveva descritto figure di anziani e di bambini, osservati con dolcezza e complicità, sono ancora una volta dei vecchi, ma adesso traguardati con curiosità e stupore dai bambini stessi, che si interrogano sulle caratteristiche e i movimenti di questi “strani e fragili giganti”. E lo stesso Orelli invecchiato si fa rappresentare dall’uomo da marciapiede, un alter ego che agisce un po’ come il calviniano Palomar, contemplando senza acrimonia il mondo e le sue bizzarrie. Dal punto di vista stilistico le ultime prove presentano una sintassi più complessa e un ulteriore arricchimento lessicale, che spazia nei più vari campi e registri stilistici ed espressivi.
Nell’arco dei suoi novant’anni dunque Orelli ha saputo tenere viva la curiosità tipica dell’infanzia, ricercare risposte alle domande ricorrenti, tentare sempre una spiegazione per vie razionali di ogni evento e situazione, a partire dall’eterna domanda sul senso e la funzione della bellezza poetica. “Contadino istruito” (come amava definirsi lui stesso), Giorgio Orelli ha puntato l’obiettivo della sua poesia sulle tracce misteriose (appunto le Sinopie e gli Spiracoli dei suoi titoli) che la vita incessantemente ci propone. Tracce infantili o semplicemente quotidiane, in cui sembra balenare il senso di una rivelazione nel pieno della quotidianità alpestre e cittadina.
Il metro, le allusioni fonosimboliche, la fitta ipertestualità sonora (fondata su un’attenta auscultazione in primis dei grandi della letteratura italiana, Dante e Petrarca, Foscolo e Leopardi, cui si affiancano Goethe e Hölderlin, Mallarmé e Valéry, Rilke, Lucrezio e molti altri) concorrono a dare la sensazione di una realtà insieme immanente e trascendente, bassa e alta, personale e universale: una realtà sempre folgorata nella parola esatta ed icastica, costantemente riletta con sempre maggior acutezza ed equilibrio fino in tardissima età. Il che non gli ha impedito di ricorrere con frequenza ad una sua ironica forma di ambiguità, a volte persino di stravaganza e di follia, che incornicia l’essenza della sua condizione esistenziale nel paesaggio nebbioso e lacustre della sua terra.
da Né bianco né viola (1944)
Né bianco né viola
Nulla più chiedo. Contemplare il cielo
che trasfigura la mia terra.
Lontano
dagli incantevoli luoghi di nausea
dove l’anima è fredda,
simile a un crisantemo
né bianco né viola.
da Prima dell'anno nuovo (1952)
Tutto il grigio all'altezza dei colombi,
tutto il verde che scorre fino al grigio:
un sole, basterà che il sole
li
riaccenda.
Io sono in una gola
d'ombra. Tu sei lassù.
da Nel cerchio familiare (1960)
Nel cerchio familiare
Una luce funerea, spenta,
raggela le conifere
dalla scorza che dura oltre la morte,
e tutto è fermo in questa conca
scavata con dolcezza dal tempo:
nel cerchio familiare
da cui non ha senso scampare.
Entro un silenzio così conosciuto
i morti sono più vivi dei vivi:
da linde camere odorose di canfora
scendono per le botole in stufe
rivestite di legno, aggiustano i propri ritratti,
tornano nella stalla a rivedere i capi
di pura razza bruna.
Ma,
senza ferri da talpe, senza ombrelli
per impigliarvi rondini;
non cauti, non dimentichi in rincorse,
dietro quale carillon ve ne andate,
ragazzi per i prati intirizziti?
La cote è nel suo corno.
Il pollaio s’appoggia al suo sambuco.
I falangi stanno a lungo intricati
sui muri della chiesa.
La fontana con l’acqua si tiene compagnia.
Ed io, restituito
a un più discreto amore della vita…
da L’ora del tempo (1962)
Frammento della martora
…
A quest’ora la martora chi sa
dove fugge con la sua gola d’arancia.
Tra i lampi forse s’arrampica, sta
col muso aguzzo in giù sul pino e spia,
mentre riscoppia la fucileria.
L’ora esatta
In quest’alba che quasi non odora
di fieno e di letame
i padroni di tutto il Viale
della Stazione sono tre piccioni
partiti insieme da presso l’ardita
bottega ove si vende
l’orologio che segna
l’ora esatta per tutta la vita.
da Sinopie (1977)
Sinopie
Ce n’è uno, si chiama, credo, Marzio,
ogni due o tre anni mi ferma che passo
adagio, in bicicletta, dal marciapiede mi chiede
se Dante era sposato e come si chiamava sua moglie.
“Gemma”, dico, “Gemma Donati.” “Ah sì, sì, Gemma”,
fa lui, con suo sorriso, “grazie, mi scusi.”
Un altro,
più vecchio, che incontro più spesso, son sempre io a salutarlo
per primo, e penso: forse si ricorda
d’avermi aiutato, una notte di pioggia e di vento ch’ero uscito
per medicine, a rimettermi in sesto con suoi ferri (a quell’ora!)
una ruota straziata dall’ombrello.
Un terzo, quasi centenario, sordo, per solito
se appena mi vede grida: “Uheilà, giovinotto”, e dal gesto si capisce
che mi darebbe, se potesse, una pacca paterna sulla spalla,
ma talora si limita a sorridermi, o, ad un tratto, eccitato
esclama:”Ha visto! La camelia è sempre la prima a fiorire”,
o altro, secondo la stagione.
D’altri
pure vorrei parlare, che sono già tutti sinopie
(senza le belle beffe dei peschi dei meli)
traversate da crepe secolari.
L’estate a Prato Leventina
I
La sera
odora d’erba
appena falciata,
e, più vicino, di fieno.
Mia figlia
mi chiama da lontano.
C’è d’improvviso un fresco già di settembre: dava
nuova lena a mio padre tornando dalla caccia
alta, convinto sempre di trovare
Qualche marmotta ancora fuori.
Non salite
sull’alpe, due vacche hanno grasse pasture
e lunghe. Ora che mosche e tafani
le molestano meno, muovono
le orecchie con una dolcezza
che ricorda le mani delle piccole
danzatrici del Siam: giacendo
torpide o stando in piedi inverse, l’una
a ridosso dell’altra senza toccarsi.
La notte
odora di fieno, da una finestra aperta
mi porta parole
di una vecchia (la vedo ora di schiena)
che, sola, prega.
II
Ancora,
nel ricordo,
è come se potessimo, strappando
fin le ultime radici delle erbacce,
allontanare la morte.
Splende
l’arancio della calendula
dentro alla sera che rapida
nasconde la vacca che non ha perso il vitello
e non s’irrita ai balzi dell’elegante cutrettola
tra erba e muso.
Con la
melissa più volte spogliata
aspettiamo la pioggia. Tremano alte le rose
di mia madre che torna dal pollaio
e ha in mano un uovo
che al
primo tuono esplode:
la bufera cancella la collina
su cui presto ritornano gli occhi
lungo un arcobaleno allegro e muto.
da Spiracoli (1989)
A un bambino
Se Pippo amico sei tu che mi leggi
nella nobile terra di Blenio,
prima che Autunno riporti
monna Mimma e chi scrive ai balchi di Semione,
a Navone, e più su, verso i pascoli
dove un giorno nel muschio ai piedi d’un abete
trovai dodici funghi prelibati,
abbiti grazie: coi cibi amicizia
stagiona agli antichi spiracoli
tra i castagni.
Se vieni in Leventina
cercami in quel di Prato
nell’ombra di Bedrina dove ancora
olezza il giglio martagone e la piccola drosera
i suoi rossi tentacoli protende in attesa di preda.
Vipere? Poche, e non mordono
i bambini beati fra i mirtilli.
Ma attento al nibbio: se stai fermo su un sasso
quello ruotando e ruotando tutt’altro che ingordo dell’alto
ti vede da lontano, se n’impipa
di te, della tua compagna d’asilo,
e credendoti morto a un tratto con rostro ed artiglio
può farti molto male.
D’altre
bestiole – gazze, francolini, martore,
faìne… – ti conterò. Fin d’ora sappi che da queste parti,
sul Campolungo, intorno alla metà
di luglio, ma solo per pochi giorni, poche ore al giorno,
puoi catturare la rara farfalla
Erebia, brunastra, fasciata d’arancio.
Dimenticavo: qui si sciama troppo,
nugoli enormi sorvolano gli zigomi
arsi dei prati verso il Motto di Dalpe
e non trovi più niente. Proviamo con qualche regina
del tuo famoso allevamento? Bollate di rosso quest’anno?
Mi raccomando: non imitare nel crescere l’ipomea che sale
con tante gole azzurre sul tuo muro
e lascia che le lucciole s’impiglino
nei tuoi capelli se vuoi far chiaro.
Saluta monna Elvezia, Dino
e il Comandante dei Grotti, tuo nonno,
e stammi “soddisfatto soddisfatto,
quasi contento”. Ciao.
da Il collo dell’anitra (2001)
Scappa scappa il micetto
Scappa scappa il micetto
più chiaro dell’asfalto
e ruzzola in un falbo
strato di foglie, e tu
rincorrendolo giungi
biondo più ch’auro, fino
là dove Calandrino
canta imbiancando la stanza dei morti.
Ma non scappa non scappa
l’anitra (ti sei tolto
per salutarla il guanto)
e riaccesa il collo
di verde malachite
due volte ti fa festa
uncinando se stessa
riflessa a un palmo da te nel laghetto.
La buca delle lettere
Dove mirabilmente
giallo su prima mano
di rosso anche d’autunno
resistono ardite parole:
TI AMO
DI PIÙ
più non gialleggia la buca
delle lettere, a lungo appesa al muro
d’un giardino arruffato:
inghirlandata di glicine e fragili
roselline, in un folto d’ulivi,
palme, sambuchi, natura
naturale ove adesso si leva
un altro giallo, l’arancio dei cachi
che sfiorano la casa
dell’ultracentenario (con un braccio
più d’un frutto potrebbe raggiungere,
ma non si vede mai):
lì, come fosse
nel posto più giusto, più quieto,
sembrava riposarsi
in se stessa l’antica cassetta,
nel suo caldo colore.
Sparita anche la tortora
che dalla cima d’un lampione
ne lamentava la sorte.
“Sarà che non son io,
non son io che ti manco,
donna smagata e matura,
ma posso starti al fianco
perfino con dolcezza,
purché tu non sia dura
come Condoleezza
che quel che vuole ottiene,
magari con doglienza;
sì che t’aspetto, senza
rincorrermi però,
nella speranza di passare insieme
questo tempo che passa, che non ho”.
Ragni
Da quando? se da giorni
e giorni, mesi ormai,
mentre riposo li osservo
e scordo e non senza stupore
riscopro: ombre d’acheni,
più piccoli di mezza formichetta
smarrita nell’acquaio: sempre lì,
lontano quanto basta dalla lampada
che ha bruciato l’incauto calabrone,
diàfani a furia di guardarli, quasi
trascoloranti in rosa:
chi sa mai se lo sanno
d’essere l’uno a una spanna dall’altro
come due nèi su una schiena,
inquilini abusivi del soffitto,
strani compagni della mia vecchiaia:
sempre lì, sempre soli, senza preda,
una volta soltanto
è arrivato dal Nord
un ragno d’altro rango,
quasi robusto, nerastro,
è passato col fare inquisitorio
d’un commissario
tra i due come se fossero
sorvegliati speciali,
senza distrarli, è sparito
in fretta nel gran bianco,
e dunque non li ha visti
sincronici calarsi,
sostare penzolando
nel vuoto dove nemmeno si sognano
di cercare un appiglio
per una tela: intenti alle filiere
troppo presto esaurite e come
saggiando il peso d’essere, il mistero,
già pronti a risalire divorando
filo e distanza:
per fingersi di nuovo
due punti nei dintorni
di me.
Farfalla
Sembra eccessivo l’odore
di gelsomino in cui vo ringioito
da una farfalla
bianchissima che vólita
vantandosi di nulla
e in cima alla salita controvento
sbietta verso un giardino,
si posa su un corimbo
di melo, si fa fiore.
Lombardia
Da Milano a Pavia
ci sono treni che hanno così poca
fretta che, a volte, in primavera, quando
spuntano i primi cespi smerlettati,
prendono la campagna lenti lenti
e dove forse qualche giornatante
s’aspetta, senza scosse
si fermano, il tempo che basta
perché non pochi viaggiatori possano
scendere e, senza allontanarsi troppo,
cogliere cicorietta per purgare
il sangue, guardati da santi
che in cima a campanili alzano un piede
come per volar via.
L’uomo da marciapiede
L’uomo da marciapiede
salendo adagio, poggiato alla bici,
vedeva bene che il glicine basta
un nulla e si spoglia
di tutto il suo blu lilla;
e così andando coglieva le code
delle nuove lucertole
anche nel finto sempreverde.
Non si sarebbe mai
aspettato che un’esile ragazza
vestita di giallo potesse
scendendo in monopattino non solo
spaventarlo ma miagolargli un ciao
freschissimo, rotondo,
esaltato dal piede a mezz’aria;
né tanto meno che dalla soglia
dell’asilo un bambino
gli domandasse: “perché vai
così lento?”.
dalla raccolta inedita L’orlo della vita
L’altalena
“Già che ci siamo”, avevi detto,
“fammi vedere la casa
dove sei nato”.
Da anni, guardando soltanto dal treno,
non ero più sicuro di riconoscerla, bianca
là sulla destra, un po’ sotto la Via delle Genti,
intatta dopo più d’una valanga,
e adesso avrei cercato a lungo invano
se non avessi incontrato una lontana cugina,
contenta di non esitare: “è súbito qui, è vicina,
è l’unica rosa, laggiù, non ci si può sbagliare”.
Troppo inatteso il colore, ma certo era quella
se accanto aveva ancora l’orto, ben recintato
come un tempo, in un angolo vi lavorava in ginocchio
un uomo né vecchio né giovane
che non si accorgeva di me
voltandomi la schiena. “Scusi”, dissi, e gli chiesi
se il proprietario era ancora lo stesso
che prima della guerra l’aveva comprata
da mio padre, o un altro. “Un altro”, disse
senza alzarsi accusando le radici tedesche.
E allora da sopra la strada, da un altro orto, in pendio
con fiori di cui non ricordo il colore,
giunse una donna in età, che, alta, si piegava
venendo verso me come per dire
qualcosa a un vecchio conoscente, e infatti:
“Cerchi la casa dove sei nato?”, disse nel dialetto
molto simile al mio, poi sorrise al ricordo
di quanto giocare con me, con mia sorella
Beatrice sul prato, e il piacere speciale d’innaffiarmi
con la pompa dell’acqua.
Ed ecco da una soglia
dimessa un’altra donna anziana, col grembiule,
venire verso me, dire chiaro il mio nome,
e quasi infervorata alzare un braccio additando
la cambra d’scima: “Mi e ti cu la balanza
i vulévum fò da la lisˇta, i vulévum”.
E prima di distogliere lo sguardo
dalla finestra disse che aveva in mente il mio braccio
squarciato da una punta del cancello
e il sangue, u sanf, che sprizzava ma io non piangevo,
piangeva la mia mamma.
Era d’estate,
uno scherzo mostrare a tutt’e due,
nei pressi dell’ascella, la vasta cicatrice.
Scrittore versatile e poeta raffinato, intellettuale battagliero mai domo, Giacomo Ca' Zorzi trasse lo pseudonimo di Noventa ("per pudore e per orgoglio", come ebbe a scrivere) dal paese in provincia di Venezia dove era nato il 31 marzo 1898. Volontario alla grande guerra a soli diciotto anni, Noventa si trasferì poi a Torino, dove frequentò tra gli altri Piero Gobetti (e il gruppo antifascista di "Rivoluzione liberale"), Mario Soldati, Giacomo Debenedetti e Carlo Levi. Nel capoluogo piemontese si laureò in filosofia del diritto nel 1923, ma in seguito soggiornò lungamente all'estero (in particolare a Parigi) e al rientro in Italia nel 1935 fu anche incarcerato per antifascismo. L'anno dopo a Firenze fondava "La Riforma letteraria", rivista improntata a un'originale sintesi di socialismo, cattolicesimo e liberalismo.
Indiscutibile è stato negli anni trenta il suo influsso su poeti e saggisti come Franco Fortini e Geno Pampaloni e su molti altri intellettuali fiorentini; ma anche in seguito la sua figura morale di maestro isolato e controcorrente (più ancora che la sua proposta stilistica) trovò estimatori, per esempio in poeti del calibro di Andrea Zanzotto e Franco Loi. Per il suo antifascismo dovette subire per anni angherie e soprusi, e fu costretto a vivere sotto falso nome fino al ’45. Nel dopoguerra aderì al Partito Liberale Italiano (dal quale però uscì quasi subito) e poi al Partito Socialista Unitario e ad Unità Popolare, partito con il quale si candidò senza successo alle elezioni del 1953. L’anno dopo si trasferì a Milano, dove morì il 4 luglio 1960.
Nella sua produzione poetica Noventa si rifà ai modelli romantici, soprattutto tedeschi, in radicale opposizione alla cultura novecentesca nel suo complesso e in particolare all'ermetismo di moda negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale (è noto il suo astio verso la “triade” Saba, Ungaretti, Montale). Segno di tale rifiuto è anche la scelta di scrivere in una "lingua veneziana" del tutto personale e originale ("mi me son fato 'na lengua mia/ del venezian, de l'italian" afferma programmaticamente in una poesia), in forte polemica contro la cultura dominante e la sua lingua, che Noventa riteneva paludata, corrosa e logora: è soltanto attraverso il dialetto (egli sostiene) che è possibile esprimere con naturalità e senza retorica sentimenti e passioni, grandi concezioni filosofiche e umili avvenimenti quotidiani. Il suo è in realtà un linguaggio inventato e composito, una lingua "illustre" nella quale a forme veneziane si mescolano espressioni tipiche della zona del Piave e influssi padovani, ma anche forme italiane travasate in un personalissimo dialetto e forestierismi.
Quanto ai temi, convivono nella sua produzione e si integrano a vicenda temi "civili" e temi amorosi, poesia satirica e poesia lirica. Considerevoli sono anche le varianti stilistiche (dalla canzonetta ariosa al canto religioso e solenne, dall'esile "anacreontica" alla favola cavalleresca), e tonali (dall'elegia all'invettiva, dal beffardo sarcasmo all'ironia leggera) poiché, secondo la concezione di Noventa, poeta è colui che sa muoversi in ogni campo, parlando indifferentemente "de Dio,/ e del demonio, e del mondo,/ e del mondo de là".
Maestro di vita ancora prima che di stile, Noventa non si accontentò mai degli equilibri intellettuali vigenti, ma rimase sempre alla ricerca di un proprio e personalissimo equilibrio interiore e in lotta contro ogni forma di pregiudizio e prevenzione: la sua poesia volle essere un forte messaggio morale, rifacentesi ai valori dell'onore e della giustizia, dell’amore e dell’amicizia sincera, senza per questo mai giungere all’autocompiacimento, poiché (come affermò di lui Fortini, che ne fu discepolo e amico) egli riteneva "la sola poesia degna [...] quella che riconosce i suoi limiti".
Nella produzione lirica, ma soprattutto in quella saggistica, Noventa esprime la sua concezione eroica della vita e il suo disprezzo per l'orgoglioso materialismo, per l'individualismo angosciato, per il "male di vivere" della società consumistica del suo tempo. Disse di lui Giovanni Giudici: "L'amore e la passione civile, la nostalgia dei luoghi e dei tempi, la presenza ovunque di una persona e di una sofferenza o gioia umana, l'armonia del canto, la disarmatezza della poesia che nulla ambisce d'essere se non la propria disarmata semplicità, erano i temi e i valori che la lezione di Noventa mi riportò e che la sua stessa persona mi portava".
La sua modestia è visibile anche nella scelta di far circolare a lungo oralmente (o sotto lo pseudonimo di Emilio Sarpi) le sue composizioni, che solo nel 1956 approdarono alla pubblicazione in una raccolta dal titolo modestissimo: Versi e poesie. Dopo le edizioni del 1956 (Milano, edizioni di "Comunità"), ‘60 e ‘75 (Milano, Mondadori, "Lo Specchio"), nel 1986 è stata finalmente pubblicata, sempre con lo stesso titolo, un'edizione complessiva delle sue poesie in dialetto e in italiano (Venezia, Marsilio editori), che recupera anche Versi e poesie di Emilio Sarpi (1963) e diciassette poesie inedite.
Gh'è nei to grandi
Lo splendido testo, che è contemporaneamente poesia "civile" e poesia d'amore, fu composto nel 1931 o 1932 e pubblicato in rivista nel 1937. È dedicato all'amica ebrea Clara Lotte Fuchs, conosciuta in quegli anni in Germania: sottolinea la dedizione e l'abnegazione della donna, "discendente di molte generazioni dolorosamente costrette all'abitudine di non condividere, col mondo in cui vivevano, la pienezza dei diritti" (G. Debenedetti). Questo suscita nel poeta un acuto rimorso, la sensazione di perpetrare a sua volta l'oppressione e la violenza di una "razza padrona": e a rendere più struggente il confronto sta anche il riferimento alle tradizioni popolari venete, richiamando le quali Noventa percepisce con chiarezza la propria realtà di facoltoso proprietario terriero di fronte a una massa immensa di servi legati a una condizione di perenne subordinazione.
Gh'è nei
to grandi - oci de ebrea
come una luse - che me consuma;
no'
ti-ssì bèla - ma nei to oci
mi me vergogno - de
aver vardà.
Par ogni vizio - mio ti-me doni
tuta
la grazia - del to bon cuor,
a le me vogie - tì
ti-rispondi,
come le vogie - mie fusse amor.
Sistu
'na serva - no' altro o pur
xè de una santa - 'sta
devozion?
Mi me credevo - un òmo libero
e sento
nascer - in mi el paron.
Vero xè forse - che in
tuti i santi
gh'è un fià de l'ànema - del
servidor,
ma forse, proprio - par questo, i santi
no' se
pardona - nel mondo amor;
no' i canta, insieme - co' done
e fioi,
intorno ai foghi, - "El pan! El vin!",
Co'
more l'anno - nei me paesi,
se prega un altro - anno al
destin;
secondo el fumo - che va col vento,
scominzia
i vèci - a profetar...
"O scarso, o grando, - ne sia
el racolto,
sperar xè tuto - e laòrar".
Cussì
mi vivo - zòrno par zòrno,
come un alegro -
agricoltor,
vùi destraviarme - vardarme intorno,
mèter
un voto - fra mi e 'l Signor...
Ma nei to grandi - oci de
ebrea
ghe xè una luse - che no' pardona;
tì-ssì
una santa - e nei to oci
no' vùi più creder- che
gò vardà.
(C’è nei tuoi grandi occhi di ebrea come una luce che mi consuma; non sei bella, ma nei tuoi occhi mi vergogno di aver guardato. / Per ogni mio vizio tu mi doni tutta la grazia del tuo buon cuore, alle mie voglie tu rispondi come se le mie voglie fossero vero amore. / Sei tu una serva o questa tua devozione è piuttosto quella di una santa? mi credevo un uomo libero e sento nascere in me il padrone. / È forse vero che in tutti i santi c’è un poco dell’anima del servitore, ma forse proprio per questo i santi non possono concedersi l’amore in questo mondo; / essi non cantano insieme con le spose e i figli, intorno al focolare, “Il pane! il vino!”. Quando finisce l’anno, nei miei paesi si chiede al destino un altro anno; / e secondo la direzione del fumo spinto dal vento i vecchi cominciano a fare previsioni: “Scarso o abbondante che sia il raccolto, tutto sta nello sperare e nel lavorare”: / Così io vivo giorno per giorno come un allegro agricoltore, voglio distrarmi, guardarmi intorno, porre un voto tra me e il Signore… / Ma nei tuoi grandi occhi di ebrea c’è come una luce che non perdona; tu sei una santa e nei tuoi occhi non voglio più credere di aver guardato).
Vittorio, amigo mio
Questa poesia è un omaggio a Vittorio Sereni in occasione della ristampa mondadoriana del 1970 di Versi e poesie, che il poeta luinese aveva procurato in quanto direttore letterario della casa editrice Mondadori. L'omaggio appare in quell’edizione all'ultima pagina, preceduto da una linea di puntini che segnala intenzionalmente l'esistenza di una parte mancante, che Noventa finge di aver espunto nel timore di essersi preso un'eccessiva confidenza col destinatario dei versi.
……………………..
Vittorio, amigo mio,
calma el to cuor.
No’ perderte
par ‘na dona che passa.
I so basi te resta.
E no’ perderte, Vittorio,
par ‘na dona che resta.
I so basi va via.
Lo so, lo so, che intanto el tempo vola
e ch'el ne lassa
veci
su la porta de casa!
Ma no’ importa, Vittorio,
no’ importa, proprio.
El tempo gira
in tondo.
El tornerà a trovarne:
e torneremo,
zoveni,
a far el giro del mondo.
(Vittorio, amico mio, calma il tuo cuore. Non perderti per una donna che se ne va. Ti restano i suoi baci. / E non perderti, Vittorio, per una donna che resta. I suoi baci se ne vanno. / Lo so, lo so che intanto il tempo vola e ci lascia, vecchi, sulla porta di casa! / Ma non importa, Vittorio, non importa proprio. Il tempo gira in tondo. / Tornerà a visitarci, e noi torneremo, giovani, a fare il giro del mondo)
El saòr del pan
Una poesia d’amore per la moglie, delicata e raffinata al tempo stesso; una poesia che parla di oggetti quotidiani e di aspirazioni sublimi, di affetti umani e di amore divino.
El saòr del pan, e la luse del çiel
Gèra inçerti prima de tì.
Ancùo me par una grazia el me pan,
E me continuo, vardando nel çiel.
Ancùo so che Dio no’ pol esser
Lontan da mi:
E ch’el xé dapartuto.
Mi te strenzo: e, cô i me brassi te perde,
Mi te çerco e te trovo partùto.
(Il sapore del pane, e la luce del cielo erano incerti prima di te. Oggi mi sembra una grazia il mio pane, ed è un continuarmi, guardando nel cielo. Oggi so che Dio non può essere lontano da me: è dappertutto. Io ti stringo: e, quando le mie braccia ti perdono, ti cerco e ti trovo dappertutto).
Dove i me versi
Questo è un testo fortemente polemico nei confronti dei poeti odiati da Noventa, quelli che rischiano di non farsi capire dalla gente, mentre lui vuole parlare al cuore di tutti
Dove i me versi me portarìa,
acarezandoli come voialtri,
no’ so fradeli.
Tocadi i limiti del me valor,
forse mi stesso me inganarìa,
crederìa sacra l’arte, e la gloria,
più che l’onor.
O forse alora mi capirìa,
megio d’ancùo, più dentro in mi,
quelo che i versi no’ pol mai dar.
Pur no’ savendo esser un santo,
a testa bassa de fronte ai santi,
par la me ànema mi pregarìa,
no’ più ascoltandome nel mio pregar.
(Dove mi porterebbero i miei versi, accarezzandoli come fate voialtri, non lo so, fratelli. Toccati i limiti del mio valore, forse io stesso mi ingannerei, crederei sacra l’arte e la gloria, più che l’onore. O forse allora capirei meglio di oggi, nella mia interiorità, quello che i versi non possono mai dare. Pur non sapendo essere un santo, a testa bassa di fronte ai santi, io pregherei per la mia anima, non ascoltandomi più nel mio pregare).
Cô no’ ghe sarà più stele nel çiel
E infine un testo “apocalittico”, dove il poeta immagina la fine del mondo, il Giudizio Universale con tratti degni della grande poesia del Belli, ma solo per concludere con una certezza: Dio nel suo immenso amore non potrà che perdonare tutti, solo allontanando un tantino da sé i malvagi e tenendo più vicini coloro che hanno saputo sopportare con docilità la pena di vivere.
Cô no’ ghe sarà più stele nel çiel,
E anca el sol sparirà
Ne la luse de Dio,
Quando i morti dal mar tornarà,
E da l’inferno e dal çiel,
Quando i angeli ne ciamarà
Al Giudizio de Dio,
E nissun,
Né i re de la tera e i so servidori,
Çercarà più de sconderse,
Quando el tempo se misurarà
Col tempo dei morti,
Quando Dio lezarà nel gran libro,
E nei nostri libreti,
Quel, che par esser fati a so imagine,
E prisonieri del tempo,
Se gà vùo da penar,
Una vose ne arivarà
Dal coro dei angeli:
«Lassé che i boni me vegna viçin,
Cussì viçin, come i gera vivendo.
E i cativi... un fià più in là.»
Dio, tuti, el ne graziarà.
(Quando non ci saranno più stelle nel cielo, e anche il sole sparirà nella luce di Dio, quando i morti dal mare torneranno, e dall’inferno e dal cielo, quando gli angeli ci chiameranno al Giudizio di Dio, e nessuno, nemmeno i re della terra e i loro servitori, cercherà più di nascondersi, quando il tempo si misurerà col tempo dei morti, quando Dio leggerà nel gran libro e nei nostri libricini quello che per esser fatti a sua immagine, e prigionieri del tempo, si è avuto da soffrire, una voce ci giungerà dal coro degli angeli: «Lasciate che i buoni mi vengano vicino, così vicino, come lo erano vivendo. E i cattivi... un poco più in là.» E Dio ci perdonerà tutti quanti).
Figlio di un oste, Biagio Marin nacque a Grado nel 1891: presto orfano di madre, studiò a Gorizia e Pisino d'Istria in scuole di lingua tedesca, prima di giungere ventenne a Firenze, dove ebbe modo di ritrovarsi con i giuliani allora operanti nell'ambito della "Voce", in particolare Virgilio Giotti e Scipio Slataper (veniva scherzosamente chiamato "l'ombra di Scipio"). Iscrittosi nel 1912 alla Facoltà di Filosofia a Vienna, tornò in Italia nel 1917 per combattere volontario contro l'Austria: nel dopoguerra si laureò a Roma con Giovanni Gentile. Dopo aver insegnato a Gorizia e Trieste, fu ispettore scolastico, impiegato e bibliotecario. Nel 1943 perse in guerra l'amatissimo figlio Falco; ritiratosi nell'isola natale, vi rimase fino alla morte, sopraggiunta nel 1985.
La sua attività poetica, iniziata nei primi anni dieci, si è prolungata per oltre settant'anni, da Fiuri de tapo (Fiori di barena, [cioè di un isolotto lagunare], Gorizia, Tip.Sociale, 1912) a La vose de la sera (La voce della sera, Milano, Garzanti, 1985). Già nella prima raccolta è possibile rintracciare tutti i temi che torneranno nelle successive: la contemplazione delle aggraziate figure femminili che animano calli e campielli dell'amata Grado, la ricerca di una vita serena e spensierata, il mito stesso dell' "insularità" come condizione umana e poetica di perfetta consonanza con la natura. Anche il titolo botanico scelto per questa prima raccolta rivela la scelta mariniana di racchiudere la sua poesia in un ristretto giro di oggetti modesti e immutabili, rimandando in ciò al più famoso dei titoli pascoliani, Myricae, di cui Fiuri de tapo può considerarsi in un certo senso una sinonimia.
Tra le numerosissime raccolte successive, si possono ricordare Cansone picole (Canzoni piccole, Udine, La Panarie, 1927), El mar de l'eterno (Il mare dell'eterno, Milano, Scheiwiller, 1967) e La vita xè fiama (La vita è fiamma, Torino, Einaudi, 1970).
È stato spesso rilevato che Marin ha affinato e prosciugato nel tempo la sua poesia, sostituendo all'originario eccesso espressivo un più pacato equilibrio: perciò le prove migliori di questo poeta longevo, la cui carriera attraversa quasi l'intero secolo, vanno ricercate nella produzione senile degli anni settanta e ottanta.
Partito, come molti dialettali, dall'imitazione pascoliana, Marin recupera in seguito una tradizione "marginale" rispetto ai modelli della poesia vernacola, quella del quasi conterraneo Saba e le due grandi linee della poesia europea, tedesca (Goethe, Heine, Rilke) e spagnola (da Machado a Jimenez). A queste scelte è legata la creazione di un dialetto gradese arcaico, quasi reinventato, nel quale egli riversa ritmi, timbri e melodie personalissimi. In questo Marin è riaccostabile ai grandi dialettali novecenteschi che si servono di lingue rare provenienti da aree dialettofone ridottissime, come Pasolini, Guerra e Pierro. La lingua creata da Marin è fatta di costante fusione di dialettalità e lingua colta, di arcaismi e neologismi: vera "lingua della poesia" (secondo la nota definizione giottiana), essa rivela un ritmo estremamente melodico e cantabile, che risente anche dell'insegnamento della villotta friulana.
La simbologia ricorrente è quella della ricerca del senso della vita, cui danno corpo gli oggetti e gli animali dell'amata Grado: conchiglie, gabbiani, rondini, nuvole e bastimenti, ritratti con pochi essenziali colori, come l'azzurro, il bianco e il violetto.
La forte continuità e la ripetitività che connotano la produzione poetica di Biagio Marin (egli stesso afferma in una poesia del 1982 "El canto mio/ l'ha poche note,/ [...] quatro soltanto") non permettono di identificare tappe precise, anche se indubbiamente dalle prime alle ultime prove si assiste a un affinamento di toni e a una maggior pacatezza espressiva.
Le migliaia di componimenti in gradese compongono in realtà un ciclo unitario e ininterrotto, secondo quella fedeltà a se stesso tipica di Marin.
L'opera intera è confluita in questo volume, I canti de l'isola, che dalla prima edizione udinese del 1951 si è arricchito via via fino alle due ultime, stampate a Trieste nel 1970 e 1981.
Quanto più moro |
Quanto più muoio nel mondo
intermittente e in tutta la persona |
E 'ndèveno cussì le vele al vento E 'ndéveno
cussì le vele al vento Mámole
e mas-ci missi zo a pagiol E l'aqua
bronboleva drío 'l timon da Fiuri de tapo", 1912 |
E andavano così le vele al vento E andavano
così, le vele al vento Fanciulle e
ragazzi seduti giù a pagliolo L’acqua ribolliva dietro il
timone |
Paese mio Paese
mio, Per tu
'sti canti a siò che i te 'ncorona da Cansone picole, 1927 |
Paese mio Paese
mio, Per te questi canti, perché
ti incoronino |
Una canson de fémena Una canson
de fémena se stende El vespro
setenbrin el gera casto: Inprovisa
quel'onda l'ha somerso da Minudagia, 1951 |
Una canzone di donna Una canzone
di donna si stende Il vespro
settembrino era casto: Improvvisa quell’onda ha
sommerso |
Antifona Stele
filanti semo da Tristessa de la sera, 1957 |
Antifona Stelle filanti siamo |
Preghiera xe consentimento Preghiera
xe consentimento Preghiera
xe tremor El caminâ
lisiero da El fogo de ponente, 1959 |
Preghiera è consentimento Preghiera è
consentimento Preghiera è
tremore Il camminare leggero |
Scriveva Izet Sarajlić, poeta della Bosnia Erzegovina morto a Sarajevo il 2 maggio 2002: “Solo adesso che la mia testa si è coperta di brina, / che ho paura che il suono della campana possa essere per me, / solo adesso che si allontanano i violini, / so chi è il poeta. Poeta è quello, / quello che sempre ricomincia daccapo”.
Di Chiara Cremonesi (1936-2014) si potrebbe dire che tutta la sua vita (oltre che la sua poesia) è stato un “ricominciare da capo”: dopo la forzata rinuncia alle scuole regolari, è servito ricominciare a studiare per ottenere, con l’aiuto e l’incoraggiamento del nonno, la licenza media; dopo una giovinezza quasi da reclusa (ancora, in quegli anni, l’handicap fisico non era benvisto dalla società), è servito ricominciare a lottare per ottenere un posto di lavoro; dopo il pensionamento è stato bello riscoprire la vena poetica e ricominciare a tessere versi, fino alla pubblicazione del primo volume, Ad ali aperte (2000), splendido libro d’esordio che metteva a nudo l’anima esacerbata e in ricerca della non certo giovane poetessa.
Ma anche in poesia per lei si è trattato di “ricominciare” sempre daccapo, di capire l’importanza di allontanarsi da certa retoricità e descrittività eccessiva, per prosciugare e affinare l’espressione, per giungere a pronunciare sentenze perentorie in uno stile sempre più scarno e acuminato. Ecco quindi nel 2006 la prova di maturità, la raccolta Lo zolfo dei giorni, dove l’aspetto ritmico - metrico e quello retorico risultano accuratamente ricercati, ma per nulla sovrabbondanti o superflui, mentre l’arte si satura di parole brucianti, disincantate, spietate nel denunciare le contraddizioni insopportabili dell’esistenza, i drammi nascosti dell’essere umano.
Attraverso il tragitto dentro questo inferno quotidiano (fisico e psicologico) descritto con feroce lucidità, Chiara Cremonesi non ha dunque risparmiato né al lettore né a se stessa il confronto con la realtà, anche la più squallida e opprimente: ma attraverso la poesia ha voluto sempre cogliere la bellezza del mondo e diffondere intorno a sé i valori profondi e immutabili che val la pena ricercare e coltivare. Nonostante le sofferenze che avevano fin da subito solcato la sua esistenza, infatti, ella ha voluto esprimere in poesia anzitutto l’amore per la vita, l’attenzione ai sentimenti veri e profondi, i ricordi che la tenevano legata alle figure più importanti della sua vita: la madre premurosa e sensibile, il nonno affettuoso e lungimirante, gli amici.
E in poesia ha sempre cercato di “ricominciare”, spinta da quella insoddisfazione che ci dà la misura del vero poeta, il quale vorrebbe folgorare il lettore, ma spesso si rende conto di non essere stato in grado di esprimersi con vera efficacia: e dunque ricomincia a correggere e a limare, non rinuncia mai a seguire le vie della poesia, continua a sfiancarsi quotidianamente per illuminare con il verso la vita propria e l’altrui.
Si propongono qui alcuni testi inediti degli ultimi quindici anni di produzione.
Lettura
Amico mio poeta, non temere:
non sono le parole nere
– chiuse
nelle impilate pagine di un libro –
a rispecchiare, fragile, me stessa.
È dentro te che leggo la bellezza
del mondo, inabissata nella mente;
ed il ricordo d'ogni tuo pensiero
si fa memoria dei pensieri miei.
Non sono sola
– non sono più sola –
se tu mi dici d'aver pianto e riso
e che il vivere ti è costato tanto.
2000
Liberty
L’ebbrezza leggera
di un fiore
di ferro
sbocciato - forgiato –
da mani bruciate da fiamma
inesausta di bellezza.
Libellule tese nel volo
rapite da tenui volute
di ferro.
E poi volti fini,
nascenti da miti, lontani
in muto stornello, narranti
le fiabe cullate nei sogni,
nel marmo.
Balconi che occultano visi di donna
e sbuffi di gonna
fra adorne colonne
di marmo.
2003
Fumavano i camini
sui tetti nevicati
e il ghiaccio della notte
scolpiva stalattiti alle grondaie.
Da fessure di tegole sconnesse
il passero volava ai davanzali
a becchettare briciole di pane.
Tra poveri è assai facile l’intesa.
2006
Le fanciulle di maggio
smuovono l’aria in abiti leggeri;
con gesti brevi sbrigliano i capelli
in onde sinuose al vento lieve,
odorano di rose appena in boccio.
Il tempo le percorre in trasparenza,
non hanno scorta di passato, ma
con rosei volti guardano al domani.
2006
Voce
La voce si diffonde nella sala,
legge i miei versi.
Si esaurirà indulgente nell’applauso
o busserà, leggera, alla tua fronte
chiedendo di restarti nella mente?
La sentiresti il giorno dell’angoscia
compagna della strada che percorri,
dove tra i sassi rotolanti
sotto il malfermo passo
pungono acute spine.
2007
L’insondabile
È stato forse tutto vero
quel che hanno detto su di me
La poesia, che fluisce netta,
è fiamma d’oro che riscalda
o pianto asciutto che raggela
Resta insondabile la fonte
che mi congiunge all’infinito
2007
Squallida sera
accecata di luce;
è tutta verticale, a fil di piombo;
crepe sui muri imbrattati di sfregi
e celle di vetrine taciturne,
anche l’ombra di me si è cancellata.
Ho un brivido di febbre solitaria,
e l’anima mi sfugge, impaurita.
2008
Senza tempo
Se varco il foglio bianco che ho davanti,
sconfino spazio e tempo
e il dolore che scrivo è senza data,
come la gioia,
liberi di narrarsi ogni momento.
Il nebuloso velo del futuro
lo tengo, con due dita, largo al vento
che abbia, vivi, i colori del mondo.
Quando lo lascerò
certo un poeta
ne coglierà le tinte sopra il mare.
2008
Quanto pesa sui tetti il cielo grigio
e la penombra afosa nella via.
La mente bianca
non sa più pensare
e vaga, intorpidita
in una sfera vuota.
Avvinta da un crepuscolo di sonno
invento i sogni che non ho sognato.
2009
Dopo…
Non voglio altri cieli ed altra terra,
tornerò qui con la mia gente;
la terra sarà estesa all’infinito
e le radici fisse nell’eterno.
Il primo vento, espirato dal mare,
dissolverà le armi in sabbia fina.
e l’abominio
di sangue sulle strade,
dileguerà in un fulmine turchino.
Andrò, senza le strida dei motori,
gioiosa di bellezza, attorno al globo:
poi Lui mi attirerà nella Sua luce
e l’universo non avrà misteri.
2009
Lungo l’Adda
Mi rapisce l’azzurro
e l’oro che riverbera la terra;
godo la brezza,
e il lieve dondolio
delle più alte foglie.
L’acqua del fiume
scivola increspata,
senza memoria degli anfratti neri:
vorrei seguirla sul fragrante ciglio
per arrivare dove il mare avvampa
e già le stelle
trafilano la notte.
2009
Per il pianto dei vivi
nel consueto bianco della bara
giacevi scarna
erosa dal tuo male:
e mai la morte vidi tanto nera.
Meglio sarebbe stato ricopriti
senza mostrare il tuo patire
al fugace cordoglio delle genti.
La fine ha fine dentro l’infinito.
Tu che sconfini gli orizzonti e vai
con la suadente luna oltre le stelle,
che sulla terra adduci la bellezza,
narrami l’oltre e l’oltre ancora
ch’io sia me stessa e non un vuoto grigio.
Leggere
Il lume tenue
dissolve le parole nere
in essenza profonda,
sorella al mio sentire
è melodia di sottili arpeggi,
di squilli alti più del sole
di cieco rollare di tamburi
ruminanti il passato.
Lo stanco vivere del giorno
si allevia in fantasmi di sogni,
brividi alati di farfalle
che precorrono il sonno.
2010
Gelo
Ed è già vespro.
Fra poco la campana
chiuderà il giorno che fu tanto denso
di sgocciolata neve e pioggia fina.
Immoti e scabri,
gli alberi neri trafiggono l’aria
e il passero li sfiora
con gli ultimi suoi voli
Nell’umido freddo che respiro
ingigantisce la paura
del mio futuro che declina
2010
Ho attraversato col passo del tempo
strade di sole, di pioggia, di vento,
rivoli dal nevaio fino al mare,
senza trovare il punto
dove si placa l’ansia.
Le spine sanguinanti del passato,
l’ignoto in cui si affoga l’avvenire,
scavano il vuoto del presente.
2011
Dentro il caustico pozzo dell’oblio
ho stornato da me la tua sembianza.
Le parole consunte che ripeti
sfumano in fiato al gelo del tuo nome.
Solo nel sonno greve mi ritorni,
e a spalla a spalla m’intrecci la mano.
Un ranuncolo giallo ed una foglia
spaccano la saldezza dell’asfalto.
2012
Nato nel 1949 a Milano, dove tuttora risiede, Roberto Taioli ha studiato con Enzo Paci, laureandosi in Filosofia su Strutturalismo e fenomenologia nella filosofia francese e in Lettere con una tesi sulla Poesia religiosa di Giacomo Zanella. Cultore di Estetica all’Università Cattolica, è membro della SIE (Società italiana di estetica); ha insegnato Lettere a Lodi al “Maffeo Vegio” prima del trasferimento a Milano, dove ha concluso la carriera di docente, per poi insegnare Filosofia teoretica e Filosofia morale all’Unitrè di Milano.
Ha pubblicato saggi su numerosi filosofi, tra i quali Maurice Merleau-Ponty, Enzo Paci, Ernesto Balducci, Giovanni Vannucci, Vladimir Jankélévitch, Edith Stein, Edmund Husserl, Maurice Bellet, Raimon Panikkar, Simone Weil, Martin Buber, Hermann Broch, Gunther Anders. Si è occupato a lungo di Cristina Campo, cui ha dedicato anche il recente volume Appassionate distanze. Letture di Cristina Campo (con Monica Farnetti e Filippo Secchieri, 2006). Altri scrittori da lui particolarmente amati sono Giampiero Neri (Memoria, mimetismo e informazione, 2000) e Luciano Erba (Il cerchio aperto. Conversazione con il poeta Luciano Erba, 2004), mentre un’ampia ricerca sulla poesia in val d’Ayas si trova in La pietra e il sogno. Presenze letterarie in val d’Ayas tra Ottocento e Novecento (Aosta, 2004); l’ultimo suo intervento critico riguarda Il Picatrix. Un antico trattato di magia (Viareggio, 2012).
Dopo aver partecipato all’elaborazione dell’Enciclopedia della filosofia e delle scienze umane (De Agostini), Taioli negli ultimi tempi ha approfondito le problematiche relative alla preghiera esicastica nella tradizione cristiana ortodossa (la cosiddetta preghiera di Gesù, che consiste nella ripetizione incessante, secondo il ritmo del respiro, della formula "Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore"). Collabora regolarmente alle riviste “Sapienza - Rivista di Filosofia e di Teologia”, “Rivista Teologica” di Lugano, “Monte Senario”, “Fronesis”, nonché a siti on line tra i quali “Biblioteca husserliana”, “Diotima”, “Bollettino telematico di filosofia politica” dell’Università di Pisa, “La presenza di Èrato”.
Il suo esordio poetico si ha nel 1996 con Segnavia, un’esile ma densa raccolta che sembra giocare di rimandi e contrasti con gli Ossi montaliani, di cui riecheggia lessico e stilemi, ma da cui si allontana per l’acuta, straniante ironia che la pervade. Vi si ritrova un discorso chiaramente filosofico, che attinge a piene mani ai più svariati filoni di pensiero: dalla filosofia antica al dettato biblico, dalle riflessioni lucreziane al carma induistico, troviamo qui una fitta trama di dotti riferimenti, che mai però offusca la levità del dettato. Si veda in proposito questo testo, dove il riferimento al clinamen rinvia ovviamente alle teorie di Epicuro e al Lucrezio del De rerum natura:
Non dire lo sconcerto
Non dire lo sconcerto
nell’ora del crepuscolo:
la nuova primavera assale
di nebbie e squarci di sole
il tuo cammino sull’orlo
del tuo limite. Forse
è questo clinamen
questa devianza delle cose
il solco impreciso
che ti fa stare quaggiù;
o forse il tuo peso
è questo lento radicarsi
del tempo, questa fatica
grigia e impervia che dura
come l’ultima salita.
Cos’altro t’attende.
La curva è cieca
la svolta senza margine
e il tuo nome è scheggia
breve come l’aforisma.
Accanto a quelli montaliani, influssi importanti per Taioli sono stati quelli della cosiddetta “linea lombarda”, da Luciano Erba ad Antonia Pozzi fino a Vittorio Sereni, con il quale Taioli aveva stabilito un rapporto molto cordiale, come si può notare in questo testo, tratto sempre dalla prima raccolta:
Su una vecchia lettera di Vittorio Sereni a me
Nel finale si
congeda
breve la tua lettera
scritta a
sghimbescio
ritrovata gialla
nella pagina tarlata.
Non
più ricordavo
che l’avevi mandata.
In nuvole
di polvere
passarono quegli anni
senza età
d’un
fiato corsi.
Quel discorso allora
di pigrizia quotidiana
di
stanchezza a scrivere
per chi appartiene
alla - dicevi -
tribù
poetante mi scavava
nel solco
d’inchiostro
oggi un poco mi graffia.
Nel ventennio
che separa
(forse anche di più)
c’è
stata tra l’altro
la tua morte
e tanta altra
vita
consumata - Vittorio -
nell’aurora giovanile
in
quella scossa a cercarti
al di là della carta.
A me
allora
tu esitante forse eri
maestro nascosto
fuggito
in quel bianco
posto di vacanza.
E adesso che rileggo
il
tuo rapporto,
da laggiù non so se sai
barlume di
me
che ritrovo il tuo
esile graffio di penna
il tuo
dubbioso porto.
A cavallo del nuovo millennio la poesia di Taioli trova nuovi spunti e tematiche in un paesaggio alpestre rievocato con dolce amara nostalgia, quello della Val d’Ayas e dell’Alpe Cortot, una montagna aspra e “petrosa”, addolcita però dal fluire limpido delle acque. È questo per il poeta (che vi ritorna dall’infanzia) una sorta di “luogo eracliteo di compresenza di opposti - luce/buio, aperto/chiuso, immobile/fluido, effimero/eterno, stabile/deperibile - che la natura metafisica, prima ancora che empirica, del luogo mostra e dispiega nell’innumere e talora inappariscente arco delle manifestazioni” (Luisa Bonesio). Oggi che questi luoghi si sgretolano nell’abbandono e nel disinteresse generale, la rievocazione di Taioli fa rivivere con nitidezza abbagliante la natura atemporale e quasi metafisica dei ruderi, delle pietre, degli edifici superstiti. Ne nasce una contemplazione che trasfigura la natura in “tempio di pietre e d’erba”, “una chiesa a cielo aperto / mai chiusa e sempre orante”, dove la fatica del salire si trasforma in orazione laica, nell’adorazione rapita di un “Dio nascosto / che scende nelle acque biancastre / si cala nei meandri dove i boschi / fanno fitto il mistero del vivere e del morire”.
La prima delle tre raccolte dedicate a questi luoghi particolarmente amati è Ciclo di Ayas. Poesie in montagna (2000), dove in versi scabri e concentrati l’Alpe Cortot viene scandagliata nelle sue molteplici e contraddittorie fattezze: la sua silenziosa solitudine e il sonoro fluire delle sue acque, il ristagno dei meandri e lo specchio mobile dei laghi d’altura, l’Alpe dormiente e il fremito delle ombre, l’atemporalità del luogo e l’effimera presenza umana, il tempo e l’eternità.
La seconda raccolta del trittico è Altobosco. Taccuino poetico di monti e di altro (2001), dedicata alla memoria della poetessa Grazia Maggi. Un "taccuino" che ci presenta ancora la Val d'Ayas nei suoi variegati aspetti: i lati naturali e sociali della valle, la sua gente, il suo passato, i suoi luoghi “osservati con lo sguardo meravigliato del bambino di allora, o ancora immuni dalle deturpazioni provocate da mani inconsulte, come immutati nel tempo, velati solamente da una patina di nostalgia, per un paradiso, o per la fanciullezza, perduti” (Saverio Favre).
Il trittico si completa con Acque a Cortot (2003), dove Cortot è il canale aperto nella Val d’Ayas nel corso del XIII secolo per irrigare le terre circostanti. Intorno a questo luogo, che diventa nel libro un topos simbolico, l'autore vede riflesso l'intero universo alpino, che lo interpella sulle questioni fondamentali dell’esistenza: il destino, la vita e la morte, la religiosità. Il testo è efficacemente arricchito dalle fotografie scattate dall'autore nel corso della prolungata frequentazione di questa località. Figura centrale del volume è quella paterna, che la poesia vuole preservare consegnandola all'immutabile ricordo del figlio: se ne vedano due esempi.
Biciclette volavano
Biciclette
volavano
(quando ognuno si rintana)
mangiavano la
strada polverosa
fino al paese di sotto.
Calavano come
falchi
sospinte dal vento
una davanti
all’altra
cavalcata da un ragazzo
a mordere la
strada.
Si tornava poi senza ansia
davanti
all’albergo
ancora muto
dopo pranzo
quando la
gente dormiva.
E tu avevi saltato il sonno quel
giorno
volando con me tra terra e cielo.
L’altro testo costituisce l’ultima parte di una più ampia composizione intitolata Nostos (poemetto del ritorno):
Padre,
perché mi hai abbandonato?
perché mi hai lasciato
solo in questo
prato estremo ove l’erba si fa dura
e
la neve dirada a chiazze tra le pietre.
Perché questo
fango, ora, questa lunga solitaria
vena di terra che conduce al
ponte dei Morti?
Padre, perché mi hai abbandonato?
Ti
cerco nella vuota radura
ove apparisti un poco prima del
torrente
fra il boschetto ceduo e il masso gettato
dalla
piena. In queste lacrime lasciasti
il mondo, per me ora, per noi
che calchiamo
il fondo senza fine. E quale speranza
se non
la cerchia dei monti, il guizzo del vento
e il fuggire dello
stormo verso la gola?
Perché, perché mi hai
abbandonato?
Non so domandarti altro
dell’eterno
colloquio.
Colligite
fragmenta (2005) è anch’esso in buona misura
consacrato alla bella ed amata Val d'Ayas e dedicato “a Don
Michele Do, amante dell'alto", straordinaria figura di
sacerdote, amico di don Primo Mazzolari, di David Maria Turoldo, di
Ernesto Balducci. Il libro è organizzato in due sezioni: una
prima, divisa in quattordici Stazioni, che è una sorta
di via crucis, di pellegrinaggio doloroso nei luoghi amati,
dove la presenza divina è costante e interpellante (“Apriti
/ all’ascendenza che scaglia / il sentiero oltre la prima
pietraia / ove umano e transumano / si fondono nell’acqua
viva”); una seconda parte, dal titolo SPARSE, ma non perse,
dove il paesaggio (reale o metafisico) si fa occasione di ricordi e
rievocazioni, di amarezza e di sollievo, di domande senza risposta,
di preghiere quasi mute.
V Stazione
Challant
Challant si piega
nella sua ferita.
Urge andare all’oltre
ove il monte si spezza in altro monte
e un paese insegue l’altro
sul poco fiato della strada.
Vennero e scompigliarono
poi sedarono rivolte
ed eressero mura a ridosso
dei colli, fecero battaglie e paci,
amori e preci
al dio dei venti
al dio dei laghi
alla Madonna delle nevi
e poi restano capitelli
come esili paracarri
sul filo delle acque
Saliamo, scendiamo
Saliamo, scendiamo.
Non ci fermiamo quasi mai
a guardare la scala i gradini
che facciamo. Siamo sepolti
di polvere, pesanti come sacchi
e bagagli non svuotati.
Andiamo poi dove
nessuna meta ci raggiunge,
né il fuoco arde e l’acqua scorre
leggera dalla fonte.
In una rete di falsi idoli
consumiamo pranzo e cena
dormiamo la notte
L’ultima plaquette di Roberto Taioli, Natura naturans, è uscita nel 2006, prefata da Roberta Cappellini. Anch’essa, come la precedente, è divisa in due sezioni, intitolate rispettivamente Dialoghi e Salmi ed Excerpta: la prima contiene quattro poemetti (Dialogo di Kresosine e Coros, Dialogo della comprensione o della nascita, Dialogo di Natura Naturans e Natura Naturata, Salmo dell'acqua); la seconda raccoglie composizioni più brevi, nelle quali la natura alpina tende a trasfigurarsi e sublimarsi in ascesi spirituale.
Si nota in quest’ultimo lavoro come il poeta sia progressivamente approdato a un pensiero mistico intrinsecamente imparentato con la filosofia di Simone Weil, di Edith Stein, di Cristina Campo. Il duplice registro espressivo che è dato rintracciarvi (quello più intimo nella sezione degli excerpta, quello più solenne nei poemetti) vede il poeta approdare a una poesia di respiro cosmico, che non può prescindere da due eventi cruciali della sua vita: la morte del padre e la prolungata frequentazione di don Michele Do, il sacerdote particolarmente stimato da Taioli.
La percezione di aver trascurato in vita il dialogo con il padre porta il poeta a un dialogo sempre più intimo con il genitore e a un nuovo incontro in absentia, che conduce il figlio a una profonda pace interiore. Si veda in proposito questo delicato testo:
Non vidi il padre
Non vidi il
padre
ma il padre nel figlio
lui che lo lasciò
lo
infranse nella morte
e l’altro lo raccolse
come pelle
e pane
e me lo svelò
ora che non c’è
più
più chiaro nelle tenebre.
Lo dissepolse
vivendo
per me
lo rese invisibile
e io lo riconobbi
lo
rincorsi lo cercai
ma fuggì evaporò
svanì
nei folti silenzi
mi parlò senza parole.
Tra i vari testi dedicati a don Michele Do possiamo leggere:
Agape
Sia sostanza che ci sostiene
nel meriggio disperso
ove il
pulviscolo di neve
annega la vista.
Oh quali ombre a
sera
poi che discendi al lucernario
all’olio che
brucia senza consumarsi
nudo a spegnersi e che si riprende
d’un
colpo al fiato della parola.
Ecce homo:
tu indichi
l’apparso fatto carne per noi
e ci sazi ad occhi
chiusi
senza alzarti dallo scranno;
desti all’uranio
il cielo ormai opaco
della valle che qui più
larga
s’abbraccia a noi in un solo corpo
di fame.
E
per finire, alcuni testi inediti degli ultimi anni.
Impuro come sono
Impuro come sono
lavami dell’acqua più acqua
e che io torni semplice
elemento del tuo creato
degno di restarvi
e di cercarti o solo di
pensarti Signore
Al compianto dei morti
la terra sa l’odore dei fiori spenti
prima d’esser cambiati.
Ma sono fiori e la terra,
non i morti che hanno il respiro
dei vivi . Esseri di mezzo
partecipiamo di qua e di là
anche al compianto di noi stessi,
della parte nostra che è morta in loro
L’eterno ululare
L’eterno ululare di un cane a sera
è come le lancette dell’orologio
che non sbagliano il battito
risuona ripetuto tra le mura
ma non si sa donde provenga
risalga le mura delle case
o stagni nel viottolo nascosto
in qualche anfratto di via.
Il suo padrone ignoto
lo lascia cantare fino a tardi
come musica di vespro
non rumore
Casa a mare
Da tempo a tempo
come donne senza tempo
Il volto ti rappresenta
avanti al mare tre le foglie.
La stessa casa
un’altra donna seduta
tra scalini d’ardesia
Eri tu sei tu
in un rimbalzo
ti vedo così
accovacciata
tra il vento fresco
che gonfia le gonne.
Ora che nulla più ti serve di quaggiù
lascia che sia io a custodire
Il lungo cappotto verde
che ti segnò la vita
degli ultimi anni
e che riposa afflosciato
per sempre là dove lo lasciasti.
Libera di pesi
senza più freddo e affanni
siamo noi che chiniamo la testa
sulla terra
Così perso naturalmente mai
la sera fioriva di gelo
e quelle luci di tram in lontananza
bucare a sera il buio della via.
L’umanità non serve
per raccogliere i cascami della vita.
Il tram rigira scuro nel binario morto
vuoto alla fermata.
Quante volte salisti
o discendesti in fretta per tornare
a casa a notte fonda
ove nascondere il domani
che verrà o non verrà
nascosto tra le foglie del viale.
Nato nel 1906 nella villa avita di S. Pellegrino, presso Belluno, Buzzati proviene da una famiglia dell'alta borghesia veneta: la madre della nobile casata dei Badoer, il padre giurista, docente a Pavia e nella neonata Università “Bocconi”. Anche Dino Buzzati è convinto dai genitori a laurearsi in Legge (a Milano nel 1928), ma nello stesso anno entra al "Corriere della Sera", prima come redattore, poi come inviato speciale e critico d'arte, restandovi fino alla morte, sopraggiunta nel 1972.
Il suo esordio letterario si ha nel 1933 con il racconto lungo Bàrnabo delle montagne, caratterizzato da atmosfere misteriose e complesse: l'apparente semplicità della vicenda è infatti messa in crisi e insidiata da segreti inconoscibili, che portano a un epilogo tragicamente ambiguo; due anni dopo esce Il segreto del Bosco Vecchio, sorta di fiaba metafisica in cui accanto a personaggi umani troviamo animali parlanti e personificazioni delle forze della natura. Da entrambe le opere negli anni novanta vennero poi tratti film, rispettivamente ad opera di Mario Brenta e di Ermanno Olmi.
Ma il vero successo di pubblico e di critica si ha nel 1940 con la pubblicazione del romanzo Il deserto dei Tartari, il cui titolo originale doveva essere La fortezza, ma che fu cambiato su suggerimento di Leo Longanesi, che lo pubblicò da Rizzoli (anche da quest’opera venne tratto un film nel 1976 ad opera di Valerio Zurlini, con Vittorio Gassman, Philippe Noiret, Max Von Sydow e Giuliano Gemma). Le cupe atmosfere che circondano l’isolata fortezza ai confini orientali d’Europa, facendone una sorta di simbolica prigione, contribuiscono a dare al romanzo un tono allucinato e carico di tensione, consono al clima tetro di quegli anni, tra fascismo e guerra: ma l'autore trasferisce la vicenda in una lontananza metafisica, fino a renderla metafora della vita e delle sue inutili aspirazioni. D’altronde i temi ricorrenti nella produzione di Buzzati sono sempre stati l'angosciosa ricerca di un senso della vita, e l'irrazionale ossequio ad una regola inconoscibile e tirannica; e luoghi metafisici sono quasi costantemente il deserto e la montagna, immagini-simbolo della solitudine e dell'impossibilità di sfuggire al proprio destino.
Nel 1946 Buzzati cambia editore passando a Mondadori, col quale pubblica nel 1958 la raccolta Sessanta racconti, vincitrice l’anno stesso del Premio Strega. Nel 1960 è la volta de Il grande ritratto, esperimento di romanzo fantascientifico, importante perché segna l'inizio della ricerca di un nuovo tema, quello della femminilità, fino a quel momento marginale nella produzione buzzatiana. A tale tema si rifà anche Un amore (1963), romanzo vagamente autobiografico nel quale il protagonista si innamora per la prima volta a cinquant'anni suonati (ricordiamo che Dino Buzzati prese moglie a sessant'anni).
Una delle ultime prove è I miracoli di Val Morel (1971), raccolta di finti miracoli attribuiti dalla tradizione popolare a Santa Rita, ispirati alla località di Valmorel di Limana, amena località del bellunese (ricordiamo che Buzzati fu anche esperto ed appassionato alpinista).
Oltre che scrittore e giornalista, Buzzati fu anche poeta (a partire dagli anni sessanta), fecondo autore di teatro che curava personalmente anche le scenografie delle sue rappresentazioni, pittore e bozzettista di discreta caratura (anche se ironizzava sulla propria vocazione artistica, dichiarando di considerare l'arte "un semplice hobby, non un mestiere"). Con Poema a fumetti nel 1970 vince il premio Paese Sera e nel 1971 raccoglie nel volume Le notti difficili alcuni dei suoi elzeviri. La morte lo coglie dopo una lunga malattia, il 28 gennaio 1972.
Il deserto dei Tartari - cap. XXX
L'epilogo del romanzo si svolge in un tiepido pomeriggio di primavera in una locanda piuttosto distante dalla Fortezza; per trent'anni il protagonista, il tenente Giovanni Drogo (divenuto nel frattempo maggiore) ha aspettato la battaglia contro i misteriosi Tartari che avrebbero dovuto attaccare la Fortezza: ora si trova a combattere l'unica vera battaglia della sua vita, quella contro la morte, "l'ultimo nemico (...) un essere onnipotente e maligno", che senza rendersene conto aveva atteso per tutta la vita. Egli l'affronta a viso aperto, come aveva fatto l'amico idealista Angustina, che aveva preferito eroicamente morire di freddo sul confine difeso dagli immaginari assalti dei Tartari, anziché perpetuare la vana attesa dell'evento decisivo.
“Coraggio, Drogo, questa è l’ultima carta, va’ incontro alla morte da soldato e che la tua esistenza sbagliata almeno finisca bene. Vendicati finalmente della sorte, nessuno canterà le tue lodi, nessuno ti chiamerà eroe o alcunché di simile, ma proprio per questo vale la pena. Varca con piede fermo il limite dell’ombra, diritto come a una parata, e sorridi anche, se ci riesci. Dopo tutto la coscienza non è troppo pesante e Dio saprà perdonare.”
Questo, Giovanni diceva a se stesso – una specie di preghiera – sentendo stringersi attorno a sé il cerchio conclusivo della vita. E dall’amaro pozzo delle cose passate, dai desideri rotti, dalle cattiverie patite, veniva su una forza che mai lui avrebbe osato sperare. Con inesprimibile gioia Giovanni Drogo si accorse, d’improvviso, di essere assolutamente tranquillo, ansioso quasi di ricominciare la prova. Ah, non si poteva pretendere tutto dalla vita? Così dunque, Simeoni? Adesso Drogo ti farà un po’ vedere.
Coraggio, Drogo. E lui provò a are forza, a tenere duro, a scherzare con il pensiero tremendo. Ci mise tutto l’animo suo, in uno slancio disperato, come se partisse all’assalto da solo contro l’agghiacciante volto, mutandosi in cosa semplice e conforme a natura. Il maggiore Giovanni Drogo, consunto dalla malattia e dagli anni, povero uomo, fece forza contro l’immenso portale nero e si accorse che i battenti cedevano, aprendo il passo alla luce.
Povera cosa gli risultò allora quell’affannarsi sugli spalti della Fortezza, quel perlustrare la desolata pianura del nord, le sue pene per la carriera, quegli anni lunghi di attesa. Non c’era neanche più bisogno di invidiare Angustina. Sì, Angustina era morto intatto – pensava Giovanni – la sua immagine, nonostante gli anni, si era mantenuta quella di un giovane alto e delicato, dal volto nobile e gradito alle donne: questo il suo privilegio. Ma chissà che, passata la nera soglia, anche lui Drogo non sarebbe potuto tornare come una volta, non bello (perché bello non era mai stato) ma fresco di giovinezza. Che gioia, si diceva Drogo al pensiero, come un bambino, poiché si sentiva stranamente libero e felice.
Ma poi gli venne in mente: e se fosse tutto un inganno? se il suo coraggio non fosse che una ubriacatura? se dipendesse solo dal meraviglioso tramonto, dall’aria profumata, dalla pausa dei dolori fisici, dalle canzoni del piano di sotto? e fra pochi minuti, fra un’ora, egli dovesse tornare il Drogo di prima, debole e sconfitto?
No, non pensarci, Drogo, adesso basta tormentarsi, il più oramai è stato fatto. Anche se ti assaliranno i dolori, anche se non ci saranno più le musiche a consolarti e invece di questa bellissima notte verranno nebbie fetide, il conto tornerà lo stesso. Il più è stato fatto, non ti possono più defraudare.
La camera si è riempita di buio, solo con grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna.
Farà in tempo, Drogo, a vederla o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse è un soffio di vento, un semplice risucchio d’aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.
A questo brano del suo romanzo più famoso aggiungiamo due testi, l’uno in versi l’altro in prosa che rimandano alla ricorrenza del Natale da poco festeggiata. Nel primo Buzzati sembra interrogarsi, dapprima con sarcasmo, poi con sempre maggior convinzione, sulla presenza di Gesù Bambino nella notte di Natale.
Che scherzo! (1964)
E se poi venisse
davvero?
Se a quell'ora precisa
mentre la nebbia oppure la
pioggia nera
oppure comunque le caligini il fetido l'incubo
nero
della notte sopra la pianura dell'umidità e
dell'espansione economica
l'arcipelago delle luminarie
sempre
più denso verso il centro
specialmente i cinema i bar le
stazioni di servizio
e poi nel cuore della città
la
massima concentrazione di luci
di lusso di soldi di gioia di
vizio
se nei palazzi cascine falansteri
attraverso le
illusioni e i misteri,
lui davvero venisse?
Che scherzo
pericoloso, eh?
Perché
dicono dicono ma
non ci crede più nessuno.
Il
proprietario del magazzino famoso
di articoli da regalo
non
ci crede, e ne ride bonario
con le clienti in visone
anche
il negoziante di giocattoli
sollevato dall'andamento
straordinario
degli affari nonostante la recessione.
Non ci crede il
capofamiglia
né lo scapolo né il coniugato
né
il vecchio zio né la figlia,
neppure la mamma sebbene
tenendoli sulle ginocchia
abbia dettato ai bambini le
lettere
col presepio e il bordo dorato
destinazione
Paradiso
in franchigia, senza riflettere
al rischio della
mistificazione.
Non ci crede
neanche don Saverio
il buon prevosto della parrocchia
non
basta infatti la fede
per prendere veramente sul serio
questa
antica superstizione.
E neppure ci
credono i bambini
che avrebbero sufficiente ingenuità
voglia di miracoli, di fantasia
di mostri, di favole, ma
ci fu quel sorriso speciale
della mamma così
ambiguo e allora
nacque in loro l'ipocrisia
per la prima
volta, con la paura
tipicamente italiana
di passare per
cretini.
Neanche loro dunque
ci credono più
che alla mezzanotte del venti-
quattro,
carico di regali
in carte d'oro e d'argento
fra un grande
sbattere d'ali
(ci saranno anche gli angeli, no?)
arriva
il Bambino Gesù.
E se invece venisse
per davvero?
Se la preghiera, la letterina, il desiderio
espresso così, più che altro per gioco
venisse
preso sul serio?
Se il regno della fiaba e del mistero
si
avverasse? Se accanto al fuoco
al mattino si trovassero i doni
la bambola il revolver il treno
il micio l'orsacchiotto
il leone
che nessuno di voi ha comperati?
Se la vostra
bella sicurezza
nella scienza e nella dea ragione
andasse
a carte quarantotto?
Con imperdonabile leggerezza
forse
troppo ci siamo fidati.
E se sul serio
venisse?
Silenzio! O Gesù Bambino
per favore
cammina piano
nell'attraversare il salotto
Guai se tu
svegli i ragazzi,
che disastro sarebbe per noi
così
colti così intelligenti
brevettati miscredenti
noi
che ci crediamo chissà cosa
coi nostri atomi coi nostri
razzi.
Fa piano, Bambino, se puoi.
Racconto di Natale è apparso nella raccolta La boutique del mistero (1968), dal sapore vagamente surrealista ed esistenziale. Il protagonista, don Valentino, ha scacciato un mendicante dalla cattedrale durante la notte di Natale e non riesce più a percepire la presenza divina.
Racconto di Natale
Tetro e ogivale è l'antico palazzo dei vescovi, stillante salnitro dai muri, rimanerci è un supplizio nelle notti d'inverno. E l'adiacente cattedrale è immensa, a girarla tutta non basta una vita, e c'è un tale intrico di cappelle e sacrestie che, dopo secoli di abbandono, ne sono rimaste alcune pressoché inesplorate. Che farà la sera di Natale - ci si domanda – lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il vecchio scapolo il compagno di dissipazioni, i1 carcerato la voce di un altro dalla cella vicina. Come farà l'arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di sua eccellenza, udendo la gente parlare così. L'arcivescovo ha Dio, la sera di Natale. Inginocchiato solo soletto nel mezzo della cattedrale gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi far pena, e invece se si sapesse! Solo soletto non è, non ha neanche freddo, né si sente abbandonato. Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l'arcivescovo, le navate ne rigurgitano letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur mancando le stufe, fa così caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa dalle balaustre dei confessionali.
Così, quella sera il Duomo; traboccante di Dio. E benché sapesse che non gli competeva, don Valentino si tratteneva perfino troppo volentieri a disporre l'inginocchiatoio del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spumante. Questa, una serata di Natale. Senonché in mezzo a questi pensieri, udì battere a una porta. "Chi bussa alle porte del Duomo" si chiese don Valentino "la sera di Natale? Non hanno ancora pregato abbastanza? Che smania li ha presi?" Pur dicendosi così andò ad aprire e con una folata di vento entrò un poverello in cenci.
"Che quantità
di Dio! " esclamò sorridendo costui guardandosi intorno-
"Che bellezza! Lo si sente perfino di fuori. Monsignore, non me
ne potrebbe lasciare un pochino? Pensi, è la sera di
Natale"
"È di sua eccellenza l'arcivescovo"
rispose il prete. "Serve a lui, fra un paio d'ore. Sua
eccellenza fa già la vita di un santo, non pretenderai mica
che adesso rinunci anche a Dio! E poi io non sono mai stato
monsignore."
"Neanche un pochino, reverendo? Ce n'è tanto! Sua eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno!" "Ti ho detto di no... Puoi andare... Il Duomo è chiuso al pubblico" e congedò il poverello con un biglietto da cinque lire.
Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c'era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all'improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio d'ore l'arcivescovo sarebbe disceso.
Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardò nella piazza. Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c'era traccia di Dio. Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musiche e perfino bestemmie. Non campane, non canti.
Don Valentino uscì nella notte, se n'andò per le strade profane, tra fragore di scatenati banchetti. Lui però sapeva l'indirizzo giusto. Quando entrò nella casa, la famiglia amica stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano benevolmente l'un l'altro e intorno ad essi c'era un poco di Dio.
"Buon Natale, reverendo" disse il capofamiglia. "Vuol favorire?"
"Ho fretta, amici" rispose lui. "Per una mia sbadataggine Iddio ha abbandonato il Duomo e sua eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro? Tanto, voi siete in compagnia, non ne avete un assoluto bisogno."
"Caro il mio don Valentino" fece il capofamiglia. "Lei dimentica, direi, che oggi è Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi meraviglio, don Valentino."
E nell'attimo stesso che l'uomo diceva così Iddio sgusciò fuori dalla stanza, i sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembrò sabbia tra i denti.
Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della città e dinanzi a lui si stendeva nel buio, biancheggiando un poco per la neve, la grande campagna. Sopra i prati e i filari di gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando. Don Valentino cadde in ginocchio.
"Ma che cosa fa, reverendo?" gli domandò un contadino. "Vuoi prendersi un malanno con questo freddo?" "Guarda laggiù figliolo. Non vedi?" Il contadino guardò senza stupore. "È nostro" disse. "Ogni Natale viene a benedire i nostri campi."
"Senti " disse il prete. "Non me ne potresti dare un poco? In città siamo rimasti senza, perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che l'arcivescovo possa almeno fare un Natale decente." "Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella vostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi."
"Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu mi dica di sì." "Ne ho abbastanza di salvare la mia!" ridacchiò il contadino, e nell'attimo stesso che lo diceva, Iddio si sollevò dai suoi campi e scomparve nel buio.
Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell'atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente). Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all'orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga. Il pretino si gettò in ginocchio nella neve. "Aspettami, o Signore " supplicava "per colpa mia l'arcivescovo è rimasto solo, e stasera è Natale!"
Aveva i piedi gelati, si incamminò nella nebbia, affondava fino al ginocchio, ogni tanto stramazzava lungo disteso. Quanto avrebbe resistito?
Finché udì un coro disteso e patetico, voci d'angelo, un raggio di luce filtrava nella nebbia. Aprì una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel mezzo, tra pochi lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di paradiso. "Fratello" gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli "abbi pietà di me. Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dammene un poco, ti prego." Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece, se era possibile, ancora più pallido.
"Buon Natale a te, don Valentino" esclamò l'arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. "Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi?"
Narratore, drammaturgo, poeta, critico d’arte, attore, regista, pittore, Giovanni Testori nacque a Novate Milanese il 12 maggio 1923 ed esordì giovanissimo, tanto che già a diciassette anni collaborava ad alcune riviste del GUF con articoli di critica d’arte contemporanea. Nel 1947 si laureò all'Università Cattolica di Milano in Lettere e Filosofia con una tesi sul surrealismo che gli fu contestata perché "deviante" rispetto al clima culturale del tempo. E questo la dice lunga sul suo spirito combattivo, trasgressivo e polemico, che fu una costante del suo carattere e del suo modo di essere intellettuale. L’opera che lo fece conoscere ed apprezzare dal grande pubblico è un racconto lungo pubblicato nel 1954 nei “Gettoni” di Vittorini, Il dio di Roserio, che narra le angosce e i rimorsi di un ciclista, Dante Pessina (il “dio di Roserio”, appunto), che per confermare la propria supremazia non esita a provocare la rovinosa caduta del suo gregario Riguttini. Dalla trama questo potrebbe sembrare un testo neorealistico in ritardo, ma il costante ricorso al monologo interiore e al pastiche linguistico, il gusto fortemente visivo e la sensualità di tipo pittorico che lo animano portano invece già verso quello sperimentalismo che sarà sempre più evidente nelle opere successive.
Costante resta anche in seguito l’ambientazione lombarda, in particolare della periferia milanese, tanto che Testori decide di raccogliere sotto il titolo I segreti di Milano (che si rifà chiaramente ai Mystères de Paris pubblicati da Eugène Sue a metà Ottocento) due raccolte di racconti (Il ponte della Ghisolfa e La Gilda del Mac Mahon), due commedie (La Maria Brasca e L'Arialda) e due romanzi (Il fabbricone e Nebbia al Giambellino). I protagonisti di queste opere sono per lo più donne dal triste destino di vittime, “ragazzi di vita” smaliziati e sdegnosi, adolescenti sconfitti e delusi, che si aggirano in una periferia degradata e fatiscente; ma pur in questo panorama disperante, Testori riesce a rintracciare nei suoi personaggi un barlume di coscienza e la possibilità di sentimenti genuini e vitali.
Gli anni sessanta sono segnati dal sodalizio con il grande regista Luchino Visconti e dalla sopraggiunta notorietà presso il grande pubblico, ma anche da vivaci polemiche e clamorosi disconoscimenti, soprattutto da parte degli ambienti cattolici.
Agli anni settanta vanno ascritti i grandi testi teatrali, a partire dalla Trilogia degli Scarrozzanti, costituita da L'Ambleto (1972), Macbetto (1974) ed Edipus, opere nelle quali lo scrittore sviluppa ulteriormente la propria sperimentazione linguistica, plasmando un linguaggio nel quale agli arcaismi shakespeariani si affiancano neologismi, dialettalismi, vocaboli gergali e aulici. Nel 1990 la trilogia si trasforma in tetralogia con l’aggiunta dello Sfaust. Come si può notare, i titoli rimandano con palese evidenza a testi arcinoti: ma le vicende e i personaggi messi in scena sono trascritti in misure plebee e quotidiane, nella realtà della terra padana contemporanea, pur conservando intatto il significato profondo che era negli originali, ovvero l’indagine approfondita e inesauribile sull’uomo e sulla vita, nel costante “viaggio verso l’abisso” che caratterizza l’intera produzione testoriana.
Una nuova trilogia (Conversazione con la morte del 1978, Interrogatorio a Maria del ‘79 e Factum est dell’81) testimonia la conversione cattolica di Testori, che coincide con il suo avvicinamento al gruppo di “Comunione e Liberazione”, da cui diceva di sentirsi accolto "nonostante la condizione di omosessuale": il risultato di questo cambiamento sarà la collaborazione assidua al settimanale del gruppo, Il Sabato, lungo gli anni ottanta.
Nel 1984 Testori opera la riduzione teatrale del suo romanzo Erodiade, e inizia a scrivere pièce teatrali come In exitu, monologo di Gino Riboldi, un giovane tossicodipendente omosessuale che si prostituisce a Milano. Ovviamente tale testo suscitò molto scalpore per le oscenità presenti in esso e contribuì ulteriormente a fare di Testori un personaggio particolarmente scomodo e discusso. Pure agli anni ottanta si ascrivono le ultime prove poetiche, da Ossa mea (1983) a Diadèmata (1986): si tratta di testi caratterizzati dall'ambivalenza, dalla dialettica fra sensi e teologia, fra spirito e materia, fra amore-vita e dolore-morte, dove l’anelito religioso è attraversato dal dubbio e dall’ansia di conoscenza, che non lascia mai tranquillo lo scrittore. Come sottolinea Giovanni Raboni nella prefazione al secondo volume delle Opere (Bompiani, 1997) "per Testori, ormai lo sappiamo, nessun approdo, nessuna quiete è davvero possibile; e dove chiunque si sentirebbe arrivato e dunque, almeno per un poco, si fermerebbe, lui continua".
Nel 1990 Testori si ammala di un tumore che lo costringerà per molti mesi in ospedale, fino alla morte sopraggiunta il 16 marzo 1993 a Milano.
Si propone qui un breve racconto tratto da La Gilda del Mac Mahon (1959), raccolta pubblicata all’interno del “ciclo” dei Segreti di Milano: si tratta di un testo che rende conto più del versante neorealistico di Testori che delle sue successive scelte espressionistiche.
La protagonista, Luisa, giovane vedova di un contrabbandiere morto in un incidente d’auto mentre era inseguito dalla Polizia, è rientrata in casa della madre (il padre è appena morto di cancro) e qui si scontra con la cinica arroganza del fratello Romeo, un “ragazzo di vita” arricchitosi grazie agli incontri omosessuali. Lo scontro tra i due fratelli sintetizza il degrado di una società costituita da un’anonima folla di uomini vilipesi e oltraggiati, di donne inquiete o perverse, sempre schiacciata dal peso oscuro della colpa (delitto, tradimento, omosessualità, prostituzione, inganno). Alcuni personaggi però sono ancora capaci di qualche orgoglioso moto di ribellione e riscatto, che li fa elevare sopra il fango della vita quotidiana: è il caso di Luisa, che soprattutto dopo la morte del marito e del padre tenta una via d’uscita dalla sua mesta esistenza.
Il compito che Testori si è assunto è quello di scrutare il segreto inconfessabile dei suoi personaggi più abietti, per presentarli con crudo realismo, senza falsi moralismi o reticenze, anche a costo di dar voce ai toni violenti e spietati del loro linguaggio, come quello di Romeo nei confronti della sorella. Ma si avverte comunque, al di là del linguaggio sguaiato e collerico, una vena di religiosa pietas, non indenne né da populismo né da decadentismo, verso la gente delle periferie urbane, quel sottoproletariato che anche Pasolini aveva ritratto in quegli stessi anni.
“Che avrebbe fatto? Adesso che la morte aveva finito di pasteggiar in casa sua, cosa le restava se non andarsene?
“Tu, qui, fin quando ci sono io, la troia non la fai…”Risentiva le parole del fratello ripercuotersi nella cucina come se dalla sera in cui il padre v’era tornato rantolante non fossero passati quattro giorni, ma poche ore; e con le parole, rivedeva la macchina, una fuoriserie che, mentre lei se ne stava ad aspettar tra l’Arena, il Parco e Via Legnano, bloccandosi all’improvviso, le aveva puntato i fari negli occhi e cosi li aveva tenuti con ostinazione, come se chi v’era seduto l’avesse riconosciuta o, quantomeno, avesse avuto intenzione di parlarle. E infatti, poco dopo, la portiera s’era aperta; era stato cosi che lei s’era trovata davanti il Romeo; uno sguardo, niente di più; poi il fratello era risalito; con uno strappo la macchina aveva fatto marcia indietro e, come una furia, era ripartita, per perdersi nel buio dei viali.
Ma quel che a mezzanotte si portava a spasso il Romeo per quei paraggi, quel che guidava, insomma, chi era?
Non aveva potuto vederlo; il tipo della macchina le aveva pero concesso di pensar subito se non a un signore, certo a un ricco; ricco, magari, dello stesso, strano lavoro del fratello.
La predica del Romeo aveva quindi potuto prevederla; ma solo l’arrivo della madre prima e quello del padre ormai morente poi, l’avevan fermata al punto in cui lei stava per prender il sopravvento. Lo smarrimento del fratello l’aveva tuttavia persuasa d’aver un’arma con cui rintuzzare quel suo insopportabile strapotere.
Poco importava che opporre al disperato rigore del Romeo gli accenni all’immoralità del suo lavoro fosse un ricatto, poiché il corpo del padre era sceso sotto terra da neppur un giorno e lui aveva già cominciato a ritenersi padrone di tutti e di tutto; fin dalle loro anime.
E pazienza fosse stato per la madre, la quale più che vivere ormai vegetava, e che dunque il fratello avrebbe potuto piegar facilmente ai suoi voleri; ma per lei?
Lei di anni ne aveva appena ventiquattro; la vita, lei, l’aveva ancor tutta d’avanti; una vita che voleva libera in tutti i sensi, visto che il destino s’era preoccupato di spezzarle il solo legame che aveva cercato e voluto.
“Va bene, non vuoi che mi metta sul marciapiede, e allora trovami un lavoro...” aveva detto la sera prima al fratello, quando, rientrati dal funerale e tolta dalla stanza, cosi come il freddo concedeva, l’aria greve e pesante che da sempre la presenza dei morti, avevan ripreso a parlare.
“Ma non ti basta che a lavorare ci sia io? Quante volte t’ho detto che i miei guadagni son a tua disposizione?”
“La questione non è che i tuoi guadagni siano a mia disposizione, ma che quello di cui ho bisogno me lo procuri io e in maniera di non dover render ragione a nessuno.”
“E va bene; ti cercherò un lavoro. Ma poi basta; di scuse, poi, non ne avrai più...” aveva detto il Romeo. “Per quanto, secondo me, e anche secondo lei, e vero?” aveva aggiunto, rivolgendosi con un movimento delle spalle alla vecchia, “sarebbe meglio che te ne stessi a casa ad aiutare, perché non ci vuol molto a capire che lei non e più una bambina... E sarebbe meglio anche per quel che vuoi ottenere: l’uomo, il marito, quello nuovo s’intende, quello che ti faccia dimenticar il Marino, la vita che hai fatto insieme a lui e la vigliaccheria di come l’han ucciso... Perché i suoi soci, il tuo Massimo e il tuo Raffaele, quando le gite al confine puzzavano, mandavano sempre lui... E cosi una Volta o l’altra, per forza...”
“Il Massimo, forse; ma il Raffaele, no. E tu fai male a sparlar cosi di chi non conosci...”
“Perché? Ti sei forse innamorata di lui, adesso? Guarda che l’amante lui ce l’ha già ed è la cognata...”
“Lo so, lo so; e non c’è nessun bisogno che tu lo dica con tanto disprezzo; perché quando due si voglion bene...
“Quando due si voglion bene? Avanti, cosa succede? Parla...”
A quella nuova dimostrazione di cinica sfiducia in tutto e in tutti, la Luisa per quella sera aveva preferito chiuder il discorso. [...]
“Ce una nebbia che non ci si vede da qui a lì...” disse il Romeo quando l’onda umida dell’aria si fu propagata dalla finestra per la stanza.
“Ah, tu,” fece, poco dopo, girandosi l’anello che teneva al dito, “guarda che ho trovato...”
Lì per lì la Luisa finse di non sentire.
“Trovato, cosa?” intervenne allora la madre.
“Il posto,” ribatté il Romeo. “Non voleva un posto? E io gliel’ho trovato...”
“E dove?” fece la Luisa.
“Un po’ di calma, un po’ di calma... Cominciamo a sederci, poi con comodo parleremo...”
Fu proprio quel modo improvvisamente convinto e sicuro ad inviperir la Luisa.
“Calma, un corno!” fece. “Dopotutto a esser in ballo sono io..."
“Appunto...” commento il Romeo che s’era già seduto.
“Appunto, Cosa?
“Dico appunto perché, siccome non sai ancora di cosa si tratta è meglio che prima tu ti sieda, se ne parli tutti e tre, poi..."
“Poi?”
“Siediti, ho detto, o scema! Hai capito di sederti?” Il Romeo aveva battuto il pugno sul tavolo con forza e adesso guardava con la sua solita, disperata energia la sorella.
“No! Fin quando ci sei tu, qui, io non mi siedo. È ora di finirla di creder che tu sia il padrone di tutto e di tutti! ”.
“Luisa!” intervenne la madre.
“Cosa? Vuoi prender la sua difesa un’altra volta? Lo so, lo so che il tuo cuore è tutto per lui... Morto il papà, qui, io son sola, e sola in mezzo a della gente che mi considera come una schiava...”
“Chiudi quella bocca, Luisa! Chiudi quella bocca o ti strozzo!” grido il Romeo, alzandosi dal tavolo e facendosi sotto la sorella.
“Romeo,” disse la madre, andando così vicino al figlio da toccarlo alle spalle. “Ti supplico, Romeo, sta’ quieto. Fallo per me, per la tua mamma...”
A quelle parole il ragazzo parve distendersi un poco; quindi con un colpo si volto e tomando al suo posto disse:
“Sembra impossibile; impossibile, ecco. Uno fa di tutto per far anche la parte di chi non c’è più...”
“Non dir bestemmie, Romeo! Perché la morte del papà tu l’hai presa come una liberazione, in quanto oltre a farti diventar padrone, ti permette di non far il militare...”
“Luisa!” fece la madre. “Cosa dici adesso, Luisa?”
“Ma lasciala parlare!” fece il Romeo, mettendosi in bocca la prima cucchiaiata di minestra. “Lasciala parlare, quella povera scema! E lasciala far anche la troia, come avrebbe continuato a fare se non fossi intervenuto io... Tanto la coscienza…”
“Che coscienza?” ribatté la Luisa.
H Romeo non rispose, né disse niente; borbottando mezze parole che le due donne non riusciron a sentire, continuò a mangiare.
Ed infine alcuni brevi testi poetici:
da I Trionfi (1965)
Canta con me
ora che notte è piena,
amore mio di brezza,
nella clemenza della morte giusta;
il tuo sonno è tranquillo,
tranquilla la tua luce;
pace è nell’affogare
del ventre tuo dolcissimo
di canto.
In gioia si riscioglie
la luce delle cellule di vita;
bionda bellezza
che fiorì, in sprazzi,
e si gettò, ridendo,
come un fiume…
da A te
La mia corona
potevi essere tu.
Ma eri troppo dolce,
forse eri troppo simile a un sogno,
forse eri troppo fine.
Così sei stato
la mia corona di spine.
da Nel tuo sangue (1973)
Anche tua madre
ha gridato.
S'è afferrata
alla mangiatoia
quando dal ventre
le uscivi.
Sapeva anche lei
che nascendole Cristo
come Dio le morivi?
da Interrogatorio a Maria (1979)
Nell'ora tarda, nell'ora, qui, della dorata sera, vieni, Madre nostra amata, vieni, cascina consacrata! [...] Noi ti chiamiamo. Di Te sete, fame, bisogno abbiamo. Vieni, porta disserrata, speranza disarmata, cima altissima innevata! Tu sai, parlare Ti dobbiamo; su di noi, povere formiche, intorno a questa sedia che T'attende, non spirito, ma carne, Ti dobbiamo interrogare.
Circa dieci anni fa, il 28 febbraio 2005, moriva a Firenze Mario Luzi, forse la voce poetica più alta del XX secolo; e a settembre dello scorso anno si erano svolte in molti luoghi d’Italia le celebrazioni per il centenario della sua nascita, avvenuta a Castello di Firenze il 20 ottobre 1914. Ormai universalmente riconosciuta è la qualità straordinaria della produzione luziana, sviluppatasi nel corso di oltre settant’anni dalla prima raccolta del 1935 (La barca) fino agli ultimi testi del 2005. Proprio questi ultimi, raccolti e curati da Stefano Verdino, sono stati pubblicati da Garzanti nel 2009 con il titolo tratto da quella che è probabilmente l’ultima poesia composta dal grande poeta fiorentino: Lasciami, non trattenermi.
In occasione dei suoi novant’anni, così parlava Luzi a proposito della vecchiaia e della morte: “Più siamo prossimi alla morte, più si entra in confidenza con lei. Quando siamo un po’ al di là della ‘siepe’, questa frontiera perde consistenza. Penso che un po’ tutti, con la vecchiaia, acquisiscano questa serenità del passaggio ad un altro livello di presenza nel creato. Senti che c’è questo transito naturale, a cui non puoi opporti e che accetti proprio come fatto di natura”. La morte, in sostanza, era da lui considerata un passaggio naturale, da affrontare con serenità come un transito in un certo senso auspicabile, necessario per accedere a un livello diverso e più intenso di vita. Non quindi una perdita, una privazione, un dramma, ma un guadagno, un’elevazione verso una situazione indecifrabile, ma certamente positiva. È proprio tale spirito che si coglie in queste poesie della vecchiaia, dove non si nota alcuna stanchezza o sofferenza, ma ancora una volta emerge l’ansia di ricerca del senso della vita e la felicità della scoperta che tutto nel mondo è ordinato, necessario, significativo: e che tocca all’uomo scoprire e intendere “la gioia / e il dolore del creato / di fronte al suo miracolo” (L’aquila, la sua alta richiesta).
Il testo più antico della raccolta, risalente al 2002, è definita una “Infra-Parlata affabulatoria”, un lungo monologo doloroso rivolto alla “sposa solitaria”, cioè alla moglie ormai malata e impossibilitata a dialogare, incontrata nella “visita di rito”, come la definisce il poeta, che ricorda il dramma della loro separazione, ma anche le qualità che aveva apprezzato in lei nel corso della loro lunga familiarità: la sua premurosa disponibilità di “affettuosa marta”, la sua “sedula e profonda dedizione”, la sua bellezza ormai irrimediabilmente svanita. E “quella spina, quella pena di altri tempi” torna a incidersi nella sua memoria e nel suo presente come “un’alba notturna”, come una ferita che non è più possibile sanare ma neppure dimenticare (Ritorno da una visita di rito).
Di questo Luzi postumo si potrebbe dire, come afferma lui stesso a proposito del senso della vita, che egli “canta nell’universo” (Poetry), si eleva a intonazioni (oserei dire) metafisiche, interrogandosi con ancor maggior lucidità e profondità sul mondo e sull’uomo, sulla natura, sul Dio che procede “nella penombra” mentre il poeta al buio lo segue o lo precede, inciampa o sbanda, ma comunque avanza verso la luce, guidato dalla “fede che smuove le montagne” (Partimmo – rischioso era il cammino).
E non può mancare qui (come già era stato nel corso di tutta la sua lunga carriera poetica) un nuovo interrogativo sul Cristo, visto ora nel momento del ritorno al Padre, quando “faticosamente disincarna / la sua dolorosa incarnazione” (Frattanto scoscende l’uomo-dio). La profonda religiosità di Luzi, mai bigotta o farisea, sempre in ansiosa ricerca della verità ultima dell’uomo e del mondo, domina anche le pagine di questo libro postumo, dove il poeta s’interroga sul futuro oltre la morte fisica (“Dove / e come saremo?”, Noetica; “Oh Dio del mondo / quando sarò rinato?”, Nello stormo), rintraccia i segni della “molteplicità / dell’unico che è” (È lì, oltre la balaustrata), sale a realtà sublimi ma pur sempre in un certo senso concrete come “stelle, pianeti, angeli, creature / ancora non decise” (Astor). E accanto a queste realtà “novissime” Luzi ricompone nei suoi versi oggetti tangibili e quotidiani come l’Arno che “prepara il suo settembre” (nella poesia omonima), le colline di Desiderium collium aeternorum, “la via brulla di Siena” (Anche una volta), aironi e germani (Vicino alla sorgente), chiocciole e bruchi (L’aquila, la sua alta richiesta), “le pecore, / gli armenti” (Ecco, c’è movimento), “le antilopi, i mosconi” (Oh, quanti sono); e fiumi, mari, monti, animali, piante, cieli, campagne, ruggine, vetro, metallo, marmo, pietrame, torri, diroccate mura, campanili, meridiane, balaustre, caligine ed argento, oro e turchese, “miscuglio d’ogni colore e tinta”, in una fantasmagorica e iridescente summa dove è possibile cogliere “la vita [che] si trasforma in sé perpetuamente” (Noetica), “l’armonia sovrana” (Astor), “l’ordine, / la necessità in cui siamo / […] tutti insieme, / noi creature” (L’aquila, la sua alta richiesta).
Veramente un canto senile (come titola uno dei testi più belli della raccolta), che però non si chiude nel pessimismo, nel disincanto, nella rinuncia, ma dilaga con straordinaria felicità espressiva, aprendoci scenari sempre nuovi e cangianti: e lasciandoci rattristati solo per la perdita di ciò che ancora avrebbe potuto essere, se Luzi avesse potuto continuare la sua straordinaria carriera poetica.
Poetry
Scriveva con lena il suo poema
lui, ma l’anima dov’era?
Non c’è in queste sillabe,
respira
appena
nella chiara linearità del tema.
Dov’era la sua celeste vena?
altrove pasceva il suo patema,
il sogno, lo sgomento…
O forse sono io che manco
al misericordioso appuntamento,
non ne colgo l’immanenza
nel deserto
delle lasse, delle stanze,
postero disattento,
ascoltatore inesperto.
È fioca la sua voce
sì, ma non in ogni parte.
Gioca
con la mia ottusità
come allora con lui scriba
lei ubiqua, lei inafferrabile,
canta nell’universo,
risponde da altri lidi
a quella latitanza.
Oh come il senso della vita cangia,
come l’immagine sua danza!
Alzati a volo
Alzati a volo fin che puoi, raggiungilo
qualunque sia
il tuo apice d’ascesa
e d’altitudine, discendi
poi nella profondità dell’aria
e nella tenebra del mare
non però a capofitto, attento!
evita i gorghi
d’oscurità
da cui è difficile riemergere
e di essi dire ti è negato –
lo sappiamo.
Sta’ nei limiti tuoi, usa
la calma, la perseveranza,
l’attenzione dei sensi,
della mente – questo dicono
esperti consiglieri alla mia insufficienza
non sapendo che il patto è già concluso
tra ansia e finitudine
e c’è pace terrena e ultraterrena, c’è.
Di te molto, mia terra,
mi è inciso
nell’anima e nel viso,
mi è scritto nelle carni,
ma tu di me rechi pure qualche traccia,
ti prego, non polverizzarla
del tutto, finché tutto sia compiuto.
Astor
Quel lungo volo a così bassa quota…
d’un tratto n’ebbe orrore.
Lo aveva chi? una volontà non sua
però inoppugnabile
frenato
nella sua alta potenza,
tenuto a quella medietà dell’aria
a portata degli spari…
Più non la tollerava
quella misteriosa briglia,
aveva ansia
del più alto e del più aperto cielo
a cui era mirata la sua forza:
era un debito verso l’armonia sovrana
non un puntiglio
svettare come fece…
eppure non lo spoglia
d’umiltà
il gran vigore
che solleva
e flette le sue ali,
la voglia repentina
di spazio e di altitudine
lo inebria, non lo insuperbisce.
Il desiderio è altro da così
ma è forte. Aveva
la sua solarità
segni celesti con cui paragonarsi,
stelle, pianeti, angeli, creature
ancora non decise tra ombra e luce, canti –
e lo ha ancora.
Frattanto scoscende l’uomo-dio
Frattanto scoscende l’uomo-dio
dentro l’abisso
della sua profondità,
scompare a sé medesimo,
faticosamente disincarna
la sua dolorosa incarnazione,
discrepa con dolore
dalla sua materia
ma non se ne scompagna:
e il tempo, il suo ricordo
brucia tutto di sé
nella luce di un lampo…
È pura analogia
pensata
dal pensiero onnipensante
o accade precisamente?
accade, accade
l’analogia
come accade l’evento,
l’eveniente.
Tutto è compiuto?
oppure ha cominciamento?
L’aquila, la sua alta richiesta
L’aquila, la sua alta richiesta
di vita
d’aria
e volo
ci sovrasta
eppure non umilia
il nostro terra terra
di chiocciole e di bruchi,
c’è concordia
con il nostro tardigrado rettare,
col remeggio delle pinne, delle branchie
dei pesci e dei molluschi
nelle profondità del mare,
l’ordine,
la necessità in cui siamo
ci congiunge tutti insieme,
noi creature.
Nell’aria
al suolo
si incrociano,
si guardano,
si conoscono,
si ignorano
il movimento delle schiere,
le crociere degli stormi,
il turbinare
brulicante degli sciami.
Quieta è questa agitazione
vi si esprime la gioia
e il dolore del creato
di fronte al suo miracolo…
In quella inquietudine è la quiete,
è l’essere anche quando
in un lampo di grazia
giubila e si comprende
negli occhi di una santa adolescente.
Noetica
Chiari
e puri
i monti
su cui gloriosamente
posa il mattino la sua fronte
pure non è casta
e immune
nemmeno quella guglia,
fin lassù,
lo sente, è arrivato col suo ingombro –
da quando? da sempre –
il cogitare umano.
Pensamenti
pensieri…
Erano quei pensieri stati avuti,
no, erano passati per la mente
di uomini lontani, patriarchi,
forse, chissà, forse guerrieri,
liberti, mercenari…
Non stavano
in se stessi essi, i pensieri,
si aggiravano
tra cielo e terra,
sciame indistruttibile,
non cessava
il loro silenzio o il loro ronzo
di inseguire se medesimo,
entravano
sortivano,
prendevano tempo,
li occupava la vicenda
dell’acqua,
del sole,
della terra
ma poi stagionature forti
in casematte o in aule
di censura e di governo
li accendevano al fuoco di contrasti…
Il loro crepitio di braci
nel vento delle epoche, lo ascolti?
sembravano consunti
talora dal trapasso,
ecco invece
improvvisamente erano vivi,
stormivano nel bosco,
fiammeggiavano
negli occhi di uno scriba o angelo.
Palesi e occulti erano giunti a lui
con la linfa della specie,
li aveva lui seminalmente accolti
ma ora
che cosa moriva e rinasceva
che lui non comprendeva?
Il brulichio
del mare cogitante
o la schiatta che dal principio lo contiene
nel mistero numeroso dei suoi crani.
La vita si trasforma in sé perpetuamente,
informa alla sua oscura norma i vivi,
la loro intelligenza, adopra
la carità del loro soma,
sommamente è fedele a se medesima.
Dove
e come saremo? Si domandano
i pensieri.
Saremo ancora?
E lui,
creatura
oscura, tutto sa e tutto ignora.
Canto senile
Tu gioventù che avanzi
e splendi
e fai apparire opaco
tutto quel che non sei tu…
Ignora non di meno
chiunque
il tempo quando coglierti.
Al principio
a mezzo
all’estremo
del tuo increscere,
quand’è
frutto, che pendi
più luminoso dal tuo ramo?
Non sa nessuna sorte
niente di sé
ma impera…
Oh gioventù, sii vera,
dissolvi le tue remore,
quando è l’ora…
Lasciami, non trattenermi
Lasciami, non trattenermi
nella tua memoria
era scritto nel testamento
ed era un golfo
di beatitudine nel nulla
o un paradiso
di luce e vita aperta
senza croce di esistenza
che sorgeva dalle carte
ammuffite nello scrigno.
Elei non ne fu offesa,
le nascevano, né sentì prima rimorso
e poi letizia, impensate latitudini
nella profondità del desiderio,
ecco, la trascinava
una celestiale oltremisura
fuori di quella ministoria, oh grazia.
Si scioglievano
l’uno dall’altro i due
e ogni altro compresente,
si perdevano sì,
però si ritrovavano
perduti nell’infinito della perdita –
era quello il sogno umano
della pura assolutezza.
Nascere a Trieste il 17 settembre 1928 può essere un destino: può esserlo, se quattro giorni prima, all’ospedale di Motta di Livenza, è morto Aron Hector Schmitz, in arte Italo Svevo. Può essere opera del destino anche il fatto che Tullio Kezich, nato appunto a Trieste il 17 settembre 1928, debutti al cinema nell’autunno del 1949 come segretario di produzione per il film Cuori senza frontiere, che Luigi Zampa gira sul Carso triestino, sulla mitica desolata «pietraia» che Scipio Slataper (un altro triestino) descrive come frustata dalla «bora aguzza di schegge».
È poi certamente segno del destino se nel 1964 Kezich esordisce come drammaturgo con l’adattamento della Coscienza di Zeno, e dal 1967 inizia per la RAI un'attività ventennale di produttore di film d'autore, che spesso lo porta ad attingere a testi di autori triestini: La rosa rossa di Quarantotti Gambini, Un anno di scuola di Giani Stuparich, e ancora La coscienza, che cambia titolo trasformandosi ne La città di Zeno. In tutti i suoi film è viva (e non solo come sfondo neutro delle vicende) la città tergestea, luogo magico che non cessa di far valere i meriti della sua cultura, quella cultura che Claudio Magris definisce «espressione di vita, anziché libresca esercitazione calligrafica». Magris è un altro di quei triestini che da Trieste hanno pensato di dover fuggire, ma che alla sua città è tornato senza esitazione. E anche Tullio Kezich a un certo punto se n’è andato, per vivere la sua personale diaspora, perché il destino di chi nasce a Trieste è quello di andarsene dalla città, come è successo a tutti i grandi triestini del passato e dell’immediato presente (Kezich parla della «scalogna che perseguita i decentratissimi, umiliati, orgogliosi autori triestini»: e sembra riferirsi anche alla propria personale vicenda). Ma a Trieste è stato poi richiamato dalla sua attività di uomo di cinema e di teatro, tanto che Guido Botteri lo situa nella categoria dei «ritornati virtuali», di coloro che, pur restando lontani, non riescono a dimenticare né la lingua né gli autori della loro amata «piccola patria». Trieste è per tutti loro un marchio indelebile, un radicamento che non si può estirpare: perché, come affermò Saba (e Kezich sarà senz’altro d’accordo), non è possibile credere «né alle parole né alle opere degli uomini che non hanno le radici profondamente radicate nella loro terra»; insomma (per parafrasare Svevo) «fuori dalla propria terra non c’è salvezza».
Certo nascere a Trieste quarantacinque anni dopo Umberto Saba vuol dire trovare una città completamente diversa da quella appartata e «scontrosa» che il «piccolo Berto» visse come «città contesa», da cui fuggì (e a cui comunque ritornò). La Trieste di Kezich è piuttosto la «città libera» del secondo dopoguerra, la città che rischiò di perdere definitivamente la sua italianità, la città ritrovata che si ricostruì con pena e tenacia; luogo dell'anima, ma anche fonte di «maledizione», come sanno bene quei letterati che l’hanno fatta grande senza ricavarne mai prestigio, né guadagno. Kezich afferma che «il colloquio con Italo Svevo è sempre stato facile per ogni triestino senza pregiudizi»: ma allora bisogna pensare che di pregiudizi (a Trieste e fuori di Trieste) dev’essere pieno il mondo della critica italiana, se Svevo ha faticato tanto a trovare apprezzamento («fu per anni un manoscritto in una bottiglia» chiosa infatti Kezich); e se per farlo apprezzare si sono dovuti muovere uno strampalato docente d’inglese fuggito da Dublino e un (mancato) cantante d’opera genovese!
Non è certo un caso, allora, che uno dei colloqui più intensi e partecipi con Italo Svevo l’abbia costruito uno che non è un critico letterario di professione, ma che ha saputo cogliere nell’«immortale concittadino», al di là dei bagliori della grandezza oggi (finalmente) da tutti riconosciuta, gli aspetti più profondi e sinceri dell’uomo: un «uomo di contraddizioni» (come lo definisce) che non ama l’arte facile, «signorilmente distaccato» dall’attualità e dalle sterili polemiche, pieno di «virile malinconia», capace di saldare «con miracolosa intuizione l’angoscia privata a quella di tutti», pronto a «un’autocritica spietata, ma senza compiacimenti morbosi, con un mezzo sorriso da galantuomo».
Veramente un ritratto intelligente e partecipe, profondo e affettuoso, che Kezich traccia di Svevo: frutto peraltro di una «degustazione protratta, attenta, disponibile», che nulla perde negli anni, ma anzi si affina e specializza nel ricercare la triestinità profonda dell’uomo Ettore Schmitz e del letterato Italo Svevo, mettendoli a confronto e facendoli stridere, scandagliandone incongruenze e affinità, ricercandone la particolarissima singolarità in un gioco di specchi inesauribile, che sulle tavole del palcoscenico o sotto l’occhio attento della macchina da presa assume sfumature sempre originali e rivelatrici.
Ma questo ritratto a tutto tondo non è per caso anche in parte un autoritratto? Forse le «vite parallele» di Zeno/Svevo, l’impari battaglia per affrontare e scandagliare la «vita originale» si riflettono oggi, come in un nuovo gioco di specchi, nell’appartata battaglia combattuta da Tullio Kezich per ridare dignità al teatro sveviano. L’attenzione critica sempre vigile che egli per cinquant’anni ha dedicato a Svevo, focalizzandone aspetti ignorati o addirittura negati da certa critica supponente, giunge infatti ad acquisizioni di particolare efficacia, come quando Kezich rileva che «Svevo in quanto uomo di teatro anticipa il narratore nell’approdare a una concezione dell’esistenza lontana dal tormento suicida di Alfonso Nitti o dall’erotismo autopunitivo di Emilio Brentani». In tal modo egli restituisce dunque al teatro quel ruolo centrale che Svevo aveva fin dalla giovinezza voluto assegnargli («il teatro, la forma delle forme» l’aveva definito) e lo propone anzi come chiave di lettura dell’intera produzione sveviana.
E infine Kezich non può esimersi dal riaffermare la dignità profonda del proprio operato, quando ribadisce che ogni spettacolo scaturito dalla lettura dei testi sveviani non è occasione mondana o brillante esercitazione calligrafica, ma è anzitutto un’indagine critica penetrante, una costante rilettura che mette in luce aspetti sempre nuovi del messaggio sveviano; per questo va letto «come un luogo e un modo della critica letteraria, un’interpretazione che vale almeno quanto una monografia scritta, un saggio e un articolo. Un esercizio di critica che non è meno degno d’attenzione per essere scritto, con le luci, i suoni, i colori e la musica, anziché mettendo il foglio in macchina».
Forse solo un triestino, allora, poteva riportare con tale efficacia Svevo in teatro, superando i preconcetti e la disattenzione del pubblico e degli «addetti ai lavori», gli equivoci critici e la malevolenza preconcetta, i falsi problemi e le idiosincrasie congenite. Forse solo un triestino poteva aiutarci a cogliere, sotto la ruvida scorza dell’ironia sveviana, il messaggio inesauribile che ne scaturisce: «Quando si nasce fra i refoli di bora, La coscienza di Zeno non è soltanto un libro: è un sasso nella coscienza più o meno stagnante, più o meno morta, di tutti».
«Il viaggio non esotico, cioè non evasivo, conduce al proprio centro, all'identità profonda, ed è l'orizzonte che rende possibile la scoperta di sé»: questa affermazione di Roberto Mussapi raffigura compiutamente l’idea che egli aveva del poeta come di un “viaggiatore della parola”, sempre alla ricerca di luoghi da conoscere e far conoscere, fossero essi spazi fisici del mondo o luoghi del mito classico, territori della grande tradizione anglosassone o affollate stazioni delle nostre città.
Non a caso uno dei suoi lavori più recenti è Poesie di viaggio (Torino, EDT, 2009), una straordinaria antologia in cui sono proposti viaggi letterari dei più differenti, da quello dell’Ulisse dantesco ansioso di conoscenza a quello dell’Ulisse omerico ritornato a casa, con testi di poeti e narratori di ogni epoca e paese, da Ovidio a Stevenson, da Orazio a Shelley, da Goethe alla Dickinson, da Foscolo a Coleridge, da Baudelaire a Ungaretti, da Campana a Walcott, da Brodskji a Luzi, da Apollinaire a Bigongiari, da Byron a D’Annunzio, da Kipling a Tagore e via dicendo.
Poeta, narratore, drammaturgo, saggista, editorialista, critico teatrale, traduttore, autore e conduttore di programmi per Radio Rai, curatore di testi classici e contemporanei, Roberto Mussapi è nato a Cuneo nel 1952, si è laureato in Lettere a Torino, trasferendosi poi a Bologna nel 1979; e dal 1982 vive a Milano.
Limitandoci alla sua attività poetica, possiamo ricordare tra le raccolte più importanti I dodici mesi (Parma, Guanda, 1979), La gravità del cielo (Milano, Jaca Book, 1984), Luce frontale (Milano, Garzanti, 1987), Gita meridiana (Milano, Mondadori, 1990), La polvere e il fuoco (Milano, Mondadori, 1997), La stoffa dell’ombra e delle cose (Milano, Mondadori, 2007), Frammenti dall'esistenza di Maria (Rimini, Raffaelli, 2012). Nel 2014, inoltre, presso l’editore milanese Ponte alle Grazie, è uscita una raccolta complessiva dei suoi versi intitolata Le poesie, a cura di Francesco Napoli, con una prefazione di Wole Soyinka e un saggio introduttivo di Yves Bonnefoy.
Ciò che caratterizza l’opera poetica di Mussapi è questa costante ricerca del senso del viaggio (e della vita), quel «genere di verità che perdiamo sempre di vista, quella che la poesia ricerca per lo più invano, quella stessa che forse la morte rivela, in modo evidente ma incomunicabile, perché giunta troppo tardi: e cioè che l’amore, il semplice amore tra persone, si rivela all’ultimo momento come la sola verità» (Y. Bonnefoy). Nel suo dettato, tendente per lo più al prosastico, ma capace di improvvisi sussulti lirici e straniamenti, talora elegante e architettonicamente costruito, ricco di estro e di raffinata sensibilità poetica, ritroviamo le grandi tematiche quotidiane e i miti eterni rivisitati, mentre ovunque è disseminato uno stupore attonito che fa apparire nuove e inconsuete le persone, gli animali, gli oggetti descritti. Partendo sempre dalla concretezza dell’esperienza quotidiana, Mussapi sa rinnovare il mito classico e costruirne sempre di nuovi, offrire parabole esistenziali e scene oniriche dense di valori simbolici.
Uno dei testi più coinvolgenti della sua produzione recente è Frammenti dall'esistenza di Maria (2012), sette lunghi monologhi che presentano, attraverso la voce narrante dell’arcangelo Gabriele, i momenti cruciali della vita della Vergine: la nascita di Gesù, l’invio dell’angelo all’Annunziata, il ritrovamento di Gesù tra i dottori nel tempio, il lavoro di Gesù nella bottega di Giuseppe, l’arrivo delle Marie al sepolcro, l’Ascensione, l’Assunzione. Qui il poeta rivela, attraverso le stranianti considerazioni dell’arcangelo Gabriele, cui “sfugge il mistero ultimo dell’uomo”, quelli che potremmo chiamare i retroscena degli episodi in cui è coinvolta Maria: i suoi silenzi e le sue incomprensioni, i suoi presagi e la sua angoscia, la sua gioia e le sue sofferenze, fino al momento culminante della sua salita al cielo, dove è accolta “regina nel suo regno di silenzio e ombra”.
Dicembre
Deformate dai riflessi dei vetri
passano barche bianche abiti sciolti
vuoti del corpo, anime trasparenti
afflosciate sull’acqua, con voci acute
e soffi striduli di strega, cortecce
semiliquide di corpi scissi
precipitati immobili nel letto,
nelle stanze di nebbia dei pesci senza gola.
Scorrono le sembianze dei corpi sommersi,
i veli bianchi che si gonfiano al soffio
dei cani molli della foce, fuggono
lacerate dai morsi di donne senza corpo,
cranii spaccati che galleggiano e sono puro suono
e addentano per proferire versi
e hanno occhi d’alga che s’aprono
ad assenze infinite, amori inesorabili
di chi parte sull’acqua.
Appannate dal ghiaccio delle cornea
fuggono terrazze sospese sull’acqua
strascichi di sembianze alate
tormentate da sguardi, da gridi di gabbiano
passano secoli millenni nel gelo di una palpebra
fuochi che riconosciamo specchiandoci
nei vapori d’inverno, passi percorsi
e nuovamente nati prima del proprio corso.
Il pesce che devo amare i canti della
palude che si levano a sera e sono
la mia perdita continua, il mio tributo
al pellicano, qui come un impiccato tra
la terra e il cielo aspetto di disperdere ancora
di espandermi alla voce che mi ha chiamato
la Principessa che ho diritto di amare
il vento che mi allontana e che mi stanca
quello che perdo, quello che mi scompare
passiamo come anime sgusciate dall’immagine
riflessa, chiamate da un suono denso e molle dove
la luna apre lo sguardo al nulla della luce spersa.
(da I dodici mesi)
Perché rinascere a quest’ora
Perché rinascere a quest’ora,
perché accendersi ancora in questo vento?
Tutto riposa, adagio,
resta un nucleo disperso
roccia silicea e povera,
tempo forato dal tempo, anni
che abbiamo lambito ognuno perso
nel suo grido, perso a un accenno.
Entra nel buio, acquattati
prendi i miei occhi, le mani, il silenzio
ma soffri più di lui, donati
al buio, non dubitare della tua presenza.
Rimani ferma nel dolore, ferma
per sempre, lasciati solo guardare, muori
se vuoi, purché tu sia visibile, vivente.
E io mi accenderò, quando
lo chiedi, adesso.
(da La gravità del cielo)
La notte del dieci Agosto
Non piangere, Harun, in questa notte d'agosto
quando le stelle cadono e la loro luce si dissolve
nel buio come la sabbia nel sonno:
se fossero sempre fisse e immutabili ti sarebbero estranee,
e il loro splendore immobile offenderebbe la tua carne.
Immagina che scendano per una compassione celeste,
incarnazione d'astri che si disfanno in polvere,
molecole di luce che si compenetrano al buio,
ricorda la storia del beduino Habib che si innamorò di una lucciola
e visse ogni istante della sua luce guardandola,
e disperò vedendola morire in una notte.
Ma dopo anni di pianto nel gelo del deserto
una notte all'improvviso lui la rivide
risplendere alta in una stella fissa:
la lucciola, l'errante, la luce fenomenica,
tornava dal cielo al beduino analfabeta.
Né tu, sultano, né il povero beduino,
avete pianto per una stella o una lucciola,
ma per la sola cosa per cui piange un uomo,
una donna: lì fu il dolore di luce persa,
premonizione astrale del tempo spegnente,
l'estinzione già inclusa nella ferita del miracolo,
e la distanza dal cielo, la morte.
Impara dal beduino, amala come si ama una lucciola,
donati a ogni suo istante di sopravvivenza,
e quando lei ti parrà persa nella notte
tu nei suoi occhi scoprirai di colpo
la luce alta delle stelle fisse,
e in lei che parve dissolversi in una notte di agosto
l'affinità mortale con te che la supplichi.
(da La polvere e il fuoco)
Il passero di Lesbia
Il mio cuore si spense nel suo palmo,
le ali frullanti tra polso e bracciale
e fui già via, nel limbo
dei non umani, i poveri messaggeri del cielo.
Sentii me stesso spegnersi come in loro il cervello
di sera si addormenta, senza sapere
se mai ci sarà un altro risveglio.
Ero piccolo.
Pregò lui, che non aveva dèi in cui credere.
Vidi svenendo gli occhi di Catullo
pieni e ingranditi dal flusso delle lacrime.
Le oscure divinità ebbero pena,
il pianto dei Cupidi e delle Veneri
sorse spontaneo come aveva pregato il poeta.
Sentii le mie piccole ali ridestarsi e vibrare
e volai via, inconscio, incolume,
passai la soglia che conduceva al giardino,
sfiorai la vasca delle lamprede e dei murici,
vidi volando la murena dormiente,
poi cambiò tutto, entrai nel tempo,
la macina che opprime i sublunari
che hanno anime individuali e meridiane,
e scrivono parole con l’inchiostro.
Le ali umide per il palmo di Lesbia
ancora calde dell’ultimo nido
in me, o nell’aria, le parole di Catullo,
“animula”, aveva detto, “tenera vita”,
la mia, che gli svaniva tra le dita
sfioranti quelle della donna amata.
Ma cadde nell’errore del poeta,
che fare eterno in questo mondo sia un dono
come se non fossi un vivente ma un pensiero,
già pagina, voce impressa, pietra scritta.
Avrei preferito spegnermi tra le sue dita
nell’ultima culla senza canto e voce,
piuttosto che sopravvivere a amore e fine,
vedendo Lesbia morire, andare via,
leggere data di nascita e di morte su una lapide
del grande Catullo che mi ottenne la vita.
Per essere qui, ora, nell’oltretempo terreno
solo a cantare a piena voce la fine
dei corpi che si abbracciano in furia e sudore,
qui, sulla vetta della torre antica
passero solitario, a un timido amico
che il tempo che ci illuse in terra avrà fine
e Lesbia, e Catullo, e Leopardi, in un respiro
e la città di Roma e le carte sudate
mi ordineranno di cantare ancora.
(da La stoffa dell’ombra e delle cose)
A Mario Luzi, nel giorno della sua morte
So che non è istantaneo il distacco,
né breve il sospiro di commiato
là nella troposfera vuota dove s’incontrano
il fiato del morituro e il soffio del trapassante,
lo so perché lo appercepii vivendo
e lo avevo già inciso in me prima di vivere.
E che anche la tua voce non si è spenta all’istante
ma in un tempo di ere da lunedì a mezzogiorno
per qualche ora tremolava nell’aria,
già sfarinata, come da bambino
sentivo la neve scendere, a Natale.
E non è breve la sua scomparsa, s’apprende
a soffi e claudicanti respiri interni
lì tra l’orecchio e la gola, dove ascolti
e dove ebbero origine la voce e il gemito,
e l’alba della vita melmosa e orante.
So che non è incorporea, la memoria,
lo so, tu me l’hai fatto vero, appena morto
ma che incorpora il morto nel corpo vivente,
come quando si spezza un vetro o esplode un singhiozzo
e dalle schegge e lacrime il bacio tra aorta e mondo.
Senti qualcosa spezzarsi, tra le fronde,
ma l’ombra ti consola, prima che finisca il giorno.
Nell’albero si strazia la mia carne
e mentre il ramo si spezza la linfa ascende,
e ora, ora, Mario, la parola s’informa,
disintegrata e infissa alla sua cellula…
È duro Amore staccarsi da Amore, ma all’unisono
si scerpa e si glorifica la carne.
(da La stoffa dell’ombra e delle cose)
La nascita
Faceva troppo freddo quella notte,
la folla in viaggio, sparsa, si era ritirata negli alberghi
prima del tramonto, per proteggersi dalla brina nascente
che scintillava sulla sabbia come nevischio.
Mentre il buio scendeva la morsa li strinse,
non avevano trovato alloggio, lei vacillava
sul dorso dell’asino, ma sorrideva a Giuseppe
a cui negli occhi cresceva l’angoscia della notte
con il suo gelo già dal tramonto bruciante.
Fu lei, con la mano destra, che indicò la grotta,
un anfratto poco distante, interrato.
Si intravedeva un’apertura, la raggiunsero.
“Impossibile – disse lui – È troppo fredda.”
“Ci è stata data, sulla strada” rispose la donna
e sorrideva, già nelle doglie.
“Adagiami qui, ora accade.”
Poi tutto fu buio a me quello che avvenne dentro,
la conoscenza astrale e la carne divina
di cui siamo tessuti fibra per fibra
ha zone di buio, isole d’ombra:
il vuoto della caverna, il cuore della roccia…
A noi nutriti di luce siderea
sfugge il mistero ultimo dell’uomo,
che solo lui conosceva, lui nascente,
lo splendore del buio.
Ma io sentivo il respiro nella grotta,
là fuori, sulla soglia, in alto, a fare da scolta
ero nutrito da un respiro profondo
che gonfiava la terra di luce e vento
e rianimava le zolle salendo dagli inferi,
arando per la semina celeste.
Allora quando sentii la sua voce,
simile a un sorriso se il sorriso l’avesse,
confusa col belato di un agnello,
una voce radiante di regina,
sì, di regina nello stesso tempo,
allora fui libero di annunciare al mondo
che in quell’anfratto a bacino nella grotta
simile a una mangiatoia di pietra era nato
il cibo sognato per tutti i viventi
e i morti e i nascituri congiunti per sempre.
Nel mio fiato angelico, nell’abbagliante
luce che sprigionava dalle mie fibre e dagli occhi,
io li vedevo avvicinarsi, timidi,
poi sempre in numero e intensità crescenti,
in un buio che era divenuto di cobalto
sul pavimento di brina che splendeva sotto le stelle,
e mentre di fronte a lei e al bambino scaldati dall’asino
si buttavano in ginocchio per terra
io ora vedevo alle mie spalle, vedevo nel buio della grotta
sfericamente baciante la mia sfera celeste,
e non cessavo più di gridare e splendere
preso da un’euforia che non conoscevo dall’attimo
in cui ero venuto alla luce e all’universo.
Se fossi stato umano, avrei pianto.
(da Frammenti dell’esistenza di Maria)
La prima guerra mondiale, esplosione di violenza armata di ampiezza e crudeltà impensabili, assolutamente non paragonabile ai precedenti conflitti per estensione e per coinvolgimento di popolazioni, è stata massicciamente rievocata e rivisitata nell’anno appena trascorso, spesso con obiettive e opportune considerazioni e approfondimenti. Ma non va dimenticato che la sua durata va ben oltre l’anno 1915, “abbracciando” un periodo di oltre quattro anni, dal luglio 1914 al novembre 1918.
Un secolo fa questo avvenimento suscitò numerosissime testimonianze, dei più diversi tipi e livelli: lettere private e poesie, autobiografie e cronache, saggi e volantini, romanzi e diari, memoriali e relazioni tecniche, pagine stese all’epoca e altre redatte a distanza di anni o addirittura di decenni; opere di pittura e di scultura, fotografie e filmati. I materiali sono estremamente difformi anche dal punto di vista stilistico: colti o popolari, estemporanei o meditati, nei registri espressivi più svariati. Ma il dato che ne accomuna la maggior parte è la delusione che prima o poi attanaglia tutti i testimoni, anche quelli che in un primo momento avevano affrontato l’esperienza con entusiasmo e convinzione.
Tra questi possiamo ricordare lo scrittore sardo Emilio Lussu (1890-1975), che fu convinto interventista e appena dopo la laurea partì volontario come ufficiale di complemento. Dopo un periodo passato sul Carso, nel maggio 1916 egli fu trasferito con la “Brigata Sassari” sull’Altipiano di Asiago, dove rimase fino al luglio 1917. È a questa fondamentale esperienza che si rifà il suo libro-testimonianza più famoso: Un anno sull’Altipiano, scritto dopo lunga ponderazione nel 1936/’37 e pubblicato l’anno dopo a Parigi, dove si era rifugiato in quanto antifascista.
La delusione per l’evolversi del conflitto è ben visibile nelle pagine autobiografiche del volume, dove per esempio Lussu afferma: «è da oltre un anno che io faccio la guerra, un po' su tutti i fronti, e finora non ho visto in faccia un solo austriaco. Eppure ci uccidiamo a vicenda, tutti i giorni. Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi! È orribile!»
Ciò che provoca risentimento e profonda indignazione in Lussu (e in moltissimi altri che ce ne hanno lasciato testimonianza) è la percezione dell’inutilità di questo conflitto, dell'incapacità diffusa nei comandanti, dell'impreparazione militare a tutti i livelli, dello sfacelo cui era condannata la massa dei soldati proprio a causa della cecità dei superiori. Nel suo libro egli descrive con disadorna immediatezza le lunghe giornate in trincea, la rassegnazione, l’insofferenza e lo smarrimento delle truppe di fronte a ordini assurdi e contraddittori, gli spaventosi massacri in cui quasi sempre si risolvevano gli assalti contro le trincee nemiche. Possiamo rileggerne un brano, tratto dal cap. XV:
“Il cannone aveva ottenuto, per solo risultato, la ferita del puntatore e del tenente. I guastatori erano caduti tutti. Ma l’assalto doveva aver luogo egualmente. Il generale era sempre là, come un inquisitore, deciso ad assistere, fino alla fine, al supplizio dei condannati. Mancavano pochi minuti alle 9.
Il battaglione era pronto, le baionette innestate. La 9a compagnia era tutta ammassata attorno alla breccia dei guastatori. La 10a veniva subito dopo. Le altre compagnie erano serrate, nella trincea e nei camminamenti e dietro i roccioni che avevamo alle spalle. Non si sentiva un bisbiglio. Si vedevano muoversi le borracce di cognac. Dalla cintura alla bocca, dalla bocca alla cintura, dalla cintura alla bocca. Senza arresto, come le spolette d’un grande telaio, messo in movimento.
Il capitano Bravini aveva l’orologio in mano, e seguiva, fissamente, il corso inesorabile dei minuti. Senza levare gli occhi dall’orologio gridò:
– Pronti per l’assalto!
Poi riprese ancora:
– Pronti per l’assalto! Signori ufficiali, in testa ai reparti!
Il sergente dei guastatori ferito continuava a gridare:
– Avan…
Gli occhi dei soldati, spalancati, cercavano i nostri occhi. Il capitano era sempre chino sull’orologio e i soldati trovarono solo i miei occhi. Io mi sforzai di sorridere e dissi qualche parola a fior di labbra; ma quegli occhi, pieni di interrogazione e di angoscia, mi sgomentarono.
– Pronti per l’assalto! – ripeté ancora il capitano.
Di tutti i momenti della guerra, quello precedente l’assalto era il più terribile.
L’assalto! Dove si andava? Si abbandonavano i ripari e si usciva. Dove? Le mitragliatrici, tutte, sdraiate sul ventre imbottito di cartucce, ci aspettavano. Chi non ha conosciuto quegli istanti, non ha conosciuto la guerra.
Le parole del capitano caddero come un colpo di scure. La 9a era in piedi, ma io non la vedevo tutta, talmente era addossata ai parapetti della trincea. La 10a stava di fronte, lungo la trincea, e ne distinguevo tutti i soldati. Due soldati si mossero ed io li vidi, uno a fianco dell’altro, aggiustarsi il fucile sotto il mento. Uno si curvò, fece partire il colpo e s’accovacciò su se stesso. L’altro l’imitò e stramazzò accanto al primo. Era codardia, coraggio, pazzia? Il primo era un veterano del Carso.
– Savoia! – gridò il capitano Bravini.
– Savoia! – ripeterono i reparti.
E fu un grido urlato come un lamento ed un’invocazione disperata. La 9a, tenente Avellini in testa, superò la breccia e si slanciò all’assalto. Il generale e il colonnello erano alle feritoie.
– Il comando di battaglione esce con la 10a, – gridò il capitano.
E quando la testa della 10a fu alla breccia, noi ci buttammo innanzi. La 10a, la 11a e la 12a, seguirono di corsa. In pochi secondi tutto il battaglione era di fronte alle trincee nemiche.
Che noi avessimo gridato o no, le mitragliatrici nemiche ci attendevano. Appena oltrepassammo una striscia di terreno roccioso ed incominciammo la discesa verso la vallata, scoperti, esse aprirono il fuoco. Le nostre grida furono coperte dalle loro raffiche. A me sembrò che contro di noi tirassero dieci mitragliatrici, talmente il terreno fu attraversato da scoppi e da sibili. I soldati colpiti cadevano pesantemente come se fossero stati precipitati dagli alberi.
Per un momento, io fui avvolto da un torpore mentale e tutto il corpo divenne lento e pesante. Forse sono ferito, pensavo. Eppure sentivo di non essere ferito. I colpi vicini delle mitragliatrici e l’incalzare dei reparti che avanzavano alle spalle mi risvegliarono. Ripresi subito coscienza del mio stato. Non rabbia, non odio, come in una rissa, ma una calma completa, assoluta, una forma di stanchezza infinita attorno al pensiero lucido. Poi anche quella stanchezza scomparve e ripresi la corsa, veloce.
Ora, mi sembrava di essere ridivenuto calmo, e vedevo tutto attorno a me. Ufficiali e soldati cadevano con le braccia tese e, nella caduta, i fucili venivano proiettati innanzi, lontano. Sembrava che avanzasse un battaglione di morti. Il capitano Bravini non cessava di gridare:
– Savoia!
Un tenente della 12a mi passò vicino. Era rosso in viso e impugnava un moschetto. Era un repubblicano e aveva in odio il grido d’assalto monarchico. Egli mi vide e gridò:
– Viva l’Italia!
Io avevo in mano il bastone da montagna. Lo levai in alto per rispondergli, ma non potei pronunciare una parola. Se noi ci fossimo trovati su un terreno piano, nessuno di noi sarebbe arrivato ai reticolati nemici. Le mitragliatrici ci avrebbero falciati tutti. Ma il terreno era leggermente in discesa e coperto di cespugli e di sassi. Le mitragliatrici erano obbligate continuamente a spostare l’elevazione e il puntamento, e il tiro perdeva della sua efficacia. Non pertanto, le ondate d’assalto diradavano e su mille uomini del battaglione, pochi restavano in piedi ed avanzavano. Io guardai verso le trincee nemiche. I difensori non erano nascosti, dietro le feritoie. Erano tutti in piedi e sporgevano oltre la trincea. Essi si sentivano sicuri. Parecchi erano addirittura dritti sui parapetti. Tutti sparavano su di noi, puntando calmi, come in piazza d’armi.
Io urtai contro il sergente dei guastatori. Egli era rovesciato su un fianco, cinto della corazza, l’elmetto forato da parte a parte. Era stato colpito alla testa, mentre incitava i suoi compagni, e ripeteva il grido che gli era stato troncato, con una cantilena pietosa:
– Avan… avan…
Attorno, giacevano tre guastatori, con le corazze squarciate.
Giungevamo alle trincee. Anche il capitano Bravini cadde colpito, ed io lo vidi, le braccia aperte, sprofondarsi in un cespuglio. Lo credetti morto. Ma, subito dopo, ne sentii il grido di «Savoia!» ripetuto, ad intervalli, con voce fioca.
Il battaglione doveva attaccare su un fronte di 250-300 metri. Ma l’avvallamento del terreno ci aveva involontariamente sospinti, man mano che avanzavamo, verso la stessa striscia di terreno antistante alle trincee nemiche, larga appena una cinquantina di metri. Le mitragliatrici non potevano più colpirci, ma noi offrivamo, ai tiratori in piedi, un bersaglio compatto. I resti del battaglione erano tutti ammassati in quel punto. Contro di noi si sparava a bruciapelo.
D’un tratto, gli austriaci cessarono di sparare. Io vidi quelli che ci stavano di fronte, con gli occhi spalancati e con un’espressione di terrore quasi che essi e non noi fossero sotto il fuoco. Uno, che era senza fucile, gridò in italiano:
– Basta! Basta!
– Basta! – ripeterono gli altri, dai parapetti.
Quegli che era senz’armi mi parve un cappellano.
– Basta! bravi soldati. Non fatevi ammazzare così.
Noi ci fermammo, un istante. Noi non sparavamo, essi non sparavano. Quegli che sembrava un cappellano, si curvava talmente verso di noi, che, se io avessi teso il braccio, sarei riuscito a toccarlo. Egli aveva gli occhi fissi su di noi. Anch’io lo guardai.
Dalla nostra trincea, una voce aspra si levò:
– Avanti! soldati della mia gloriosa divisione. Avanti! Avanti, contro il nemico!
Era il generale Leone.
Il tenente Avellini era a qualche metro da me. Ci guardammo l’un l’altro. Egli disse:
– Andiamo avanti.
Io ripetei:
– Andiamo avanti.
Io non avevo la pistola in pugno, ma il bastone da montagna. Non mi venne in mente d’impugnare la pistola. Lanciai il bastone contro gli austriaci. Qualcuno lo raccolse per aria. Avellini aveva la pistola in mano. Egli si fece avanti, cercando di passare su un tronco rovesciato sopra i reticolati intatti. Era il tronco d’un abete che, schiantato da una granata, s’era abbattuto sui fili di ferro. Egli vi era montato sopra e procedeva con difficoltà, come su una passerella. Sparò un colpo di pistola e gridò ai soldati:
– Ma sparate dunque! Fuoco!
Qualche soldato sparò.
– Avanti! Avanti! – urlava il generale.
Avellini camminava sul tronco e faceva degli sforzi per mantenere l’equilibrio. Dietro di lui, due soldati si reggevano a stento. Io ero arrivato a una difesa di reticolati in cui mi sembrò si potesse passare. Attraverso i fili, infatti, v’era un passaggio stretto. Io l’infilai. Ma, fatto qualche passo, trovai lo sbarramento d’un cavallo di frisia. Era impossibile continuare. Mi voltai e vidi soldati della 10a che mi seguivano. Rimasi lì, inchiodato. Dalle trincee, nessuno sparava. In una ampia feritoia, di fronte, scorsi la testa d’un soldato. Egli mi guardava. Io non ne vidi che gli occhi. Vidi solo gli occhi. E mi sembrò ch’egli non avesse che occhi, talmente mi parvero grandi. Lentamente, io feci dei passi indietro, senza voltarmi, sempre sotto lo sguardo di quei grandi occhi. Allora io pensai: gli occhi di un bue.
Mi svincolai dai reticolati e mi diressi contro Avellini. Sul tronco v’era già un gruppo di soldati in piedi, aggrappati fra di loro. Mentre io mi avvicinavo al tronco, dalla trincea nemica, una voce di comando gridò alta, in tedesco:
– Fuoco!
Dalla trincea, partirono dei colpi. Il tronco si rovesciò e gli uomini caddero indietro. Avellini non era ferito e rispose con dei colpi di pistola. Tutti ci buttammo a terra, fra i cespugli, e ci riparammo dietro gli abeti. L’assalto era finito. Io ho impiegato molto tempo a descriverlo, ma esso doveva essersi svolto in meno d’un minuto.
Avellini era vicino e mi bisbigliò:
– Che dobbiamo fare?
– Non muoverci più e attendere fino a notte, – risposi.
– E l’assalto? – insistette.
– L’assalto?
Gli austriaci continuavano a sparare, ma il tiro era alto. Noi eravamo al sicuro. La voce del capitano Bravini arrivava fino a noi, stanca. Egli continuava a ripetere «Savoia». Carponi, io mi misi alla ricerca del capitano. Credo che vi arrivai in un’ora. Egli era disteso, la testa dietro un sasso, una mano sulla testa. Senza la giubba, aveva un braccio fasciato, coperto di sangue. Al suo fianco, non v’erano che morti. Egli si doveva essere fasciato da sé. I cespugli lo riparavano dalla vista delle trincee. Io gli arrivai vicino, senza ch’egli se ne accorgesse. Lo toccai ad una gamba ed egli mi vide. Mi guardò a lungo e ripeté ancora, abbassando la voce:
– Savoia.
Io mi portai l’indice alla bocca per invitarlo a tacere. Strisciai fino alla sua testa e gli mormorai all’orecchio:
– Stia zitto!
Egli parve risvegliarsi da un lungo sonno. Mise anch’egli l’indice alla bocca e non parlò più. Fu come se io avessi toccato il bottone d’un congegno meccanico e lo avessi fermato.
Ora, tutta la vallata taceva. I nostri feriti non si lamentavano più. Anche il sergente dei guastatori taceva, sprofondato nell’eterno silenzio. Neppure gli austriaci sparavano più. Sul piccolo campo di battaglia batteva il sole. Così passò il resto di quel giorno, un attimo ed un’eternità.
Quando, la notte, rientrammo alle nostre linee, il generale volle stringere la mano a tutti gli ufficiali; cinque, compresi i feriti. Allontanandosi, disse al capitano Bravini, che aveva l’avambraccio fratturato:
– Lei può contare su una medaglia d’argento al valor militare sul campo.
Il capitano stette sull’attenti finché il generale non scomparve. Rimasto solo con noi, si sedette e pianse tutta la notte, senza riuscire a pronunziare una parola.
Finito il ritiro dei feriti e dei morti, che gli austriaci ci lasciarono raccogliere senza sparare un colpo, io mi ero sdraiato, cercando di dormire. La testa mi era leggera, leggera, e mi sembrava di respirare con il cervello. Ero sfinito, ma non riuscivo a prendere sonno. Il professore di greco venne a trovarmi. Egli era depresso. Anche il suo battaglione aveva attaccato, più a sinistra, ed era stato distrutto, come il nostro. Egli mi parlava con gli occhi chiusi.
– Io ho paura di diventare pazzo, – mi disse. – Io divento pazzo. Un giorno o l’altro, io mi uccido. Bisogna uccidersi.
Io non seppi dirgli niente. Anch’io sentivo delle ondate di follia avvicinarsi e sparire. A tratti, sentivo il cervello sciaguattare nella scatola cranica, come l’acqua agitata in una bottiglia”
Liberamente tratto da questo romanzo, e molto efficace nella sua polemica pacifista, è il film Uomini contro di Francesco Rosi (1970), che si avvalse della sceneggiatura di due letterati di qualità come il poeta romagnolo Tonino Guerra e il narratore napoletano Raffaele La Capria.
Insegnante, pedagogista, filosofo (o meglio “libero pensatore”), Angelo Visigalli riserva da sempre alla poesia “una docile accoglienza”: la lascia cioè filtrare nelle sue giornate “come viandante ed ospite / inattesa”, la riceve con disponibilità e gratitudine, per offrirla poi a quei lettori discreti ed attenti che a loro volta sono pronti a darle spazio nella propria vita.
La sua produzione poetica data ormai da molti decenni, ma la naturale ritrosia l’ha sempre trattenuto dal pubblicarla attraverso i canali ufficiali: si è limitato a farla conoscere agli amici, agli allievi, ai pochi che pensava l’avrebbero amata.
Il suo amore per la poesia si è espresso, oltre che nello scrivere, nell’insegnare ai giovani il ruolo e l’importanza di quest’arte: in particolare negli ultimi anni si è fatto promotore nella sua scuola di celebrare con iniziative sempre coinvolgenti e innovative la “Giornata mondiale della poesia”, il 21 di marzo.
Nelle sue poesie Visigalli sa essere lieve ed essenziale senza mai scadere nel sentimentalismo o nell’ovvietà. Soprattutto nei testi degli ultimi decenni vediamo affinarsi sempre più il dettato, che si sbriciola in versi brevi e delicati, come una musica sospesa e incantata, per chiudersi spesso con sentenze feroci, come “tentacoli urticanti / di meduse”. Questo vale per le poesie che potremmo definire d’amore, dove il poeta sa far risuonare i sentimenti più vari, dalla tenerezza alla trepidazione, dal timore al desiderio, dall’esitazione alla gioia, in una tessitura che non diventa mai puro descrittivismo, ma rilettura dei fatti e delle persone in chiave personale ed intima.
Questo vale soprattutto in quelle che potremmo definire “poesie d’occasione”, perché nate da un incontro, una visione, un momento della stagione o del giorno, un oggetto visto sotto una luce nuova: egli sa offrirci questi oggetti quotidiani, fiori, paesaggi, giardini incantati, animali più o meno comuni, tratteggiandoli con mano delicata nella loro recondita essenza, quasi a dirci che la loro vera ragion d’essere può essere colta solo da chi sa osservare con pazienza ed affetto, andando oltre la realtà tangibile, oltre l’apparenza, fino a giungere al nucleo pulsante della vita.
Si propongono qui testi dell’ultimo quindicennio di produzione.
[Markus Bruggen]
Markus Bruggen
è il nome,
scritto con un soffio;
un piccolo verde abete,
ricamato su un angelo di pizzo,
è il fiore del suo inverno.
la neve alta lo nasconde,
il cero giallo bruciando
lo rivela:
ventidue anni di vita,
otto di memoria lancinante
e ribollente.
[senza titolo]
altrove (ma non qui)
fioriscono amori trasparenti
come i bianchi soffioni
a primavera;
altrove (ma non qui)
accendono teneri corpi
i caldi sussurri
della notte;
altrove, altrove … non più qui
dove il silenzio regna
freddamente
e il buio protende
tentacoli urticanti
di meduse.
“ho fatto un po' tardi!''
…e mi sembra
di essere
troppe volte,
sempre,
comunque in ritardo:
in ritardo
sul desiderio di te,
in ritardo quando ci sei,
in ritardo quando non ci sei,
o anche
quando sei appena
arrivata
ma
già. . .
(senza più desiderio,
ormai)
sei partita.
[per noi umani]
per noi umani il volo
è invidia dell'altezza,
un infinito sguardo
dalle nubi, a disegnare
divinamente il mondo
con gli occhi
e plasmare con l'aria
una tetra nuova di cielo,
ora che anche il mare
non le basta più
come respiro.
attesa
trema la luna
sulla spuma del mare,
maschera di biacca
a intermittenti sorrisi:
per attimi brilla
di scaglie di luce,
diverte la notte
eclissante nel buio;
cerca intanto ovattati
silenzi in tiepidi abissi.
la luna in attesa
è falena impazzita
da lampade accese
irretite dal mare:
l’attesa è una Scala
di nuvole rosse,
uno scoglio di inciampi
a squarciare la nave:
trema sempre la luna
sulla spuma del mare.
[perché inombrarsi]
perché inombrarsi in un parco
o in un giardino,
quando il sole insperato
risplende nella sua luce
spianata sulle foglie rugginose
dei viali?
perché sedere a un tavolo
di carte, quando nuvole
ubriache di vento
spalancano nel cielo finestre
di azzurra vertigine?
è l’oscura incertezza
che attanaglia la nostra vita
e, come per i venti,
di noi conosciamo
la provenienza
ma quasi sempre ignoriamo
la destinazione.
[inafferrabile nuvola]
inafferrabile nuvola
sopra la città
che la sera prosciuga
in un vortice di voci
e di colori mutanti,
oltre interrotti silenzi
e lacunose penombre,
nuvola sospesa,
distesa in corridoi
di luce,
guardando su
verso il cielo,
nuvola già rosa,
già grigia,
già filo di nebbia
fluttuante tra i tetti,
già mio sospiro
e volo
di prigioniero
del buio errante nella città!
[amo la segreta bellezza]
amo la segreta bellezza
della rosa,
non quella che la rende
fiore ardente e voluttuoso
allo sguardo di chi ama
ma quella del bocciolo
verde quando nel velo
di petalo bianco trascolora
oppure mentre rimemora
ogni volta l’ordine esatto
dei petali in forma di corolla.
amo la segreta bellezza
della rosa
anche quando sgretola
la terra con secche radici
e fa di ogni spina sul gambo
la sua memoria ferita.
amo la segreta bellezza
della sua vita.
[con la leggerezza]
con la leggerezza
di un velo da sposa,
il gelsomino stellato
si dispone
tra porta e finestra,
aprendosi a ventaglio
verso il sole:
lucertola e farfalla
ricamano un minuetto
quasi inseguendosi
tra il verde dei rami
e il bianco dei fiori:
ronzano le vespe
nel piccolo cortile,
impazienti di cibo
a mezzogiorno.
[senza titolo]
c’è urgenza di vento nell’aria
là dove il sereno stenta ad apparire,
urgenza di vento
perché la nebbia schiarisca
nel rivelarsi del mondo
che nascondeva,
vento che faccia
specchio di stelle il cielo
e miracolo la luna piena
al centro della piazza:
è la prima sera dopo il Natale
e c’è già urgenza
di un altro Natale!
E per concludere un testo che rivela chiaramente, “a lettere di fuoco” (potremmo dire) ciò che Angelo Visigalli intende per “poesia”, qual è il suo rapporto con lei, quale atteggiamento egli ha nell’attesa di esserne visitato:
non ho fatto della poesia
il mio destino,
non la inseguo compagna
della gloria
né la corteggio signora
delle stelle:
aspetto di incontrarla
sulla via
come viandante ed ospite
inattesa:
per lei invento una sacra
sua dimora,
una piccola stanza
di calde parole,
un luogo in cui
non farle male,
una docile accoglienza.
«Si dice che all'interno dei quattro vangeli noti è come se ce ne fosse uno ancora sconosciuto. Ma ogni volta che la fede accenna a rifiorire, è segno che qualcuno ha intravisto quel Vangelo»: sono parole forti, quasi irriverenti, quelle che Mario Pomilio (1921-1990) ci rivolge nel suo romanzo più noto, Il quinto evangelio, edito nel febbraio 1975. L’opera suscitò immediatamente discussioni, apprezzamenti e dissensi, ma costituì, soprattutto per i giovani di allora, uno straordinario portolano, fonte di riflessioni profonde, di ripensamenti e riletture, di scelte coraggiose e anticonformiste.
Il romanzo ebbe inizialmente un successo straordinario di critica e di pubblico, tanto che in sei anni se ne realizzarono ben diciotto ristampe, anche se presto dovette subire la sorte di tutti i best-seller: ma se a tutt’oggi non è dimenticato, ciò è dovuto da un lato alla straordinaria forza di novità che ancora dimostra, dall’altro lato alla meritoria scelta della casa editrice L’Orma, che un anno fa ne ha proposto un’edizione rinnovata e accresciuta da una interessante Appendice (Tre scritti di Mario Pomilio), un’accurata Nota ai testi, una meticolosa Nota archivistica di Wanda Santini (che rivela Come lavorava Mario Pomilio) e un corposo saggio di Gabriele Frasca intitolato La verità, la ricerca e la consegna.
La vicenda del Quinto evangelio prende avvio dalle indagini dell’irrequieto protagonista, il giovane ufficiale statunitense Peter Bergin, «quasi agnostico in fatto di religione, e formatosi oltre tutto in area non cattolica» (come egli stesso si definisce nella lettera che apre il romanzo), inviato nel 1945 in una Germania ormai prossima alla disfatta in virtù della sua ottima conoscenza del tedesco. Egli alloggia per parecchi mesi nella canonica di una chiesa bombardata di Colonia, dove ha modo di interessarsi ai libri e soprattutto ai numerosissimi appunti del sacerdote che in quel luogo aveva lungamente abitato: e ben presto si appassiona alla ricerca che lo sconosciuto aveva iniziato di un fantomatico “quinto vangelo”. Diventa così «pellegrino di sogni» e, una volta tornato in America al suo incarico di ricercatore e poi docente universitario, si trova suo malgrado a orientare l’intera sua vita (e in seguito anche quella dei suoi allievi-discepoli) sulle tracce di questo introvabile vangelo, «il libro nascosto il quale soggiace alle Scritture già note e in perpetuo ne modifica e ne amplifica il senso».
La lettera che apre il romanzo è indirizzata al segretario della Pontificia Commissione Biblica, cui il vecchio Bergin, ormai vicino alla morte, vorrebbe affidare la prosecuzione della sua estenuante e infruttuosa ricerca; ma l’ultima lettera inviata al prelato dalla segretaria del professore lascia intendere che tale attesa è mal riposta. Dopo la morte del professore, i suoi discepoli scoprono tra le sue carte un dramma nel quale egli rivive i mille interrogativi suscitatigli dal miraggio del vangelo sconosciuto: è Il quinto evangelista, il testo teatrale che fa da suggello all’opera.
Scrive Pomilio nel colophon: «Occorre appena, credo, avvertire che questa è un'opera d'invenzione e che le stesse fonti che si menzionano o sono immaginarie (e la più parte sono tali), o sono adottate con la massima libertà. Un caso a parte è però rappresentato dalla "Storia di fra Michele minorita”, un effettivo rifacimento (camuffato, come s'è visto, dietro un altro rifacimento) dell'omonima narrazione scoperta e pubblicata per l'appunto nel 1864. Quanto alla "Giustificazione", il lettore avrà già intravisto in controluce qualche prestito dall'autobiografia di Giannone e dalle memorie di Da Ponte». Nonostante questa indicazione dell’autore, che vorrebbe sottolineare il carattere romanzesco dell’intera vicenda, bisogna dire che i riferimenti e le citazioni del fantomatico quinto vangelo non sono pura invenzione: in gran parte essi derivano dalle cospicue letture che Pomilio andava facendo negli anni sessanta, quando aveva cominciato a pensare all’opera. Erano infatti apparsi nel 1969 da Einaudi I Vangeli apocrifi a cura di Marcello Craveri e qualche anno prima una nuova traduzione dei quattro Vangeli curata da grandi scrittori come Lisi, Alvaro, Valeri e Bontempelli, di cui lo scrittore dice: «la lettura m’aveva portato a riflettere su molte cose insieme: sul potere, ad esempio, che ha una traduzione ben fatta di riavvicinarci a un testo e renderlo nuovo e nostro; su come, nel caso specifico [...] tale effetto risultasse misteriosamente raddoppiato; sull’errore che invece s’era commesso in area cattolica, rendendo canonica la Vulgata e scoraggiando così a lungo la diffusione dei Vangeli in lingua fresca, in lingua viva [...]. L’ idea del quinto Vangelo, del Libro dei Libri o dell’Apocrifo degli Apocrifi [...] germinò sicuramente da tutte queste cose insieme, in una certa febbrile mattina dell’agosto 1969».
E ancora non si dimentichi che negli anni sessanta erano finalmente disponibili anche ai non addetti ai lavori i testi gnostici scoperti nel 1945 a Nag-Hammâdi, in Alto Egitto, tra cui il Vangelo di Tommaso e il Vangelo di Filippo, che molto incuriosirono Pomilio; e venivano studiati e divulgati i manoscritti del Mar Morto, trovati fortuitamente nel 1947 nelle grotte di Qumran. Per questo Pomilio può affermare, riferendosi al Quinto evangelio: «ho inventato degli ipotetici documenti che avrebbero dovuto rassomigliare ai possibili documenti delle epoche alle quali mi riferisco [...]; anche se i personaggi sono diversi, il messaggio e l'esigenza rimbalzano dall'uno all'altro e la continuità del libro è stabilita dal fatto che queste persone sono tutte quante dentro una situazione che le raccoglie e le unifica». In sostanza il metodo con il quale Pomilio lavora consiste nel mettere sistematicamente a confronto testi apocrifi (o comunque extra-canonici), testi neotestamentari in rinnovate traduzioni, frammenti di pura invenzione, rifacimenti e interpolazioni di documenti d’ogni genere, generando in tal modo sequenze che mantengono una fondamentale omogeneità di tono rispetto al patrimonio canonico. Ecco dunque che il quinto evangelio, «il Testo immaginato, rincorso e presupposto dalla narrazione romanzesca appare – a chi legga consecutivamente le 153 tessere superstiti – come un’imponente inedita raccolta di detti di Gesù, situati come gli agrapha in posizione eccentrica ma non incompatibile rispetto a quelli conservati dai vangeli canonici» (W. Santini).
Opera polifonica, che assume via via le caratteristiche del romanzo e dell'epistolario, della narrazione e dell’autobiografia, dell'antologia e dell'opera teatrale, del saggio storico-biografico e dell'indagine filosofico-religiosa, del diario e della leggenda, dei verbali di interrogatorio e delle memorie private, questo testo «così fuori di ogni regola, così poco allettante, duro, impegnativo […] è tutto un libro di fantasia, e sembrerebbe tutto preordinato, mentre è nato per caso, secondo una specie di vagabondaggio spirituale, di curiosità nata via via, di continue svolte e imprevisti», come più tardi scrisse Pomilio stesso ad un’amica.
L’attualità dell’opera è riconosciuta dallo stesso autore, che in un’intervista del 1978 affermava: «Dietro le parvenze storiche del mio romanzo c’era … tutto un tessuto di rapporti all’attualità, c’era il brulicare dei fermenti del presente; addirittura, dietro i lineamenti di qualche mio personaggio, si sarebbero potuti riconoscere i tratti morali di certi personaggi d’oggi. A parte il fatto che l’esperienza fatta tra le pieghe delle storia del cristianesimo m’aveva convinto che quello che la Chiesa sta attraversando non è affatto, per essa, uno stato eccezionale. In forma più latente, e per i tempi più lunghi, il suo passato è pieno, a ogni svolta, starei per dire, dei problemi che oggi vediamo affiorare tutti insieme. Per dirla in breve, in virtù del mio “mito” m’accorgevo di star scrivendo un romanzo di piena attualità, col vantaggio di sfuggire ai rischi dell’impatto cronachistico, che ne avrebbero fatto un’opera meccanica, meramente esterna, di polemica scoperta. In definitiva, un libello-mito, se non altro, restaurava il mistero. E dietro le quinte (perché non dirlo?) non c’ero forse io, che utilizzavo una metafora per rispecchiare le mie attese e i miei dilemmi di cristiano passato anch’esso attraverso il fuoco del Concilio?»
Proprio questo riferimento al Concilio Vaticano II ci fa percepire con chiarezza l’attualità del messaggio che il romanzo ci trasmette: anche a noi oggi è chiesto di trovare un nuovo vangelo, non però rintracciando in qualche dimenticata biblioteca un libro ignoto, ma testimoniando con la nostra vita l’attualità delle parole del Cristo che ogni cristiano deve rendere sempre nuove e attuali. È questo il quinto vangelo che può rinnovare il mondo, come si augurava Giovanni XXIII lanciando la sfida del Concilio. Ed oggi, quando tra i cristiani (e non solo tra loro) sembra essersi aperto un sotterraneo ma bruciante confronto/scontro tra sostenitori e detrattori di papa Francesco e delle sue straordinarie aperture, appaiono veramente profetiche le contestazioni di Pomilio nei riguardi di una Chiesa mummificata nei dogmi, di un clero mondanizzato e indifferente all'ingiustizia dilagante. Non è un caso che le vicende che meglio caratterizzano il romanzo siano affreschi di grandi contestatori colti dal vivo nella loro reale vicenda o ricostruiti sul filo di voci leggendarie: il monaco greco, frate Eligio, fra Michele, Pietro da Narbona, Giosue Borgogno, il cavalier Du Breuil, Domenico De Lellis. Ed è proprio attorno a queste figure che Pomilio è riuscito a darci le sue pagine migliori, quelle ancor oggi più vive e attuali.
E perfino il titolo, apparso allora a taluno d’una spregiudicatezza degna degli strali del Sant’Uffizio, deve far riflettere i cristiani d’oggi sulla necessità di rinnovare, attualizzare e concretizzare il messaggio evangelico, perché esso non resti lettera morta o non diventi addirittura causa di “una condanna maggiore” (Lc. 20,47): il quinto vangelo va scritto da ogni uomo di fede con la sua intera vita. Come scrive Pomilio attribuendo il testo agli Itineraria di Eucherio da Lione: «il quinto vangelo è come un libro che il Signore ha lasciato aperto. Lo scriviamo tutti noi con le opere che compiamo, e ciascuna generazione v’aggiunge una parola».
Nato a Bologna nel 1922, Pier Paolo Pasolini dovette frequentemente spostarsi con la famiglia per seguire il padre ufficiale di fanteria: ma la tappa più importante fu per lui Casarsa del Friuli, dove dal 1928 per breve tempo abitò e dove ritornò frequentemente nelle estati successive. È a questa terra e a questo dialetto infatti che egli si lega, tanto che il suo esordio avviene nel ‘42 con la pubblicazione di Poesie a Casarsa, quattordici componimenti in dialetto casarsese che mostrano già una maturità e una pienezza espressiva straordinarie, all’altezza della grande poesia in dialetto otto/novecentesca dei Tessa, dei Giotti, dei Firpo. Casarsa è il paese della madre, e Pasolini sceglie il suo dialetto proprio perché lo considera una lingua vergine in grado di evitare il degrado che quella italiana stava subendo; egli trova nel dialetto casarsese una lingua capace di esprimere sentimenti assoluti, di celebrare realtà e valori ormai persi nella cultura della «società dei consumi». I paesaggi friulani che fanno da sfondo a questi testi sono in effetti saturi di disperata nostalgia per un mondo arcaico fatalmente destinato a dissolversi, per l’innocenza primigenia che la modernità secondo lui non è in grado di salvaguardare. In seguito queste poesie entreranno a far parte di una nuova silloge in friulano, intitolata La meglio gioventù (1954), e verranno riprese vent’anni dopo ne La nuova gioventù (1974), raccolta in cui al friulano dei testi più antichi si affianca l’italiano in quelli più recenti.
La passione per la poesia era divampata in Pasolini dopo l’incontro al Liceo “Galvani” di Bologna con Luciano Serra, studioso e poeta reggiano morto recentemente, con il quale intrattiene una fitta corrispondenza durante la guerra. E alla poesia Pasolini tornerà tutta la vita, alternando l’uso del dialetto a quello della lingua italiana.
Laureatosi in Lettere nel 1945 presso l'Università degli Studi di Bologna con una tesi su Giovanni Pascoli, poté finalmente iniziare l’insegnamento nella Scuola media di Valvasone, comune friulano in provincia di Pordenone, ma ne fu allontanato a causa della sua omosessualità. Si trasferì allora nel 1950 con la madre a Roma, dove riuscì ad ottenere un incarico in una scuola privata di Ciampino, e per mantenersi si iscrisse al sindacato delle comparse a Cinecittà e si offrì come correttore di bozze. Nel frattempo non cessava la sua attività poetica: fin dagli anni quaranta aveva iniziato a comporre testi in lingua, che verranno raccolti nel 1958 nella silloge L’usignolo della Chiesa Cattolica, dove al tema del rimpianto per la fine del mondo contadino accosta le prime rivelazioni sulle proprie scelte sessuali e sul travaglio che lo porta dal cristianesimo al marxismo. Questa scelta di campo risulta ancora più evidente nel volume Le ceneri di Gramsci (1957) che comprende undici poemetti, per lo più in terzine, dove è protagonista il sottoproletariato romano, che Pasolini rispetta ed ama, e che avrà ancor più visibilità nei romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) e nei film coevi Accattone (1961), Mamma Roma (1962) e La ricotta (1963).
La produzione poetica prosegue con La religione del mio tempo (1961) e Poesia in forma di rosa (1964), dove con crescente asprezza Pasolini condanna l’ipocrisia e i falsi valori del mondo borghese, cui fu sempre ostile, ma da cui fu anche affascinato e inesorabilmente attratto.
L’ultima raccolta è Trasumanar e organizzar, edita nel 1971, che segna il definitivo rifiuto di ogni convenzione letteraria, nella convinzione che non vi sia ormai più posto per un pensiero che voglia «spiegare il mondo», perché la realtà può solo essere vissuta e mai interpretata razionalmente.
La sua tragica fine, avvenuta sul litorale di Ostia nella notte tra 1 e 2 novembre 1975, attende ancor oggi verità giudiziarie inconfutabili.
Razionale e insieme passionale, anticonformista e piccolo-borghese, decadente e al tempo stesso realista, Pasolini ha sempre vissuto nel segno della contraddizione, senza mai venir meno ai suoi ideali, proponendosi spesso con la sua «disperata vitalità» come coscienza critica di una società che ha mostrato di non saperlo accettare né capire fino in fondo. Incomprensione e rifiuto di cui in qualche modo la sua morte è tragica metafora.
Si propongono di seguito una delle sue liriche friulane, un testo “religioso” tratto da L’usignolo della Chiesa cattolica, un brano di Comizio, dedicato alla figura di Gramsci, una poesia offerta alla madre, particolarmente amata, e il testo poetico scritto in occasione della morte di Marilyn Monroe, di cui egli aveva colto la tremenda fragilità dietro l’apparenza fascinosa.
TORNANT AL PAÍS
Fantassuta, se i fatu
sblanciada dongia il fòuc,
coma una plantuta
svampida tal tramònt,
"Jo i impiji vecius stecs
e il fun al svuala scur
disínt che tal me mond
il vivi al è sigúr".
Ma a chel fòuc ch'al nulís
a mi mancia il rispír,
e i vorès essi il vint
ch'al mòur tal país.
LA CROCIFISSIONE
«Ma noi
predichiamo Cristo crocifisso:
scandalo pe’ Giudei,
stoltezza pe’ Gentili.»
Paolo, Lettera ai
Corinti
Tutte le piaghe sono al sole
ed Egli muore
sotto gli occhi
di tutti: perfino la madre
sotto il petto,
il ventre, i ginocchi,
guarda il Suo corpo patire.
L’alba
e il vespro Gli fanno luce
sulle braccia aperte e
l’Aprile
intenerisce il Suo esibire
la morte a
sguardi che Lo bruciano.
Perché Cristo fu ESPOSTO
in Croce?
Oh scossa del cuore al nudo
corpo del
giovinetto... atroce
offesa al suo pudore crudo...
Il sole
e gli sguardi! La voce
estrema chiese a Dio perdono
con un
singhiozzo di vergogna
rossa nel cielo senza suono,
tra
pupille fresche e annoiate
di Lui: morte, sesso e
gogna.
Bisogna esporsi (questo insegna
il povero
Cristo inchiodato?),
la chiarezza del cuore è degna
di
ogni scherno, di ogni peccato
di ogni più nuda
passione...
(questo vuol dire il Crocifisso?
sacrificare
ogni giorno il dono
rinunciare ogni giorno al perdono
sporgersi
ingenui sull’abisso).
Noi staremo offerti sulla
croce,
alla gogna, tra le pupille
limpide di gioia
feroce,
scoprendo all’ironia le stille
del sangue dal
petto ai ginocchi,
miti, ridicoli, tremando
d’intelletto
e passione nel gioco
del cuore arso dal suo fuoco,
per
testimoniare lo scandalo.
COMIZIO
[… ]
Resto in piedi tra questa folla quasi
il gelo, che da Trinità
dei Monti,
dai duri vegetali del Pincio, rasi
contro
le stelle e i chiusi orizzonti
spegne la città - mi
spegnesse il petto,
rendendo puro stupore i monchi
sentimenti,
pietà, amarezza. Getto
intorno sguardi che non mi sembran
miei,
tanto sono diverso. Non è l'aspetto
di
gente viva con me, questo, nei
suoi visi c'è un tempo
morto che torna
inaspettato, odioso, quasi i bei
giorni
della vittoria, i freschi giorni
del popolo, fossero essi,
morti.
Per chi è andato avanti, ecco, intorno ,
il
passato, i fantasmi, i risorti
istinti. Questi visi
giovanili
precocemente vecchi, questi storti
sguardi di gente
onesta, queste vili
espressioni di coraggio. La memoria
era
dunque così smorta e sottile
da non ricordarli? Tra
i clamori
cammino muto, o forse sono muti
essi, nella
tempesta che ho nel cuore.
E nel senso di perdita
del proprio
corpo, che dà un'angoscia improvvisa,
in
silenzio al fianco mi si scopre
un compagno. Con me,
intento e indeciso,
si muove tra la ressa, con me guarda
nei
visi questa gente, con me il misero
corpo trascina tra
petti che coccarde
colmano di vile orgoglio. Poi su me
posa
lo sguardo. Tristemente gli arde
col pudore che ben
conosco; ed è
così mio quello sguardo
fraterno!
così profondamente familiare, nel
pensiero
che dà a questi atti senso eterno!
E in questo triste
sguardo d'intesa,
per la prima volta, dall'inverno
in cui la sua
ventura fu appresa,
e mai creduta, mio fratello mi sorride,
mi
è vicino. Ha dolorosa accesa,
nel sorriso, la
luce con cui vide,
oscuro partigiano, non ventenne
ancora,
come era da decidere
con vera
dignità, con furia indenne
d'odio, la nuova storia: e
un'ombra,
in quei poveri occhi, umiliante e solenne...
Egli chiede
pietà, con quel suo modesto,
tremendo sguardo, non per
il suo destino,
ma per il nostro... Ed è lui, il troppo
onesto,
il troppo puro,
che deve andare a capo chino?
Mendicare un po' di luce per
questo
mondo rinato in un oscuro mattino?
SUPPLICA A MIA MADRE
È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
d'amore, dell'amore di corpi senza anima.
Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l'unico modo per sentire la vita,
l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
MARILYN
Del mondo antico e del mondo futuro
era rimasta solo la bellezza, e tu,
povera sorellina minore,
quella che corre dietro i fratelli più grandi,
e ride e piange con loro, per imitarli,
tu sorellina più piccola,
quella bellezza l'avevi addosso umilmente,
e la tua anima di figlia di piccola gente,
non ha mai saputo di averla,
perché altrimenti non sarebbe stata bellezza.
Il mondo te l'ha insegnata,
Cosi la tua bellezza divenne sua.
Del pauroso mondo antico e del pauroso mondo futuro
era rimasta sola la bellezza, e tu
te la sei portata dietro come un sorriso obbediente.
L'obbedienza richiede troppe lacrime inghiottite,
il darsi agli altri, troppi allegri sguardi
che chiedono la loro pietà! Cosi
ti sei portata via la tua bellezza.
Sparì come un pulviscolo d'oro.
Dello stupido mondo antico
e del feroce mondo futuro
era rimasta una bellezza che non si vergognava
di alludere ai piccoli seni di sorellina,
al piccolo ventre così facilmente nudo.
E per questo era bellezza, la stessa
che hanno le dolci ragazze del tuo mondo...
le figlie dei commercianti
vincitrici ai concorsi a Miami o a Londra.
Sparì come una colombella d'oro.
Il mondo te l'ha insegnata,
e cosi la tua bellezza non fu più bellezza.
Ma tu continuavi a essere bambina,
sciocca come l'antichità, crudele come il futuro,
e fra te e la tua bellezza posseduta dal Potere
si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente.
La portavi sempre dietro come un sorriso tra le lacrime,
impudica per passività, indecente per obbedienza.
Sparì come una bianca colomba d'oro.
La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico,
richiesta dal mondo futuro, posseduta
dal mondo presente, divenne un male mortale.
Ora i fratelli maggiori, finalmente, si voltano,
smettono per un momento i loro maledetti giochi,
escono dalla loro inesorabile distrazione,
e si chiedono: «È possibile che Marilyn,
la piccola Marilyn, ci abbia indicato la strada?»
Ora sei tu,
quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso,
sei tu la prima oltre le porte del mondo
abbandonato al suo destino di morte.
Scrittore aristocratico, singolare ed eccentrico, Tommaso Landolfi praticò vari generi di scrittura nel corso della sua lunga esistenza: fu soprattutto narratore, ma anche drammaturgo, poeta, saggista, elzevirista e ottimo traduttore dal russo, dal francese e dal tedesco.
Nato a Pico Farnese, allora in provincia di Caserta, nel 1908, subito orfano di madre, studiò alquanto irregolarmente, prima di approdare nel 1928 a Firenze, dove si laureò in letteratura russa nel ‘32. Fu lì che iniziò a conoscere i poeti ermetici, e collaborò alle riviste "Campo di Marte" e "Letteratura", poi al "Mondo" di Pannunzio, e (dagli anni sessanta) al "Corriere della Sera".
Viaggiatore instancabile, sempre disposto all'avventura intellettuale e in particolare grande e irriducibile giocatore d'azzardo ("concepisco -scrisse- ormai l'esistenza sotto l'aspetto del gioco ed essa mi parrebbe vuota più di quanto non mi paia ove questo mi mancasse"), dotato di cultura vastissima, Landolfi tenne come basi tra i suoi numerosi spostamenti prima Firenze e poi Roma; morì a Ronciglione (in provincia di Viterbo) l'8 luglio 1979.
Esistenza dunque come gioco, per esplicita ammissione dell'autore, ma anche, possiamo aggiungere, letteratura stessa come gioco, aperta all'imprevedibile, tentata dal caso e dal caos, sempre ricca di colpi di scena. Così annota acutamente Italo Calvino: "In un'opera come quella di Tommaso Landolfi la prima regola del gioco che si stabilisce tra autore e lettore è che presto o tardi ci si deve aspettare una sorpresa; e che questa sorpresa non sarà mai gradevole o consolante". Anche Edoardo Sanguineti, che è stato non a caso uno dei suoi più grandi estimatori, sottolineava che l'attività di Landolfi è guidata dal motivo dell'impossibilità, dalla consapevolezza che la realtà profonda delle cose è inconoscibile.
Lo sfondo culturale su cui tale concezione poggia è da un lato quello del romanzo russo dalle angosciose problematiche esistenziali (in particolare Dostoevskij, anch'egli affascinato dal gioco d'azzardo e autore di un'opera in buona misura autobiografica come Il giocatore, ma anche Gogol' e Pùskin), dall'altro la cultura tedesca del romanticismo e oltre, da Novalis a Hoffmann e Hofmannsthal (alcuni dei quali personalmente tradotti). Queste coordinate culturali aiutano a comprendere meglio la complessa e originale fisionomia del Landolfi narratore, continuamente attratto dagli inquietanti temi del meraviglioso, del fantastico, dell'abnorme, e dai modi stralunati e grotteschi di gelido umorismo intellettuale. Anche la ricerca stilistico-formale è di estrosa contaminazione tra i generi: i racconti hanno un andamento non lineare e piano, ma frantumato dai continui intermezzi riflessivi, da scarti strutturali, da improvvisi cambi di registro nello sviluppo narrativo.
L'accanito virtuosismo che anima la sua scrittura, il costante ricorso all'artificio, la perenne volontà di smontare l'organismo linguistico violandone i tic più abusati (aspetto che tanto piacque alle neo-avanguardie) è sempre finalizzato a evidenziare i ricorrenti interrogativi sulla presenza dell'uomo nel cosmo, sulla "scommessa senza fine" a cui il giocatore Landolfi affidava il suo angoscioso messaggio.
Sta di fatto che questo scrittore ha aspetti di indubbia e inquietante modernità: sia per le scelte tematico-stilistiche, sia per la contiguità con movimenti come il Surrealismo (poco rappresentato in Italia) o l'universo dell'assurdo di Kafka, e persino per talune singolari anticipazioni di motivi che saranno cari di lì a qualche anno al grande scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986), per il quale la vita dell'uomo è regolata dal caso e dall'imprevedibilità, da leggi anomale e indecifrabili.
L'opera di Landolfi nasce in un certo senso già matura nel volume intitolato paradossalmente Dialogo dei massimi sistemi (1937): una raccolta di sette racconti fantastici dove egli rivela un’ironia raffinatissima e delicata, un’immaginazione stravagante e un prevalente gusto per il macabro e l'assurdo. Nel 1939 escono i racconti de Il mar delle blatte, e il romanzo breve La pietra lunare, forse la miglior prova di Landolfi, dove la vicenda d'amore che coinvolge il protagonista Giovancarlo e la straniante figura di Gurù, donna-capra dotata di straordinari poteri, in bilico fra realtà e sogno, sfocia in un incubo onirico, nel corso del quale si realizza l'incontro con altri esseri soprannaturali, in una magica e allucinata liturgia di morte.
Seguono La spada (1942) e Racconto d'autunno (1947), lungo una linea fantastico-surreale che porta direttamente a Cancroregina (1950), diario fantascientifico di un cosmonauta che muore in orbita non potendo più rientrare sulla Terra. Con questi testi sembra aprirsi una fase creativa nuova, che dentro la crisi delle tradizionali strutture narrative segnala nel contempo una prorompente vitalità e un deciso cambio di stile: Landolfi approda infatti alla struttura diaristica e monologante che sarà in seguito tipica di La biere du pecheur (del 1953, un testo ambiguo e polivalente fin dal titolo, che -proprio per l'assenza di accenti- può significare La birra/bara del peccatore/pescatore) e di Ombre (1954). Testi nei quali l’autore attua una sorta di parodia di se stesso, chiamando in causa il lettore per sconcertarlo, presentando provocatoriamente la propria "maniera", facendo risuonare la propria voce naturale come fosse falsetto. Permangono le presenze ossessive di un macrocosmo strabiliante e di un microcosmo orripilante, fatto di forme inferiori, insetti, mucillagini, interiora di animali: un bestiario sconvolgente, emblema di un universo misterioso e inquietante.
Nelle opere successive Landolfi si inoltra sempre più nel campo della riflessione lirico-filosofica, rafforzando il genere del diario, con due smaglianti testi come Rien va (Niente più, 1963) e Des mois (Mesi, 1967), nei quali ostenta un personaggio autobiografico notturno e stravagante, incallito giocatore d'azzardo, che attraverso la sfida quotidiana irrinunciabile tenta di scoprire gli ineffabili confini della realtà, il senso profondo della vita e della morte.
La pietra lunare
L'opera (costituita da dieci capitoli, un Epilogo e una stravagante Appendice in cui appare una pseudo recensione di Leopardi) narra l'incontro dello studente Giovancarlo con Gurù, una strana ragazza che egli vede con piedi forcuti di capra, senza riuscire ad appurare se anche gli altri la percepiscano in tal modo. Divenutone l'amante, egli assiste un giorno, durante un'escursione in montagna, all'amplesso della ragazza con una capra, alla sua metamorfosi e poi a straordinarie avventure con esseri fantasmatici (briganti morti, creature mannare, mitiche progenitrici). L’episodio si conclude con la sparizione di Gurù e il ritorno di Giovancarlo alla realtà quotidiana; l’ultima pagina del romanzo vede la partenza del giovane, che si presume non rivedrà più l’amata.
La vicenda del libro è costantemente giocata sul doppio piano della realtà e dell'immaginazione, della veglia e dell'incubo onirico, che si fondono in Gurù, creatura misteriosa e ambivalente, tenera e violenta. Anche la natura partecipa di questa ambiguità, presentandosi di volta in volta come elemento realistico o come espressione di un surrealismo magico e straniato, simbolo e proiezione del subconscio del narratore che non osa rivelarsi in pienezza. Tema dominante è quello della ricerca della zona indeterminata che va oltre la percezione immediata dell'uomo comune, ai confini estremi della vita.
L'opera riesce a fondere e armonizzare i più diversi registri stilistici, dal bozzettistico al surreale, dal grottesco al lirico, dalla mimesi del parlato al discorso mitico, valendosi di un lessico articolatissimo e inventivo.
Vengono proposti qui due brevi brani: quello con cui inizia il romanzo e quello in cui Giovancarlo vede per la prima volta Gurù:
“Buonasera, buonasera, da quanto tempo! come va?" Lo zio, in maniche di camicia e con certi pantaloni incartapecoriti che gli torcevano le gambe come quelle dei cavallerizzi, reggendo la porta con una mano, coll'altra faceva grandi gesti di benvenuto e poi d'invito a entrare. Dietro di lui, come in un affresco del Ghirlandaio, si vedevano spuntare le teste degli altri componenti la famiglia: la zia, il cugino, la cugina, il piccolo figlio di costei, sul cui capo s'espandevano larghe croste di sudicio e che rideva, fra le braccia della mamma, con un'aria di furberia abortita; da ultimo la zucca morbosamente apatica del fratello della zia.
Sospinto dal padrone di casa, Giovancarlo entrò nella cucina, che era il luogo abituale di trattenimento della famiglia. Attorno alla larga tavola di legno senza tappeto stavano in posizioni innaturali le seggiole, così come erano state abbandonate un momento prima dagli occupanti: a lui ne toccò una caldissima, davanti a una scatola rotonda di tabacco, a una di zolfanelli, una gazzetta e un paio d'occhiali. […]
E allora, d'improvviso, il giovane si sentì guardato. Dal fondo dell’oscurità, resa più cupa da un taglio alto di luce lunare sul muro di cinta, due occhi neri, dilatati e selvaggi, lo guardavano fissamente. Egli sobbalzò, ma uno stupore e un terrore tanto forti lo invasero, e d'altra parte quegli occhi lo fissavano con tanta intensità, che non poté parlare né stornare lo sguardo.
“Che c’è?” chiese in capo ad un certo tempo lo zio, che si era accorto di qualcosa.
“Nulla” poté appena rispondere il giovane senza smettere di guardare. In quella i due occhi cominciarono a muoversi, o piuttosto a ingrandire giacché procedevano direttamente verso Giovancarlo, e una forma a precisarsi dall'oscurità: un volto pallido, dei capelli bruni, un seno abbagliante scoperto a mezzo, e Giovancarlo, il quale non riusciva tuttavia a stornare lo sguardo dagli occhi che tuttavia lo fissavano intensamente, non poté veder altro. Una ragazza ad ogni modo. Essa aveva ormai raggiunta la porta e faceva per entrare; alla luce gli occhi s’accesero di riflessi violacei e profondi; il giovane era ormai sul punto di gridare - quando gli altri s’accorsero della nuova arrivata. […]
Con la consueta acribia, Cristina Tagliaferri ha recentemente curato per le Edizioni Bolis una singolare sezione dell’epistolario di Ada Negri, ovvero le quarantaquattro lettere da lei spedite e ricevute fra aprile e maggio 1944 nel “buen retiro” di Gaione, a pochi chilometri da Parma, nella villa che era stata di Niccolò Paganini. Lì si era rifugiata nel pieno della guerra e dei bombardamenti, fuggendo da Bollate, dove invece erano rimasti la figlia, il genero e i nipoti. Villa Paganini è in quel momento sede di una comunità di Carmelitane, e, pur non essendo la località del tutto al sicuro dai bombardamenti alleati, offre alla scrittrice lodigiana qualche settimana di relativa tranquillità.
Tre sono le destinatarie e le autrici delle lettere superstiti: l’amatissima figlia Bianca, l’altrettanto amata nipote Donata e la consuocera Aida Blandino, cui Ada narra, spesso con angoscia e tremore, le vicende della sua vita, rivelando la paura per i bombardamenti che colpiscono la vicina Parma, e auspicando un prossimo possibile ricongiungimento.
Il saggio è importante perché ci permette di entrare nella vita privata più intima della Negri, in particolare nei suoi rapporti con la figlia e la nipote; ma anche per la miriade di riferimenti a persone e fatti di cui altrimenti avremmo ben poca cognizione. E le numerose puntualissime note curate da Cristina Tagliaferri danno conto di tutti i personaggi, i luoghi e gli avvenimenti citati (direttamente o anche implicitamente) nelle lettere, costituendo così una fonte importantissima per ulteriori approfondimenti della biografia della grande poetessa lodigiana. Nell’introduzione la curatrice ha modo di farci toccare con mano il clima di incertezza ed ansia che la Negri deve affrontare, ma anche la sua capacità di tracciare con mano sicura splendidi ritratti di figure femminili (la “Dottoressa” che la ospita, le Suore Carmelitane, alcune donne sfollate incontrate nel rifugio antiaereo) che fanno pensare “ai mirabili ritratti femminili delineati nei racconti e nelle novelle: Le solitarie, Finestre alte, Le strade, Sorelle” (C. Tagliaferri). Interessantissimo anche il riferimento alla psicologia della Negri, di cui la Tagliaferri sottolinea l’“attaccamento viscerale alla terra lombarda, ribadito con convinzione alla figlia Bianca nell’ultima lettera posta a chiusura del carteggio”.
Conclude il volume un interessante saggio di Francesco Ascoli, calligrafo e studioso di storia della scrittura, che analizza il mutarsi della calligrafia della Negri in rapporto alle difficili situazioni che ella si trova ad affrontare.
Proprio settant’anni fa, nel 1947, usciva da Longanesi il romanzo d’esordio di un non più giovanissimo scrittore, che ebbe un immediato successo di pubblico e di critica, ma che negli anni ha subìto un’ingiusta “damnatio memoriae”. Il cielo è rosso era l’opera prima di Giuseppe Berto, nato a Mogliano Veneto nel 1914, che dopo aver studiato nel locale collegio dei Salesiani e nel Liceo di Treviso, si era iscritto alla Facoltà di Lettere dell’Università di Padova. La guerra di Abissinia ne aveva interrotto gli studi, ripresi nel 1939 e conclusi con la laurea nel ‘40. Dopo una breve esperienza di insegnante, una volta scoppiata la seconda guerra mondiale, Berto si era arruolato volontario nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale ed era stato inviato a combattere in Africa Settentrionale. Caduto prigioniero degli americani, proprio nel campo di internati in Texas aveva iniziato a scrivere. Trasferitosi negli anni cinquanta a Roma, aveva cominciato a lavorare per il cinema e ripreso episodi del suo passato filofascista in Guerra in camicia nera e nel volume di racconti Un po’ di successo. Nel 1958 era stato colpito da una grave forma di nevrosi, da cui era riuscito a sfuggire dopo tre anni di analisi: da questa terribile esperienza nacque Il male oscuro, romanzo autobiografico che vinse nel 1964 sia il Premio Viareggio sia il Campiello. Altri testi degli anni sessanta sono L’uomo e la sua morte (1963), La Fantarca (1964), La cosa buffa (1966). Nel 1971 scrive il pamphlet Modesta proposta per prevenire e il testo teatrale Anonimo Veneziano, ripubblicato come romanzo nel 1976. Con la favola ecologica Oh, Serafina! vince nel 1974 il Premio Bancarella. L’ultimo suo libro è La gloria del 1978. Si spegne a Roma il 1 novembre 1978.
Il cielo è rosso narra le drammatiche vicissitudini di un gruppetto di ragazzi che la guerra ha abbandonato al loro destino e che tra violenze ed orrori ritrovano solidarietà e umanità. In un quartiere periferico e malfamato di Treviso due cuginette, Giulia e Carla, vengono allevate dalla nonna perché la madre di Giulia, una prostituta, è morta, e la madre di Carla se ne è andata lontano a cercare fortuna, mentre il padre è in carcere. Molto diverso il carattere delle due bambine: Giulia è buona, timida e di salute cagionevole, Carla è disinvolta, indipendente e sicura di sé.
Siamo nel 1944 quando una notte suona l’allarme: Carla (che ha un appuntamento con Tullio, il ragazzo diciassettenne di cui è innamorata) e Giulia si recano nel rifugio antiaereo e nella notte i bombardieri americani distruggono completamente il loro quartiere. Giulia, Carla e Tullio si ritrovano quindi soli a vivere in una casa semidistrutta, dove affrontano una vita di miseria, lottando per sopravvivere con ciò che Carla guadagna prostituendosi e Tullio con furti ed espedienti vari.
Una notte Tullio incontra Daniele, un ragazzo fuggito da un seminario di Roma, arrivato lì per cercare notizie dei genitori, morti anch’essi nel bombardamento. Daniele resta a vivere con loro: Giulia se ne innamora, ma non ha il coraggio di dirglielo, mentre lui, pur apprezzando la dolcezza e l’altruismo di Giulia, è attratto da Carla, molto provocante e intraprendente.
I ragazzi consolidano la loro amicizia, finché Tullio viene ucciso durante una rapina. Daniele a questo punto non sopporta di vivere alle spalle di Carla e riesce a farsi assumere dai soldati americani; quando Giulia gli rivela il suo amore, decide di restare per sempre accanto a lei, trovando lavoro presso un commerciate di frutta e verdura.
Proprio quando tutto sembra volgersi al meglio, Giulia manifesta i sintomi della tubercolosi e poco tempo dopo muore. Daniele, completamente svuotato e deluso dalla vita, decide di andarsene: sale clandestinamente su un treno merci e si uccide lasciandosi cadere sulle rotaie.
Il romanzo (che Berto avrebbe voluto intitolare La perduta gente, ma che l’editore ribattezzò a sua insaputa) si inserisce nel filone del neorealismo allora imperante, descrivendo con stile asciutto e cruda oggettività la durezza della miseria durante e dopo la guerra e le vicende dei superstiti in mondo cupo e miserabile, dove “la gente non aveva altro scopo di vivere che quello di procurarsi il cibo per non morire”. Pur nella ricerca di imparzialità, l’autore non rinuncia a darci un acuto ritratto interiore dei quattro personaggi principali, descritti con una finezza psicologica ammirevole. Il tetro ambiente in cui le vicende si svolgono è animato dai dialoghi tra i quattro e dalle riflessioni che ne scaturiscono; pur lasciando nel lettore una sensazione di amaro disincanto, soprattutto per le vicende finali, il libro affascina e commuove per la sua limpida narrazione e per le appassionate descrizioni che l’autore ci dà dei protagonisti.
Nel 1950 Claudio Gora ne trasse il film omonimo.
Ecco le pagine finali del romanzo:
La locomotiva forzava, e i semafori passarono di nuovo sopra la sua testa. Gli venne ad un tratto voglia di guardar fuori. Avrebbe potuto vedere le luci della città. Delle lampadine allineate avrebbero segnato una strada della periferia riflettendosi sull’asfalto bagnato di pioggia. Ci poteva essere magari qualche finestra illuminata, benché fosse così tardi. Adesso che la guerra era finita, si poteva tenere le finestre aperte anche con le luci accese.
Si fece forza per non alzarsi a guardare. Era inutile guardare. La città era com’era, l’aveva vista ben chiara nella sua mente, con le torri e i campanili che uscivano dai tetti, e molti tetti rovinati, e mucchi chiari e scuri di macerie dov’erano cadute le bombe.
Anche la gente egli sapeva com'era, l’aveva vista bene nelle strade e nel mercato. Gente che si affannava solamente a procurarsi il cibo per non morire, e che andava in una rovina sempre più grande, perché non aveva altra ragione di vivere che cercarsi il cibo per non morire. Sembrava persino un gioco. Ed era inutile pensare alla gente.
Il rumore sulle giunture delle rotaie si faceva rapido, ed ogni tanto c’era il rumore diverso degli scambi. La pioggia gli cadeva in faccia, ora.
Si alzò e camminò traballando verso l’altra estremità del carro. Vide davanti un chiarore di fuoco che si rifletteva nel cielo. Anche contro quel chiarore le gocce di rugiada sembravano più fitte. Forse pioveva più forte di prima. Il fuochista stava caricando carbone nella macchina. E che piovesse più forte era un bene, se ciò serviva a cancellare i segni di una tomba che doveva sparire.
Il treno passò sopra gli scambi, per prendere la sua strada nella notte. Egli si sedette contro la sponda del carro, il più possibile al riparo dalla pioggia, e si chiuse bene nel mantello ormai bagnato, coprendosi anche la testa. Non aveva importanza quale strada prendesse il treno. La sua strada era ovunque. Fissò la mente in quel pensiero, adattandolo al ritmo delle rotaie.
Quando si scopri la testa, vide il cielo di un colore grigio scuro, e da ciò capì che si stava facendo giorno. Non pioveva più, ma l’aria era umida e fredda. Ed egli si sentiva intontito e intirizzito. Forse aveva dormito a lungo, nel fragore del treno che andava. Doveva essere lontano dalla città, ormai. Forse cento chilometri. Forse anche duecento, se il treno aveva continuato ad andare per tutta la notte.
Dal suo posto egli non poteva vedere nulla, all’infuori del cielo grigio che correva all’indietro. Il fondo del carro era sporco di poltiglia nera, polvere di carbone e pioggia. Si guardò a lungo le mani sporche, con un senso di crescente pena. La locomotiva fischiò. Il treno andava, ed egli non sapeva dove.
Improvvisamente fu certo di non aver risolto nulla, partendo. Egli si sentiva vuoto e solo e desolato, come mai gli era accaduto di sentirsi prima. Ci doveva essere qualcosa che non andava ancora. Cercò di mettere ordine nella sua mente, considerando i pensieri uno alla volta. Giulia era morta, e anche sua madre e suo padre erano morti. Se dipendeva da loro non si poteva trovare rimedio, perché loro non c’erano più. E Carla era perduta, anch’essa senza rimedio. Egli non aveva niente a che fare con Carla, nonostante qualche momento di debolezza. Non poteva tornare da lei e dirle di trovare insieme uno scopo per vivere, essendo cosi vuoto. Non aveva senso E il vecchio aveva detto tante parole, parole che avrebbero aiutato, aveva detto. Bisognava avere fede nell’umanità, aveva detto, e aveva parlato del grande giorno in cui il bene sarebbe venuto sulla terra per tutti gli uomini. Lui non aveva voglia di aspettare il grande giorno, non ci credeva. E neanche il vecchio ci credeva, e d’altronde non ci sarebbe arrivato, perché ormai aveva venduto perfino il letto per mangiare. Ora sarebbe morto, ed era per lui la cosa migliore, morire, perché era solo e sperduto. E del resto, a lui non sarebbe importato niente anche se il vecchio fosse morto di fame. Non avrebbe provato dolore. Era indifferente, come tutto il resto del mondo, all’infuori di se stesso. Si sentì cattivo verso il resto della gente.
La locomotiva avanti fischiò di nuovo. Gli restava ancora qualcosa da fare. Ma frattanto sentiva troppo freddo. Si alzò. Il vento della corsa, sopra le sponde del carro, lo colpì sul viso e gli mosse i capelli. Tremava per il freddo. Il giorno era già abbastanza chiaro. Il treno stava correndo ai piedi di una catena di monti. Batuffoli di nebbia bianca e densa erano appesi ai fianchi dei monti.
Di nuovo la locomotiva fischio. Si sporse per guardare avanti. Vide un casello di colore giallo, con un numero dipinto in nero. Fuori dal casello vi era una donna spettinata, con una specie di grosso bastone in mano. Egli non ebbe paura di farsi vedere da lei. Mentre il suo carro passava, la donna fece un gesto con quella specie di bastone, di saluto o di minaccia. Guardò la donna fin che poté. Ed essa continuò ad agitare quel suo bastone, e non si capiva cosa volesse. Pensò agli altri esseri umani che erano più vicini a lui. Il macchinista, i frenatori, i soldati che forse erano sul treno per far la guardia. Se lo avessero visto, lo avrebbero messo in prigione, senza badare a come egli si sentisse dentro, cosi vuoto e solo e desolato. Non c’era rimedio per quelle cose. Guardò in basso. L’orlo erboso della linea correva sotto di lui, e appariva come una striscia verde. Il mondo non aveva rimedio per il male degli uomini, per l’incomprensione e la solitudine e l’indifferenza. Non c’era rimedio, così che uno veniva spinto fuori dagli altri uomini, lontano. E improvvisamente seppe quello che gli restava da fare. Era una grande cosa, ma si sentiva abbastanza calmo per essa.
Si sedette per pensare, ma nella sua mente ormai non c'era posto altro che per quel pensiero. Comincio a slacciarsi le scarpe, se le tolse e si tolse anche le calze, e affondò i piedi nudi nella poltiglia nera e fredda. Legò le scarpe insieme e le buttò fuori. Si tolse il mantello e la giubba, e li buttò fuori. Ecco che era tornato buono verso il resto degli uomini. Non gli importava più cosa gli uomini avrebbero fatto di lui, se lo avessero trovato sul treno. Quella roba sarebbe potuta servire a qualcuno. Era difficile trovare scarpe e vestiti e biancheria. Si tolse anche i pantaloni e li buttò fuori. Compiva ogni gesto rigidamente e con lentezza, spaventato di perdere quel senso di calma che aveva dentro per la gran cosa che gli restava da fare. Ecco che sentiva un gran freddo, perché si era fatto nudo per amore degli altri uomini. Come Gesù e anche altri santi, adesso non ricordava bene chi.
Si affacciò alla sponda, fra un carro e l'altro. Tutto correva, sotto, ed era una striscia grigia fra le due rotaie. Si sentiva ancora grandiosamente calmo. Adesso la cosa importante era cadere giusto sulla rotaia. Scavalcò la sponda e scese sull’asse di un respingente, sostenendosi con le mani alla parete del carro. Il treno traballava, e un rumore spaventoso saliva da sotto, ma ormai egli non poteva aver paura. Solo bisognava far presto, perché sentiva troppo freddo. Si calò aggrappandosi ad un gancio che sporgeva. Poi si lascio andare.
Era verso la fine di settembre, quando piovve sulla città. Il cielo fu nuvoloso per qualche giorno. La gente tirò fuori gli stracci avanzati dall’inverno precedente e andò girando nel grigiore e nella tristezza, per l’affannosa ricerca del cibo quotidiano. Facce stanche si aggiravano per la citta. Ascoltando il battito della pioggia sui tetti e sui selciati, sentendo il freddo e l’umidità della pioggia penetrare nelle case e nei corpi, la gente aveva cominciato ad aver terrore del nuovo inverno.
Era passato un anno e la miseria sovrastava sempre più grande. Ancora la gente non aveva altro scopo di vivere che quello di procurarsi il cibo per non morire. Ognuno doveva lottare per quel cibo, fare in modo che se qualcuno doveva restar senza, non fosse lui a restar senza. E intanto veniva un nuovo inverno, e tutti sapevano che in quel nuovo inverno molti sarebbero dovuti morire di fame e di stenti e di malattie che non si potevano curare. Eppure la guerra era finita, da diversi mesi ormai. Eppure si era tanto parlato, prima, del bene che sarebbe venuto dopo quella guerra.
A poco a poco la gente capiva. Non era più una guerra da sopportare, era una guerra perduta. Nonostante tutto quel che si diceva, bisognava pensare che quella era una guerra perduta. Ed essi erano stati lasciati soli a sopportare il peso della disfatta, un peso troppo grande per un popolo povero, in un paese devastato e isterilito dalla guerra. E non si poteva neanche prevedere quando sarebbe finito il peso di una disfatta. Forse non sarebbe finito nel periodo della vita di un uomo, e allora tutti quegli uomini che vivevano e pensavano, non avrebbero mai più potuto essere contenti durante la loro vita, avere cibo sufficiente e vesti e riparo contro il freddo, e sufficiente speranza di essere ancora vivi il giorno dopo.
Ma poi le nubi se ne andarono dal cielo, e l’aria fu più limpida che nell’estate, e il sole più splendente, anche se meno caldo. I suoi raggi penetravano ormai profondamente entro i portici esposti a mezzogiorno, e le ombre erano lunghe sul terreno, anche quando il sole si trovava al culmine del suo giro. Guardandosi intorno dopo la pioggia, gli uomini seppero che l’estate se n’era andata, ed era venuto l’autunno, la stagione piena di frutti e di tepore malinconico e di terribile ansietà per l’inverno che sarebbe venuto dopo. Ogni cosa era più bella, di una bellezza un poco malata. I colori della città si ravvivarono, nei viali e nei piccoli giardini, nei panni stesi ad asciugare, perfino nelle case troppo vecchie e nei mucchi di macerie.
Lungo le grandi strade della pianura, qualche foglia seccata dall’estate cadde dagli alberi e si posò sull’asfalto o sui lati erbosi o nei fossi asciutti. Sull’anello delle mura, e ovunque erano rimasti ancora gli ippocastani, qualche frutto dalla buccia spinosa cadde e si spaccò sul terreno, e qualcuno passò a raccogliere la buccia e il frutto, che servivano per far fuoco.
Uomini seduti al sole aspettavano con stanca pigrizia.
Nato nel 1951 nella frazione Molicciara di Castelnuovo Magra, Maurizio Maggiani inizia negli anni sessanta a fotografare con “una Zenit sovietica che [mio padre] aveva comprato per sé con 40 rate mensili da 1000 lire l’una; assieme all’orologio Omega era il suo orgoglio, ma non ci ha mai scattato una fotografia: è sempre stata mia finché non l’ho venduta per comprarne un’altra”. Diplomatosi maestro nel 1969, inizia a lavorare in una quinta classe elementare nella periferia operaia della città, per poi passare ad insegnare al carcere, alle sezioni speciali per handicappati e a quelle sperimentali per il loro inserimento, convincendosi che fare il maestro sia “il più bel mestiere che abbia mai fatto”. A ventidue anni è chiamato dalla Olivetti nei servizi sociali; ma l’ansia di cambiamento lo porta in giro per l’Italia prima a vendere pompe idrauliche, poi a fare il fotografo industriale, quindi a girare film pubblicitari per gli industriali del marmo e gli stagionatori di prosciutti, infine a produrre audiovisivi politici. Dopo essere stato anche mercante di arte contemporanea, venditore di libri, conduttore televisivo per un centinaio di puntate di “La Storia siamo Noi”, in seguito a un incidente che lo rende inabile diventa pubblico impiegato.
È solo nel 1985 che con un computer Apple, il primo che si fosse visto in circolazione, inizia a scrivere: il successo arriva con una lettera a una donna scritta quasi per scommessa e poi pubblicata con il titolo Prontuario per la donna senza cuore. Da allora scrive una decina di storie romanzesche e oltre un migliaio di articoli. Con Feltrinelli ha pubblicato tra l’altro Vi ho già tutti sognato una volta (1990), Felice alla guerra (1992), Il coraggio del pettirosso (1995), Màuri màuri (1996), La regina disadorna (1998), È stata una vertigine (2002), Il viaggiatore notturno (2005), Mi sono perso a Genova (2007), Meccanica celeste (2010), Il Romanzo della Nazione (2015).
La sua idea della vita può essere sintetizzata in queste parole sul senso del viaggiare: “La cosa che più conta di un viaggio è non smettere di viaggiare. Non cedere alla tentazione di fermarsi è ciò che dà senso all'andare, ciò che lo rende veramente utile e veramente bello. Agli occhi di Dio, agli occhi dell'Universo, agli occhi di chi incontri nel cammino. Solo quando non so dove andare so che arriverò da qualche parte. Solo quando ho una meta so che non arriverò mai”.
Il suo libro più famoso è Il coraggio del pettirosso, un romanzo che celebra il "coraggio umile e testardo come il coraggio di chi dall’incendio della Storia si leva leggero col suo sogno di libertà intatto". Il protagonista, Saverio Pascale, si muove in uno scenario dove la Storia incrocia la memoria e apre verso l'utopia: figlio di immigrati italiani, immobilizzato in un letto d’ospedale ad Alessandria d'Egitto, egli riallaccia il filo della sua esistenza e di quella dei suoi progenitori alle vicende della città egiziana, città di esuli, di anarchici, di sognatori. Un ulteriore scarto temporale lo porta poi a rievocare i roghi accesi contro gli eretici nella Lunigiana ribelle del Cinquecento e infine a rileggere la violenza dell'imperialismo romano contro il popolo degli Apuani, predecessori degli odierni abitanti della Lunigiana. La voce narrante ci porta poi con sé in un viaggio in Italia alla ricerca delle sue radici, viaggio che si interromperà bruscamente a Roma; veniamo quindi trasferiti nel deserto e nella biblioteca del monastero copto di Abu Makar, e conosciamo Fatiha, la donna che egli ama, una terrorista palestinese che sogna di essere ostetrica. Infine Saverio guarisce, e racconta ai suoi amici riuniti in attesa la fine della storia, che egli sognava ogni notte “a puntate”, di Pascal, un soldato di ventura che nel sedicesimo secolo era approdato nel paesino di Carlomagno.
Il libro si può definire una storia di anarchia, di amore, di ricerca storica, ma soprattutto di insaziabile indagine dell’animo umano e di instancabile cammino. Saverio è apolide: non si sente né italiano né egiziano, ma sceglie di fare un interminabile viaggio nel deserto per trovare la propria strada. Anche quando perde la rotta, egli si lascia sempre trasportare dagli avvenimenti e dagli incontri casuali; la mancanza di direzione non è per lui frutto di smarrimento, ma l’unico modo per continuare a progredire. Ed è soltanto nei sogni che egli trova finalmente delle radici, un senso di appartenenza. Il percorso che compie lo porta ad essere come quel pettirosso di cui suo padre gli raccontava quando era bambino: piccolo fragile uccellino che vola sempre più in alto e non si dà confini, combattente senza leggi e senza padroni.
Si propone qui l’inizio del romanzo Il coraggio del pettirosso.
“Mi chiamo Saverio e racconto questa storia perché è così che vuole il dottor Modrian.
Difficile capire se è roba interessante, difficile anche supporre se quello che scrivo uscirà prima o poi di qui; per questo mi rivolgerò a una seconda persona plurale alquanto improbabile. Dirò: “adesso state a sentire questa” oppure “voi vi starete chiedendo...”, e intanto sarò intimamente preso dal dubbio che non ci sarà nessun voi. Dire così mi aiuta, ecco tutto; mi fa compagnia, e dio sa se ne ho bisogno. Del resto è un atteggiamento a cui sono già per certi versi abituato.
Vedete, a me piace, o perlomeno è sempre piaciuto, preparare cibi, cucinare pietanze. Io che ho vissuto per molto tempo da solo, l’ho sempre fatto pensando a un voi, ad almeno uno tra gli improbabili ospiti della mia cena. Non vale la pena, ve lo assicuro, cucinare per una sola persona, soprattutto quando la preparazione richiede del tempo e delle cure. Peraltro un buon piatto di granchi allo zafferano, o un ful di fave, non lo si può preparare veramente bene per meno di quattro commensali; è, io credo, per via dei profumi più sottili che richiedono masse consistenti in cui potersi distendere in tutta la loro magnificenza. Senza contare poi che nessuno al mercato vi venderehhe un unico granchio o un pugnetto di riso: da queste parti la solitudine, almeno a tavola, non è considerata granché. Comunque non è detto che preparare per qualcun altro porti sempre e soltanto a degli sprechi. A me è tornato utile saper preparare razioni abbondanti almeno per tutto il tempo che Fatiha ha eccettuato i miei inviti a cena: non solo le piacevano le cose che preparavo, ma riusciva a farne fuori una quantità impressionante.
Ma lasciamo perdere il cibo, le meraviglie dei grandi piatti di stagno odorosi delle cose buone; lasciamo perdere soprattutto Fatiha.
Per tornare a questa storia, al fatto che la debba raccontare, pare comunque che io non abbia alternativa: è una grave questione di salute. Il dottor Modrian sostiene che potrebbe essere l’unico modo per guarire dalla malattia che mi tiene dopo mesi e mesi ancora qui, in una piccola stanza quasi lussuosa dell’ospedale per stranieri Nabe al Maja, Fonte della Salute, di Alessandria; Alessandria nell’Egitto, si intende Mi sto sfinendo in una specie di abulia per cui non è stata ancora trovata una cura.
Dunque lo faccio come ultimo tentativo di salvarmi la pelle e vi prego di considerarla una ragione sufficiente. Non ne vedo altre plausibili. Non potrei nemmeno sostenere che quello che scriverò ha ii valore di un documento storico. Dire che la mia è una storia vera sarebbe una bugia. In gran parte me la sono sognata, anzi, me la sto ancora sognando. Succede così da quando mi trovo in queste condizioni, ed è una cosa inspiegabile anche per la scienza.
A essere sinceri, non è che in questo posto di scienza ce ne sia abitualmente un gran spiegamento, ma è anche vero che tutte le mattine il dottor Modrian mi dedica una buona mezzora. Ed è molto in un paese dove la gente ha una gran quantità di problemi terribili e assai più visibili, se non addirittura più concreti dei miei sogni. In effetti la situazione non giova alla mia coscienza: so di essere un privilegiato.
Sta di fatto che ogni mattina alle nove in punto il dottor Modrian entra nella mia camera, si siede sullo sgabello accanto al mio letto con un bel bicchiere di caffè in mano, e mi sorride malignetto.
“Come è andata questa notte, signore? Mi racconti, la prego, gli ulteriori sviluppi. Lei ha irrimediabilmente vincolato il mio interesse, mio signore. Innanzitutto umano, ah, umano e letterario, se così mi posso permettere L’interesse scientifico, va da sé, è tutto teso alla soluzione del suo caso. Ma purtroppo non si fanno passi avanti, ah, non si fanno passi avanti, purtroppo. Questo nostro antico e rispettato ospedale non ha pane per i suoi denti, se così possiamo dire. Oh, ah! La scienza dei sogni! Forse Vienna, forse Londra, ma non qui. Qui non attecchisce, mio signore. Io stesso, come lei sa, ho consultato fior dl colleghi, ma i risultati tardano, ah, tardano. Ma mi racconti, la prego, prima che gli affanni del giorno che avanza le intorpidiscano le facoltà.”
Tutte le mattine più o meno così. Il dottor Modrian, un armeno sulla settantina alto e nobile, gran curatore di sifilidi e di febbri malariche, gestisce il suo ospedale per stranieri con scrupolo e pulizia encomiabili in un paese che i suoi stessi governanti considerano ancora sulla via dello sviluppo. Io sono capitato qui perché mi ci hanno portato in stato di incoscienza, ma non avrei potuto scegliere di meglio in tutta Alessandria. Modrian ha quello che gli europei chiamano “stile”, quel modo di fare che riesce a ridurre la malattia a niente di veramente serio, qualcosa come un’indelicata interferenza tra un gentiluomo e il suo prossimo impegno mondano. La morte nell’ospedale del dottor Modrian si compie apparentemente molto lontano, forse nel seminterrato dove ai pazienti è interdetto l’ingresso.
Comunque io sogno una storia.
Ma non è a causa sua che sono ricoverato in questo posto. Sono qui perché mi hanno trovato mentre battevo la testa sugli scogli della diga al vecchio porto. Embolia: è strano che fossi ancora vivo.”
“Quando io sono nato, i miei genitori abitavano in via San Gregorio. Era una casa né vecchia né nuova, credo che risalisse – come tante altre case in quella zona di Milano – agli anni intorno alla prima guerra mondiale. Una volta, da quelle parti, c’era la stazione ferroviaria; credo che dalle finestre di casa mia si vedessero i binari”. Con queste parole Raboni inizia il suo autoritratto, leggibile sul sito a lui dedicato (http://www.giovanniraboni.it): era nato il 22 gennaio del 1932 a Milano, nei pressi della Stazione Centrale, si era laureato in legge e aveva lavorato in vari uffici legali prima di diventare collaboratore e segretario di redazione della rivista "Aut Aut" e poi consulente di Garzanti, di Mondadori, infine di Guanda. Molteplice la sua attività, che ha spaziato dal campo della critica letteraria a quella teatrale, dalla produzione in versi a quella in prosa e teatrale, senza dimenticare le importantissime traduzioni, soprattutto dal francese (Flaubert, Molière, Apollinaire, Prévert, Racine, Claudel, Proust, per citare solo i maggiori).
Fondamentale è stata per lui la lettura (affrontata per lo più da autodidatta) della grande tradizione poetica italiana, da Porta a Manzoni, da Pascoli a D’Annunzio, da Montale a Quasimodo, da Saba a Ungaretti, da Tessa a Sereni a Rebora, ma ancora di più quella dei poeti anglosassoni, Dickens, Faulkner, Ezra Pound, Melville, Steinbeck, Hemingway e in particolar modo Eliot, da cui prende la concezione del “correlativo oggettivo”, fondamentale per le sue scelte di poetica. Raboni inizia a scrivere a diciott’anni, motivando così la sua scelta: “Mi sembrava che una poesia fosse un vetro attraverso il quale si potevano vedere molte cose – forse, tutte le cose; però un vetro, e il fatto che il vetro fosse trasparente non era più importante del fatto che il vetro stesse in mezzo, che mi isolasse, mi difendesse. I giochi erano al di là del vetro, mentre io ero al di qua. […] Di ogni poesia avrei voluto fare un osservatorio difesissimo e trasparente, un osservatorio per guardare la vita – cioè, forse, per non viverla”. In effetti la sua poesia ha sempre ricercato la discorsività, l’aderenza alla realtà delle cose e delle persone, si è sempre tenuta lontana da ogni enigmaticità ed ermetismo. I registri da lui usati sono i più vari, da quello onirico a quello cronachistico, da quello colto a quello colloquiale, ma non viene mai persa di vista la concretezza dei riferimenti ai paesaggi, alle persone, alle vicende storiche, spesso affrontate con sguardo esplicitamente politico (anche se egli afferma: “Io ho affrontato temi civili semplicemente perché ne sentivo l’urgenza […] o per un moto di indignazione, o di preoccupazione, o di sgomento”).
Del 1961 è la sua prima plaquette di versi, Il catalogo è questo, cui segue nel '66 la prima raccolta organica, Le case della Vetra. Fino agli anni ottanta la sua produzione ricalca in buona misura le orme dei grandi novecentisti amati, utilizzando un verso libero che tende al prosastico: ciò è ben visibile nell’antologia del 1988 A tanto caro sangue. Poesie 1953-1987, che doveva costituire nel suo intento “come un nuovo libro che sia anche, nello stesso tempo, il mio ultimo e il mio unico libro”. Ma subito dopo Raboni riprende a scrivere con entusiasmo, riscoprendo e rivitalizzando in maniera sempre più personale le forme chiuse della tradizione, specialmente il sonetto. La svolta cruciale si evidenzia nei Versi guerrieri e amorosi (1990) e nella silloge Ogni terzo pensiero (1993), ma la ricerca metrica prosegue ininterrotta nelle successive fondamentali raccolte: Nel libro della mente (1997), Quare tristis (1998), Barlumi di storia (2002) e Ultimi versi (2006), usciti postumi con una postfazione della poetessa Patrizia Valduga, sua compagna dal 1981. Molto suggestive sono anche le poesie per bambini Un gatto più un gatto, edite da Mondadori nel 1991.
Raboni muore il 16 settembre 2004 a Fontanellato in seguito ad un attacco cardiaco. Nello stesso anno Einaudi pubblica un corposo volume con Tutte le poesie dal 1949 al 2004.
Campeggia nella produzione lirica di Raboni l’amata città di Milano, letta quasi “come metafora della vita, come contatto con tutto quello che l’esistenza offre di problematico, di inquietante, di esaltante” (sono parole sue): alle strade e alle piazze del capoluogo meneghino, ai suoi abitanti e ai suoi monumenti sono dedicati scorci delicati e nostalgici, che si aprono in scene vivaci e ricche di pathos. Altro tema affrontato è quello amoroso, visibile soprattutto nelle Canzonette mortali, dove il racconto di sé entra addirittura in modo spudorato nella poesia. Sono, rivela Raboni, le poesie “dell’ultimo amore, quello che continua a essere nella mia vita. Però sono in qualche modo la conclusione di un avvicinamento alla confessione diretta, diciamo così; e probabilmente occorreva proprio questo rapporto traumatico che si ha con l’oggetto del proprio amore, con la persona amata, per farmi uscire così allo scoperto”. Altro tema essenziale è la riflessione sulla vita e sulla morte, che Raboni vede in stretta contiguità, non come elementi di contrasto ma come facce della stessa realtà, dove vivi e defunti possono dialogare e incontrarsi (“mi si è, appunto, fatta sempre più essenziale, sempre più cara l’idea che esiste non so se un aldilà o un aldiquà o un dentro-di-noi, in cui i morti continuano a vivere con noi. Questo è diventato uno dei temi proprio anche espliciti del mio ragionamento e della mia poesia”). Nel corso degli anni questa meditazione si è fatta sempre più intensa ed appassionata, fino alle ultime emozionanti poesie postume.
Nella casa umida, il poco
ch’è asciutto sembra più asciutto ancora:
nelle stanze da letto al primo piano
il pavimento d’assi quasi bianche
non lucidate con la cera e
un po’ distanti; sotto, nella sala
del bigliardo, l’avorio dei birilli
messi in croce… (Prima o dopo ci torno
a vedere la casa degli amici
dove a momenti ti nasceva un figlio
- è nato due giorni dopo – e s’aspettava,
di sera, che il temporale portasse
un po’ di fresco anche a Milano. Smorti
lungo i muri, con facce da lenoni
o da tartufi, oscuri
antenati lombardi
controllavano il conto delle uova
e dei formaggi: usando astuzia, e quantità
di penne d’oca. Si rideva di loro
con ribrezzo. Ma in fondo, che sia giusto
così? Meglio dei nostri veri, gente
distratta, malinconica
per vizi più sottili, chi può dire
che non sia quello il tipo d’antenati
che nostro figlio fingerà d’avere, ridendo
di loro, voltandogli le spalle
come nessuno è mai riuscito a fare!)
Queste strade che salgono alle mura
non hanno orizzonte, vedi: urtano un cielo
bianco e netto, senz'alberi, come un fiume che volta.
Da qui alle processioni
dei signori e dei cani
che recano guinzagli, stendardi
reggendosi la coda
ci saranno novanta passi, cento, non di più: però più giù, nel fondo della città
divisa in quadrati (puoi contarli) e dolce
come un catino... e poco più avanti
la cattedrale, di cinque ordini sovrapposti: e proseguendo
a destra, in diagonale, per altri
trenta o quaranta passi - una spanna: continua a leggere
come in una mappa - imbrocchi in pieno l'asse della piazza
costruita sulle rocciose fondamenta del circo
romano
grigia ellisse quieta dove
dormono o si trascinano enormi, obesi, ingrassati
come capponi, rimpinzati a volontà
di carni e borgogna purché non escano dalla piazza! i poveri
della città. A metà tra i due fuochi
lì, tra quattrocento anni
impiantano la ghigliottina.
Come cieco, con ansia, contro
il temporale e la grandine, una
dopo l’altra chiudevo
sette finestre.
Importava che non sapessi quali.
Solo all’alba, tremando,
con l’orrenda minuzia di chi si sveglia o muore,
capisco che ho strisciato
dentro il solito buio,
via San Gregorio primo piano.
Al di qua dei miei figli,
di poter dare o prendere parola.
Quando sei morta stavamo
in una casa vecchia. L’ascensore non c’era. C’era spazio
da vendere per pianerottoli e scale.
Dunque non t’è toccato di passare
di spalla in spalla per angoli e fessure,
d’essere calcolata a spanne, raddrizzata
nel senso degli stipiti. Sparire
era più lento e facile quando tu sei sparita.
Parecchie volte, dopo, mi è sembrata
una bella fortuna.
Eppure, se ci pensi, in poche cose
c’è meno dignità che nella morte,
meno bellezza. Scendi a pianterreno
come ti pare, porta o tubo, infilati
dove capita, scatola di scarpe
o cassa d’imballaggio, orizzontale
o verticale, sola o in compagnia,
liberaci dall’estetica e così sia.
Siano con selvaggia
compunzione accese
le tre candele.
Saltino sui coperchi
con fragore i due
compari di spada compiuti uno
sei anni
e mezzo, l’altro cinque
e io trentaquattro e la mamma
trentadue
e la nonna, se non sbaglio, sessantotto.
Questa
scena non verrà ripetuta.
La scena non viene
diversamente effigiata. E chi
si sentisse esule o in qualche
percentuale risulta ingrugnato
parli prima o domani.
Accogli, streghina di marzapane, la nostra sospettosa
tenerezza.
Seguano come a caso stridi
di vagoni piombati,
raffiche di mitragliatrice...
Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro
e solo del futuro, di nient’altro
ho qualche volta nostalgia
ricordo adesso con spavento
quando alle mie carezze smetterai di bagnarti,
quando dal mio piacere
sarai divisa e forse per bellezza
d’essere tanto amata o per dolcezza
d’avermi amato
farai finta lo stesso di godere.
*
Le volte che è con furia
che nel tuo ventre cerco la mia gioia
è perché, amore, so che più di tanto
non avrà tempo il tempo
di scorrere equamente per noi due
e che solo in un sogno o dalla corsa
del tempo buttandomi giù prima
posso fare che un giorno tu non voglia
da un altro amore credere l’amore.
*
Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno
dopo l’altro ti lascio, anima mia.
Per gelosia di vecchio, per paura
di perderti – o perché
avrò smesso di vivere, soltanto.
Però sto fermo, intanto,
come sta fermo un ramo
su cui sta fermo un passero, m’incanto…
*
Non questa volta, non ancora.
Quando ci scivoliamo dalle braccia
è solo per cercare un altro abbraccio,
quello del sonno, della calma – e c’è
come fosse per sempre
da pensare al riposo della spalla,
da aver riguardo per I tuoi capelli.
*
Meglio che tu non sappia
con che preghiere m’addormento, quali
parole borbottando
nel quarto muto della gola
per non farmi squartare un’altra volta
dall’avido sonno indovino.
*
Il cuore che non dorme
dice al cuore che dorme: Abbi paura.
Ma io non sono il mio cuore, non ascolto
né do la sorte, so bene che mancarti,
non perderti, era l’ultima sventura.
*
Ti muovi nel sonno. Non girarti,
non vedermi vicino e senza luce!
Occhio per occhio, parola per parola,
sto ripassando la parte della vita.
*
Penso se avrò il coraggio
di tacere, sorridere, guardarti
che mi guardi morire.
*
Solo questo domando: esserti sempre,
per quanto tu mi sei cara, leggero.
*
Ti giri nel sonno, in un sogno, a poca luce.
Ho gli anni di mio padre – ho le sue mani,
quasi: le dita specialmente, le unghie,
curve e un po’ spesse, lunate (ma le mie
senza il marrone della nicotina)
quando, gualcito e impeccabile, viaggiava
su mitragliati treni e corriere
portando a noi tranquilli villeggianti
fuori tiro e stagione
nella sua bella borsa leggera
le strane provviste di quegli anni, formaggio fuso, marmellata
senza zucchero, pane senza lievito,
immagini della città oscura, della città sbranata
così dolci, ricordo, al nostro cuore.
Guardavamo ai suoi anni con spavento.
Dal sotto in su, dal basso della mia
secondogenitura, per le sue coronarie
mormoravo ogni tanto una preghiera.
Adesso, dopo tanto
che lui è entrato nel niente e gli divento
giorno dopo giorno fratello, fra non molto
fratello più grande, più sapiente, vorrei tanto sapere
se anche i miei figli, qualche volta, pregano per me.
Ma subito, contraddicendomi, mi dico
che no, che ci mancherebbe altro, che nessuno
meno di me ha viaggiato fra me e loro,
che quello che gli ho dato, che mangiare
era? non c’era cibo nel mio andarmene
come un ladro e tornare a mani vuote…
Una povera guerra, piana e vile,
mi dico, la mia, così povera
d’ostinazione, d’obbedienza. E prego
che lascino perdere, che non per me
gli venga voglia di pregare.
Ombra ferita, anima che vieni
zoppicando, strisciando dal tuo fioco
asilo a cercare nei sogni il poco
che rosicchio per te all’andirivieni
dei risvegli e degli incubi, agli osceni
cortei delle sciarade, così poco
che qualche volta quando arrivi il fuoco
è già spento, divelte le imposte, pieni
di insulsi intrusi o infidi replicanti
l’immensità della cucina, il banco
di scuola, il letto, dammi tempo, non
svanire, il tempo di chiudere i tanti
conti vergognosi in sospeso con
loro prima di stendermi al tuo fianco.
Sono quello che eravate, sarò
quello che siete, sussurro a chi spia
i miei passi da un letto di corsia
d’un padiglione di Niguarda o
del vecchio policlinico di via
Sforza, mi sopravalutate, ho
un rene solo, presto perderò
l’ultima battaglia con la miopia
e il cuore, eh, il cuore…No, perdono, care
anime, perdono! non posso fare
l’unto della Morte qui, non si deve
insegnare a morire a chi già tanto
muore e così poco spera, soltanto
un’altra primavera, un’altra neve.
Cerco qualche volta di immaginare
la felicità, mia e dei morti, e mi sembra
che sia la vita. Forse perché chiare
nella luce che già un po’ s’insettembra
sono adesso le cose e a meno amare
vertigini trascina e tanta assembra
più pazienza, più requie il declinare
del tempo è come se da queste membra
arse e dilaniate l’immensa salma
del mondo risorgesse in una calma
radiosa e stesse al cuore assaporare
l’infinito dolcissimo ritardo
del bene, e sentire l’Olona e l’Ardo
per come si chiamano risuonare.
Tanto difficile da immaginare,
davvero, il paradiso? Ma se basta
chiudere gli occhi per vederlo, sta
lì dietro, dietro le palpebre, pare
che aspetti noi, noi e nessun altro, festa
mattutina, gloria crepuscolare
sulla città invulnerata, sul mare
di prima della diaspora – e si desta
allora, non la senti? una lontana
voce, lontana e più vicina come
se non l’orecchio ne vibrasse ma
un altro labirinto, una membrana
segreta, tesa nel buio a metà
fra il niente e il cuore, fra il silenzio e il nome…
Niente sarà mai vero come è
vero questo venticinque dicembre
millenovecentonovantatré
con il suo tranquillo traffico d’ombre
per corsie e sale e camerate ingombre
di vuoto e il fiume dei ricordi che
rompe gli argini in silenzio. È in novembre,
lo so, vuoi che non lo sappia? per te
che si semina dolore, il più forte,
il più contro la vita – ma se viene
solo ora al suo compimento di morte
e di lì a un’altra nascita conviene
far festa qui, bruciare qui le scorte
di incenso e febbre al turno delle pene.
Dopo la vita, cosa? ma altra vita,
si capisce, insperata, fioca, uguale,
tremito che non s’arresta, ferita
che non si chiude eppure non fa male
- non più, non tanto. Lentamente come
risucchiati all’indietro da un’immensa
moviola ogni cosa riavrà il suo nome,
ogni cibo apparirà sulla mensa
dov’era, sbiadito, senza profumo…
Bella scoperta. È un pezzo che la mente
sa che dove c’è arrosto non c’è fumo
e viceversa, che fra tutto e niente
c’è un pietoso armistizio. Solo il cuore
resiste, s’ostina, povero untore.
Si farà una gran fatica, qualcuno
direbbe che si muore – ma a quel punto
ogni cosa che poteva succedere
sarà successa e noi
davanti agli occhi non avremo
che la calma distesa del passato
da ripassare senza fretta
fermando ogni tanto l’immagine,
tornando un po’ indietro, ogni tanto,
per capire meglio qualcosa,
per assaporare un volto, un vestito…
Sì, tutto in bianco e nero, se Dio vuole.
E tutto, anche le foglie che crescono,
anche i figli che nascono,
tutto, finalmente, senza futuro.
Li rivedrò, mi rivedranno, loro
forse già si rivedono
dove la ghiaia s’apre a mezzaluna
e nell’ora del viavai delle rondini
si possono tenere d’occhio
le circonvoluzioni della gioia
sperando che arrivi, sperando
che non arrivi, che per sempre
stia lontana di quel tanto, lei sì,
nel suo non fermarsi, immortale
- ma a quale età l’un l’altro, assomigliando
a quale delle immagini che il tempo
ha impresso via via di ciascuno
nella memoria di ciascuno?
Ecco, il thriller dell’eternità…
Nata a Castelfranco Veneto il 20 maggio 1953, Patrizia Valduga è stata dal 1981 per ventitré anni accanto a Giovanni Raboni, di cui ha curato nel 2006 la raccolta postuma Ultimi versi. Poeta essa stessa, esordisce nel 1982 con Medicamenta, dove sceglie di recuperare le forme chiuse della tradizione, il sonetto e l’ottava, la terzina e la ballata, incanalando nella rigidità di questi schemi metrici la potente sensualità del dettato, il forte erotismo del lessico che da allora la caratterizza. Nel 1985 esce la raccolta La tentazione, edita da Crocetti, mentre nel 1991 è Mondadori a pubblicare Donna di dolori, il libro che la fa conoscere al di fuori dalle cerchie ristrette degli appassionati di poesia: si tratta di un monologo in endecasillabi a rima baciata in cui i versi si inseguono e s’intrecciano in una drammatica confessione, che attraverso il dolore dà voce alla poesia, la quale a sua volta vorrebbe far tacere il dolore implacabile.
Al tema del dolore è dedicato anche Requiem (1994), un poemetto dove la sofferenza straziante della figlia che perde il padre particolarmente amato (morto il 2 dicembre 1991) fa scaturire versi di lancinante tragicità ed espressività: il 2 dicembre di ogni anno, poi, a partire dal 1992 e per dieci anni, una nuova ottava si aggiunge alle ventotto precedenti, proponendo ulteriori riflessioni, considerazioni e ricordi, venendo a costituire un appuntamento costante della Valduga con la figura paterna, cui ella racconta la propria esistenza e la propria disperata solitudine interiore. Anche Corsia degli incurabili (1996) rimane nella stessa linea tematica, strutturandosi sulla voce monologante di un unico personaggio, un malato terminale che parla con il metro del sirventese duecentesco, in modo tale che il linguaggio straniante riesca ad alleggerire, almeno in una certa misura, le difficili problematiche affrontate.
La svolta si ha l’anno seguente con Cento quartine e altre storie d'amore (1997), dove la voce dell’autrice si intreccia con quella dell'uomo amato, che irrompe con il suo corpo e il suo linguaggio (spesso al limite dell’osceno) a far da contrappunto alle appassionate riflessioni ed invocazioni della donna. I numerosi differenti registri usati, da quello ironico a quello amaro, da quello narcisistico a quello simbolico, dalle sensazioni interiori ai riferimenti corporei e carnali, contribuiscono a rendere plasticamente la vicenda erotica tra i due protagonisti. Come dice già il titolo, si tratta di cento quartine in terza rima che ripropongono una notte d’amore tra la poetessa e l’amato, indugiando sui sentimenti ma dando ampio spazio al rapporto fisico che lega i due protagonisti. Continuazione e compimento è il successivo volume, Quartine. Seconda centuria, che riprende dopo quattro anni (2001) la numerazione del precedente: ora i versi prospettano le considerazioni che nascono nella donna al tramontare della passione, senza che venga meno la forte carica sensuale del dettato. Le tonalità spaziano dal sarcasmo alla malinconia, dalla disperazione alla saggezza, con l'utilizzo di parole di poeti classici come Dante, Shakespeare, Pascoli, D'Annunzio, Rilke. In Lezioni d'amore (2006) si conclude il percorso che l'autrice aveva iniziato con le due serie di Quartine: si compie così un trittico potentemente unitario, dove il desiderio e la perdita sono di pari passo analizzati e proposti al lettore, con una fortissima carica passionale. Nella Valduga, come commenta Luigi Baldacci: «il piano della retorica è la metafora di quello dell’esistenza. La poesia non può estorcere al poeta la sua confessione; bensì gli sigilla la bocca; così il poeta parla per bocca altrui, e proprio allora si confessa».
Dopo la morte dell’amato Giovanni Raboni, nel 2004, la Valduga si chiude in un silenzio inaridito, da cui però pian piano nasce una vena poetica nuova, che si esprime nel Libro delle laudi (2012), dove traspare in filigrana tutta la gioia dell’amore reciproco e profondo che legava i due poeti. Scritte durante la malattia del compagno, queste poesie sono preghiere e invocazioni di una donna che non vuole essere lasciata, che tenta disperatamente di tenere a sé l’amato, che litiga e contratta perfino con Dio che se lo sta portando via (Signore della morte e della vita, | nessuno più di lui merita vita. | Signore di ogni tempo di ogni vita, | per la sua vita ti dò la mia vita). Il libro oscilla tra biografia, psicologia e letteratura, dando forma a una sorprendente autoanalisi, ma vi è visibile anche una grande apertura alle vicende politiche nell’invettiva che rievoca i versi civili più accesi dell’ultimo Raboni. Il volume trabocca di rabbia, disperazione, sensualità, consapevolezza, passione, ruotando costantemente attorno alla memoria del compagno scomparso, celebrando un amore che continua anche dopo la sua morte.
Accanto alla produzione poetica, non possiamo dimenticare le altre attività della Valduga: ella è stata la fondatrice nel 1988 della rivista mensile «Poesia», che ha diretto per un anno prima dell’arrivo di Crocetti, traduttrice (John Donne, Shakespeare, Molière, Mallarmé, Valéry, Céline, Cocteau, Kantor) e curatrice di una originale antologia, Poeti innamorati (2011), che propone testi di Guittone d'Arezzo, Guido Cavalcanti, Cecco Angiolieri, Dante Alighieri, Cino da Pistoia, Francesco Petrarca, Luigi Pulci, Matteo Maria Boiardo, Lorenzo de' Medici, Poliziano, Sannazaro, Ariosto, Giovanni della Casa, Giovan Battista Strozzi, Gaspara Stampa, Torquato Tasso, Gabriello Chiabrera, Giambattista Marino, Paolo Rolli, Pietro Metastasio, Giuseppe Parini, Vittorio Alfieri, Vincenzo Monti, Carlo Porta, Ugo Foscolo, Gioachino Belli, Giacomo Leopardi, Niccolò Tommaseo, Giovanni Prati, Giosue Carducci, Giovanni Pascoli, Gabriele D'Annunzio, Umberto Saba, Clemente Rebora, Aldo Palazzeschi, Delio Tessa, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Carlo Betocchi, Vittorio Sereni, Mario Luzi, Andrea Zanzotto, Giovanni Giudici, Giovanni Raboni e molti altri.
Se
impazzisco non fatemi del male.
Se sono stata
una sentimentale,
sempre cascata
nello stesso errore,
non fatemi del male, per favore.
Visto
che… dato… dato… non so cosa,
ecco,
ci siamo, divento nervosa;
è che
li sento e che mi manca il fiato.
Dato
che alla fine, tutto sommato,
io ho
tentato. Ho voluto tentare.
E se ho
sbagliato cosa posso fare?
sbagliare ancora e ancora e così
via.
E così sia. In qualche modo sia,
per
idiozia, malattia e disgusti.
Non ci siamo capiti, siamo giusti,
siamo rimasti sempre degli estranei.
Compatrioti, miei contemporanei,
compagni senza occhi e senza orecchi,
secchi e secchi di sangue e sangue a secchi
dai vostri piccoli luridi cuori!
Venite sì o no a scavarmi fuori?
Muovetevi e portatemi con voi.
E dove poi? Li sento gli avvoltoi
che vanno e vengono lassù. Li sento
in certi momenti, in questo momento,
tutti i giorni lassù, da giorni e giorni.
Ne vengono persino dai dintorni,
a darsi il cambio, vengono, poi vanno.
Mangiano, scopano… Quanti saranno?
topi di giorno, tutto di nascosto…
Ma quanti saranno? Avanti, c’è posto!
Avanti! Forza, avanti, delinquenti,
e senza storie, foto, incartamenti…
Morti prima dell’alba? senti, senti…
Questa febbre d’amore nelle ossa
fino all’ultima fine, alla mia fossa?…
Disse: «Torno se vuoi…» Sai che m’importa!…
«Vengo a Milano e busso alla tua porta.»
Ma tu, mio sogno, alle tue tristi aurore,
nel giorno della gioia del mio cuore,
testimonia per me che lo implorai,
e poi svanisci … non tornare mai…
Ecco qua! a frugare nella mente…
«E smettila, Patrizia! Non c’è niente!
Lo vedi bene che sei sola qui.»
Io vedo bene che non è così:
qui con c’è niente, si fa presto a dire.
Qui è una veglia di notte da venire,
di notte differita all’infinito…
E adesso lo spettacolo è finito.
Via tutti! Aria! e quel che è stato è stato.
E c’è da riprovare il già provato,
sterminare l’amore sterminato.
Ah grazie
a Dio, grazie a Dio, grazie a Dio,
è passata e finita
grazie a Dio
questa mia vecchia vita, vecchia storia.
Ma se
mi dà un diritto la memoria,
dichiaro a questo punto al
mondo intero
che senza Marx e senza Freud davvero
io non
avrei capito proprio niente.
E non della mia storia
solamente,
ma della vita, dico, in generale.
Lassù
ovunque si adora il capitale,
e si misura vita con dolore.
Sopra
la terra che assediata muore,
forse anche tu, notte serena,
allora
scolori come ogni cielo scolora
senza più
aria in un livido alone?
Notte serena, lenta processione
di
tanti soli all’orizzonte estremo,
noi qui del sottoterra
ecco diremo
una messa dei morti per i vivi.
Morti…
vivi… divisi! e i redivivi?
e chi ha il cancro? gli in
coma? i semivivi?
Lasciami, Amore, ch’io non son più io!
Una cosa tremenda, e il cuor non trema,
in lui la sorte estrema
grata diviene quanto il van desio.
Io non son io, non è quest’io che trema
ben ch’il cuor sia pur mio;
altrove sta da me, m’ha detto: «Addio!
Lamentati di te all’orror notturno
d’anime involte nelle stesse pene,
altro a te non conviene
che pianti e pene, a turno».
Cuore mio senza cuore, disumano,
in tanta notte, in tanto amare invano.
Perché
chi è amato è cosi sciocco e greve?
l'errore è
nella causa o nell'effetto?
Voglio un posto di viole e
bucaneve. . .
di
biancospini... il mio posto segreto...
Vattene, adesso!...
prendi il vaporetto...
non fingiamoci Ofelia con Amleto...
perché è
soltanto fiato, sete e fame,
e accoppiamento e malattia e
morte...
e del fuoco che a volte mi fa infame
io lo giuro, la
colpa non è mia:
non posso farci niente, è la mia
sorte...
Vattene adesso, vattene, va' via!
Tirati dietro
azzurro, oro e mare,
ma lascia i fiori, lascia qui i miei
fiori!
ma dove sono? li vorrei toccare...
le viole, i
bucaneve, i biancospini,
deponimeli qui... non manca
molto...
li voglio tutti qui... sopra... vicini...
il tempo adesso
è tutto capovolto...
adesso mi amerai? mi amerai molto?
mi si perdona quello che ti ho tolto?
e la malinconia?
la mia mestizia?
Fiori sui morti! fiori su chi è vivo!
fiori... misericordia e non giustizia!
Ecco il giorno
che dice: «Arrivo, arrivo!»
e io... io mi lamento
che non vivo...
Fiori sui morti! fiori su chi è vivo!
Fiori su questi
letti di tortura
e fiori sul martirio e sul terrore...
Fiori
sul buio che ci fa paura,
fiori su piaghe,
fiori su ferite,
fiori sul dolce delirio del cuore,
fiori
sulle speranze seppellite!
Fiori sui vivi!
Fiori su chi muore!
Beato chi crede ancora nell'amore!
Ahi! serva Italia ancora coi fascisti,
e con quell'imbroglione da operetta,
ladruncolo lacchè di tangentisti!
Le tivù ci hanno fatto l'incantesimo…
Se non scarica il cielo una saetta,
tutti servi del secolo ventesimo!
Classifiche, sondaggi, lotterie…
siamo solo strumenti di collaudo
per i bordelli… o per le osterie…
Che cosa non si deve sopportare!
Se penso che c'è ancora Pippo Baudo
che son trent'anni che mi fa cagare…
Trent'anni? ma saranno anche quaranta…
E lo paghiamo noi… ha certi prezzi…
lui munge le sue vacche lì… e ci canta
le canzonette… fa i pettegolezzi…
Se mai esco di qui mi fanno a pezzi!
Qual mai sarà l'anno, il mese, qual giorno
e quanto dolce, ove per fine avermi,
ove odore di maschili epidermidi
più non curi, e sguardi, corpi dattorno,
lor secrezioni, escrezioni contermini,
con il sangue che ruota torno torno,
viaggi spermatici andata e ritorno
su ire rientrate, su affetti raffermi,
su l'eco scarsa di transiti umani...
(con tristi trame e quanto mai noiose).
Allora sogno d'un trascendimento
a fiaba o ad arte... in verità poi mento,
per la vita di visceri e mucose,
se ancora l'odorato invidio ai cani.
Poi goccia
a goccia misuro le ore
nel buio, sotto il mio dolore,
più
giù del buio della notte affondo.
Scena muta di sogno,
ombra di mondo,
un niente di due tutti e di due vite,
piccola
eternità e ore infinite,
pienissima di me, viva di un
cuore
che mi sgocciola via senza rumore,
in me ringorgo
sotto il mio dolore.
Dolore della mente è il mio
dolore…
per il mio mondo… e per l’altro
maggiore…
Vedi … di
più! Di più ! … fin che respiro …
Scavano
i vermi, vedi … i nervi al vivo …
Oh vita mia
vitale per cui vivo,
per cui vivendo
muoio e vivo a morte
pestami ancora, pestami più
forte,
sono quella che spasima d'amore!
Fammi a pezzi! Di
più! Pesta il mio cuore !
Ma resta ! amore di dolcezze
amare,
perché sto male … «vogliamo
scherzare?
Io sono l’uomo che … non può
restare»
da Cento quartine
Baciami; dammi cento baci e mille:
cento per ogni bacio che si estingue,
e mille da succhiare le tonsille,
da avere in bocca un’anima e due lingue.
Tu, misterioso spirito gentile,
fammi la guardia come un carceriere:
che non nasconda più, vanesia e vile,
verità vergognose e voglie vere.
Giura che mi terrai nuda e legata
per una notte intera, a luci spente;
che se mento sarò martirizzata
a mezzogiorno, irrevocabilmente.
Sono il mare di me, mugghiante in me,
e senza oriente, senza più occidente,
la mia matrice muove verso sé
e bagno le mie rive lentamente.
Cielo deserto, patria delle stelle,
feroce con la cenere e le ossa,
ho male dappertutto, anche alla pelle,
e sarà più feroce la riscossa.
Amore, amore mio buio e splendente
che l’anima mi leghi e squagli il cuore,
insediati, passeggiami la mente
per tutti quanti i giorni dell’amore!
Per tutti i giorni, amore, dell’amore:
l’uno nell’altra, fusi, per amore,
trasfusi l’uno all’altra, per amore,
trasumanati, amore, nell’amore.
«Vuoi che tutto finisca e niente duri?
che ognuno vada a fare i fatti suoi?
Stacco il telefono, chiudo gli scuri:
e che la notte ricominci! Vuoi?»
da Quartine: seconda centuria
Per me si va da un niente a un altro niente
a dar l’assalto alla mortalità.
Con tutto questo ardore ancora ardente
ancora non è vita questa qua.
C’era una volta il mio sogno d’amore,
tra l’asilo infantile e l’analista;
ma dentro il cuore sempre in batticuore
lo sogno ancora, stupida egoista.
Respira, forma e fonte del respiro,
se ci riesci sopra le carcasse,
giòcati un altro giorno, un altro giro
della piccola terra sul suo asse.
Lane di agnelli, gigli senza stelo,
vaghe bianche apparenze, in cielo, in mare…
Ansava appena sotto un altro cielo
il mare, il sempre mai finito mare…
191
Letti d’amore, celle di tortura,
dove il cuore più mite è sempre in armi…
E l’estate che lenta si matura…
Avrei una mezza idea di suicidarmi.
«Bentornata tra i vivi!» Io non parlo
con un pezzo di porco come te.
Che il diavolo ti porti! «Sta per farlo.
Intanto non vorresti del caffè?»
dal Libro delle Laudi
La tua Milano,
amore, fa paura
e mi tratta da esule e sbandita.
E in casa nostra
ogni nostra cosa
mi guarda male, come risentita.
Ogni cosa ti chiama, ti reclama,
e mi lascia così, sola e spaurita.
E tutto il tempo
testimonia il tempo
del dolore indiviso della vita.
E in tutto il
tempo trovo tregua il tempo
che ti sto accanto, anima ferita.
Amore caro
Amore
caro, io non ho mai potuto
da un altro amore credere
l’amore.
Io ti ho amato così come ho
potuto
con l’angoscia emigrata nel mio amore.
Quante
scemenze ho scritto nei miei versi
sulla notte, sul sesso,
sull’amore.
E ho fallito perfino il mio
dolore
spacciando tanta angoscia per amore.
Ma tu
ritorna, tu che sai il perdono,
uomo di luce, uomo dell’amore.
Sandro Boccardi è nato a Villanova Sillaro il 5 marzo 1932; trasferitosi poi a Milano per motivi di lavoro, ha avuto modo di incontrarvi e frequentare Eugenio Montale, Vanni Scheiwiller, Vittorio Sereni e molti altri scrittori, giornalisti, editori di primo piano. Come musicista e organizzatore di concerti ha fondato e curato per trent'anni, dal 1976 al 2006, la straordinaria rassegna "Musica e Poesia a San Maurizio" (che ha coinvolto decine di migliaia di persone, soprattutto giovani), ha promosso la costruzione dell'organo Ahrend per la Basilica di San Simpliciano e fatto eseguire in dieci anni, dal 1994 al 2004, l’intero corpus delle Cantate di Bach, in collaborazione con la "Società del quartetto di Milano". Per le Edizioni 32 ha diretto la collana di poesia “Il bicordo”, pubblicandovi tra l’altro testi di Yannis Ritsos, Günter Grass, Albino Pierro e il volume d’esordio del grande poeta milanese Franco Loi, I cart. Malgrado questa frenetica attività, non ha però mai trascurato la poesia, dove ha scelto di recuperare con affetto il mondo della Bassa Lodigiana, che ha saputo riproporre con toni vivi e luminosi, senza mai scadere nell’impressionismo bozzettistico.
Dopo la raccolta d’esordio, A dispetto delle sentinelle (Magenta edizioni, Varese 1963), ha pubblicato quattro volumi presso Scheiwiller: La città (1965), Durezze e ligature (1967), Ricercari (1973), Le tempora (1978). È seguito un lungo periodo di silenzio, interrotto a partire dal 1999 con poesie che sono apparse prima sulle riviste “Kamen” (Lodi, 2004), “Bloc notes” (Lugano, 2005) e “Graphie” (Cesena, 2006), e poi nella nuova raccolta, Sonetti per gioco e rancore, pubblicata nel 2006 da LietoColle. Del 2012 infine è Partiture d’acqua e di terra (Nomos edizioni), dove le allusioni alla musica amata si fondono con i ricordi giovanili della terra padana e con le esperienze successive, in un appassionato ricorrersi di temi e cadenze musicali.
La sua profonda religiosità l’ha portato a interpretare l’attività poetica come un colloquio duraturo e profondo tra gli uomini, con il mondo e con gli uomini, tra paesaggi che si rivelano come parabole vissute intensamente, nel ricordo del mondo contadino d’un tempo e nel contrappunto sapiente fra presente e passato. “Poeta del riserbo” lo definì Guido Oldani, e mai definizione fu più calzante, perché il mondo che egli descrive non è mai prosaicamente ridotto a dimensioni di domestica tradizione, ma si accampa come mito primigenio, costantemente rinnovato e misteriosamente risorgente: e nonostante questo intenso sentimento religioso, egli non cessa mai di interrogarsi, angosciato e partecipe, sul senso dell’esistenza umana. Per lui luce e buio drammaticamente lottano per sopraffarsi, ma il suo sguardo ricco di pietas cerca sempre di cogliere gli aspetti positivi di ogni situazione, mentre la curiositas che lo anima costantemente lo conduce a ricerche sempre più intime e coraggiose.
Tecnicamente la sua capacità di mescolare dialettalismi e cultismi, forestierismi e arcaismi, asprezze lessicali ed armonia, porta a esiti di musicalità raffinata, rivelando una voce meditativa, terrestre, radicata e insieme gemmea, simbolica, cifrata, dove non può mancare anche la corda dell’ironia e dell’autoironia che sdrammatizza anche le vicende più tetre. Nella sua produzione è ovviamente essenziale la musica, non solo nell’euritmia dei versi, che sembrano composti come note musicali su uno spartito, ma anche per la presenza della musica come oggetto della poesia, in forma di allusione, di paragone o di analogia, «come chiave di volta per ligare e quasi giustificare i contrasti e le dicotomie di che si compone la vita e la poesia» (sono parole sue).
Ora per me
per me si completa il passaggio
perché dolore umano non si nutre
di sé se non mutando in fiori
fiori di buio semi della notte
fiori stipati d’acqua mentre inclina
la nube sui tetti di lavagna mentre
con manciate di ghiaccio la tempesta
scivola e grugnisce
contro il tepore oscuro di me
contro il mio nulla di me il fiato
che appanna lo specchio
(quando si vedrà se siamo morti o vivi
o bios o inerzia
o fiori…)
Barbara, sai, marzo è una rosa di correnti d’aria
che toglie il fiato.
Arruffa propositi, anima, consensi, lungo i sentieri d’erbe
mareggiate
Qui dove il verde dove il vento insieme
Rimescola semi e fioriture
Qui nei lombardi chiari appezzamenti.
Barbara dico: è inutile resistere:
La polvere sale come un ventaglio
Sopra le
aie piccole padane, scricchiola batte alle verdi persiani
La voce genuflessa della primavera.
Estate, verdi ramarri al sole,
trapunta di ricordi come d’erba i prati,
il fieno sente i rebbi della forca,
viene l’odore buono del rigoglio
(erba salina bisiàda dal biss
che la Madona la benediss)
polvere e rovi e sul brusio dei gelsi
smangiati dai bachi sulle stuoie
il primo rintronare da levante.
Anima nostra tessuta come il solco
da grumi di radici nell’incerto
aspettare dell’adolescenza…
ma rimuovendo la pàtina del tempo
velo di fiato sullo specchio, il morso
le cicatrici dell’amore ancora
gridano te.
Quale
terrena rosa luce
grembo di foglie nell’ombrìa
di luce
zolla spezzata dal gelo del sereno
latte frumento
acerbo dondolare
di paglia e spighe verderame mare
capelli
avvolti fra le dita e il vento
e tu garza di rosa che si sbenda
in fumo
da giorni a giorni salendo questa scala
di toni e
semitoni e riprecipiti
piuma soave e tronco che ci curva
le
spalle.
La liturgia dei lutti soffocati
da neri paramenti, lungo strade
di polvere e pioppi fulminati
dove la piena del silenzio sente
la gran pietà degli abiti sciupati
e l’afa, e il senso del disfarsi
si fa più acuto al peso
d’un passero che lasci il ramo e scuota
per avventura un unico suo cuore
di foglia in cima: addio
addio dalla fatica della Bassa.
Già nel breve accomiatarsi
di gente stanca verso il cimitero
al magro asperges di peccati e venie
da fatica e d’artrite mi stordivo
d’un miserere senza lacrime.
Ed ora quasi
nell’ora antelucana delle tempora
anche te accompagnammo
tra il granoturco che matura a groppi
di capelli arruffati e pennacchi di ruggine
come regina longobarda cui il cilicio
di materne ansie e di cure
addolciva il carattere.
E al più lieve stormire sei, ritorna
ora che il grano separato dai tutoli e da pula
nube di polline nel sole cieco
dolce ti oscura, acre ti rischiara.
Da un pulviscolo di molecole impazzite
apparve l’angelo e disse ave
e la donna si turbò,
le mani strette al grembo.
Caddero lamine e lapilli,
bagliori come li vedono i morenti
nel cono del risucchio;
fiamme come le soffrono i nascenti
nel grido dello strappo.
Rabbrividiva il Magnificat della donna
nel turbine del sangue
e il gelo salì a scaldarle le guance
d’un rosso acceso di Verità.
Se fosse un mistero di gaudio o dolore,
un cammino fra i gigli o le spine
l’angelo non lo disse, l’ombra gli era attorno
come l’enigma di un’eclisse:
disse soltanto ave
e nel vento sparì.
Se fuoco mette fiamma nella paglia,
se fiamma rade pula e incenerisce
ogni raccolto, maledetta estate.
Prega tu il signore delle messi
che ci risparmi il peso di non essere pronti
prima alla feroce siccità e poi
alle cateratte della grandine.
Dare del merlo al merlo è un controsenso.
L’uomo non è un uccello, o il merlo un pirla.
È quasi un sillogismo se a ridirla
suona la frase come un doppio senso,
ma il merlo è furbo e dell’umano censo
s’infischia (e fischia), e a render la pariglia
cocente il suo DNA scompiglia
ataviche abitudini. Se penso
e paragono l’uomo alla tribù
dei merli di città che, a tu per tu,
con noi di mezzo, saltellano senza
timori di fucili o reverenza
di gatti pigri e cani ben pasciuti
e inappetenti… “Chi è il pirla?”, m’aiuti?
Guido i’ vorrei che il merlo non cantasse
soltanto sopra il torchio, in quel di Nola
ma liberato dal giogo, la sua gola
gialla da un fitto bosco solfeggiasse
un canto trovadorico per sola
nostra delizia bella. Non da casse
acustiche sorpreso o da matasse
di fotogrammi al giro di moviola
ma immortalato nel suo minuto
d’un frullo che si sperde nel sereno
e poi di foglia scende acuto
dolore, umana doglia, sul terreno
spogliato dell’esistere… e pur voglio
Guido, a fatica, dedicarti il foglio.
L’ansia
d’amarti annega
in questa calma di fieni.
La stagione
ritorna dove gli anni
hanno legato in fasci di trifoglio
i
primi sussurri, i languidi pensieri
adolescenti.
Rileggo in
un diario ingiallite parole
ai margini del tempo.
Era
l’aria un fiato
di cani in corsa
lungo steppe aguzze
di cespugli.
Il desiderio – scalzo fanciullo –
tra
le stoppie correndo si feriva
le tenere caviglie.
Ieri leggevo di
Richard Osborne
“Conversazioni di Herbert von
Karajan”.
Nel parco la luce inseguiva
il balletto dei
merli sui rami
bemolli e bequadri di foglie
e becchi
gialli,
così la musica attinge la misericordia,
si
può essere pazzi o dementi
e intanto salire per gradi
la
sommità del cielo,
che arte pericolosa la polifonia
se
nasconde nel suo mantello
il baratro.
Buttare l’ironia,
questo vestito
che cela le menzogne.
Scrivere parole
di
pietra e di sudore
dove il mondo si liberi
nella totale
integrità del tempo
come ammasso di cose magma di
materie
che urgono a farsi risultato.
A filo d’acqua
i filiformi ragni
scattano avanti e indietro come un
pendolo
segnando un centro tra due punti arcani.
Qui è
il ghiribizzo di un pensiero
– il silenzio
– la
morte?
Pure ogni cosa si muove dall’ombra
anche la
nuvola riflessa nella roggia.
Quando la memoria
sfuoca antiche immagini
a filo d’acqua giace un’Ofelia
bellissima
sciolti i capelli fra i ranuncoli appassiti
fili
preraffaelliti d’erba.
Ora dal concistoro delle
rane
inascoltate prèfiche dell’Autogrill
emerge
un corpo vero
e intorno al fosso
siringhe profilattici
cartacce.
I
Non
invidiare le Noces di Stravinskij
se togli il nerbo delle
percussioni
il gatto a sette code delle sincopi
ribattute
sui quattro pianoforti
cambia ben poco dalla Russia
contadina
qui è rurale l’incedere di nozze,
abiti
in posa d’anteguerra,
volti già perduti nella
nebbia
un flash al magnesio ferma in cielo
e il velo
ondeggiante della sposa
nelle pozze della pioggia
certo quel tempo
non sapeva della guerra
della pioggia d’idrogeno che
sloggia la ragione:
lo credi fermo, il tempo, e ci trascina
tra
le macerie
IV
me e te
confusa tela
fra i sette e settant’anni: e sembra un
gioco
a dadi sopra una scacchiera
dove si retrocede e poco
avanza
e si fa penitenza fermi al giro
d’una flebile
speranza
VIII
ed ecco
la sarabanda dei confetti rotolati
d’argento e i bambini
sotto i tavoli a rincorrerli
biglie più dure del
granito
sfere dalla cornucopia, delle
vere al dito non
ancora donate
alla patria… oh come il tempo
smentisce
le promesse date
le speranze avute
i sogni sbiaditi sulle
pergamene
(2008)
*
La nuova
vita
sembra ancora più bella
quando si è
vecchi.
È come se da un vaso
dimenticato sul
balcone
fra i cocci mescolati a terra
sbucasse un croco
giallo
*
Il mattino
arriva
con cinque monetine
a portare la luce
dai tetti
alle vetrine
inizia la cinciallegra
poi vengono i
passeri
ripassano il latino
sul loro pentagramma
un
merlo scuote la rugiada
dal nero delle piume
così
disputa il vetro nel barlume
di una goccia di giada
la
quinta monetina è il sole
un centesimo di rame
sopra
il cavalcavia.
Poi quando la vita cresce
sono i talenti a
stabilire
i tempi a venire.
Nella sua instancabile opera di lettura e riproposizione di poeti affermati che il dottor Gipponi persegue da molti anni (e che si lega a filo doppio con la meritevole attività di valorizzazione del patrimonio del Museo della Stampa e stampa d’arte), ecco giungere ora un libro importante e utilissimo: La poesia in Ada Negri (Prometheus, Milano 2017). Si tratta di un’antologia che propone oltre sessanta poesie tratte dalle dieci raccolte edite dalla Negri, a partire da Fatalità (1892) per giungere a Fons Amoris (l’ultimo volume, pubblicato postumo nel 1946). Come si può ben capire dai numeri, l’intento del dottor Gipponi non era certo quello di far conoscere pienamente e compiutamente il lavoro della scrittrice (non sono presenti peraltro le prose, che pure - anche a detta di Gipponi - sono la parte più interessante e valida del lavoro negriano); egli voleva piuttosto proporre ai lettori più attenti un ritratto della donna, còlta nel duplice versante della sua vita privata e dell’impegno poetico.
E bisogna dire che questo risultato è totalmente raggiunto. Ma il volume non si limita a proporre questa antologizzazione, bensì giustappone ad ogni testo un commento, a volte sintetico a volte più ampio, che ne sottolinea aspetti metrici, stilistici, contenutistici, così da chiarire e valorizzare ciascuna poesia. Altrettanto significativa è la presenza di un inedito doppio epistolario, composto da undici missive indirizzate alla contessa Gina Arnaboldi tra il 1910 e il 1925, e tre spedite ad Angelo Sodini, rispettivamente nel 1923, 1924 e 1926. Né va sottovalutata l’importanza dell’apparato iconografico che viene proposto in chiusura del volume, che spazia dalle fotografie (alcune poco note) ai busti di Ada Negri opera degli scultori Gianni Vigorelli e Gino Oliva, fino alla recente statua di Mauro Ceglie ospitata nella rinnovata sede di Corso Roma della Banca Centropadana.
L’operazione attuata da Gipponi è consistita dunque nel selezionare, secondo il proprio gusto letterario ed estetico, le poesie ritenute più significative di ogni raccolta, senza che prevarichi (né quantitativamente né qualitativamente) l’una o l’altra stagione della lunga e feconda produzione poetica negriana. Così per ogni silloge Gipponi restringe il campo a pochi ed eletti testi, vagliati secondo il puro ed inoppugnabile criterio della “realizzazione stilistica” che fa aggio sulla “capacità tecnica combinatoria della versificazione”. Come dichiara apertis verbis l’autore, la guida che l’ha condotto a questa scelta è stata unicamente “l’onda della passione per la poesia”: il che non ha comportato affatto, però, un atteggiamento pedestremente crociano, che avrebbe condotto a separare poesia e non poesia, a selezionare i diamanti della “poesia” all’interno di una presunta massa indistinta ed amorfa di “non poesia” (secondo la nota definizione di Benedetto Croce).
Se così fosse stato, avrebbero avuto buon gioco i detrattori a condannare tale operazione, o quanto meno a contestare le scelte fatte, a proporne di alternative, a discutere presenze e assenze: ma l’acribia di Gipponi ha portato ad un giudizio assolutamente scevro di partigianeria, lontano tanto dalle lodi (a volte eccessive) ricevute in vita dalla Negri, quanto da certi pregiudizi malevoli e dall’oblio che colpirono l’opera negriana dopo la sua morte. È ora infatti che si faccia piazza pulita di ogni valutazione dell’opera negriana fondata su categorie ideologiche o attenta semplicemente alle valenze contenutistiche, per poter cogliere appieno il valore della sua poesia e della sua prosa, che nulla hanno da invidiare ad affermati autori coevi come Saba o Penna, Palazzeschi o i crepuscolari, Rebora, Sbarbaro o i vociani, se non proprio i maggiori.
Come scrive nell’Introduzione Francesco Solitario, tutti ci auguriamo che questo libro possa essere il “punto di partenza per una ripresa degli studi sulla poetessa Ada Negri e sulla sua opera, con l’auspicio che, superato l’oblio e l’oscuramento passato, possano gettare nuova luce su un personaggio complesso e poliedrico, e restituire il valore e il posto che Ada Negri merita nel panorama culturale e letterario italiano tra la fine dell’Ottocento e il Novecento”.
Salvatore Satta, nato a Nuoro nel 1902 e morto a Roma nel 1975, è stato uno dei più grandi giuristi italiani del XX secolo: docente a Camerino, Padova, Genova, Roma, Trieste, fu autore di numerosi importanti studi giuridici, tra cui un monumentale Commentario al Codice di Procedura Civile. A tempo perso però fu anche scrittore, e dopo la sua morte la famiglia trovò tra le sue carte il manoscritto di un romanzo, Il giorno del giudizio, che la Casa Editrice Cedam pubblicò nel 1977 e che venne ripubblicato da Adelphi nel ’79: ne nacque un clamoroso caso letterario, che ha fatto scoprire (almeno agli addetti ai lavori) la vena narrativa di un grande romanziere, che qualcuno ha perfino osato paragonare a Manzoni.
Il romanzo non ha trama precisa, ma è una sorta di “Spoon River” trasferito in Sardegna: il narratore, il notaio Don Sebastiano Sanna Carboni, ritornato in tarda età a Nuoro, si reca al cimitero e osservando le lapidi inizia a rievocare figure e vicende del passato più o meno remoto (“Sono stato, di nascosto, a visitare il cimitero di Nuoro. Sono arrivato di buon mattino, per non vedere e non essere veduto. Sono sceso a Montelongu, là dove allora Nuoro finiva e cominciava, all'orlo di San Pietro, e mi sono avviato per le piccole strade della mia lontanissima infanzia”).
Egli propone dunque al lettore personaggi ed eventi della Nuoro d’un tempo, finendo per scoprire che ormai nulla è più rimasto delle memorie e delle figure che avevano caratterizzato la sua giovinezza. I personaggi, analizzati con grande finezza psicologica, vengono a costruire così una carrellata macabra e poliedrica; le loro avventure fanno scaturire domande esistenziali profonde, cui Satta dà risposte non convenzionali, tratte non tanto dalla tradizione cattolica, ma dall’insegnamento dei grandi romanzieri russi (Gogol', Dostoevskij, Solov'ëv, Rozanov) sulla base della spiritualità ortodossa. È un viaggio in un mondo scomparso, in quella Nuoro che l’autore definisce “nido di corvi”, incamminata sulla via della modernità (il contesto cronologico va dalla fine del XIX secolo ai primi decenni del XX), ma ancora caparbiamente attaccata alle tradizioni e alle superstizioni del passato.
I riferimenti a fatti e persone sono molto trasparenti, il che spiega l’ostilità con cui il romanzo venne accolto dai concittadini di Satta e in generale dai sardi. In realtà l’intento dell’autore non era per nulla malevolo nei confronti delle persone nominate, ma tendeva a far risaltare gli aspetti tragici e grotteschi della loro vita e dell’esistenza di tutti gli uomini, riletti nel microcosmo della piccola città sarda. Lungi dal ricalcare stilemi naturalisti o veristi, Satta ripropone piuttosto l’aristocratica visuale di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, cosicché i due romanzieri costituiscono uno straordinario dittico narrativo perfettamente simmetrico, che rivela aspetti nascosti delle due grandi isole italiane.
Il titolo è così motivato nel romanzo: “Forse solo la musica nella sua astrattezza potrebbe rappresentare questa comunione di angeli o di diavoli che sia, e forse la vera e la sola storia è il giorno del giudizio, che non per nulla si chiama universale.
Le ulteriori indagini sulle carte sattiane hanno portato alla luce due altri testi letterari molto significativi: La veranda, che prende spunto dall’esperienza vissuta da Satta in un sanatorio di Merano, e De profundis, composto tra il giugno del 1944 e l’aprile del ’45 mentre era rifugiato presso una famiglia friulana. Nel primo romanzo il protagonista, un giovane avvocato, chiaramente alter ego dello scrittore, descrive i lunghi estenuanti giorni nel tubercolosario in compagnia di una variegata brigata di relitti umani, rassegnati alla morte e forse proprio per questo dotati di un acuto spirito critico. Il secondo testo è un meraviglioso affresco della condizione umana, che rivela tutta l’amarezza del narratore di fronte all’indifferenza e abulia dell’«uomo tradizionale», del cittadino italiano medio negli anni del fascismo.
Così inizia Il giorno del giudizio:
«Don Sebastiano Sanna Carboni, alle nove in punto, come tutte le sere, spinse indietro la poltrona, piegò accuratamente il giornale che aveva letto fino all'ultima riga, riassettò le piccole cose sulla scrivania, e si apprestò a scendere al piano terreno, nella modesta stanza che era da pranzo, di soggiorno, di studio per la nidiata dei figli, ed era l'unica viva nella grande casa, anche perché l'unica riscaldata da un vecchio caminetto.
Don Sebastiano era nobile, se è vero che Carlo Quinto aveva distribuito titoli di piccola nobiltà agli autoctoni sardi che avevano innestato gli olivastri nelle loro campagne (la grande nobiltà con tanto di predicato era quasi tutta cagliaritana, ed era praticamente straniera all'isola): ma il doppio cognome era solo un'apparenza, altro non essendo il Carboni che il nome della madre, aggiunto al Sanna, il vero e unico nome di famiglia, un poco per l'usanza spagnola, un poco per la necessità di distinguere le persone, nella poca varietà dei nomi determinata dalla scarsa popolazione. Ogni bifolco in Sardegna ha due cognomi, anche se poi sull'uno e sull'altro prevale di solito un soprannome, che, se la fortuna aiuta, diventa il contrassegno temuto di una pastorale dinastia. Tipico esempio i Corrales. Il tempo e la necessità han finito col dare una certa legittimità al doppio cognome, e infatti «Sebastiano Sanna Carboni» circoscriveva in lettere tonde lo stemma sabaudo nel timbro ufficiale d'ottone, che Don Sebastiano chiudeva ogni sera gelosamente in un cassetto della scrivania. Poiché Don Sebastiano era notaio; notaio nel capoluogo di Nuoro.
Chi fosse poi questa Carboni che aveva lasciato il suo nome in un timbro, nessuno avrebbe potuto dire. La madre di Don Sebastiano doveva essere morta presto, e nulla è più eterno, a Nuoro, nulla più effimero della morte. Quando muore qualcuno è come se muoia tutto il paese.
Dalla cattedrale – la chiesa di Santa Maria, alta sul colle – calano sui 7051 abitanti registrati nell'ultimo censimento i rintocchi che dànno notizia che uno di essi è passato: nove per gli uomini, sette per le donne, più lenti per i notabili (non si sa se a giudizio del campanaro o a tariffa dei preti: ma un povero che si fa fare su toccu pasau, il rintocco lento, è poco men che uno scandalo). L'indomani, tutto il paese si snoda dietro la bara, con un prete davanti, tre preti, l'intero capitolo (poiché Nuoro è sede di un vescovo), il primo frettoloso e gratuito, gli altri con due, tre, quattro soste prima del camposanto, quante uno ne chiede, e veramente l'ala della notte posa sulle casette basse, sui rari e recenti palazzi. Poi, quando l'ultima palata ha concluso la scena, il morto è morto sul serio, e anche il ricordo scompare. Rimane la croce sulla fossa, ma quella è affar suo. E infatti nel cimitero, meglio nel camposanto dominato da una rupe che sembra una parca, non c'è una cappella, un monumento. (Oggi non è più così: da quando la morte ha cessato di esistere è tutto pieno di tombe di famiglia: sa' è Manca, quella di Manca, come si chiamava, credo dal nome del proprietario anticamente espropriato, è diventata oltre le costose muraglie, oltre gli assurdi colonnati, la continuazione della città imborghesita). E così questa Carboni si era dissolta nel nulla, nonostante i cinque figli che aveva messo al mondo, e di lei non ricordavano neppure il nome di battesimo, protesi com'erano ciascuno nell'avventura della propria vita. Del resto, oltre questa faticosa avventura, erano vivi essi stessi, sentivano come vive le persone che il destino aveva legato al loro carro, mogli, figli, servi, parenti?
Don Sebastiano afferrò il lume a petrolio, grande globo bianco su un piede iridato, e s’inoltrò per il vano della scala. Il buio era immenso, e col passo incerto un occhio tondo di luce vagava rapidissimo sul soffitto. Vent’anni prima egli aveva costruito quella casa, su un terreno comprato da certi miserabili napoletani che il vento aveva spinto fino a Nuoro, e il vento aveva respinto chissà dove. L’impresa non era stata semplice, con sette figli maschi da gettare nel futuro, e partendo si può dire da zero, in un mondo che di speranza non voleva assolutamente sentirne. Ma essere notajo in un paese è un privilegio inestimabile, perché, come si diceva, una procura fa bollire la pentola; e oltre quel ridicolo atto che è la procura (3 lire e 50 di onorari) c’erano i testamenti, c’erano le vendite che già cominciavano a farsi per iscritto, poiché la parola perdeva valore, c’erano i contratti che quei signori del continente venivano a stipulare per il taglio dei boschi e la devastazione dell’isola. Costoro erano gente meravigliosa, che trasformava in oro quel che toccava (qualcuno però finiva col restare nell’isola, preso dalla sua demoniaca tristezza). Non pareva vero ad essi, abituati a quei notai affaristi del continente, di trovare un notajo che si qualificava romanticamente depositario della fede pubblica, e procurava loro gli affari, trattava i prezzi coi proprietari, e tutto questo senza pretendere un soldo (anzi rifiutando ogni offerta) oltre la tariffa dell’atto. Non importa: ciò che conta non è guadagnare molto, è spendere poco, anzi non spendere affatto, se possibile, e possibile era per via dei capretti, degli agnelli che la buona gente mandava in regalo. Una volta, la prima e l’ultima volta, si era lasciato attrarre nel circolo degli ufficiali (Nuoro era anche sede di una guarnigione), e si era seduto a un tavolo da gioco. Dopo mezz’ora – inadatto com’era – aveva perduto trenta lire. Aveva aspettato che la mano tornasse a lui (la dignità sopra tutto) e allora si era alzato, resistendo a tutte le lusinghe. Tornato a casa, per tre notti di seguito aveva fatto di suo pugno le copie destinate all’amanuense, fino a compensare le trenta lire. Così, dicevano i maligni, le aveva pagate l’amanuense. Ma che importa? Qualcuno deve sempre pagare».
Quarantun anni fa, il 10 gennaio del 1977, moriva a Roma Vittoria Guerrini, più nota con il nome d’arte di Cristina Campo: poco apprezzata allora come poetessa, riscoperta solo in anni recenti, ma forse ancor oggi troppo sottovalutata. Certo la sua produzione poetica è quantitativamente limitata (una trentina di liriche, per una sola raccolta edita, Passo d’addio, nel 1956), ed ha contribuito al misconoscimento anche la sua volontà di eclissarsi, se pensiamo che ella amava dire di sé: "Ha scritto poco e le piacerebbe aver scritto meno”. Ma estremamente interessante è la ricerca che ella attua del senso della vita e la totale identificazione tra vita e opera che si respira nella sua poesia: scrivere era per lei pregare («Ma io non ho, davvero, che la poesia come preghiera»), cercare nelle realtà materiali «echi che alludono ad altre cose», navigare verso la verità essenziale. Hugo von Hofmannsthal e Simone Weil furono le sue “ombre protettrici”, gli autori che più influenzarono il suo pensiero; ma numerose altre frequentazioni risultarono determinanti nel suo cammino culturale, da Scheiwiller a Leone Traverso, da Luzi a Sereni, da Montale alla Spaziani, da Turoldo a Silone, da Pound a Eliot. Ciò non toglie che il suo stile resti personalissimo, caratterizzato da una profonda ricerca della parola esatta e incisiva, della bellezza e purezza assoluta.
Straordinaria è anche l’ultima tappa della sua produzione poetica, i quasi duecento ostici e densi versi del Diario bizantino (1977), che testimoniano la sua convinta adesione alla religione ortodossa, l’unica che ella riteneva in grado di spalancarle le strade della mistica, alla scoperta della «meravigliosa carnalità della vita divina», la sola forza che avrebbe potuto opporsi alle potenze del caos che ella vedeva approssimarsi: «Dio non parla nel tuono: / parla in un piccolo alito / e ci si vela il capo per il terrore».
Vittoria Guerrini era nata a Bologna il 28 aprile 1923 e per la sua salute malcerta si era sempre dovuta tenere in disparte, senza neppure poter seguire studi regolari. Nel 1925 la famiglia si trasferì a Parma e nel ’28 a Firenze, dove Vittoria incontrò il germanista e traduttore Leone Traverso, al quale per qualche tempo fu legata sentimentalmente oltre che intellettualmente. Molto fecondi furono poi i rapporti con Mario Luzi e Gianfranco Draghi, Gabriella Bemporad e Margherita Pieracci Harwell (da lei chiamata Mita, la letterata che avrebbe curato postumamente la pubblicazione di molte sue opere).
Trasferitasi con la famiglia nel ’55 a Roma (dove il padre era stato chiamato a dirigere il conservatorio di Santa Cecilia e il Collegio di Musica) vi trovò nuove amicizie: Margherita Dalmati, Roberto (Bobi) Bazlen, Maria Zambrano, Alessandro Spina, Mario Praz, Giovanni Macchia; ma soprattutto Elémire Zolla, filosofo, scrittore, docente universitario con il quale visse dal 1958 fino alla morte, condividendo «spazi mentali vastissimi» in un rapporto amoroso autentico e profondo. Negli ultimi anni di vita fu in contatto epistolare anche con Andrea Emo, il filosofo veneto che ebbe il merito di anticipare il pensiero nichilista di Heidegger.
Con vari pseudonimi la Campo fu traduttrice (soprattutto di autori inglesi come John Donne, Katherine Mansfield, Virginia Woolf, William Carlos Williams) e nei primi anni cinquanta lavorò alla compilazione di un'antologia di scrittrici, Il Libro delle ottanta poetesse, che doveva costituire «una raccolta mai tentata finora delle più pure pagine vergate da mano femminile attraverso i tempi». L'antologia, alla quale si dedicò intensamente, coinvolgendo nella traduzione vari amici, non venne tuttavia mai pubblicata ed è andata purtroppo quasi completamente perduta.
Dopo le fondamentali raccolte di saggi edite in vita (Fiaba e mistero, 1962, e Il flauto e il tappeto, 1971), sono usciti postumamente altri scritti della Campo, da Gli imperdonabili (1987) a La Tigre Assenza (1991) a Sotto falso nome (1998) e soprattutto numerosi epistolari: Lettere a un amico lontano (Scheiwiller, 1989); L'infinito nel finito. Lettere a Piero Pòlito (1998), Lettere a Mita (1999), Il fiore è il nostro segno, carteggio con William Carlos Williams e Vanni Scheiwiller, (2001), Caro Bul. Lettere a Leone Traverso (2007), Cristina Campo e Alessandro Spina, Carteggio (2007), Se tu fossi qui. Lettere a Maria Zambrano 1961-1975 (2009), Un ramo già fiorito. Lettere a Remo Fasani (2010), Il mio pensiero non vi lascia. Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino (2012), Lettere a Vittorio Sereni e Lettere a Ernesto Marchese (2014).
Pochi però sono stati i componimenti poetici apparsi a integrare il suo smilzo canzoniere: essi non vanno tuttavia considerati (come alcuni critici hanno sostenuto) “versi dispersi”, bensì tessere di una raccolta organica che la Campo avrebbe voluto pubblicare con il titolo Le temps revient (Il tempo sta arrivando), a sottolineare le tappe della sua ricerca spirituale, la sua costante ansia di perfezione, il ricorrente «tentativo di capire – e di sopportare» la vita, in un sempre più fitto dialogo con i testi sacri e gli autori amati.
Maria Luisa quante
volte
raccoglieremo questa nostra vita
nella pietà
di un verso, come i Santi
nel loro palmo le città
turrite?
La primavera quante volte
turbinerà
i miei grani di tristezza
dentro le piogge, fino alle tue
orme
sconsolate - a Saint Cloud, sulla Giudecca?
Non
basterà tutto un Natale
a scambiarci le favole più
miti:
le tuniche d'ortica, i sette mari,
la danza sulle
spade.
" Mirabilmente il tempo si
dispiega..."
ricondurrà nel tempo questo
minimo
corso, una donna, un atomo di fuoco:
noi che viviamo
senza fine.
Moriremo lontani.
Sarà molto
se poserò la guancia nel tuo palmo
a
Capodanno; se nel mio la traccia
contemplerai di un’altra
migrazione.
Dell’anima
ben poco
sappiamo. Berrà forse dai bacini
delle
concave notti senza passi,
poserà sotto aeree
piantagioni
germinate dai sassi…
O signore e
fratello! ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli
studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni:
«nessun
vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta».
Ora che capovolta è
la clessidra,
che l’avvenire, questo caldo sole,
già
mi sorge alle spalle, con gli uccelli
ritornerò senza
dolore
a Bellosguardo: là posai la gola
su verdi
ghigliottine di cancelli
e di un eterno rosa
vibravano le
mani, denudate di fiori.
Oscillante tra il
fuoco degli uliveti,
brillava Ottobre antico, nuovo amore.
Muta,
affilavo il cuore
al taglio di impensabili aquiloni
(già
prossimi, già nostri, già lontani):
aeree bare,
tumuli nevosi
del mio domani giovane, del sole.
Amore, oggi il tuo
nome
al mio labbro è sfuggito
come al piede l'ultimo
gradino...
ora è sparsa l'acqua della vita
e
tutta la lunga scala
è da ricominciare.
T'ho
barattato, amore, con parole.
Buio miele che odori
dentro
diafani vasi
sotto mille e seicento anni di lava -
ti
riconoscerò dall'immortale
silenzio.
Devota come
ramo
curvato da molte nevi
allegra come falò
per
colline d’oblio,
su acutissime
làmine
in bianca maglia d’ortiche,
ti
insegnerò, mia anima,
questo passo d’addio…
Un anno…
Tratteneva la sua stella
il cielo dell’Avvento. Sulla
bocca
senza febbre o paura la mia mano
ti disegnava,
oscura, una parola.
E la sfera dell’anima e
dell’anno
vibrava in cima a uno zampillo d’oro
alto
e sottile, il sangue.
Ne
tremavano
sorridenti gli sguardi – all’accostarsi
buio
di quel guardiano incorruttibile
che nei giardini chiude le
fontane.
What
sorrow
beside
your sadness
and
what beauty
W.C.
Williams
Troppe cose hanno accolto le tue palpebre
l'attenzione ti ha consumato le ciglia.
Troppe vie t'hanno ripetuta,
stretta, inseguita.
La città da secoli ti divora
ma travede per te, sogno e sfacelo
di luci e piogge, lacrime senili
sulla ragazza che passa
febbrile, indomabile, oltre il tempo, oltre un angolo.
Ritorna! Gridano i vecchi di Santa Maria del Pianto,
la frotta della Piscina di Siloè
con i randagi, gl'ibridi, gli spettri
che non si sanno e tu sai
radicati con te
nel glutine blu dell'asfalto
e credono al tuo fiore che avvampa, bianco –
poiché tutti viviamo di stelle spente.
L’aria di giorno in giorno si addensa intorno a te
di giorno in giorno consuma le mie palpebre.
L’universo s’è coperto il viso
ombre mi dicono: è inverno.
Tu nel vergine spazio dove si cullano
isole negligenti, io nel terrore
dei lillà, in una vampa di tortore,
sulla mite, domestica strada della follia.
Si stivano canapa, olive
mercati e anni... Io non chino le ciglia.
Mezzanotte verrà, il primo grido
del silenzio, il lunghissimo ricadere
del fagiano tra le sue ali.
Cosa proibita, scura la primavera.
Per anni camminai lungo primavere
più scure del mio sangue. Ora tornano sul Tamigi
sul Tevere i bambini trafitti dai lunghi gigli
le piccole madri nei loro covi d’acacia
l’ora eterna sulle eterne metropoli
che già si staccano, tremano come navi
pronte all’addio...
Cosa proibita
scura la primavera.
Io vado sotto le nubi, tra ciliegi
così leggeri che già sono quasi assenti.
Che cosa non è quasi assente tranne me,
da così poco morta, fiamma libera?
(E al centro del roveto riavvampano i vivi
nel riso, nello splendore, come tu li ricordi
come tu ancora li implori).
Due mondi - e io vengo dall'altro.
Dietro e dentro
le strade inzuppate
dietro e dentro
nebbia e lacerazione
oltre caos e ragione
porte minuscole e dure tende di cuoio,
mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo,
inenarrabilmente ignoto al mondo.
dal soffio divino
un attimo suscitato,
dal soffio divino
subito cancellato,
attende il Lume coperto, il sepolto Sole,
il portentoso Fiore.
Due mondi - e io vengo dall'altro.
La soglia, qui, non è tra mondo e mondo
né tra anima e corpo,
è il taglio vivente ed efficace
più affilato della duplice lama
che affonda
sino alla separazione
dell'anima veemente dallo spirito delicato
- finché il nocciolo ben spiccato ruoti dentro la polpa -
e delle giunture degli ossi
e dei tendini delle midolla;
la lama che discerne del cuore
le tremende intenzioni
le rapinose esitazioni. […]
...
Ti cercherò per questa terra che trema
lungo i ponti che appena ci sorreggono ormai
sotto i meli profusi, le viti in fiamme.
Volevo andarmene sola al Monte Athos
dicevo: restano pagine come torri
negli alti covi difesi da un rintocco.
...
Ma ora non sei più là, sei tra le grandi ali incerte
trapassate dal vento, negli aeroporti di luce.
...
Nei denti disperati degli amanti che non disserra
più il dolce fiotto, la via d'oro del figlio...
«Nelle fiabe, come si sa, non ci sono strade. Si cammina davanti a sé, la linea è retta all’apparenza. Alla fine quella linea si svelerà un labirinto, un cerchio perfetto, una spirale, una stella – o addirittura un punto immobile dal quale l’anima non partì mai, mentre il corpo e la mente faticavano nel loro viaggio apparente. Di rado si sa verso dove si vada, o anche solo verso che cosa si vada… La meta cammina dunque al fianco del viaggiatore come l’Arcangelo Raffaele, custode di Tobiolo. O lo attende alle spalle, come il vecchio Tobia. In realtà egli l’ha in sè da sempre e viaggia verso il centro immobile della sua vita: lo speco vicino alla sorgente, la grotta – là dove infanzia e morte, allacciate, si confidano il loro reciproco segreto» (da Gli imperdonabili).
Il 1917 segna una svolta fondamentale nella produzione di Ada Negri, che, dapprima poco convinta, su incoraggiamento dell’amica Margherita Sarfatti dà alle stampe il suo primo volume di prose, Le solitarie (non si tratta in realtà di una novità assoluta, perché già da decenni questi testi, a metà fra elzeviro e racconto, erano stati da lei proposti su vari periodici, in particolare sul «Corriere della Sera» e sul «Marzocco»). La scelta del genere novellistico, che d’ora in poi affiancherà costantemente la produzione lirica, risponde in effetti all’esigenza di raffigurare personaggi nei quali l’autrice riconosce qualche aspetto di sé, e che costituiscono dunque come le tessere di un’ideale autobiografia, tutta giocata sui toni lividi della delusione e della sconfitta.
Nella breve lettera/dedica alla Sarfatti l'autrice afferma di aver rappresentato in quest’opera «umili scorci di vite femminili sole a combattere: malgrado la famiglia, sole: malgrado l’amore, sole: per colpa propria o per colpa degli uomini e del destino, sole». «Libro di penombra» lo definisce in quella stessa lettera, per il grigiore delle figure che vi si accampano, spesso diverse da lei per ceto e condizioni economiche, ma simili nella consapevolezza della solitudine che le attanaglia e nel rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere la loro vita.
Protagonista di ognuno dei diciotto racconti è una donna che occupa quasi per intero lo spazio narrativo, confessandosi nei suoi più intimi pensieri e rimorsi, rimpianti e sogni: e il panorama che ne scaturisce è quello di uno spaccato attento e partecipe della società italiana tra Otto e Novecento, dove operaie e impiegate, nobildonne e borghesi vengono variamente proposte come tipi esemplari (in positivo o in negativo) al pubblico cui Ada Negri si rivolge. Sono donne segnate dalle loro violente passioni e ribellioni, sovente dalle debolezze e dalle rinunce cui sono costrette, in ogni caso destinate a soccombere alla legge inesorabile della prepotenza del maschio; il quale peraltro è tanto poco degno d’attenzione da non avere spesso un nome proprio, ma da esser menzionato solo in quanto causa delle sventure procurate alla donna. Perché, come dice un personaggio, l'uomo passa nella vita della donna «per devastare» (Clara Walser): è un essere insignificante, che per contrasto fa risaltare ancor di più la grandezza tragica di colei che a lui è offerta e sacrificata.
L’oppressione che annichilisce molte delle donne ritratte nella raccolta nasce proprio dalle umiliazioni subìte, dal lavoro degradante o dalle misere condizioni di vita cui esse sono costrette; ma ancor più spesso dai vincoli imposti dalla società dell’epoca. Il che provoca uno slancio di femminismo sincero nella Negri, che riprende le idee già espresse qualche anno prima in un articolo nel quale, scandalizzando i benpensanti, aveva rivendicato la libertà di scelta delle donne, fino a preconizzare per loro l’opportunità di rifiutare un matrimonio combinato o di crescere un figlio fuori dal legame coniugale e dalle convenzioni borghesi (Un figlio, in «Il Marzocco», 5 febbraio 1911).
Si instaura in questo modo una sorta di relazione di complicità fra i personaggi delle novelle e la scrittrice, così come fra la scrittrice e il suo pubblico potenziale, tutti prevalentemente accomunati dall’identico genere femminile: quasi un gioco di specchi che illumina l’universo delle donne in ogni sua tonalità e gradazione. Scrive il 3 maggio 1917 Ada Negri all’amato Ettore Patrizi (con cui riprende il contatto epistolare interrotto quasi vent’anni prima): «Non do importanza a questo volume di prose; eppure vi è contenuta tanta parte di me, e posso dire che non una delle figure di donna che vi sono scolpite o sfumate mi è indifferente. Vissi con tutte, soffersi, amai, piansi con tutte».
Anche in questo libro quindi gli elementi autobiografici sono rilevanti, che si tratti di riferimenti espliciti al padre e alla madre (nel Posto dei vecchi il vetturino pubblico alcolizzato Gigi Fracchia e la tessitrice di bianco Feliciana che lavora in fabbrica) o alla stessa Ada (nel racconto La promessa la giovane Fresia che attende per quindici anni il fidanzato partito per far fortuna oltreoceano; nel Denaro Veronetta che ripropone vicende e pensieri propri della giovane Dinìn). Ma anche dove questi rapporti non sono particolarmente evidenti nei personaggi descritti, non manca mai un soggetto narrante che, disegnando figure femminili con cui dialogare, sa cogliere le caratteristiche più sottili della loro personalità, le motivazioni profonde delle loro scelte e delle loro inquietudini. Asserisce ad esempio di sé Veronetta, vero alter ego della scrittrice, di aver imparato «a penetrare il fondo dei cuori e dei caratteri, per estrarne con forza e dolore il nascosto nocciolo della verità, ed esprimerlo con la parola più precisa, con la sola necessaria» (Il denaro). In una sezione dal titolo molto trasparente di Confessioni, sono poi raccolti cinque racconti che presentano un campionario di donne che rivelano a quell’interlocutrice attenta che è Ada tradimenti (Un rimorso), tormenti coniugali (Gelosia), amori infelici (L'assoluto), drammi incancellabili (Clara Walser), vessazioni subìte (Storia di una taciturna). Sono, come rivela l’autrice in quest’ultimo testo, «vite di donna intessute […] a filo liscio, bianco su bianco», che denunciano esistenze tragiche, «trame aggrovigliate di passione e di sangue».
Un altro elemento che avvicina Ada Negri ai suoi personaggi è la sessualità negata: per scelta o per dovere, per uno stupro subìto o per un matrimonio imposto, per problemi familiari o per stereotipi sociali. È questo dramma che pone le donne in totale sudditanza affettiva e culturale nei confronti degli uomini, anche perché rarissima è la possibilità di ribellione di fronte a queste situazioni, cosicché le vicende che esse vivono appaiono ordinarie e incolori, senza alcuna evoluzione o progresso. Più che al realismo regionale dei vari Scarfoglio, Serao, Zena, la scrittrice sembra qui rifarsi al modello del Capuana di Profili di donne e delle Paesane, dove figure enigmatiche ed eccentriche vengono ritratte negli ambienti più vari, con profonda verosimiglianza e notevole capacità di indagine introspettiva.
Anche i nomi scelti per le donne della raccolta contribuiscono a contraddistinguerle, perché per analogia o per contrasto evidenziano la loro prerogativa principale: ecco la Feliciana infelice respinta in vecchiaia dalla sua famiglia (Il posto dei vecchi); Fresia che, nonostante il nome floreale, vive tra l’«asfissiante odore di polvere» e l’«acre odor d'acidi» della tintoria (La promessa); la «maestra dei piccini», «l’anima candida» Rossana (Anima bianca) che candidamente porta nella tomba il segreto della nera violenza subìta; Cristiana che sconfessa la pietas religiosa implicita nel proprio nome con l’aborto volontario (Il crimine); e infine Veronetta, il cui nome rimanda alla verità di vita che ella rappresenta, in contrapposizione alle rigide convenzioni sociali cui la narratrice deve invece sottostare. Veronetta è tra tutte la figura più audace, l’unica veramente capace di slanci di ribellione quasi eroici: di lei / di sé la scrittrice afferma che «la sua chiusa ed aspra verginità si armò d'un balzo di mille punte, trovò in se stessa la più artigliata difesa. Graffiò, morse, si strappò da quelle tanaglie, balzò, gatta elastica e minacciosa, contro la parete. I suoi occhi fosforescenti, tutti pupilla, mettevan paura» (Il denaro). È lei, «padrona dell’eternità», ribelle e diversa per natura, a incarnare l’ideale negriano della donna sicura di sé e determinata a imporsi in un mondo maschilista, che rifiuta di essere trattata come un oggetto. È lei infine a trovare serenità nel rapporto con un uomo “diverso” dagli altri, che le può essere «compagno, amico, amante».
È lei anche l’unica a non mostrare una delle caratteristiche tipiche delle donne della raccolta: la deformità, fisica o morale, accentuata o meno, che più che configurarsi come un tratto realistico, sembra esprimere una valenza simbolica, rappresentando la grottesca tragicità delle loro esistenze, rese pressoché invisibili sotto una maschera aberrante. È proprio Ada a strappare loro questa maschera per rivelarne gl’intimi pensieri, per dare spazio alle loro confessioni, per tentare di suggerire un’ipotetica ribellione, perché le donne nella loro solidarietà tendono «a toccare, a penetrare, a discutere i più singolari problemi di psicologia femminile» e a supportarsi reciprocamente, pur nella comune sensazione di impotenza che le angoscia: «È troppo orribile nascere donna, portare in noi per tutta la vita, male inguaribile, la fatalità della nostra debolezza» (come afferma l’anonima protagonista del racconto Un rimorso).
Certamente tutte queste figure femminili prevaricate e sottomesse devono molto alla lettura di Ibsen, che in Casa di bambola aveva incentrato la sua riflessione e la sua polemica sulla drammatica condizione della donna nella società maschilista di fine Ottocento. Anche Ada Negri, che come Nora ha ormai ripudiato il marito e rifiutato le convenzioni borghesi che la imprigionavano, esprime qui tutta la sua vicinanza e comprensione alle donne che tratteggia con non comune sensibilità.
Nato a Lodi nel 1954, Carrera è scrittore, saggista, traduttore, critico musicale, ma è stato anche un ottimo cantautore, avendo composto fin dagli anni settanta testi in proprio e in collaborazione con altri musicisti e poeti, tra cui Moni Ovadia. Come poeta ha pubblicato le raccolte La resurrezione delle cose (1988), La ricerca della maturità (1992), La sposa perfetta (1997), L’amore del secolo (2000), Lode all’isterica (2000), Poesie per paraurti (2012), fino all’ultimo splendido volumetto del 2016, Beato chi scrive.
Ma non si possono dimenticare i suoi studi accurati su Bob Dylan, in particolare La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell'America, pubblicato in una prima monumentale edizione nel 2001 e riedito nel 2011 dopo il Nobel.
Gli esordi poetici di Carrera presentano una forte valenza di sperimentazione linguistica, al limite della magmaticità espressiva: ma vi si coglie già una vena favolistica e discorsiva, destinata a incrementarsi nelle raccolte successive. Così La ricerca della maturità si presenta come una narrazione in versi che può far pensare alla Camera da letto di Bertolucci o a Lavorare stanca di Pavese, presentandoci riferimenti autobiografici che si trasfigurano in paradigmi universali, in riflessioni raziocinanti dal valore terapeutico. Una novità significativa si ha con La sposa perfetta, libro bilingue che cerca di coniugare due lingue, due mondi, due culture, ibridandole e intersecandole costantemente. Bilingue è anche il successivo L’amore del secolo / Love of the century, che addirittura è stato pensato prima in inglese e “tradotto” poi in italiano: molto interessante anche la struttura del volume, sorta di “installazione poetica” composta da 100 poesie (una per ogni anno del secolo passato) in 1000 righe, dove eventi della vita del poeta si intrecciano ad avvenimenti di portata mondiale (ad esempio il funerale della nonna e la morte del secolo) e riferimenti ai miti Navajo della creazione fanno da sfondo alle figure materna e paterna.
L’ultima (per ora) fatica poetica di Carrera, Beato chi scrive, ha anch’essa una struttura di grande rilevanza, strutturato com’è su dieci capitoli/libri (La biblioteca degli angeli, Beato chi scrive, Dal libro dell’angelo, Dal libro del padre, Dal libro della madre, Dal libro del ragazzo, Dal libro del tempo, Dal libro degli sposi, Dal libro del viaggiatore, Dal libro del sogno) che si immaginano scritti non per i comuni mortali, ma per gli angeli, che hanno una loro particolarissima modalità di lettura. Come scrive l’autore nel primo capitolo: “Se una creatura angelica leggesse quello che scrivi, quali versi gli piacerebbero, quali ignorerebbe, e quali porterebbe via con sé dopo quell’attimo che gli basterebbe per scorrerli tutti?” Una di quelle domande che ti si formano in mente quando non vuoi svegliarti la mattina. Roba da vergognarsi anche solo ad averla pensata. Si vede che sto invecchiando. Ma è vero che la poesia non è scritta per gli esseri umani, che infatti non la leggono. Chi scrive poesie crede di parlare ai suoi simili ma in realtà scrive per gli angeli, che leggono tutto, perché devono riferirne a Dio. Il modo di leggere degli angeli, però, non è quello degli uomini. Gli uomini hanno tempo. Poco, ma ne hanno. Gli angeli non hanno tempo. Hanno l’eternità, ma l’eternità non è il tempo. L’eternità è un solo istante che non passa mai. Nell’eternità, l’unica poesia che si può leggere è quella che si coglie con un solo colpo d’occhio. Non c’è tempo per girare le pagine, nell’eternità. Estrarre, allora, estrarre. Polverizzare lunghe piante di versi, ricavarne il principio attivo e fare in modo che non cada oltre il bordo della pagina”.
Da questo volume sono tratte le poesie che seguono.
Beato chi scrive,
chi morde la sghemba gommina
e consuma la mina,
chi scambia le lingue e i cognomi,
chi allinea pensieri
– se fosse un raccolto di pomi –
chi canta il poema africano
del suo parrocchetto che squilla,
la nota che trilla
dall’ultima ottava del piano,
chi conta le anse e le dune
della polvere a cui tornerà,
chi ignora moltissimo e sa,
adesso lo sa.
Beato chi traversa
il display del processore,
chi spacca quel vetro di sale
che preme i suoi fogli d’amore,
chi trova un momento a tirare
una riga e rifare il totale.
Beato chi si sveglia
in qualunque città dove è voluto,
beato chi ci parte fra un minuto,
una calza bucata e un principio di tosse,
beato chi prova col dito bagnato
il caldo del ferro da stiro sull’asse,
beato chi paga le tasse,
chi sospira sul cagnetto che possiede,
chi tenta il torrente col piede,
chi spanna gli occhiali e ci vede,
adesso ci vede.
E vede una cosa da nulla,
un falso carattere a stampa,
una lucciola cacchina,
appena una fiatata di spessore.
Beato chi è amico
di quell’informatore
che gli porta le soffiate che lui scrive
e se poi le sta a guardare
sa benissimo che appena
le ha lasciate a prender aria alla ventata
cerca di tenerle
e dire in giro sono mia
è come respirare
una cicchina già fumata.
Ti ho sentito
elogiare la pozzanghera.
L'universo, dicevi,
tutto vi si specchia
nel suo torbido innocente.
Avrei preferito
il contrario,
sentirti elogiare
l'universo,
dire che con tutti i suoi soli
e le tempeste
non è che una pozzanghera
neanche tanto fonda.
Ti dicono i versi
parlano ai versi
come la notte
parla alla notte
e il giorno parla al giorno.
Non crederci. I versi
fanno parlare la notte
fino a che il giorno
la vede inarcarsi,
arcobaleno nero,
da mattina
a mattina.
Mio piccolo ragno che dondola
nei suoi piani geometrici di guerra,
mio piccolo cane che siede
spogliando il suo osso della sera,
mio piccolo pascolo infinito
combattuto da immemori pastori,
mia piccola catastrofe segreta
che travesto di splendida parata,
per me che ti do inizio non c'è fine,
più piccola divento e più ti abbraccio.
Togliti i capelli dalla fronte,
stai bene con slacciata la camicia.
Sarai come tuo padre,
innamorato, ignoto, in marcia
verso un ballo fino all'alba,
sveglio in tempo
per i vasti intervalli di campane.
Non c'è chiave che riapra questa porta,
non c'è quercia né vapore, ma ti dico:
bada i segni che ti colgono
nell'angolo dell'occhio,
dove se ti volti
sparisce il paradiso
percorso dai tuoi angeli
sguantati.
Quando poi con la coda dell'occhio
colsi il lampo di un paio di guanti
scordati in corriera
qualcuno scrisse due righe
e mio padre disse tienile.
Erano l'indirizzo di un albero
dietro le mie orecchie.
Non ero del tutto uno straniero
in questo mondo,
una donna di tanto in tanto
stava seduta al mio fianco,
e io m’innamoravo
come un mistico dentista
che non vuole far del male
alla bocca di nessuno.
Era ora di mettere radici
nel cuore di una donna,
di scenderle nell'anima
come in una splendida miniera,
di scorrere ai suoi piedi
come una fonte che trabocca,
di aspettarla come un pozzo
sotto la furia sovrana del cielo,
di orientarsi ai segni azzurri
delle vene dei suoi polsi.
Era ora di star sola
insieme a un uomo
come mai si ricordava
per suo conto,
di costringersi alla grande impertinenza
di entrare a piedi nudi
nel gran gala,
di spiegare al concierge col batticuore
che non erano sposati,
solo ostili, mentre lui
non vedeva differenza
e indicava la cappella sottoscala.
Da certe soste me ne vado
come da una frequenza
che si affioca.
Armeggio l’autoradio,
la voglio ritrovare.
Ma si è persa come un amore,
e c’è pieno di cartelli
di vietato convertirsi a U
per riascoltare
quel pezzo che ti piace.
E invece volevo fermarmi
in mezzo all’autostrada
e sentire sotto i piedi
il centro dell’America
come quando da bambino
mio padre mi portava
sul mosaico fatto a croce in Galleria
che dicevano il centro di Milano
e portava fortuna calpestare.
Il creatore ha messo
un grano di sabbia
nella valva delle cose
perché lo spirito
che le teneva insieme
vi si accanisse intorno
e trasformato in perla
non potesse uscire
nell'orecchio di un casuale
ascoltatore di conchiglie.
Da allora, passato lo stupore
alla vista delle sagome sui viali,
la morte è un compito a casa
che avrò da consegnare,
e il canto sempre un angelo inseguito
che si volta con un dito sulle labbra.
Poi qui, io mi racconto di tutto,
ma da dove mi ha raggiunto
questo rapace che non si alza mai da terra,
questa religione scribacchina,
senza cimbali né salmi?
Nato nel 1895 a Treviso, Giovanni Comisso fu un giovane bizzarro e visionario: insofferente del grigiore della città natale, sul finire del 1914 entrò volontario in guerra e nel 1919 lo troviamo a Fiume con i legionari guidati da D’Annunzio. In seguito, laureatosi in legge a Siena, si dedicò per breve tempo alla carriera forense, per poi vivere le più diverse esperienze: libraio, commerciante d’arte, corrispondente e inviato speciale della «Tribuna», della «Gazzetta del Popolo» e infine del «Corriere della Sera». Fu amico e confidente di scrittori ed artisti, da Onofri a D’Annunzio, da Arturo Martini (trevigiano come lui) a De Chirico a De Pisis.
La sua produzione è costituita prevalentemente da prose di memoria, a partire dall’autobiografico Il porto dell'amore (1924), scaturito dall’esperienza fiumana, cui seguirono tra gli altri Le mie stagioni (1951), Giorni di guerra (1930), La mia casa di campagna (1958), Mio sodalizio con De Pisis (1954), La virtù leggendaria (1957). Vinse anche prestigiosi premi letterari: il Bagutta con Gente di mare nel 1928, il Viareggio con Capricci italiani nel 1952 e lo Strega con Un gatto attraversa la strada nel 1955. Morì a Treviso il 21 gennaio 1969. A lui dal 1979 è intitolato il Premio letterario "Giovanni Comisso - Città di Treviso" per la narrativa e la saggistica.
La sua vita irregolare lo portò spesso ad affrontare viaggi anche rischiosi in vari paesi europei, in Africa, in Cina, in Giappone, in Russia: ne scaturirono reportage curiosi e affascinanti, dove l'erotismo ha una parte considerevole; in molte delle sue pagine affiorano rievocazioni di personaggi famosi, impressioni della vita di mare e degli ozi in campagna, descrizioni di città illustri e di paesi sconosciuti, che ci rivelano un gusto particolare del fantasticare, unito però a un realismo concreto e robusto.
Accanto al desiderio di avventure conviveva però in lui l’aspirazione alla tranquillità e al silenzio, tanto che nel 1930 decise di ristrutturare nella sperduta località di Zero Branco una casa colonica di proprietà della famiglia, per soggiornarvi poi in un proficuo isolamento. Di questa permanenza è testimonianza lo splendido racconto La mia casa di campagna (1958), dove si può leggere una sorta di filosofia di vita: «Non avere padroni, né servitori, non avere l’incubo delle ore, non avere alcuna preoccupazione di denaro e lasciare che la mente e i sensi vivano tra il sogno e l’azione, liberi e folli, secondo l’estro determinato quasi da una consistenza astrale».
Il diario Giorni di guerra, iniziato nel 1919, subito dopo la fine del conflitto, ma pubblicato solamente nel 1930 (e nell’edizione definitiva ampliata nel 1960), esprime con chiarezza l'ingenua baldanza del giovane Comisso, che (come molti altri giovani interventisti) si dichiara «quasi contento di vivere un po’ animatamente» le tragiche vicende della guerra. Il testo rivela limpidamente l'agnosticismo politico del nostro autore, che va di pari passo con la sua visione della guerra come gioco, come «avventura dei sensi», letta con una forte carica impressionistica, anche sulla scorta della coeva ideologia futurista che celebrava la guerra come “sola igiene del mondo”. Comisso manifesta in quest’opera tutta la sua esuberante gioia di vivere, la sua invincibile curiositas, l’ebbrezza di affrontare le avventure più rischiose con l'incoscienza somma del giovane esaltato e spensierato.
Degli episodi (gloriosi e squallidi, avventurosi e tranquilli) narrati nel volume, Comisso tende a farsi spettatore più che attore, evocando con trasognato rimpianto la felicità priva di nubi della giovinezza, le sensazioni inebrianti sperimentate, l'eroismo avventuroso e spericolato: «Se non pensassi a voi - scrive ai genitori nel giugno 1915 - griderei ancora più forte che la guerra è bella, perché racchiude tante e tante emozioni e spettacoli che cento anni di vita in pace non ce li offre: è tutta movimento, energia, rumore, giovinezza, è insomma la radice quadrata della vita».
Dal punto di vista stilistico il libro trabocca di esuberante vitalismo e si mostra, nella sua istintiva genuinità, distante dallo stile dannunziano, oratorio, prezioso e fastoso, come rilevava Comisso stesso con orgoglioso compiacimento in un'intervista del 1947: «Appartengo a quella schiera di scrittori ultimi che col loro stile riescono a contrapporsi allo sfarzo dello stile dannunziano, senza ricadere nel chiuso professorale e nei tentennamenti provinciali [...], stile fatto di parole che potevano essere parlate dall'uomo». In tutto il romanzo Comisso rivela «un impressionismo goloso di sensazioni, sensualissimo, terrestre, carnale» (C. Martignoni): il che potrebbe apparire fuori luogo in un libro dedicato alla guerra, ambientato in un clima drammatico, ma ben s'intende se si pensa alla visione della vita che Comisso aveva, alla gioia dell’avventura individuale che permea questo (e molti altri) suoi romanzi, accostabili in ciò a certe opere di altri solariani come Ardengo Soffici o Carlo Linati.
Tale gusto dell'avventura è ben visibile in questo capitolo, dove la curiosità domina sull’avvertenza del pericolo, le sensazioni piacevoli su quelle tristi o fastidiose. Nei due brani proposti Comisso narra prima l’esperienza in un bordello dei soldati, dimentichi per un po’ della tragedia bellica, tra risate e scherzi goliardici; poi la rischiosissima ispezione da lui stesso fatta in prima linea al suo reparto, raggiunto in teleferica per il solo gusto dell'avventura e della sfida. In questa, come in altre occasioni, l’autore esprime amore per la guerra proprio a causa del pericolo insito in essa, che egli affronta con giovanile incoscienza, esaltato da ciò che per lui la guerra rappresenta: «movimento, energia, rumore, giovinezza».
Si veda ad esempio il paragone tra la rischiosa impresa notturna e le sensazioni di gioia («A venti anni si è come l’innamorato folle»; o ancora «mi trovai chiuso tra la solitudine degli alberi, tanto grande da farmi dimenticare e guerra e divisa»): dove si capisce che è proprio l’azzardo ad attrarre il giovane entusiasta, a suscitare in lui una passione che si potrebbe perfino definire erotica. Si veda infine la conclusione dell'episodio che, dopo aver oscillato tra gesti quotidiani (l'assalto dei soldati con le loro semplici e umanissime richieste) e straordinarie fortunate coincidenze (gli spari che sibilano fitti sul protagonista, immobilizzato e impossibilitato a reagire, senza recargli danno alcuno), si apre a un moto di trasognato stupore: «mi chiesi se tutto quello che avevo fatto me lo fossi sognato; e [...] andai a cogliere i tenui fiori dell'autunno che splendevano come meravigliose ametiste».
“Avanti a chi tocca”, i soldati stavano in fila per le scale, addossati contro al muro per lasciare spazio verso la balaustra agli altri che scendevano. Scendevano a testa china guardando dove posavano i piedi come avessero perduto l’abitudine di scendere i gradini di casa. Le mani annerite e magre uscivano come sterpi dalle maniche consunte, le cinghie delle giberne solcavano le spalle ossute, le labbra secche tremavano: parevano confusi come per aver compiuto qualcosa di proibito o qualcosa a cui non si sentivano destinati. Quella donna che avevano potuto avere era apparsa più pulita e meglio nutrita di loro, con vestiti che davano il godimento solo a guardare. La fila dei soldati si formava da un’attigua sala d’aspetto dove io e il mio amico passavamo in attesa del nostro turno. In questa sala i soldati avevano un contegno più allegro, si facevano maneschi tra loro, si pizzicavano, qualcuno metteva ad un altro le mani in mezzo alle gambe dicendo: “Vediamo se l’hai ancora!” Ridevano e si abbracciavano e altri si divertivano a scrivere sui muri il proprio nome e cognome con i numeri del reggimento e della compagnia. Altri vi facevano grandi disegni osceni o informi figure di donne nude. Un avviso inchiodato alla parete conteneva alcune norme di igiene “che il coito sia breve”. […] Tutti guardavano chi scendeva come per spiargli sul volto quanto si fosse goduto. Toccò anche a noi di uscire dalla sala, e quando ci trovammo ai primi gradini, il silenzio subentrò in tutti, quasi un timore venisse a opprimerci. Dietro di me veniva il mio amico, il quale mi diceva che gli era quasi passata la voglia e insisteva perché ce ne andassimo e perché non scappasse lo presi per mano. Il soldato davanti a me si era voltato verso di lui per mettergli una mano sulla spalla e gli aveva detto “coraggio che ne abbiamo passate di peggio; è sempre meglio fare questa scala così che stare in trincea”. Eravamo sul pianerottolo, vi erano davanti a noi solo pochi soldati. Eravamo prossimi al nostro turno, si sentiva dall’interno delle stanze il cigolio dei letti e il rumore dell’acqua. Una porta si aperse, intravidi una donna seminuda e un soldato uscì assestandosi le giberne. Un’altra porta si aperse, toccava il mio turno, ne uscì un soldato biondo e roseo con il berretto sbandato sul capo, ci guardammo: “Com’è?” gli chiesi “Bona assaie” mi rispose in napoletano!
[…]
La stazione di partenza era in una segheria abbandonata, vicino al villaggio di Plusna. Villaggio che alzava sul verde del pendio solo qualche brandello di muro. Vi arrivai all’imbrunire, perché i viaggi incominciavano col buio. L’ufficiale addetto alla teleferica usciva in quel momento dal sacco a pelo dove se ne stava intanato tutto il giorno per paura dei dolori reumatici, molto probabili in quella località tanto umida. Difatti il prato che circondava la baracca era come illuminato da quei fiori lilla tenui e bellissimi, che sorgono al principio dell’autunno. L’ufficiale, costretto a lavorare di notte, aveva dormito fino allora. Bevemmo un buon caffè, ma tuttavia rimase a guardarmi con occhi assonnati quando gli spiegai che volevo salire al Rombon con la sua teleferica. Pareva non capisse o non potesse convincersi. La mia insistenza e il permesso del comando della divisione gli fecero alzare le spalle e concludere: “Io non vi andrei, ma se tu vuoi proprio andare, o se te lo hanno ordinato, pericolo proprio, no, ma seccature, sai, si può incantare il moto e allora per ore, per tutta la notte, per domani e dopodomani ti può toccare di fermarti a metà campata, sospeso sopra un vuoto di mille metri, non so se mi spiego”. A venti anni si è come l’innamorato folle: anche quando ci spiegano per ogni punto cosa ci possa accadere di male, non solo non si crede, ma proprio non si sentono neanche le parole che vi dicono. […] Partii, tutto preso dall’estro felice di credermi ritornato in gioco su di una giostra della mia infanzia. Fuori la notte mi avvolse umida, il rombo del motore si allontanò, ai lati vedevo le punte dei pini abbassarsi e sommergersi. Mi sentivo perdere di peso e sollevare. Un desiderio di chiudere gli occhi e dormire. L’aria era fresca. Ero solo, seguito dal rumore della rotella che scorreva sulla fune. Ma presto tornai a vedere le punte dei pini sorgere vicino e crescere, intesi un altro rombo di motore avvicinarsi, poi la fune si indorò di luce e subito entrai sotto una tettoia, dove il carrello si fermò. Mani premurose e sorrisi gentili sui grossi volti degli alpini mi accolsero. Non ero un generale, ma la parola d’ordine venne trasmessa anche all’altra stazione, l’ultima e lontanissima. Cambiai carrello e ripartii. Ancora i pini scomparvero e mi ritrovai solo sul vuoto col rumore della rotella che scorreva fedele. Tenevo lo sguardo fisso alla fune di acciaio che mi reggeva e al cielo che si alzava tra le nere cime dei monti. Sorse qualche pensiero. Vidi le gallinelle, le stelle che per la prima volta, da bambino, mi furono insegnate da mia madre. Il salire così verso il cielo mi dava una malinconia protesa lontano verso la mia casa, mi disponeva al pianto. A quell’ora, a tavola, dopo cena, mio padre cercava la mia sorte nell’esito dei solitari e mia madre, intenta a me, scorreva le mani nel lavoro di maglia per i soldati. Ma stare così sospeso, in quella specie di cesta, mi ricordò le Nuvole di Aristofane, tradotte a scuola poco prima di partire per la guerra, e giunsi a gloriarmi di essere ridicolo come un discepolo di Socrate.
D’improvviso in un punto del cielo si aperse una pioggia di stelle fugacissime. Nel silenzio, solo, continuo era lo scorrere della rotella. Poi la fune s’illuminò, ma d’una luce bianca, e anche tutto il carrello. Una luce intensa proveniente dal basso m’investiva e mi seguiva. Era un riflettore e non mi lasciava; si unirono piccoli sibili sparsi e dal fondo della valle riecheggiò il suono di una mitragliatrice.
“Ci siamo: ora per forza attraverserò una zona, dove mi colpirà in pieno”. Mi posi l’elmetto sul volto e la borraccia di ferro, piena di vino, sul cuore, ché non volevo essere colpito. Incrociai le mani sul petto e attesi! I colpi venivano dal basso e allora pensai sarebbe stato conveniente mettere la borraccia sotto la schiena, provai, ma mi dava noia. I sibili come insetti rabbiosi passavano, continuavo a salire, l’elmetto mi pesava sul volto. Mi liberai dell’uno e dell’altra e, data una sorsata al vino, ritornai a guardare le stelle. Il riflettore si spense e la mitragliatrice cessò, ma giù nella valle alcuni razzi s’accesero illuminando di barbagli fino le cime dei monti e, come il buio risorse, un pezzo d’artiglieria prese a sparare una serie di colpi grossi e monotoni, con l’espressione di uno che parli nel sonno.
[…] Ma l’aria si era fatta tiepida, rasentavo una parete di roccia e poco dopo arrivai velocemente dentro a una grotta, fermandomi nello stesso tempo. Ero arrivato al comando. Sollevarmi e scendere fu una cosa che mi dispiacque.
Da un soldato minuscolo mi feci indicare dove era il mio distaccamento: Fuori della grotta si stendeva un breve spiazzo coperto di ghiaia come nel giardino di una villa. Un muraglione di roccia si levava alto e alla base vidi molte grotte illuminate appena. In una di queste trovai i miei soldati, vi erano piccole nicchie per dormire. Tutto attorno alle pareti, una sopra l’altra, dove alcuni già stavano avvolti nelle coperte; in un angolo vi era il centralino telefonico e uno stava parlando. Riconobbi la voce. Quando seppero che ero il loro ufficiale, quelli che stavano nelle nicchie scesero giù e gli altri mi si fecero attorno. “Eccovi la posta” La depositai sulla tavola in preda alle loro mani e mi sedetti a guardarli. […] Non vollero credere fossi giunto con la teleferica e quasi mi rimproverarono. “Ma non sa che è battuta dalla mitragliatrice del Cukla? Mandano giù solo i feriti gravi proprio per disperazione”. Ordinai di cercare un fiasco di vino. Uno corse alla mensa del Comando. Ci si fece cordiali e allegri, volli sapere i nomi di tutti e quelli dei loro paesi!
[…] Giù alla segheria faceva umido, l’ufficiale era andato a dormire. Rimasi un poco a guardare il motore e il lavoro silenzioso e misurato dei soldati che caricavano. La sonnolenza mi pesava. La notte era alta. Trovai un breve andito vicino alla baracca dell’ufficiale, mi distesi per terra e m’addormentai, contro la parete. Poi, risvegliandomi al freddo dell’alba, subito mi chiesi se tutto quello che avevo fatto me lo fossi sognato; e, sceso verso il prato dove la nebbia era distesa come un velo, andai a cogliere i tenui fiori dell'autunno che splendevano come meravigliose ametiste.
Giusi Quarenghi è nata nel 1951 a Sottochiesa, una piccola frazione del comune di Taleggio, nel bergamasco, dove tuttora vive; della valle in cui è nata ha detto: «La mia valle era la mia isola». Ma da quest’isola si è allontanata con la fantasia per costruirsi una straordinaria vocazione di scrittrice per l’infanzia (e non solo): racconti, storielle, filastrocche, testi di divulgazione, sceneggiature, romanzi, fiabe, ma anche cinema, cartoni animati, fumetti; nel 2016 ha perfino proposto i Salmi "per voce di bambino". Ha in sostanza affrontato con grande competenza e varietà di linguaggio ogni sorta di scrittura perché, come lei stessa narra, «la lettura era una chiave che mi permetteva di aprire ogni parola che fosse scritta. Da lì mi sono anche rassegnata alla scrittura. Leggendo, frequentando ed amando le storie degli altri, cominciano a venirti in mente le tue. E l’unico modo per fermarle è quello di scriverle».
Nel 1999 pubblica la prima raccolta di poesie, Ho incontrato l’inverno, cui segue nel 2001 Nota di passaggio, “poesia al femminile”, e nel 2006 Tiramore. L’ultima silloge è recentissima, del 2017, e si intitola Basuràda: come spiega l’autrice stessa, «Bas-ura è l'ora bassa a ridosso del tramonto, l'allargarsi quasi improvviso del giorno in una luce vasta e stillante, come di rugiada; così nella sera si insinua un sentimento d’aurora, chiasmo non solo temporale, eversivo e struggente. Quanta più luce, e che luce, nell’imminenza della notte». La Quarenghi scopre in quest’ora crepuscolare una luce reale e nello stesso tempo metafisica, che ammira affascinata e sognante, offrendocela come spunto di meditazione, per farci contemplare il mondo con occhi di bambino e contemporaneamente di adulto. È una luce che si alterna serenamente con il buio, in un ininterrotto e pur tranquillizzante fluire del tempo. E da questo avvicendarsi di luce e oscurità scaturisce una francescana «laus creaturarum» che si reitera e diffrange nella «guancia dell’aria» e nella bocca della luce, nel cielo e negli alberi, nella pioggia e nel tramonto, nel silenzio e nei «respiri trasparenti della neve», nel «piccolo di rapace» e nella «polvere di pietra», nella «bacca rossa» dell’infanzia, nel tiglio che «domani sarà miele» e nel gelsomino che vive «in un vuoto del muro di pietre»: in tutti quegli spettacoli naturali di cui solo un’anima devota e limpida sa cogliere il fascino nascosto.
Accanto alla meditazione sulla serenità della natura vi è spazio anche per l’agonia e la morte della madre, vissuta però non come un dramma insanabile, ma come un evolversi naturale imprescindibile, un esaurirsi «a goccia a goccia», «fiato / su fiato», «di poco in poco dal meno al niente». E in questa rassegnata meditazione sulla morte sembra quasi che un’altra madre si affianchi a consolare: è Maria, che si offre al poeta nel dialogo muto con l’angelo, in quella «casa di pane e di pietre» dove «Dio ha scelto / di non sapere», dove l’Eterno ha scelto di cogliere «il filo del labirinto / di ogni creatura viva». È quasi una «lama d’amore» che si insinua nel «cuore di luce piena», tra il buio e la luce, tra l’ansia e la pace, tra il dolore e la gioia, a portare pace e consolazione.
da Basurada
***
Aspetta la notte la luce
che apre al cielo il respiro
Bianca silente soave
cammina gelata sulle punte
dei rami tra i sassi e le stelle
Infante inarcata rotonda
dal basso illumina il cielo
è la neve luce di terra
***
Lode alla guancia dell’aria alla bocca
di luce ai suoi angoli tondi
che non feriscono mai Lode
al cielo che la guarda agli alberi
che le crescono di fronte alle foglie neonate
e già ragazze segrete Lode
alla pioggia al tormento che il davanzale
sostiene Lode al muro
alle sue frasi di pietra al gatto rosso
muezzin del tramonto Lode
al silenzio che mi lascia il suo
corpo ai respiri trasparenti della neve
appena stata
***
Questo autunno del bosco è lo svolo
della voce femmina
della terra madre
che non so cosa pensa di notte
e i desideri cela
finché al sole pur poco
li svela
***
Ci vuole coraggio per essere foglie
e attenzione
al tempo del cominciare
e del finire
quando il vento
pare più forte ma è solo
che è venuto il momento
***
A goccia a goccia mia madre muore fiato
su fiato sguardo su sguardo mia madre
muore di poco in poco dal meno al niente
mia madre muore in stretta economia
come faceva con ogni cosa buona perché
durasse ancora un po’ solo con l’acqua
si lasciava andare
In piccoli respiri quieti a mano
a mano si sfila dal suo corpo ritrova
l’insieme vuoto e si riconsegna
anche nella morte madre
***
Amarti figlio mio
è amare il tuo segreto
dove tu sei segreto
segreto persino a te
segreto a me che t’amo
segreto perché ti amo
***
Posso fare del mio cuore schegge
grumi e polvere di pietra posso
buttarlo ai cani vederlo fare a fette
sul marmo del macello
negarlo sotterrarlo Ma non
sopporterò il solo farsi avanti
dell’ombra del pensiero
che è questo che tu vuoi
uccidermi a patto
che io non muoia mai
***
L’ho ritrovata la bacca rossa
della mia infanzia mortale
la polpa scarsa il nocciolo
importante insiste a lungo asprigna
e legante Poi di colpo il rosso si fa
scuro il gusto pieno maturo Sulla pelle
ride e brucia la carezza delle foglie
stropicciate di nascosto
L’infanzia non muore giura
la bacca di cornàl mano sul bosco
***
Non temere Maria
ho arrotolato le ali lasciato
il paradiso Era troppo per me
Voglio fermarmi qui
nella tua casa di pane e di pietre
nella tua voce bianca
come polpa di castagno Non temere
Maria sono
un angelo portoghese
volo senza annunci senza carte d’imbarco Sono angelo
zingaro non temere
Maria le mie impronte sono ali
Me le prenderanno
per sapere chi sono le prenderanno
Non servirà non temere Maria
nemmeno loro sapranno
quello che persino Dio ha scelto
di non sapere
il piccolo infinito
il filo del labirinto
di ogni creatura viva Non temere
Maria Sono l’angelo degli elementi respiro
terra cammino aria bevo fuoco morirò
acqua mio testimone il legno
di cicatrici e fiori
In braccio alla tua ombra
ascolto il tuo respiro
partitura incisa cantata
con lama d’amore
e abbasso gli occhi
a cercare il cielo
Perché un angelo?
Custodisce i sogni
E la spirale?
È impronta del tempo profondo
E le ali chiuse?
Sono arrivato
dove volevo
dove sono voluto
***
Temo le sere di luce le sento
bussare alla porta sbarrata
già nel pomeriggio hanno provato le nocche
ma il giorno ha altro da fare e poi
muore la veste lucente gli scivola via
dalle spalle dal collo dai fianchi capaci
resta la sera la sento impazzire la sera da sola
annodo le mani raccolgo la pelle le nego
illusione che resti al di qua del mattino
Si tenga a quello che teme di più
alla splendida notte
***
Ho mandato il tuo corpo a memoria
ripasso le frasi della tua pelle le virgole
delle tue ossa i punti dove si fermano
i piedi si appoggiano i fianchi
faccio scorta della curva delle orecchie
del tondo delle unghie di ogni piega d’odore
del ti tocco e del mi tocchi
Che tu mi manchi
è il mio ultimo amore
***
Il gelsomino
bianco messo a dimora
con tutte le cure è morto vive
invece in un vuoto del muro di pietre
il seme sfuggito anche al vento
randagio caparbio fratello
capace di farsi bastare ogni
niente Lo nutre il desiderio
quello che gli manca
***
Non vedo fin là
ma adagio lo so ti ritrovo sull’acqua
distesa nella luce dei sassi in grembo
alla barca leggera Manca poco alla riva
***
Vorranno pur dire qualcosa queste foglie
così lente a morire che insistono
a stare sui rami d’inverno i viali
in città ricolmi di gialli gloriosi di ruggini
caldi il cielo che non trova dove infilarsi
le chiome compatte che il vento non smaglia
la pioggia non buca vorranno pur dirmi
qualcosa
***
Lo ripongo con cura ogni sera
a portata di mano ma lo ripongo
non lo porto con me lo ripongo
col suo carico buio
Al mattino ritrovo ogni cosa
l’orologio le fedi gli occhiali
le parole i vólti l’attesa il cuore
no non il cuore
non là dove l’avevo lasciato
con il suo carico buio
Vent’anni fa moriva a Roma all’età di ottantasei anni Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, nota in campo letterario come Joyce Lussu, moglie in seconde nozze del grande antifascista sardo Emilio Lussu (autore tra l’altro del drammatico e sorprendente Un anno sull’altipiano, 1938). E certamente la fama del marito ha danneggiato la donna, nonostante ella sia stata figura decisamente significativa sia in campo politico (antifascista, partigiana, medaglia d'argento al valor militare, capitano nelle brigate “Giustizia e Libertà”, attiva nel dopoguerra in organizzazioni pacifiste internazionali), sia in campo letterario, dove ha lavorato come saggista, scrittrice, poeta e traduttrice. D’altronde lei stessa affermava, con una buona dose di amarezza, che “le donne non hanno un proprio nome. Le donne devono sempre portare il nome di un uomo, o è il padre o è il marito”. Oggi è però giunto il momento di restituire a questa donna straordinaria il posto che le compete nel panorama letterario del Novecento.
Nata a Firenze l’8 maggio 1912, Gioconda si trasferì nel marzo 1925 con la famiglia in Svizzera, a 30 chilometri da Losanna, per sfuggire alle persecuzioni fasciste che avevano già colpito il padre e il fratello, e vi rimase fino al 1934. Successivamente fu in Germania, ad Heidelberg, dove seguì i corsi universitari di Karl Jasper, poi in Francia e in Portogallo: si laureò in Lettere alla Sorbona e in Filologia a Lisbona. Nel febbraio 1934 sposò Aldo Belluigi e con lui raggiunse in Kenya il fratello Max, che vi aveva realizzato un’impresa agricola. L’azienda ben presto fallì, e così pure il matrimonio di Gioconda: la donna, che aveva nel frattempo iniziato a farsi chiamare Joyce come l’amata cognata Joyce Pawle, soggiornò in diverse località africane, iniziando a collaborare con organizzazioni internazionali pacifiste e lottando contro il colonialismo delle nazioni europee. Con il fratello entrò quindi a far parte del movimento antifascista “Giustizia e Libertà” ed ebbe così modo di conoscere Emilio Lussu, nome di battaglia mister Mill, con il quale continuò il suo impegno di partigiana in clandestinità, e che restò al suo fianco fino alla morte (1975). Nel dopoguerra fu promotrice dell'Unione Donne Italiane, militò per qualche tempo nel Partito Socialista Italiano entrando nel 1948 nella direzione nazionale; in seguito preferì tornare ad occuparsi di attività culturali e politiche autonome, sempre insofferente di vincoli e condizionamenti d'apparato.
Agli anni trenta risale il suo approdo alla poesia, che fu per lei un tentativo riuscito di utilizzare questo linguaggio privilegiato per scandagliare e rivelare il senso ultimo della realtà: una chiave di lettura della storia, un modo per vincere la componente di casualità inevitabilmente presente nell’esistenza umana. D’altronde il titolo stesso della sua raccolta più importante, Inventario delle cose certe (1998), indica proprio la sua scelta di inventariare, di registrare e investigare i fatti per sviscerarne la dimensione profetica, proponendola poi in un linguaggio a tutti comprensibile. Questa ricerca di semplicità stilistica, di trasparenza espressiva le viene peraltro dall’insegnamento ricevuto dal grande poeta turco Nazim Hikmet, da lei conosciuto nel 1958 a un congresso per la pace a Stoccolma, e da lei tradotto in italiano fin dal 1965.
Nel volume citato troviamo le sue poesie giovanili, già celebrate a suo tempo da Croce, accanto a poesie più recenti, che trattano tematiche d’amore e di genere, politiche e “partigiane”: un caleidoscopio di argomenti unificati dalla sottile vena ironica della Lussu (“la maniera migliore di vivere – diceva – è quella di non prendersi troppo sul serio”), ma anche dalla profondità della riflessione che ne scaturisce. Così la definizione sbarazzina della poesia come semplici “parole tracciate in righe diseguali” nasconde il profondo rispetto per il ruolo della parola poetica; la fantasmagorica visione della luna “rotta in cinque pezzi che galleggiano nel cielo” rinvia agli intricati pensieri delle donne; il mancato successo rinfacciatole da un amico si trasforma in una coraggiosa affermazione di sé, in cammino “verso l’imprevedibile orizzonte”. E ancora si vedano le coraggiose poesie per la liberazione della donna, le trasparenti accuse al maschilismo imperante, l’eroica certezza che la vita sia un viaggio di ricerca che non finisce mai.
Grande pittrice di paesaggi e occasioni, di corpi e di ambienti, di situazioni e stati d’animo, Joyce Lussu ha saputo collocare la sua contemplazione nell’ambito di un pensiero forte, che osa dire il bello e il peggio del mondo in cui vive.
Che
cos’è la poesia?
Non
è un problema
difficile da
risolvere.
Basta
andare in giro con un pezzo di carta
su
cui sono tracciate parole
in
righe diseguali
e
chiedere al primo che passa
scusi,
legga, le sembra una poesia?
Se
il primo passante
è
recalcitrante
si
prova con un altro
e
alla fine magari con qualche parente
vicino
o lontano
con
qualche conoscente o amico devoto.
Uno
si trova sempre
che
dice: è una poesia
certo,
che vuoi che sia,
è
bella, non c’è male.
Dopo
questa verifica
si
può andare a riempire un altro foglio
di
righe disuguali
e
cominciare da capo.
La
poesia
è
una bugia
che
sembra più vera del vero
più
vera della politica
della
psicologia
e
anche della matematica
è
una menzogna
detta
con estrema convinzione
e
passione
uno
specchio trasparente
fragilissimo
e deformante
che
appare solido come la tavola
cui
s’aggrappa il naufrago
un
catarifrangente
notturno
che brilla solo se lo illumini coi fari
e
subito sparisce nel buio.
La
luna si è rotta.
Si
è rotta in cinque pezzi che galleggiano nel
cielo
squallidamente
come
cinque cocci di scodella.
Era
una luna piena e luminosa
Che
aveva un’aria abbastanza felice.
Lì
per lì ho creduto che i cosmonauti e i satelliti
artificiali
l’avessero offesa in qualche modo.
Ma poi ho capito ch’era
tutta colpa mia.
La guardavo fissamente con pensieri tristissimi
e scomodi
e tutt’a un tratto – trac – si è
rotta in cinque pezzi
quasi senza rumore.
Certo
sono i miei pensieri che l’hanno urtata
in
un momento in cui si sentiva particolarmente fragile.
Questi
pensieri delle donne liberate sono una cosa complicata
e
la luna ch’è tonda e semplice ci si trova male.
Continua
per te la fatica diurna
di
ieri di oggi
pesante
è la brocca che porti dal fonte
pesante
il cammino in salita
dai
ciottoli tondi
pesante
la cesta di gialla farina
che
stacci
pesanti
quei tuoi fratelli aggrappati
ai
tuoi bracci
eppure
ti senti leggera
leggera
i
gesti che compi
son
d’oggi di ieri
le
stesse parole
tu
dici
non
muta la piega del viso abbronzato
dal
sole spietato
nel
cavo del raro sorriso
le
mani tue dure operose
non
hanno mai posa
eppure
sei lieve sei lieve
sei
nuova sei nuova
sei
come una nuvola rosa
sospesa
nel cielo
perché
quel ragazzo ricciuto
ti
ha guardato e sorriso
“Senti,
sia come sia, ti confesso
che
non m’interesso molto al successo
ma
appassionatamente al succede
e
al succederà.
Il
successo è un paracarro
una
pietra miliare
che
segna il cammino già fatto.
Ma
quanto più bello il cammino ancora da fare
la
strada da percorrere, il ponte
da
traversare
verso
l’imprevedibile orizzonte
e
la sorpresa del domani
che
hai costruito anche tu…”
Ricominciamo
l’inventario
senza
farmi mettere in crisi
da
chi mi dimostra che tutto quel che dico
è
scandalosamente approssimativo
e
che faccio del vocabolario
un
uso piatto e abborracciato.
Posso
usare soltanto parole
tra
le quali mi sento a mio agio.
Posso
soltanto parlare.
Perciò
parlo.
Chi
ha detto che la vita è breve?
Non
è vero niente
La
vita è lunga quanto le nostre azioni
generose
quanto
i nostri pensieri
intelligenti
quanto
i nostri sentimenti
disinteressatamente
umani.
La
vita
è
infinita.
C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede
ancora la marca di fabbrica
Schulze Monaco
c’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio
di scarpette infantili
a Buchenwald
più in là c’è un mucchio di riccioli biondi
di ciocche nere e castane
a Buchenwald
servivano a far coperte per i soldati
non si sprecava nulla
e i bimbi li spogliavano e li radevano
prima di spingerli nelle camere a gas
c’è un paio di scarpette rosse
di scarpette rosse per la domenica
a Buchenwald
erano di un bimbo di tre anni
forse di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto
lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini
li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perché i piedini dei bambini morti
non crescono
c’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.
Vorrei sapere quando ti ho perso
in quale data in che momento
forse quel martedì ch’ero triste
o un mese prima d’averti visto
forse quella domenica pomeriggio
ch’ero allegra e parlavo troppo di me
forse in una data remota
inesplicabile e ignota
come il tre marzo del millenovecentotré
Vorrei sapere dove ti ho perso
in che punto preciso della città
forse davanti ad un semaforo
forse in un bar o in una stanza
forse dentro ad un sorriso
forse lungo una lacrima
che colava giù per una guancia
forse tra le aureole gialle dei lampadari
sospese nella nebbia dei viali.
Vorrei sapere perché ti ho perso
il motivo la necessità dell’errore
forse perché non c’è tempo
o perché c’è stato l’inverno
e adesso viene la primavera
ma con tanto poco sole
tra i muri d’acciaio e cemento
che tremano per il rumore
delle macchine, delle fabbriche, degli ascensori.
Ma non voglio sapere che ti ho perso
che ti ho perso e dove e quando e perché.
Chandra Livia Candiani, poetessa milanese di origini russe, ha pubblicato finora le raccolte Io con vestito leggero (2005), La nave di nebbia (2005), La porta (2006), La bambina pugile ovvero la precisione dell'amore (2014), Bevendo il tè con i morti (2015) e Fatti vivo (Einaudi 2017). I riferimenti culturali cui attinge sono per lo più estranei alla tradizione italiana, spaziando dai poeti russi a quelli orientali, da Kabir a Tagore, da John Donne a Emily Emily Dickinson a Rilke. La sua visione del mondo, che indubbiamente risente soprattutto degli insegnamenti buddisti, da un lato la porta a rammaricarsi per l’insensibilità dell’uomo nei confronti della natura e dei suoi simili, dall’altro lato le permette di cogliere gli aspetti più nascosti degli oggetti, che divengono nella sua poesia presenze misteriose quasi umanizzate.
Alla base della sua concezione del mondo sta la capacità di «mantenere il canale della parola libero per altri ascolti, per altre visite, [la capacità] di ascoltare l’essenziale»: fondamentale è infatti per lei salvare la parola in via d’estinzione, offrire agli uomini una lettura del reale che vada oltre il puro dato fisico, perché «poesia è conoscenza e passione» e le parole sono «segni sulla pelle del mondo». Anche il dolore interpella drammaticamente questa singolare poetessa («Il dolore degli altri / non mi sta in mano / e nemmeno in gola / più che altro sta nel petto / nella sua memoria / luogo schivo / che fa stazione / che scartavetra le fughe»), portandola a ricercare una comunanza di intenti e una consonanza di sentimenti con l’umanità intera.
La raccolta più significativa è certamente La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore: un canzoniere che, fin dal titolo ossimorico, scandisce le tappe dell’amore in tutte le sue sfumature, dalle più tenere alle più spietate, nella quotidianità così come nell’eccezionalità della vita, tra persone umane e oggetti amati, oltre ogni dogma e ideologia precostituita. La “precisione” di cui parla il titolo è in realtà un’utopia, impossibile da raggiungere nella sua pienezza, perché l’amore è sconfinato, «la [sua] misura esatta è l’infinito»: ma va in ogni caso ricercato con passione e comunicato agli uomini e alle donne di buona volontà.
***
La
vita nuova
arriva taciturna
dentro la vecchia vita
arriva
come una morte
uno schianto
qualcuno che spintona così
forte
un crollo.
È una scrittura tanto precisa
e
netta da non lasciare dubbi
né sfumature di senso
eppure
non dà direzioni né mete.
La vita
nuova irrompe
come un vecchio che cade
sul ghiaccio, un
pensiero
davanti a un muro, la
sirena di un’ambulanza.
Non
ci sono feriti
né annunci di sciagura
solo noi da
convincere
a lasciar perdere il miraggio
di una vita
rettilinea, di un
orizzonte, lasciarsi curvare,
piegare
alla tenerezza
delle anse del destino.
La vita nuova
è
come un grande tuono
sbriciolato
poi a poco a poco
l’erba
si china
sotto la pioggia
la prende
la beve.
***
Dunque
c’è la luce
e ogni foglia è attaccata al
ramo
con esatto amore
e ogni foglia in orario
lascia
il ramo
con audace resa
e ogni uscire dalla soglia
del
corpo è ricevuto
con unanime benvenuto
da quella
scienza della gioia
che proprio ora proprio qui
riempie il
foglio di ghirigori
per dirti che dunque
la luce c’è.
***
Esiste
la musica.
Esiste proprio,
come
lenzuolo lampada
orologio e casa,
come
nuvola,
quel suo disumano orto
d’intenzione
di
ascoltare l’anima
esiste. Come domino
di note che si
crollano addosso e fanno
insieme. Insieme si fanno, e sono
fatte
musica. Qualcosa che abbiamo
perduto o dimenticato
o
rotto forse
per mani troppo grevi, qualcosa
di spezzato. Un
silenzio eseguito
un’anima di ghiaccio
conservata
sotto sale.
Ma cosa cosa ho perduto
io, mentre ti
ascolto
cara faccia del nulla
caro amore senza
direzione
care ossa: grazie grazie
c’è stato
qualcuno
prima di me. È ora
di affrontare la musica.
***
Io
aspetto
come il melo
aspetta i fiori –
suoi –
e
non li sa
puntuali
ma li fa,
simili
non
identici
all’anno passato.
Li fa precisi
e
baciati nel legno
da luce e acqua
da desiderio
senza
chi.
Sorrido sotto il noce
ai suoi occhi tanti
che mi
studino bene
la tessitura dei capelli
e ne facciano
versi
di merlo e di vespa
di acuti
aghi di pino
e
betulla appena sveglia.
Non so chi sono
ho perso senso
e
bussola privata
ma obbedisco
a una legge
di
fioritura
a un comando precipitoso
verso luce
spalancata.
Come
andare al tempio,
come un lago tranquillo
le mani senza
offerte
tranne quello che hai sfamato
diventato
respiro
bruma tra i capelli
e preparare parole
povere
snocciolate
via via che la porta
si
avvicina?
Come andare al tempio,
furiosi e famelici
con
il sangue che bussa
insieme agli annegati,
con le mani
zuppe
di lacrime degli altri senza faccia,
con i sogni
degli animali
che non sanno di nascere
crescono schiodati
dalla terra
per sfamare i sazi?
Come andare al
tempio,
saltellando o strisciando
stanchi, stanchi
di
pregare silenzio e trovare
solo nomi abbandonati
voci
scucite?
Come girare le spalle al tempio
e tornare
lentamente
verso casa e ogni passo
farlo santo
appropriato
e insieme incompetente,
ogni respiro
accompagnarlo
precisamente
e poi cadere a terra come
ammainati
e tenere la propria mano
e dirsi eccomi
qui
piccola come un pulviscolo
eccomi spazzata via
alla
domanda schietta:
briciola che ha paura del pane
è
la morte?
***
L’amore
è diverso
da quello che credevo,
più vicino a
un’ape operaia
a un tessitore
che a un acrobata
ubriaco,
più simile a un mestiere
che a un
sentire.
Io amavo
un po’ con la memoria astrale
e
un po’ con giustizia poetica,
ma l’amore
è
più vicino a una scienza
che a una poesia,
ha delle
sue regole di risonanza
e altre di respingenza,
ha angoli
di incidenza
per profili alari e luce,
ma non ha regole per
il buio
e l’assenza di ali.
L’amore è
molto simile
all’insonnia,
non devi soffrirla
solo
ospitarla,
lasciare che ti squassi
faccia di te un sistema
nervoso
senza isolamento,
una corda tesa
di strumento
musicale ignoto.
Essere temi musicali
non è una
vocazione
ma una disciplina di spoliazione,
è farsi
ossi
limati
dalle onde
goccia che si disfa
nel
galoppante mare.
***
Siamo
nuvole
i nomi complicano la tessitura
ma siamo
nuvole,
notturne mattiniere
dipende,
oltraggiose
spaurite
candide sprezzanti,
cavalieri e
cavalcature
bastimenti e animali
siamo pronte
a
dissolverci con fierezza
in quel tutto pacatissimo
del
cielo ultimo
che ci affida il mondo.
Siamo nuvole
cambiamo
vita di frequente
lì, sopra il disordine della realtà
il
fondo
sereno delle cose,
la pioggia
la sete.
Può essere considerato per certi aspetti un esilio quello vissuto da Luigi Meneghello, nato a Malo, in provincia di Vicenza, il 16 febbraio del 1922 ed emigrato in Inghilterra nel ’47, dove visse e insegnò per oltre cinquant’anni. Dapprima invaghito del fascismo (nel 1940 vince i Littoriali nel campo della “dottrina fascista”), poi antifascista e partigiano, Meneghello si laurea infine nel 1945 all’Università di Padova col massimo dei voti. Partecipa attivamente alla breve ma intensa esperienza del Partito d’Azione, ma in seguito all’involuzione della vicenda politica italiana, decide di lasciare volontariamente un Paese che ritiene vuoto, “vecchio”, rappresentazione di una civiltà retorica di cui non riesce a condividere lo sguardo condizionato dal regime fascista: e si trasferisce in Inghilterra, dapprima a Reading, poi a Londra.
Questo dispatrio (come egli lo definisce) gioca un ruolo fondamentale in tutta la sua esperienza e carriera letteraria, attraverso un processo continuo di identificazione e disidentificazione con la lingua italiana e il dialetto patrio. Vale anche per lui la celebre metafora brodskiana della lingua come “navicella spaziale”, microcosmo in cui si può rifugiare lo scrittore che è costretto a vivere lontano da casa. «L’incontro con la cultura degli inglesi – afferma in effetti Meneghello – e lo shock della loro lingua, hanno avuto per me un’importanza determinante, portandomi a un periodo di ripensamento sull’Italia, l’Inghilterra, la guerra, la pace, gli studi, la società moderna, la civiltà di massa e altro ancora». Proprio in seguito a questa presa di coscienza e al ripensamento sulla propria identità (anche linguistica), Meneghello inizia a scrivere intorno ai quarant’anni, esordendo con un libro già maturo e destinato a costituire una pietra miliare della letteratura italiana: Libera nos a Malo (1963).
Il titolo è un gioco di parole tra la frase del Padre nostro in latino (“liberaci dal male”) e il nome del paese natale, di cui lo scrittore, lontano ormai da molto tempo, vuole ricostruire usi, costumi, vita sociale, personaggi caratteristici: e nello stesso tempo la propria infanzia e giovinezza. Più che un romanzo, l’opera è un collage di brani saggistici, narrativi, autobiografici, espresso con un linguaggio ironico e fortemente connotato, ricco di termini ed espressioni dialettali che si concatenano fra di loro in una sorta di “stream of consciousness” joyciana. Ovviamente la trama non è lineare e facilmente ricostruibile, anche se possiamo parlare di un’autobiografia ricca di riflessioni filosofiche, nella quale il dialetto costituisce quasi quel ritorno all’infanzia di cui parla Freud; afferma l’autore in una famosa pagina: “Ci sono due strati nella personalità di un uomo: sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto”.
Dopo il libro d’esordio Meneghello ha realizzato altre opere significative, anche se probabilmente meno note al grande pubblico: da I piccoli maestri (1964) a Pomo Pero (1974), da Bau-Sète! (1988) a Il dispatrio (1993), fino a Quaggiù nella biosfera. Tre saggi sul lievito poetico delle scritture (2004). Proprio nel 2004, dopo la morte dell’amatissima moglie Katia, decide di tornare in Italia e si trasferisce a Thiene, città che lo aveva insignito della cittadinanza onoraria: lì muore d’infarto il 27 giugno 2007.
Così Meneghello descrive la nascita del suo libro più famoso:
“Il primo nucleo del libro si è formato a Malo nel corso di due estati (le mie vacanze accademiche che passavamo appunto al mio paese, nella casa di mio padre). Tre mesi circa nel 1960 e altri tre nel 1961. Mi ero messo a scrivere su certi fogli sciolti, alla sera quando si tornava dal caffè, le conversazioni e le chiacchiere che avevamo fatto con gli amici, o anche le cose sentite in paese durante il giorno. Uno, due, tre fogli per sera, in tutto saranno stati un centinaio. Non avevo intenti esplicitamente letterari. Volevo fermare qualcosa che mi era piaciuto, fatti o discorsi, per lo più cose senza importanza. Qualche scossa di terremoto durante la notte, e la gente raccontava le sue impressioni: l’Annamaria aveva immaginato, per un attimo, che ci fosse un toro (Annamaria! un toro?) sotto il letto... Mio papà si era svegliato, e aveva pensato: «Orcocàn, tenporale n'altra volta»... Ho scritto questi fogli in due serie nelle due estati che ho detto. Nell'intervallo, in Inghilterra o altrove, ogni tanto mi veniva in mente uno spunto e aggiungevo qualche altra cosetta dello stesso tipo. È stato soltanto nell'autunno del 1961, tornando in Inghilterra per l'inizio dell'anno accademico, e in circostanze che ho già raccontato in qualche parte, che mi è venuta l'idea di utilizzare questo materiale: sentivo (credo per la prima volta in vita mia, e non senza sorpresa, essendo io abituato a scrivere cose che poi non mi piacciono), sentivo che quegli appunti mi piacevano, non nel senso che li credessi molto belli, ma nel senso che corrispondevano a ciò che c’era davvero dentro di me, io ero così, non qualcos’altro. Da quel momento, diciamo dal novembre del 1961 fino al dicembre 1962, un anno intero, ho scritto il libro. Scritto e riscritto, e riscritto ancora. [...] I vari pezzi che fanno il libro non sono nati nello stesso ordine in cui andranno poi a disporsi. Alcuni che compaiono tra i primi sono stati scritti per ultimi e viceversa”.
Gli episodi narrati si costruiscono quasi autonomamente a partire da sollecitazioni dialettali: “dietro ad alcune delle cose che cercavo di raccontare si percepiva la potenza di qualche forma dialettale associata alla materia del racconto. Se si metteva bene a fuoco verbalmente o concettualmente questa forma dialettale, d’improvviso la cosa prendeva slancio, la materia si organizzava da sola, era facile per me raccontare, fabbricandomi per strada tutte le forme letterarie che mi servivano, inventando piccoli sistemi narrativi o espositivi, piccoli aggeggi, schemi di composizione, toni, ritmi, macchinette che a volte funzionavano, altre volte si inceppavano e allora le buttavi via”.
Questo l’inizio del libro:
“S’incomincia con un temporale. Siamo arrivati ieri sera, e ci hanno messi a dormire come sempre nella camera grande, che è poi quella dove sono nato. Coi tuoni e i primi scrosci della pioggia, mi sono sentito di nuovo a casa. Erano rotolii, onde che finivano in uno sbuffo: rumori noti, cose del paese. Tutto quello che abbiamo qui è movimentato, vivido, forse perché le distanze sono piccole e fisse come in un teatro. Gli scrosci erano sui cortili qua attorno, i tuoni quassù sopra i tetti; riconoscevo a orecchio, un po’ più in su, la posizione del solito Dio che faceva i temporali quando noi eravamo bambini, un personaggio del paese anche lui. Qui tutto è come intensificato, questione di scala probabilmente, di rapporti interni. La forma dei rumori e di questi pensieri (ma erano poi la stessa cosa) mi è parsa per un momento più vera del vero, però non si può più rifare con le parole.
La superficie è elastica, non si sta in piedi, si cerca l’equilibrio ballonzolando: si affonda e si risale a gambe larghe, com’è divertente! Ridono e rido anch’io, equilibrandomi canto: Alarmi siàn fassisti, abasso i cumunisti! Che bel gioco, che piccola differenza tra cadere e star su: la mattina è tutta d’oro. E noi del fassio siàn i conponenti, che belle parole: chissà cosa vorranno dire? Passarono anni prima che imparassi a distinguere tra il ballo alla mattina sull’alto letto del papà e della mamma, e il riso e le parole. Però a suo tempo intesi l’inebriante programma:
La lota sosterén fina la morte
e pugneremo sempre forte forte
finché ci resti un po’ di sangue in core.
I pugni di pugneremo me li rappresentavo vibrati come pugnalate dall’alto in basso. C’erano canzoni piene di concetti struggenti, con deliziosi pericoli sullo sfondo.
Mama non piangere se c’è l’avansata
tuo figlio è forte e vincere sapràn
assiuga il pianto dela fidansata
perché lassalto si vince o si muor.
Seguivano le istruzioni all’Ardito:
Scavalca i monti - divora il piano
pugnal frài denti - le bonbe a mano.
Mi piaceva la terrificante sintassi dell’ultimo verso, sentito con lo slancio della mente bambina per quello che forse era in effetti, una compressione di “col pugnale fra i denti” e “con le bombe a mano in mano”. Questi erano gli Arditi, scavalcatori di monti colla spaccata dell’ostacolista, divoratori del piano. Il pianoforte mi appariva nero e lucido, illuminato da due abat-jour, fornito anch’esso di una dentatura abbagliante di tasti. L’Ardito in grigioverde col berrettino nero, prima lo scavalcava sullo slancio, poi si voltava e lo sgranocchiava rapidamente.
Cinque anni fa, il 27 ottobre 2014, moriva Gianmario Lucini, poeta, saggista, umanista, editore, blogger, ma soprattutto - come amava definirsi – “costruttore di pace”. Era nato a Sondrio nel 1953 e dopo essersi laureato in Scienze dell’Educazione presso l’Università Cattolica di Brescia, aveva lavorato come formatore in diverse città, da Roma a Como a Bolzano. Grande suo merito fu quello di aver organizzato un Premio di poesia intitolato a David Maria Turoldo e una collana poetica (“Collana Turoldo di poesia dell’Essere”), il cui ricavato era interamente devoluto a Paesi del Terzo Mondo. La sua dedizione incondizionata agli ultimi l’aveva portato a impegnarsi per l’Africa, ma anche a raccogliere documentazione antimafiosa: ne era sorto un sito, www.donmilanigioiosa.it, e un documentario di formazione alla legalità per la Provincia Autonoma di Trento, cui era seguito nel 2007 un documentario-intervista dal titolo "La guerra dei poveri", dedicato ai reduci della seconda guerra mondiale e alla Resistenza in Valtellina.
Vasta la sua produzione, che spazia da racconti brevi ad antologie di poeti, da saggi critici a raccolte poetiche; tra queste ultime vanno senz’altro ricordate almeno Allegro moderato (2001), Sapienziali (2011), Krisis (2012) e Istruzioni per la notte (2015). Le istruzioni dell’ultima raccolta sono in realtà mappe di un mondo interiore, tracciati di un difficile itinerario del poeta alla conquista del senso, in un viaggio ascendente che lo porta dalle città di pianura alle vette delle montagne così amate. Lucini ritiene che per raggiungere la pienezza di vita l’uomo debba farsi viaggiatore a tempo pieno, senza per questo perdere la capacità di fermarsi a riflettere, a fare memoria del proprio passato: solo così il viaggio può divenire ansia di conoscenza, di sé e dell’altro, desiderio mai appagato, perché immensa è la libertà che si dispiega davanti a chi è perennemente in cammino.
Quella di Lucini è, dunque, una poesia di testimonianza, di attenzione per l’uomo, per tutto ciò che riguarda l’uomo, anche se questi è spesso «l’essere che fabbrica / il suo inferno ubriaco di luce», artefice di violenze al fratello e alla Terra stessa che lo nutre: il suo riscatto può nascere allora solo dall’appassionata ricerca di un mondo futuro fatto non di brama di potere e di conquista, ma di povertà e fragilità esibite senza pudore. Un mondo che Lucini vorrebbe ricalcasse le orme della Chiesa primitiva, povera e accogliente. Un mondo dove le presenze animali e inanimate spesso si antepongono a quelle umane, disegnando per l’umanità un cammino di purificazione e di rinascita. Un mondo dove nessuno deve essere lasciato indietro, perché «fino a quando / non arrivi anche l’ultimo in vetta / nessuno può pensare d’esserci arrivato / per davvero».
Ci sono croci sui monti a proteggere le valli
vincoli di rami che incidono l’azzurro
nell’ocra e nei gialli dell’autunno;
stanno lì a vegliare
il passo di chi risale e d’inverno
non le scalza la bufera.
Sono vecchi anacoreti intenti a meditare
le sorti del mondo.
E soltanto il camoscio quando passa
si ferma a pregare.
***
Hai mai veduto il passero meditare?
se ne sta sul davanzale, proteso
sull’abisso come a contemplare
davanti a sé il mare dei prati, l’inatteso
sole marzolino che a vita lo richiama;
o forse ascolta quell’adagio mozartiano
che da oltre il mistero pare ravvivare
di toni più vivi il giallo e il verde
di fine inverno. Che pensiero
misterioso può essere il pensare d’un passero,
rabbuffate le piume al primo vento
che lo punge; e che strano sentimento
m’incute il vederlo sulla pietra
nuda nell’aria appena stemprata
senza più miche di pane – poi che, avanti, in breve
una famelica truppa tutto ha divorato.
È come la nottola della filosofia
che giunge dopo la festa del giorno,
ristà, dice e non dice
ma non se ne va via...
***
Le parole che scrivo sembrano ammiccare
beffarsi di me, mutare
pelle uscendo dalla penna
strisciare di lato dal foglio troppo angusto
troppo proteso sull’abisso
che tutto inghiotte.
E si dibattono nell’esile infinito
di segno accosto a segno che tradisce
quell’ansia di conformità
che ci rende fratelli nella colpa.
Siamo prede immobili, trafitti
da un veleno che ci paralizza
ma ci commuove l’attimo che fugge
e pagheremmo tesori di lacrime
per ritrovare la notte.
La follia del giorno ci distoglie
squassandoci con una risata, mentre
poco lontano accompagnano un feretro
fra urla di donne e salve di proiettili.
POESIA DELLA ROSA
***
Liberami dunque dal tuo pianto:
non ti posso più ascoltare:
è una pena lasciarti sulla soglia
spiegare a me stesso la fuga in avanti
che m'assilla
- già sono col cuore proteso
oltre la morte e nel presente brucio
falena per troppa smania di luce.
Sei come vento che lamenta inconsolabile
vento che si leva e s'addormenta
quando nidiate pigolano a sera;
non ti dai pace e questo mi spaventa
- più del dolore la follia che t'incanta...
***
***
L’impoetico dorme
nella mia scrittura
lo trovo nei segni di questo paesaggio
nello
scompiglio di mozziconi di palazzi
che s’affacciano
violenti in riva al mare.
I segni che mi nascono
dentro
non hanno voce né figura.
Trovo la bellezza appena
svolto l’angolo
e mi appare serena nella luce del
mattino
fra il verde antico di colture abbandonate
la
facciata materna d’una casa contadina;
brillano al sole aranci
maturi
che nessuno coglierà.
Questo paese ha bisogno
di tornare
al suo passato e riscriverne il copione
piantare
nuovi alberi di ulivo, confidare
nel sorriso del mare, nel
fresco aspromontano
con cuore infiammato e
nella mano
il fiore giovane della ribellione
la bocca
salata per lo sdegno e nello sguardo
civili orizzonti di
collera.
ISTRUZIONI PER L’ASCESA, VI
Alla sapienza è affidata la salita
al conosci te stesso della vita
che sa ognuno per quanto ne sappia.
S’accorda il passo ma per tanto si salga
alcuno arranca su per la salita
greve il respiro e i muscoli induriti
da poco esercizio e da una vita
fiacca e sedentaria. Uno s’accoda
lo incita lo spinge l’incoraggia
né si cura se già in alto i compagni
scompaiono alla vista e i richiami
si fanno fiochi e lontani. S’inizia
insieme nell’ascesa e fino a quando
non arrivi anche l’ultimo in vetta
nessuno può pensare d’esserci arrivato
per davvero: è come se fossimo
su una grande nave, chi a poppa chi a prora:
dal capitano al mozzo, al clandestino
partito per fuggire più che per partire.
ISTRUZIONI PER LA CITTÀ, II
In mezzo alla città si eleva un ponte
altissimo. Il tempo
vi scorre sotto le campate,
fra argini assolati dove alberi
s’affacciano e case. Uomini
e donne l’attraversano come
seguendo una traccia in cerca di un totem
da qualche parte sepolto trai i vialetti scuri
di un unico mondo diviso dal fiume.
Puoi fingere di credere a questo
eterno rito dell’andare e del venire
per le vie della città, puoi credere
al ponte, al tempo, ai rumori
di un cuore meccanico, ma se
aguzzi bene lo sguardo e l’udito
senti in un grido incarnarsi la città.
Non è un ronzio meccanico il suo rito,
soltanto un altro modo di gridare.
ISTRUZIONI PER IL VIAGGIO
Per capire cosa chiede
a lui questo cielo
l’uomo percorre strade e ripercorre
i segreti del mondo senza posa
e s’arresta e riprende
il suo andare come andare di formica,
di volto in volto e di voce
in voce s’insinua in sogni e veglie,
ammassa in scrigni tesori
e mai si ferma a ricordare
il primo volto, la prima voce,
il primo bacio che lo trasse dall’arcano
vagito della sua domanda
- l’uomo, l’essere che fabbrica
il suo inferno ubriaco di luce -
IN VIAGGIO
Ai sassi di Matera, dovremo tornare
a cercare vestigia e radici
a ricrederci, a meditare
sulle virtù d’una povertà antica
che abbiamo voluto abbandonare
per seguire le virtù dei signori
arraffando come fanno loro
e per servirli peggio di allora.
Oggi neppure la luna più abbiamo
né abbiamo le stelle
nelle città carnai e prigioni
dove si soffre e si dispera,
dove la vita è incubo e rumore
continuo di traffico nell’aria malate
e la libertà sempre più è ipotecata
dal ricatto del pane.
ISTRUZIONI PER UN SENTIMENTO TRASCENDENTE
Questa notte avverto il tuo respiro nell’anima di maggio
mentre dilaga la pianura
e sono in viaggio verso dove
non m’importa, verso
l’alba morta di domani
nel vociare stranito d’una stazione ferroviaria.
Ora intorno mi voli e m’osservi
dai lampioni gialli che corrono nel buio.
Io raccolgo il Tuo silenzio e riconosco
la Tua Voce fra mille
nella ruota che sferraglia
nel parlottio di idiomi sconosciuti
nel lontano tremolare delle stelle.
ISTRUZIONI PER LA NOTTE
Certe notti adolescenti non finiscono mai.
Ognuno le porta tatuate nel volto
e nelle mani
quando la luce sbaraglia l’ombra e l’ombra si raggrinza
incarognita si difende, scava nella pelle
trincee.
E a volte l’ombra esplode nell’ombra
mondo che urla uno strazio indicibile
ormai d’un altro, ormai dimenticato
condannato alla fatica dell’assenza
perché non basta il bagliore d’una luce
a dissolvere il bagliore dell’ignoto:
ci vuole la luce negra della notte
e le sue fresche braccia che raccolgono
ogni colore in un colore solo.
E forse parlerai con quello che eri
o che volesti e che non sei mai stato.
Donata Berra, sorella di quella Patrizia che ben conosciamo, è nata a Milano, dove ha studiato letteratura e musicologia, ma vive oggi prevalentemente a Berna, dove insegna letteratura italiana e si occupa di traduzioni dal tedesco (Dürrenmatt, Merz, Zweig). L’anno scorso ha vinto il Premio italo-tedesco per la traduzione letteraria per la miglior traduzione de “La guerra invernale nel Tibet” di Friedrich Dürrenmatt (Adelphi edizioni, 2017). Possiede la doppia cittadinanza, cui non rinuncerebbe per nulla al mondo, anche se resta consapevole delle tensioni tra Italia e Germania; in proposito ha affermato in una recente intervista: “Io penso che in momenti così delicati, prevalgono purtroppo i pregiudizi da tutte e due le parti. Si è spinti da personaggi superficiali, incolti che approfittano solo dell'occasione per mettersi in mostra o per arraffare un certo potere discutibile giocando proprio sulla non conoscenza delle due nazioni e sfruttando quelli che sono i pregiudizi che si dicono, quel male che si dice degli italiani e quel male che si dice dei tedeschi. Per tutta la vita io come italiana, in Italia dovevo difendere i tedeschi e gli svizzeri, e quando andavo in Germania dovevo difendere gli italiani e anche gli svizzeri”.
Il suo esordio poetico risale al 1992 con Santi quattro coronati, cui segue nel 1997 Tra terra e cielo, e nel 1999 Maria, di sguincio, addossata a un palo. Nel 2010 appare infine A memoria di mare, che riprende alcune tematiche delle prime raccolte e le delicate Vedute bernesi del 2005. Sono poesie che nascono da un’appassionata e intensa osservazione dell’umiltà nel quotidiano: può essere il canto di un gallo o un viaggio in tram, un paesaggio lacustre o uno scenario marino; ma queste semplici situazioni si trasfigurano subito in simbolo, assumendo una valenza simbolica che può essere talora ermetica, però mai arbitraria. Da questa osservazione scaturiscono infatti sempre nuove domande esistenziali che toccano l’uomo nel profondo della sua coscienza, ponendogli inevitabilmente «la domanda / che ci riguarda». Le frequenti citazioni che valorizzano i suoi testi vengono a costituire una vera «biblioteca della memoria», che spazia da Petrarca a von Hofmannsthal, dal Folengo a San Tommaso, contribuendo a ricostruire in unità armonica il «divino disordine», il caos del mondo che sembra attorniarci.
Motivi ricorrenti della poesia di Donata Berra sono le acque e le luci che sempre impreziosiscono i paesaggi naturali ammirati e celebrati con nostalgia e affetto, in notturni raffinati o in assolati meriggi: paesaggi amati, richiamati nel ricordo, che si aprono a visioni metafisiche, facendo rinascere costantemente le domande radicali che l’uomo non può non porsi. Il mare, i fiumi (il Magra a Bocca di Magra, l’Aar a Berna), i laghi svizzeri con la loro malinconica azzurrità rivelano in effetti da un lato la fugacità della vita, dall’altro lato una possibilità sempre nuova di ricercarne il senso ultimo e più vero.
A volte il dialogo si apre con un interlocutore nascosto, a volte si ripiega sull’autrice stessa: e giunge così a incrinare l'incomunicabilità di fondo, rendendo accessibile la formula magica che apre al mistero; mentre il gioco elegante tra spazio immaginario e spazio reale conduce alla costruzione di un universo significativo e intellettualmente appagante.
Un'altra ambivalenza spesso richiamata nella sua poesia è quella tra dimensione orizzontale e dimensione verticale: da un lato si avverte il fascino ambiguo di salpare verso lidi sconosciuti, dall’altro ritorna l’aspirazione a salire verso «cime ineguali», la visione di ponti che si innalzano a scavalcare fiumi e delle gole in cui questi scorrono, l’immagine dell’onda che si alza e si abbassa seguendo il suo perenne moto. Così anche i sentimenti che illuminano dall’interno le immagini di questa poetessa rivelano una persistente duplicità: amarezza e allegria, fiducia e disinganno, domande e silenzi, effimero e sempiterno non sono altro che le facce di una medesima realtà, osservata con appassionata empatia, nella convinzione che l’essenziale sia affrontare l’esistenza con passione, «non cedere / lasciando l’ultima riva /giocarsi tutto rischiare».
Andavan compitando per analogie
il mondo e i suoi effetti, loro inclusi
non meno, ché nel chiostro la dogliosa
fabulatoria dell’origo generis
che palpeggiava intorno alla matrice
si producesse nel contorto collo
del mostro inciso dentro al capitello.
Torcevano le membra pur sapendo
che la scrittura è germe dell’inconscio
eppure si ostinavan con protervia
nel disegnarli sempre a fargli l’ali.
Scrivevano in inchiostri rossi e d'oro
e debolmente rimediavano
al divino disordine.
Il tempo passa, dicevi, resta
l'odore mielato dei rami
al riparo dal sole: l’ombra
delle ortensie azzurre dove
il primo giocare era da te
nascondino, ma qualcuno sempre
si incaricava di svelare me
e che la natura
è refrattaria alla metafisica.
Zolfo ci vuole per il blu dei corimbi:
questo so ora, che non voglio
nessuno mi cerchi:
per quel che vale
restar dentro a pensare.
Non con trombe alte e tese
splende l’annuncio: l’angelo
è meglio raccolga i lembi
della lunga veste,
sieda e riposi.
Sommessamente nasce
la voce, solo, se mai, per sottrazione.
Per rimpiangerlo poi sempre: il luogo
dove tante volte insieme
abbiamo sperato di arrivare
e lì carpire alla voce informe
l’ultima parola. Poi
liberi saremmo
esautorato il cielo: certo
dell’ultima sua parola
più grande e chiara è la finestra
che ben conosco, illuminata
come un cuore nella sera.
Quando ho creduto di sapere, infine
ti ho chiamato, ma tu
avevi un altro volto.
E andando lasciava la
nave sul liscio dell'acqua
un nastro a ricciolo
largo,
allucciolato d'oro,
ricolmo di liquide
stelle
inghiottite dall'onda e sempre riaccese,
e spumiglie
e fiocchi di mare
emblemi di specchi ritorti
sparenti e
riapparsi poi sciolti
in barbagli, in scaglie di luce;
e
lasciava, la nave
il lungo profilo del suo lento passare,
e
del nostro, più incerto,
a memoria di mare scritta
serrata, ma poi
appena stretta la cima alla bitta, la nave
viene
solo richiesta di pronta consegna
del pesce pescato
ai
camion del ghiaccio.
Dopo tante maledizioni
sapersi persi, non cedere
lasciando l’ultima riva
giocarsi tutto rischiare
compromettere la salvezza
esasperati di stare all’oscuro
spingere a fondo la domanda
che ci riguarda
ché di altro non sapremmo chiedere
e prendere atto piano piano
di una nota scura
cupa insistente
come di bordone
era la voce di Dio che diceva
è niente.
***
Come salvarti, dimmelo, cuor mio,
quando ti aggraffa lei tra grinfie adunche,
quando si svela a te, che ne vacilli,
odorosa di molli ombre muschiate,
come sottrarti alle sue rose nere?
Ma io mi lascio scorrere dal fiume:
ricordi Ofelia? Sposa alla corrente?
Mi lascio risucchiare dalla luna
per sciogliermi, ed entrar nelle tue notti
scendendo a benedirle in raggi d’oro.
Alba sul Magra, a pelo d’onda
tese tra le maglie del sole ancora sbieco
le reti dei rammarichi notturni.
Tratte a ragione poi, poco
è il pescato: alghe
granchiolini spauriti, e sembra argento
qualche misero pesce: da ributtare in acqua.
O non è meglio restare accanto al fiume,
dove l’acqua del Magra è più terrigna
e sa il dolce dei boschi, dei muschi
qui, non oltre la giostra della foce
che s’incapriccia di sale, ma poi torna,
un giro tra le arselle degli scogli,
un passo d’onda sotto chiglie rosse?
Fuori, dove lo sguardo si slontana,
sul grande mare laminato d’oro,
non c’è nessuno a trattenere il giorno,
questo giorno che ci lascia
al respiro lento dei navigli.
… e c’era felicità tra le onde, ma
alla mia domanda
si stemperava, svaniva, per poi
riapparire uguale, più al largo
un brillìo di specchi, frantumi d’oro,
un’impronta di luce, lontana, sdegnosa…
E scendono i sentieri
tra vasi di gerani rosa
tra giochi di bambini
secchielli palloncini strilli
da ridere giù per le altalene, e proprio ora
calma la voce dice «oggi
hai già dato da mangiare al gatto?»
mentre come allora
scorre sontuoso il fiume verso Köln.
Insomma lèvati se vuoi uscire
a che serve star dentro sonnecchiando
scendi agli umori, ingaggia marinai
salpa ancor oggi e poi
appena il vento infila
il piancito del ponte e incinge
alla vela di rada una gran pancia
esci, anche a sbalzo, e dillo
dillo questo nome.
A lei era nota la grazia
era il suo stato naturale
sole cangiante mobile
nel paesaggio diseguale delle ore.
Portava spavalda le insegne
di un godimento pieno
preesistente e rinnovabile
e sembrava ai nostri occhi riarsi
distrattamente percorrere
le soglie della città celeste.
Nato a Codogno nel 1923, Franco Galluzzi crebbe nutrito degli ideali di libertà e democrazia che si respiravano in famiglia. Cominciò giovanissimo già negli anni trenta a distribuire la stampa clandestina antifascista che usciva dalla tipografia del padre; e nei boschi di Senna Lodigiana andava a recuperare le armi paracadutate dagli Alleati per traghettarle al di là del Po. Dopo l’8 settembre del ’43 salì in montagna, aggregandosi alle formazioni partigiane della Valdossola e prendendo parte a vari combattimenti contro i nazifascisti. Tornato a Codogno nell’aprile del ’45, collaborò attivamente all’insurrezione locale che portò alla liberazione della città: ma in quegli stessi giorni si ammalò e morì il 2 maggio, pochi giorni dopo la Liberazione.
La sua vena poetica rimase ignota per decenni, finché nel 2004 i fogli dattiloscritti contenenti ottantadue sue poesie vennero scoperti e pubblicati a cura di Gennaro Carbone, Annalisa Degradi e Isabella Ottobelli per i «Quaderni dell’Istituto Lodigiano per la Storia della Resistenza e dell’età Contemporanea» (ILSRECO), formando una piccola ma intensa raccolta cui è stato dato il titolo Se potessi…. Riletti oggi, a distanza di molti anni, questi testi mostrano certamente una maturità artistica non ancora pienamente raggiunta (come è ovvio), ma fanno emergere con chiarezza il ritratto di un lettore di poesia straordinariamente maturo per l’età, che accanto ai grandi della tradizione italiana conosce e apprezza la poesia nuova di D’Annunzio, Gozzano, Ungaretti, Montale. Ispirato da questi maestri, Galluzzi sa però distaccarsi dai modelli per proporre uno stile personale, asciutto e incisivo, ricco di improvvisi scarti logici che provocano nel lettore un forte effetto di straniamento. Egli sa investigare in questi suoi testi la profondità della propria inquietudine giovanile e dare voce alla dolorosa consapevolezza dell’impossibilità di una comunicazione profonda tra gli uomini. Ma questo, lungi dal portarlo alla rinuncia o all’afasia, fa piuttosto scaturire sempre nuovi interrogativi e ulteriori percorsi di ricerca.
I temi che egli approfondisce spaziano dall’amore, vissuto con trepidazione e inquietudine, all’impegno politico affrontato con estrema determinazione, fino alla riflessione sulla morte, che per lui non ha nulla di tragico o angoscioso, ma è vissuta con la levità del ragazzo che affronta serenamente il suo futuro, consapevole che in tal modo «sembrerà più facile / la morte». Così in un intenso testo egli può affermare: «Fuggo / per diventare finalmente un uomo»: è la fuga dal disimpegno e dalla tranquilla serenità quotidiana, per sfidare con matura consapevolezza l’impegno decisivo.
Qual è il tuo nome?
Io non lo so ancora.
E l’ho cercato tanto in mezzo a quelli
che vengono alla bocca d’improvviso,
quando il cuore ha bisogno
di dare una sua forma,
una sua forma intima ed amica
al fuggente fantasma d’una donna.
Ne vorrei uno che accogliesse
in un alito
la musica di boschi risonanti,
echeggianti nell’ombra,
l’amarezza smisurata e ondosa
del nostro padre il mare,
il profumo del fieno
che nel meriggio è ardente
e nella sera
fresco come le guance tue.
Vorrei un nome che s’attorcigliasse
al tuo corpo,
formando un tutto unico,
un nome breve,
perché io possa dirlo
tante volte di più.
T’ho amata da lontano, tenuamente,
per non rompere il filo che trattiene
il mio sognare al tuo sognare assente,
perduto dietro Quello che non viene.
T’ho seguita pregando sulla porta
chiusa della sua casa abbandonata,
quando guardavi la facciata morta,
prona la dolce testa sconsolata.
Se tu sapessi come anch’io ho vissuto
il tuo amore per Lui, che se n’è andato,
ch’è tornato nell’ombra, sconosciuto,
senza sapere che non l’hai scordato.
Se tu sapessi come anch’io ho creduto
nel tuo sgomento grande, desolato.
Amiamoci dunque per questo:
per potere, domani,
aver la squisita tristezza
d’abbandonarci.
Amiamoci
per saper che significa
dopo,
andare divisi,
conoscer la buia dolcezza
dell’ultima parola.
Addio...
Le mani rivivono sole,
al contatto,
lo strano romanzo.
E noi ci guardiamo:
un attimo, oh! un attimo ancora.
Andarsene, andarsene lontano
e dire a chi c’incontra, a chi ci guarda
senza più riconoscerci: “Io fuggo
per diventare finalmente un uomo.
Fuggo per non amare più il profumo
femmineo della notte ed il notturno
calore della donna. Fuggo infine
perché il mondo soltanto è la mia casa
e l’orizzonte il mio traguardo. Vado
dove mille esistenze stanno ansiose
ad aspettare l’anima mia, vado
dove il coraggio spezza ogni confine
tra la vita e il romanzo. Dico addio
a voi restanti”. E poi tranquillamente
continuare la strada.
Compagno, è già l’alba.
È già l’ora d’un’altra fatica.
E tu maledici ogni giorno
che ancora
rinnova la strada nemica:
e tu
che la vita degli altri
hai vissuto
nel sogno recente,
rivolgi l’estremo saluto
a ciò che per niente
amasti stanotte.
Compagno.
Allaccia le cinghie,
riprendi il tuo sacco.
Ritorna a scordare
le cose negate di ieri,
ritrova i pensieri
irrequieti
che portan lontano.
Compagno, compagno.
Cos’è
che ti fa meno forte:
è forte il sapere che morte
si chiama
la sosta futura?
È forse una nuova paura
che il cuore ti serra
e i passi t’acquieta?
È forse la meta che oggi
più folle ti sembra?
Compagno, rimembra
perché cominciasti
l’andare:
ricorda quel mondo che odiasti,
le immagini amare
che un giorno
ti spinsero fuori
dagli uomini.
Compagno: ricorda e prosegui.
Certo
ci accorgeremo a un tratto
d’esser vecchi.
Sarà come se sfatto
dentro di noi
si fosse qualche cosa
che pareva durevole
perché ancora incompiuto,
qualcosa che pareva
non andasse perduto
perché non si sapeva come, quando
lo si era trovato.
Amica, ti domando
che mai faremo allora.
Ricorderemo? E cosa?
Che momenti saran da ripensare
nel poco tempo
della sosta estrema?
Che ore rivivremo dal groviglio
di un passato fuggente,
faticoso,
che negli occhi
non ci ha lasciato niente,
se non la voglia ansiosa
di poterli serrare?
Guarderemo negli altri
quelli che sorgeranno,
la verdicante, gaia giovinezza
che noi non ci accorgemmo
d’aver avuto in mano,
quando la mano tendevamo aperta
a chiedere di più?
Come certa
sembrerà la disfatta!
E l’inutile strada che per tanto,
amando, disperando,
maledicendo
percorremmo a fianco,
ci parrà così sciocca,
così breve,
da lasciarci capire finalmente
cos’è l’umanità!
Forse non rimarrà
che chiedere un’ultima volta
cos’era
la smania di giungere,
se alla meta
portiamo un cuore stanco,
un’anima scialba che soltanto
desidera tornare.
Davanti alla vecchiezza
forse amara
ci sembrerà più facile
la morte…
Concludiamo questa breve antologia poetica con un brano riflessivo che Galluzzi scrisse pochi giorni prima di morire:
“Ma allora cos’è questa morte che tra le crepe della vita ci guarda cogli occhi d’un’amante respinta? Ce la sentiamo nelle pupille, qualche volta; qualche altra nei sensi che la sua terribile inconsistenza affila, scarna. Guardiamo a lei come si guarda al fondo d’un orrido e ci corre per il corpo lo stesso raccapriccio che ci fa ritrarre, lo stesso inverosimile fascino che ci tiene inchiodati a fissare. La morte è la sola verità che l’uomo non può permettersi d’ignorare.”
(Fine aprile 1945)